Roma, 14 dic – Per gli italiani, o almeno per il pubblico italiano minimamente informato su ciò che accade nel mondo, l’espressione “Manif pour tous” dovrebbe suonare abbastanza familiare, data l’eco che hanno avuto anche da noi le manifestazioni francesi contro la legge Taubira. È facile immaginare, invece, che a sentire il nome di Frigide Barjot anche ai più informati si dipingerà un’espressione interrogativa sul volto. Eppure, durante i primi fermenti di contestazione, proprio la Barjot si era accreditata come “portavoce” dei manifestanti, salvo poi venire scavalcata da una protesta di popolo dai forti connotati spontaneisti e con radici molto più profonde di quelle legate alla pur cruciale legge sui matrimoni gay.
Ora, quello che sta accadendo in Italia in questi giorni presenta dinamiche in qualche modo simili. Come è accaduto in Francia, tutta una serie di analisti di destra e di sinistra sta sottovalutando o criminalizzando il fenomeno. Come è accaduto oltralpe, sono le piazze a trascinare i sedicenti leader e non viceversa. Sembra anzi imminente il momento in cui i bizzarri personaggi col riporto o gli schizofrenici in mimetica e Rayban saranno lasciati indietro da una rabbia popolare che avendo connotati di massa non può affidarsi a chi è politicamente, sociologicamente ed esteticamente marginale.
Lo scandalismo sulle “infiltrazioni” e le “strumentalizzazioni” ha avuto il fiato corto: tutto ciò che nasce dal basso, senza ipoteche partitiche o sindacali, non è controllabile e si affida a chi sappia canalizzare la protesta: categorie produttive, ultras o movimenti antagonisti di destra o di sinistra, poco importa. Qualcuno diceva che la rivoluzione non è un pranzo di gala, anche se dopo essersi convertito da Mao Tse Tung a Fabio Fazio non se lo ricorda più.
Qualcuno dice ci sia di mezzo anche la mafia. In situazioni locali non lo si può escludere a priori, così come non lo si può affermare senza uno straccio di prova. Di sicuro la protesta chiama giornalisti e polizia, alzando l’attenzione e il controllo, elementi non esattamente in linea con la politica di gestione del territorio di Cosa Nostra, che invece esige il silenzio e l’immobilismo. Né la mafia sembra avere una particolare inclinazione simbolica per il tricolore, se è per questo. Del resto in Italia la trattativa con la mafia è come le sigarette: c’è il monopolio dello Stato.
Deliri a parte, ora però la protesta deve diventare grande. Il che significa darsi una piattaforma rivendicativa minimale, in grado di rappresentare tutti, ma non di meno precisa, puntuale. Non sappiamo se questo avverrà. Di sicuro, da qui a breve, non ci saranno rivoluzioni reali. E magari tra un mese parleremo dei forconi come di un fenomeno lontano ed esaurito. Anche se così fosse, le battaglie di questi giorni potrebbero non andare del tutto perdute.
Per la prima volta da un sacco di tempo, infatti, degli italiani sono scesi in piazza in tutta la Penisola sotto le insegne del tricolore, senza il coordinamento centrale di alcuna grande entità sociopolitica. Nessuno ha pagato trasferte, distribuito fischietti, spiegato i cori da fare. Nessun intellettuale ha solidarizzato, nessun teorico della disobbedienza civile ha invocato la legittimità della ribellione. Un paio di politici hanno provato con scarso successo a salire sul carro, ma poco più. Il fatto politico e sociale però c’è stato ed è ormai un dato incancellabile. E chi si è ribellato una volta, sia pur con tutti i suoi limiti, potrebbe anche prenderci gusto…
Fonte articolo http://www.ilprimatonazionale.it
Ora, quello che sta accadendo in Italia in questi giorni presenta dinamiche in qualche modo simili. Come è accaduto in Francia, tutta una serie di analisti di destra e di sinistra sta sottovalutando o criminalizzando il fenomeno. Come è accaduto oltralpe, sono le piazze a trascinare i sedicenti leader e non viceversa. Sembra anzi imminente il momento in cui i bizzarri personaggi col riporto o gli schizofrenici in mimetica e Rayban saranno lasciati indietro da una rabbia popolare che avendo connotati di massa non può affidarsi a chi è politicamente, sociologicamente ed esteticamente marginale.
Lo scandalismo sulle “infiltrazioni” e le “strumentalizzazioni” ha avuto il fiato corto: tutto ciò che nasce dal basso, senza ipoteche partitiche o sindacali, non è controllabile e si affida a chi sappia canalizzare la protesta: categorie produttive, ultras o movimenti antagonisti di destra o di sinistra, poco importa. Qualcuno diceva che la rivoluzione non è un pranzo di gala, anche se dopo essersi convertito da Mao Tse Tung a Fabio Fazio non se lo ricorda più.
Qualcuno dice ci sia di mezzo anche la mafia. In situazioni locali non lo si può escludere a priori, così come non lo si può affermare senza uno straccio di prova. Di sicuro la protesta chiama giornalisti e polizia, alzando l’attenzione e il controllo, elementi non esattamente in linea con la politica di gestione del territorio di Cosa Nostra, che invece esige il silenzio e l’immobilismo. Né la mafia sembra avere una particolare inclinazione simbolica per il tricolore, se è per questo. Del resto in Italia la trattativa con la mafia è come le sigarette: c’è il monopolio dello Stato.
Deliri a parte, ora però la protesta deve diventare grande. Il che significa darsi una piattaforma rivendicativa minimale, in grado di rappresentare tutti, ma non di meno precisa, puntuale. Non sappiamo se questo avverrà. Di sicuro, da qui a breve, non ci saranno rivoluzioni reali. E magari tra un mese parleremo dei forconi come di un fenomeno lontano ed esaurito. Anche se così fosse, le battaglie di questi giorni potrebbero non andare del tutto perdute.
Per la prima volta da un sacco di tempo, infatti, degli italiani sono scesi in piazza in tutta la Penisola sotto le insegne del tricolore, senza il coordinamento centrale di alcuna grande entità sociopolitica. Nessuno ha pagato trasferte, distribuito fischietti, spiegato i cori da fare. Nessun intellettuale ha solidarizzato, nessun teorico della disobbedienza civile ha invocato la legittimità della ribellione. Un paio di politici hanno provato con scarso successo a salire sul carro, ma poco più. Il fatto politico e sociale però c’è stato ed è ormai un dato incancellabile. E chi si è ribellato una volta, sia pur con tutti i suoi limiti, potrebbe anche prenderci gusto…
Fonte articolo http://www.ilprimatonazionale.it
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