lunedì 30 giugno 2014

L’unica via di sbocco è la sovversione del sistema.



I nostri maestri|Corneliu Zelea Codreanu: Il cameratismo, la disciplina e la fede nei capi


Punto 40. Il cameratismo, la disciplina e la fede nei capi

Un’organizzazione non può mai ottenere la vittoria senza l’unità. Le organizzazioni che rivelano una debole unità, il più delle volte si spaccano in due ( o meglio, è il nemico che le spacca con i suoi intrighi) un’ora prima della vittoria e si mettono a lottare tra di loro. A quel punto tutto è perduto. Resta un’unica realtà: la vittoria dell’avversario.
Ogni organizzazione deve quindi assicurare la propria unità. Questa si assicura con due strumenti:
1. con il cameratismo, la forza interiore che unisce tutti i combattenti in una santa fratellanza;
2. con la disciplina, forza esteriore che vincola armonicamente tutte le volontà per la realizzazione del medesimo scopo. 
Un capo legionario deve quindi essere disciplinato, deve aver fede nei propri capi. Il cameratismo, la fede nei capi e la disciplina si integrano tra loro per il fatto che le prime due forze procedono dal basso verso l’alto, mentre la terza – la disciplina – procede dall’alto verso il basso, così che l’unità risulta garantita appunto quando gli elementi subordinati potrebbero nutrire opinioni diverse o anche pareri contrari. L’educazione alla disciplina rimane rimane dunque una potente valvola di sicurezza per garantire l’unità e, quindi, la vittoria, nel momento in cui gli altri strumenti si dimostrano esauriti. In qualsiasi circostanza il capo di Cuib dovrà cercare di sviluppare in ogni legionario il senso della disciplina – ed egli otterrà questo specialmente con l’esempio che darà.
Non dobbiamo dimenticare che la disciplina volontaria rivela una essenza spirituale superiore, giacché essa presuppone una rinuncia delle personalità, e ogni rinuncia in vista di un grande scopo riflette una essenza spirituale superiore.
 
Fonte art.Di
 
 

 

domenica 29 giugno 2014

LEGGETE QUESTA TESTIMONIANZA: ECCO COSA STA SUCCEDENDO IN ITALIA


Movimento Poliziotti.

 Lettera aperta tratta da Facebook.

NON SONO UN RAZZISTA MA LO STO DIVENTANDO. Sono un poliziotto e non dovrei e potrei dire queste cose, ma giorno dopo giorno mi sto accorgendo lavorando in strada da quasi 30 anni, che le cose stanno cambiando. SI parla di integrazione e va bene, si parla di rispetto di tutte le religioni e va bene, si parla di rispetto del colore della pelle e va bene, ma l'Italiano chi lo rispetta? Dialoghiamo se...renamente senza eccessi ed esagerazioni di nessun tipo, ma solo con dati di fatto. Lavoro nella mia piccola città, dove i reati non sono molti, ma pur sempre abbiamo a che fare con furti in abitazioni, truffe, violenze di ogni genere e reati meno gravi. Oggi ho chiesto al mio collega che lavora solamente nell'ambito dei reati contro il patrimonio e mi ha confermato che oramai lavorano quasi esclusivamente con gli stranieri non ricordando nemmeno l'ultimo Italiano arrestato. Io stando in strada intervengo per liti, risse e reati di gravità minore e devo confermare che per poter ricordare il nome di un arrestato Italiano devo andare parecchio indietro nel tempo. Mi fermano per strada famiglie Italiane, che mi dicono che sono da anni che aspettano la consegna di un appartamento da parte del comune e stanno in fila , accorgendosi che passano avanti famiglie che ne hanno pieno diritto, ma che fino a "ieri" neanche si trovavano in Italia. Girando per strada mi accorgo che la sporcizia è aumentata e chissà perchè proprio dove ci sono i ritrovi dei soliti mendicanti che se li avvicini la prima cosa che ti dicono è : " CHE VUOI , SEI RAZZISTA?". Potrei scrivere un'enciclopedia di episodi ma voglio fermarmi qui, perchè voglio capire se solo io sto diventando razzista oppure quello che accade attorno a me, me lo invento. Mi prendo come sempre tutte le responsabilità del caso e scrivo da poliziotto ma non rappresento nessuna categoria e quindi neanche la Polizia di Stato. Io ho famiglia e ho sempre detto e scritto quello che penso e credetemi amici di FB, questo mio scritto è un "urlo di aiuto" verso chi dovrebbe frenare questo andamento, altrimenti il razzismo aumenterà a dismisura e poi nessuno potrà dire, NON LO SAPEVAMO, ricordando alle varie istituzioni che LA LEGGE ITALIANA NON AMMETTE IGNORANZA. Se volete condividete e fate girare, chissà che non arrivi dove dovrebbe arrivare. P.S. non esagerate con i commenti, controllero' attentamente ogni commento e non costringetemi a cancellarli. Questa pagina è nata per il dialogo e il rispetto. Grazie a tutti , MAURIZIO.
 
 
 

sabato 28 giugno 2014

Borghezio parla al comandante



Borghezio unico politico ad aver accettato l'invito che non è stato personale ma esteso a tutti.

 

Rachele, il dolore di una donna


Protagonista silenziosa e discreta di una delle pagine più drammatiche della nostra storia

"Nessuna ingratitudine, nessuna crudeltà umana potranno più raggiungere Benito. Così avrà dato tutto all'Italia, persino la sua vita"

“Così passano le ore in un indicibile tormento, poi le notti, i giorni vedendo solo barbarie fratricida. Ad un certo momento, che non saprei precisare, veniamo fulminati dalla notizia, trasmessa alla radio, del massacro di Dongo. ‘Giustizia è stata fatta’ commentano quelle voci, e penso che nessuna ingratitudine, nessuna crudeltà umana potranno più raggiungere Benito. Così avrà dato tutto all’Italia, persino la sua vita”. Così Rachele Mussolini racconta quelle ore del 28 aprile 1945.
“La notizia dell’omicidio di mio marito aveva distrutto in me ogni volontà. Non sentivo più i rumori dei fucili attorno alla casa. La guerra civile esplodeva ovunque. I miei figli vicino a me piangevano e i loro singhiozzi rendevano ancora più acuta la mia sofferenza; mi sforzavo di lottare contro le lacrime e il dispiacere. Le ore passavano lentamente in quell’atmosfera da incubo”. Sono ore terribili per questa donna, che già tante sofferenze ha dovuto subire. E che pure trova il coraggio di affrontare la tragedia che le ha sconvolto la vita. “L’unica cosa che mi riconforta nel dolore sono le parole di Benito: ‘Gli ideali durano e trionfano al di là della morte, quando sono amati intensamente’”.
Rachele è una donna forte, granitica. Ha vissuto tutta la vita lavorando: donna del popolo dalla nascita, donna del popolo è rimasta per tutta la vita; anche quando era “la moglie del Duce” cuciva i suoi vestiti con le sue mani, educava i suoi figli con il rigore dell’essenzialità, senza lussi, senza fronzoli. L’alta società non l’ha mai affascinata, del resto Benito aveva sempre fatto lo stesso, tutto preso dal lavoro. Gente che conosce la fatica ed il dovere, e il valore del lavoro.
Sono ore tragiche, inimmaginabili per questa donna che da sola deve affrontare un lutto tanto grande, badare a crescere i suoi figli e superare le infamità che le riserverà quel popolo che il Duce aveva sempre servito e al quale aveva sacrificato la sua stessa vita.
“Mi consultai con i ragazzi e fummo d’accordo nel porre termine a quella situazione equivoca, facendo annunciare la nostra presenza al comitato di liberazione di Como – continua a raccontare Rachele – Subito, tre uomini si presentarono per perquisire. M’imposi la calma per non far perdere il coraggio ai miei figli, ma non serbavo più illusioni sulla nostra sorte. L’ispettore esaminò attivamente le mie poche valigie mentre un giovane partigiano s’impossessava di una miniatura di Bruno che non lasciavo mai; chiaramente allettato dalla cornice che gli sembrava d’oro, gridò: ‘Questo appartiene al popolo!’. ‘Tutto appartiene al popolo – risposi io guardandolo negli occhi – ecco perché noi gli abbiamo dato sempre tutto e lui, mio figlio, ha sacrificato la sua vita’. L’ispettore intervenne e mi fece restituire la miniatura scusandosi”.
Rachele fa appello al vescovo di Como, affinché si prenda cura dei figli, ma il prelato si rifiuta di assumersi la responsabilità di ricevere in custodia Romano ed Anna Maria. I ragazzi vengono separati dalla mamma, che viene inviata in una cella del carcere femminile di Como: “Nel disordine che regnava ovunque, il mio arrivo passò inosservato; quelle donne mi guardavano appena, occupate com’erano a raccontarsi per la centesima volta la storia del loro arresto. Una sola, che mi lanciò un’occhiata stupefatta, gridò: “Voi qui?”. Con un gesto la pregai di tacere; si mise a piangere in silenzio. Di quando in quando qualche notizia dall’esterno filtrava fino a noi. Il massacro si estendeva e cresceva con una furia spaventosa. Uomini, donne, bambini, cadevano sotto i colpi degli assassini solo per essere sospettati di essere fascisti. Di tanto in tanto sentivamo risuonare nel cortile un triste appello seguito da una scarica. Poi una pausa in cui scricchiolavano le ruote di una carretta, e l’appello riprendeva. Durò tutta la notte […] In quell’inferno conservavo una calma che stupiva gli altri. Mi chiedevano: ‘Voi non piangete? Non siete stata separata da nessuno?’. Ma il dolore, quando raggiunge il culmine, toglie il sentimento alla realtà […] Visto che Benito non mi avrebbe più rivisto, la morte non mi faceva più paura, ma pensavo ai miei figli, trascinati solo Dio sa dove”.
È il dramma di una donna, una delle più coraggiose che la storia d’Italia ricordi. Che ha portato sulle spalle il peso di una storia tanto grande e che ad essa è sopravvissuta. Il destino, che muove i suoi fili a volte inspiegabilmente, ha voluto lasciarla su questa terra per molti anni ancora, forse affinché potesse raccontare quella storia ed essere prezioso punto di riferimento per chi sarebbe arrivato dopo.
                                 
                                                                         ONORE A DONNA RACHELE!   


Art di Emma Moriconi.
Fonte http://www.ilgiornaleditalia.org

 

venerdì 27 giugno 2014

La sconfitta di Fini: non invitato al centenario di Almirante. Bufera anche sull'assenza della Boldrini



Giorgia Meloni, Ignazio La Russa, Gianni Alemanno e Maurizio Gasparri. Tutti presenti alla cerimonia di festeggiamento dei cent'anni dalla nascita di Giorgio Almirante, Storico segretario del Movimento Sociale Italiano. Solo non si vede Gianfranco Fini. L'ultimo segretario della fiamma, pupillo e delfino del leader della destra, non era presente alla celebrazione, ma non per suo volere. La sedia in più a Montecitorio non è stata messa volutamente. Come riporta Il Giornale, in edicola venerdì 27 giugno, Fini ci ha provato fino all'ultimo. Ha aspettato, ha sperato, poi si è fatto coraggio e ha chiamato direttamente Donna Assunta, presidente della Fondazione Almirante. "Non ho ancora ricevuto l'invito e non capisco perché". E lei: "Te credo che nun l'hai ricevuto. Non te l'ho proprio mandato, ormai non fai più parte della nostra storia".
La figuraccia della Boldrini  -  Un' altra personalità politica di rilievo doveva essere presente, non certo per accostamenti politici, ma in quanto seconda carica istituzionale dello Stato: Laura Boldrini. Il presidente della Camera non si è presentata e neanche ha avvisato della assenza, non preoccupandosi neanche di inviare un messaggio o un vice in rappresentanza. Ma la figuraccia per le istituzioni l'ha risparmiata Giorgio Napolitano con un bel discorso su Almirante. "Giorgio Almirante è stata espressione di una generazione di leader di partito che, pur da posizioni ideologiche profondamente diverse, hanno saputo confrontarsi mantenendo reciproco rispetto, a dimostrazione di un superiore senso dello Stato che ancora oggi rappresenta un esempio". E ancora: "Egli fu sempre consapevole che solo attraverso il riconoscimento dell'istituzione parlamentare e la concreta partecipazione ai suoi lavori, pur da una posizione di radicale opposizione rispetto ai governi, la forza politica da lui guidata avrebbe potuto trovare una piena legittimazione nel sistema democratico nato dalla Costituzione".
La rabbia della vecchia guardia di Almirante - E quindi se per Napolitano ci sono applausi e ringraziamenti, lo stesso non si può dire per la Boldrini. Il presidente di Montecitorio viene accusata di scarsa ospitalità e di scorrettezza istituzionale. "Non si è presentata - si lamentano gli organizzatori della manifestazione - e non ha nemmeno sentito il bisogno di mandare uno dei vicepresidenti". Giorgia Meloni è inferocita. "È gravissima l'assenza della presidente - si sfoga - che non solo non ha ritenuto di far partecipare almeno un suo vice in rappresentanza dell'assemblea di Montecitorio, ma non si è neanche degnata di inviare un messaggio di saluto. Per fortuna lo ha fatto il presidente della Repubblica, che a differenza della Boldrini sa cosa significhi rappresentare un'istituzione e sa anche chi era Giorgio Almirante". Maurizio Gasparri se ne fa una ragione: "Boldrini non ha portato il saluto al convegno su Almirante. Non ne era degna. Comunque ha sbagliato".

Fonte art.
http://www.liberoquotidiano.it

 

L'orgoglio e la coerenza di un uomo che non ha mai rinnegato


“Nel nostro operare di italiani, cittadini e combattenti, noi siamo esclusivamente e gelosamente fascisti”

Giorgio Almirante e il suo fascismo, vissuto in trincea e in democrazia.

“Nel nostro operare di italiani, di cittadini, di combattenti - nel nostro credere, obbedire e combattere – noi siamo esclusivamente e gelosamente fascisti”. Un pensiero molto chiaro e diretto questo di Giorgio Almirante, che unito ad un altro suo conosciutissimo motto - “Non rinnegare, né restaurare” - aiuta a comprendere lo spirito di un uomo che, dopo aver attraversato un periodo in cui principi, ideali e valori si vivevano completamente e in ogni aspetto dell'esistenza, ha saputo trasportare lo stile di vita e di pensiero nel quale era stato educato e cresciuto in tempi diversi che, sotto alcuni punti di vista, non necessariamente possono essere considerati migliori.
E' stato fascista Almirante. Lo è stato, come quasi tutta l'Italia di allora, durante i vent'anni del Regime. Lo è stato allo scoppio della guerra, quando richiamato come ufficiale di fanteria e destinato a compiti non di prima linea, chiese di andare come volontario in Africa Settentrionale e qui, oltre a svolgere con competenza la sua missione giornalistica di corrispondente dal fronte, si guadagnò, combattendo, una croce al merito di guerra.
Lo è stato dopo l'8 settembre, nella Repubblica Sociale Italiana, alla quale aderì arruolandosi volontario nella Guardia Nazionale Repubblicana. Ed ancora lo è stato quando, a Salò, venne prima incaricato di sovrintendere alle intercettazioni radio, poi nominato capo gabinetto del Ministero della Cultura Popolare e Attendente di Mussolini ed in seguito tenente della Brigata nera Autonoma Ministeriale, una veste in cui fu impegnato nella lotta contro i partigiani (anche se, come riportato da diverse fonti, il suo gruppo non partecipò mai a scontri a fuoco diretti) ma anche e soprattutto nel non facile ruolo di responsabile del Nucleo di propaganda.
E' stato dunque fascista Almirante. Con una convinzione che, a differenza dei molti hanno in seguito per convenienza rinnegato la loro adesione, gli ha sempre permesso di andare avanti a testa alta nel progetto di traghettare quell'ideale in cui ha sempre creduto nell'Italia del dopoguerra. Aggiornandolo nelle forme e nei modi. Rinnovandolo nell'espressione in modo da trasmetterlo e renderlo comprensibile anche a chi non l'aveva vissuto in prima persona. Facendolo vivere nel comportamento coerente e corretto che anche gli avversari gli hanno sempre riconosciuto.
 
Fonte art.
 
 

Tanto paga Pantalone.


Pasti buttati a centinaia nel centro di prima accoglienza di Pozzallo. Il sindaco Ammatuna: "Ho appreso solo da voi della scandalosa vicenda"

Le foto che vedete a lato e sotto l´articolo e che ci sono state concesse da un volontario del centro di prima accoglienza di Pozzallo dicono tutto: centinaia di piatti di pasta e carne ancora sigillati e caldi di cottura buttati nei cassonetti della spazzatura all’interno della stessa struttura che ospita i clandestini degli sbarchi. Anche la frutta fresca finisce tra i rifiuti. Se si tiene conto che questa scandalosa situazione dura da parecchi giorni e che i pasti buttati costano 15 euro al giorno per ciascun migrante, l’entità dello spreco è evidente e suona come uno schiaffo a chi magari non ha di che vivere. Perché i pasti in più finiscono nei cassonetti invece di essere destinati ad altri centri o a persone bisognose che non hanno nulla da mangiare? E’ il comune di Pozzallo a gestire la situazione con denaro pubblico sotto la supervisione della Prefettura, ma il sindaco Luigi Ammatuna (nella foto con il cibo buttato nei cassonetti) ha appreso da noi l’incredibile vicenda: "Non ne sapevo nulla. Resto quantomeno sorpreso, farò gli opportuni controlli".
Nessuna risposta al telefono invece dal responsabile del centro. Lo scandaloso spreco non è dovuto solo al numero di pasti sovrastimati e quotidianamente ordinati dal comune alla ditta con sede a Ispica che ha in appalto il servizio, ma anche ai gusti degli stessi clandestini, molti dei quali si rivelano schizzinosi e preferiscono mangiare nei locali pubblici, in quanto il cibo servito al Cpa non è di loro gradimento. Restano queste immagini che colpiscono con la stessa forza di un pugno allo stomaco, soprattutto in questi tempi difficili che costringono un po’ tutti a tirare la cinghia.
 
 
Fonte art.
 

 
 

giovedì 26 giugno 2014

Avanguardia, una eredità schierata in prima linea, come sempre e per sempre…

di Mario M. Merlino

Le note dell’inno di Avanguardia Nazionale, la Panzerlied, tratte da una memorabile scena del film La battaglia dei giganti, si levano si diffondono coinvolgono i presenti nell’ampia sala ove, di prassi, si suona e si insegna a ballare il tango argentino. Qualcuno si azzarda con la prima strofa ‘sui monti nel ciel sulle strade e sul mar…’. Un po’ stonato la voce fattasi roca da anni taciuto il coro tende a dare anima ai ricordi alle battaglie intraprese alla giovinezza che s’accompagnò e che i capelli ingrigiti le rughe qualche acciacco di troppo sembravano aver spento. In piedi, in cerchio, ritmando le singole strofe con il battito del piede. E la sala è addobbata da bandiere una nera una rossa in alternanza con la runa nel cerchio bianco. Un popolo, una comunità si stringe, all’ombra dei suoi simboli, intorno al Comandante a quel ‘piccolo grande uomo’ che ancora una volta, come sempre del resto, è riuscito ad imporre le sue decisioni questo incontro nonostante le tante – sovente più che legittime – preoccupazioni di tempi resi troppo brevi di scarsezza di mezzi di capacità organizzative fattesi desuete. C’è la vecchia guardia da Belluno Trieste Brescia e Bergamo attraverso Roma e Littoria in Calabria Puglia Sicilia. Giovani militanti di diverse realtà romane e non solo. A sera musica…
Ci si aspettava un numero superiore, soprattutto di giovani, di quei giovani a cui sottintende e si esplicita l’intervento di Stefano. Un sabato dove il caldo ha riconquistato il sopravvento dopo giorni di pioggia. Un corteo per qualcosa contro qualcuno. Forse delle conferenze. E, poi, questo è il 21 giugno solstizio d’estate, giorno d’ebbrezza e di passioni, di roghi e magici cerchi, e diverse comunità sono andate ad arrampicarsi in montagna e darsi momentaneo rifugio in qualche bosco. Penso come fu Adriano Romualdi e Peppe Dimitri, in tempi successivi l’uno dall’altro, a chiedere di celebrare i due solstizi, mito rinnovato delle genti arye da intendere come rinascita di un’Europa soffocata da mefitici venti d’occidente e d’oriente, di vivere le emozioni sempre e comunque libere e, soprattutto, sempre antecedenti ad ogni ragionamento.
(Il filosofo Hegel, in una fortunata considerazione, operò la distinzione tra i giovani e i vecchi in quanto, in questi ultimi, si raccoglieva la saggezza di aver e poter contemplare il vissuto, cosa questa impedita ai primi. Ciò corrispondeva all’impianto del suo sistema concettuale. Stronzate. Bene ha fatto, dunque, Stefano a sottolineare che, sì, si possono mettere in evidenza le numerose e gravi ‘pecche’ nel comportamento di oggi di tanti e troppi giovani, ma è pur vero che sovente dietro l’apparente saggezza del mondo adulto si nasconde tanta e troppa viltà. E chi ha vissuto come scelta il ruolo di docente lo sa bene. Non è mai il vincitore, nonostante si senta detentore del sapere, ma ad altri affida – ‘senza onore né gloria’ – quel senso della conoscenza che è il metro d’ogni esperire, in altre menti ed altre mani il fiorire di quanto ha seminato – ‘nel campo tuo fiorirà la mia speranza’ scrive il poeta François Villon . Mettersi al servizio, altra considerazione di Stefano, di tutti coloro che vorranno ascoltare la nostra storia, le idee che abbiamo coltivato, i progetti per edificare le ragioni del cambiamento, avere il medesimo cuore di questa comunità che ha l’orgoglio la fede la fedeltà di ritrovarsi dopo oltre cinquant’anni dalla sua fondazione).
L’appello ai caduti, il Presente a quelli che ci hanno preceduto e che sono in spirito accanto alle nostre battaglie, alla vita di tutti i giorni, marciare serrati e sereni per andare sempre avanti, sempre oltre. Qualcuno vorrebbe stendere il braccio nel saluto romano, ma ogni rito con i suoi simboli vuole rappresentare una scelta, una identità. Così si porta il braccio destro verso il cuore con la mano a pugno. Non si rinnegano certo le radici da cui si è tratta la linfa vitale attraverso quella testimonianza di uomini e donne che ci educarono a tentare d’essere noi stessi ‘grandi’. Non volgiamo loro le spalle, non è in noi la cultura del rinnegato, l’eredità di valori e di sangue di cui un popolo si nutre ci appartiene. Soltanto abbiamo scelto di salpare, mettere in mare un fragile battello dalle vele runiche, simile a nordico ed antico drakkar, perché ogni generazione avverte come le circostanze e il tempo impongono confrontarsi superarsi e, poi, proprio nella concezione più ardita autentica irriverente – per intendersi lo squadrismo della prima ora, il volontariato esaltante e tragico della RSI – c’è questo tacito invito. Dunque tornare alle origini per correre incontro al futuro…
Come da programma, Stefano indica le ragioni di questo incontro – a me piace definirlo, con garbata affettuosa ironia, una sorta di ‘canto del cigno’ e la memoria va, dove il confronto non ha da essere, si badi bene, al teatro Lirico, Milano, 16 dicembre 1944. La volontà di consegnare, idealmente e attraverso un reiterato impegno per chi intenda non ritrarsi, gli uomini non le idee vanno in pensione, nel proprio guscio di nobili ricordi, il testimone alle nuove generazioni. Affermava l’imperatore e re di Spagna Carlo V che, se in battaglia, cadeva la bandiera e il proprio cavallo, egli avrebbe prima raccolto la bandiera e poi rialzato il cavallo… Veniamo da battaglie che ci videro sconfitti ma mai tentennare sui principi perché tenemmo ferma la barra verso la meta senza lasciarci intimorire o deviare dall’onda e dal vento. Detto altrimenti, sfuggendo al personale incedere tra metafore e citazioni, saper distinguere la strategia dalla tattica. Solo così i possibili compromessi non decadono in svendita o resa o peggio. Perché si ha la consapevolezza interiore fin dove ci si può spingere – lo spazio del qui ed ora – senza mai intaccare il fine – il luogo del sempre .
La storia di Avanguardia, dal 1960 in poi, evidenzia lo sforzo di definirsi capace di interpretare la realtà e di operare in essa quale presenza attiva nelle dinamiche ove lo scontro con l’esistente si fa più manifesto. Uscire dall’isolamento politico e, al contempo, dal rischio di un impegno di mera contrapposizione concettuale. A dimostrazione di ciò, quasi a premessa, il Comandante – sabato e domenica così l’abbiamo sentito chiamare dopo che lo appellavamo, con affetto e rispetto, ‘il Caccola’ – ha proposto tre momenti di questa lotta per combattere il sistema nella sua interezza. Brevi relazioni, tenute da chi visse quelle esperienze, su Valle Giulia la rivolta di Reggio Calabria il tentativo di golpe del principe Borghese. Il ’68 inteso quale rivolta generazionale oltre le ideologie e contro l’imperio dei partiti; l’unica autentica manifestazione di rivolta popolare da cui, simile ad un cerino acceso su un covone di paglia, Reggio avrebbe rappresentato il suo estendersi su tutto il territorio nazionale; la frattura radicale con le forme parlamentari del sistema democratico tramite una azione di tipo militare ove il ruolo dei militanti di Avanguardia era non soltanto di supportare con le proprie giovanili energie ma di fornire l’humus ideale e dottrinario… Il consuntivo sotto il segno della sconfitta, che non equivale al fallimento, in quanto furono obiettivi ambiziosi rispetto alle forze avverse in campo. Mi viene a mente, prometto essere l’ultima citazione, come sugli stendardi di Guglielmo il Taciturno campeggiasse il motto: ‘Non occorre riuscire per perseverare né sperare per intraprendere’…
Tanti gli interventi, un dibattito a testimoniare che non apparteniamo alla ‘terra dei morti’. Due giorni che sono stati anche occasione per camerati di re-incontrarsi dopo anni in cui la vita ha trascinato molti di noi in città diverse famiglia lavoro e scoprire che, nonostante ciò, sembrasse ieri il distacco. Poi, a sera, dopo una frugale cena tanta musica ‘alternativa’ – la musica che predispone l’animo forte a ritrovarsi, ieri come oggi, schierato in prima linea, come sempre e per sempre…

Fonte art.
http://www.ereticamente.net


 

Tra pregiudizi e realtà. La manifestazione di Forza Nuova vista da un comunista. VIDEO: Intervista a Roberto Fiore

di Marco Pitrella

Sabato, ore 18.00 Catania. In una piazza Roma bagnata dal primo temporale estivo, si riuniscono i primi militanti di Forza Nuova, per la maggior parte ragazzi. Con uno di loro ci stringiamo la mano e mi racconta che per dieci anni è stato volontario alla Croce Rossa. Confesso di rimanere un po’ stupito perché anche io, forse, porto con me una buona dose di pregiudizi ideologici. Tutta roba da rottamare, insomma. Intanto mentre faccio qualche foto, vedo dei “curiosi” dei centri sociali, dall’altra parte della strada. Mentre continuiamo a parlare, iniziano a scattare dei primi piani. Vogliono schedarli? E con quale autorità? Manifestare liberamente la propria opinione non è ancora lecito per tutti? A sentire le polemiche dal gusto antico e dal retrobottega novecentesco, in Italia, in Sicilia e a Catania ancora no. Del resto è la rete antifascista, cugina dell’antimafia, che da noi distribuisce le carte della legalità. Non ho visto nessuna scortesia e nessun gesto che potesse lontanamente turbare la vista dei benpensanti salottisti, che sempre più spesso ritrovo in luoghi a me cari. Non ho visto sfilare, come ho visto in “processioni di altre parrocchie” nemmeno gruppi di potere. Non ho visto camicie nere (tutti vestiti in camicia bianca) e  soprattutto nessun passamontagna. Ah certo, siamo a giugno e fa caldo … eppure oggi è piovuto. Dimenticavo: non ho sentito cori razzisti e non ho sentito messaggi subliminali. Nemmeno dalle parole di  Giuseppe Bonanno Conti, dirigente nazionale e responsabile provinciale di Forza Nuova, che ho intervistato.
“L’ immigrazione è una tragedia e oggi sta diventando una vera e propria invasione. Noi siamo stanchi, quando dico noi, dico non solo Forza Nuova ma anche i cittadini italiani. Non si può sopportare il peso e l’arrivo di 3.000 clandestini al giorno. Significa solo in questo anno: un milione di clandestini. Non possiamo accoglierli e non vogliamo accoglierli. Non c’è motivo per cui dobbiamo sobbarcarci questa enorme tragedia. L’operazione Mare Nostrum, cento milioni di euro previsti, ma saranno tanti di più che se ne spenderanno, sarebbero bastati, dico per metafora, a fare l’Africa nuova. Si potevano fare tante case, tanti ospedali, tanti aeroporti, tante scuole. Si potrebbe aiutare questa gente a progredire lì. Invece si preferisce farli venire qui, fari accampare nelle nostre strade. Abbiamo pubblicato anche dei reportage fotografici dove centinaia di africani in piazza della Repubblica bivaccano la notte con le tende, e ci domandiamo se sia una cosa normale che uomini vengano qui con delle promesse da marinaio e poi si ritrovano a dover stare senza nessuna speranza, danneggiando la popolazione locale che già è alla disperazione e alla povertà e, trovandosi in condizioni veramente disagiate e inumane.
 
Critiche che avete ricevuto per questa manifestazione …
“Le critiche sono strumentali, la sinistra non ha niente da dire e ogni volta che c’è una manifestazione di Forza Nuova trova la forza di mobilitarsi contro lo spauracchio fascista e xenofobo o razzista. Noi di razzista non abbiamo niente, noi amiamo la nostra terra e la vogliamo difendere da questa disgrazia, da questa alluvione. Non riteniamo giusta l’immigrazione né per chi la effettua e né per chi la riceve. Quindi non c’è niente di razzista. Preferiremmo che l’Africa diventasse una grande potenza per come merita di diventare. 
 
Fonte.
http://tweetpress.it 



 

mercoledì 25 giugno 2014

LE STRAGI DIMENTICATE.... ASSASSINI ANCHE DELLA VERITÀ




Le vittime che non hanno mai avuto giustizia – migliaia di uomini e donne inghiottiti nel nulla – però "politicamente scorretti" e per questo trascurati dai media – stupri e torture come metodi, per cercare, di distruggere la gloria di chi cercò la "bella morte"
I caduti della R.S.I. assommarono a diverse decine di migliaia. Centomila è la cifra che, presumibilmente, si avvicina di più alla realtà. Molti caddero in combattimento, molti furono uccisi dai partigiani in un agguato, molti civili furono prelevati nelle loro case e uccisi con un colpo alla nuca. 
 
Molti, invece, furono trucidati a guerra finita, in una serie di episodi dove l’odio e lo spirito di vendetta, ma anche il disegno preordinato dei partigiani comunisti, guidarono la mano di uomini che con ferocia bestiale infierirono su giovani soldati che, fidando nelle condizioni di resa stabilite, avevano deposto le armi nelle mani dei cosiddetti Comitati di Liberazione o di bande partigiane. Dopo qualche tempo dalla fine del conflitto (specialmente dopo il 18 aprile 1948), molti di quei crimini furono denunciati e la magistratura pronunciò anche diverse sentenze di condanna. I responsabili della strage di Oderzo, ad esempio, nelle persone di Adriano Venezian (Biondo), Giorgio Pizzoli (Gim), Silvio Lorenzon (Bozambo), De Ros (Tigre), Diego Baratella (Jack) vennero riconosciuti colpevoli di omicidio aggravato e continuato e condannati, il 16 maggio 1953, a pene varianti dai 24 (Jack) ai 28 (Tigre) ai 30 anni (tutti gli altri). Ma le amnistie e gli indulti succedutisi a ritmo febbrile su pressione dei comunisti, fecero sì che i cinque dopo pochi anni vennero scarcerati e ricevuti a Botteghe Oscure con tutti gli onori da Togliatti, Longo e Pajetta. Malgrado tutte le amnistie e tutti gli indulti, tuttavia, alcune condanne rimasero da scontare, ma il sollecito Partito Comunista di Togliatti provvide a far espatriare clandestinamente i condannati verso la Jugoslavia e la Cecoslovacchia. Cosicché pochissimi di quei criminali hanno espiato le loro colpe. Ciò fu facile perché i partigiani, anche se imputati di gravi crimini, non potevano essere arrestati. Il Decreto Luogotenenziale 6 settembre 1946 n. 96, infatti, all’articolo 1 recitava: ""...non può essere emesso un mandato di cattura, e se è stato emesso deve essere revocato, nei confronti di partigiani, dei patrioti e (degli altri cittadini che li abbiano aiutati) per i fatti da costoro commessi durante l’occupazione nazifascista e successivamente sino al 31 luglio 1945..."" 
Qui si vogliono ricordare alcuni di quegli orrendi assassini.
La strage di Oderzo (Treviso)
Negli ultimi giorni di aprile e nei primi di maggio del 1945, 126 giovani militi dei Btg. "Bologna" e "Romagna" della GNR e della Scuola Allievi Ufficiali di Oderzo della R.S.I. che si erano arresi, il 28 aprile 1945, al C.L.N. con la promessa di avere salva la vita, furono massacrati senza pietà. La maggior parte, ben 113, fu uccisa al Ponte della Priula. Gli altri furono trucidati sul fiume Monticano.
Al banchetto di addio al celibato di Venezian uno della banda affermò :- Ti auguriamo che tu abbia ad avere dodici figli e perché questo augurio abbia ad essere consacrato domandiamo che siano uccisi, vittime di propiziazione, dodici fascisti -.
Fu così che la mattina del 16 maggio scelsero tredici allievi ufficiali della Scuola di Oderzo e li assassinarono nei pressi del Ponte della Priula. In totale le vittime fra gli ufficiali della scuola di Oderzo furono 144.
La corriera della morte
Altri militi e allievi della stessa scuola di Oderzo, che si erano arresi ai partigiani, furono caricati su una corriera della Pontificia Opera di Assistenza che si diresse a sud, presumibilmente verso un campo di concentramento. Ma giunta a San Possidonio (Mo) fu fermata e dei prigionieri che trasportava si è persa ogni traccia.
Gli uccisi di Pescarenico (Lecco)
La sera del 26 aprile transitò per Lecco una colonna di 160 uomini del Gruppo Corazzato "Leonessa" e del Btg. "Perugia" che ripiegava su Como. A Pescarenico furono attaccati dai partigiani. Asserragliati in alcune case i militi si difesero per tutta la notte e per tutto il giorno 27. A sera, avendo quasi esaurite le munizioni, fu trattata la resa. Le condizioni erano che i militi dovevano avere la libertà e gli ufficiali la prigionia secondo la Convenzione di Ginevra. Dopo la resa tutti gli uomini furono picchiati e insultati e minacciati tutti di morte. Il giorno 28 i tredici ufficiali e tre vice brigadieri furono uccisi. Prima di morire lasciarono ai religiosi che li assistettero, toccanti lettere per i familiari.
La strage di Monte Manfrei (Savona)
In questo luogo isolato dell’Appennino Ligure, fra Genova e Savona, nei giorni tragici di fine aprile, primi maggio 1945, i partigiani trucidarono i 200 marò del presidio di Sassello della Divisione "San Marco", quando la guerra si era ormai conclusa. I cadaveri, sepolti sotto poca terra nei dintorni, non sono stati ancora rinvenuti tutti, anche per l’omertà delle popolazioni, minacciate ancora adesso dagli assassini dell’epoca. Una grande croce ricorda ora i caduti e ogni anno, l’8 luglio, numerose persone salgono lassù e li ricordano con una toccante cerimonia.
La strage di Rovetta (Bergamo)
Il 26 aprile 1945 un plotone della 6^ Compagnia della Legione Tagliamento di presidio al Passo della Presolana, al quale si aggiunsero alcuni militi della 5^, sentite le notizie della disfatta tedesca decise di arrendersi, sollecitato in tal senso anche dal Franceschetti, proprietario dell’albergo che ospitava i militi e si diresse verso Elusone. Ma, giunti a Rovetta (BG), trattarono la resa col locale C.L.N. che promise un trattamento conforme alle convenzioni internazionali. Erano 46 militi comandati dal giovane S.Ten. Panzanelli di 22 anni. Deposte le armi, furono alloggiati nelle locali scuole elementari. Il prete del luogo, Don Giuseppe Bravi, era anche segretario del C.L.N. locale e garantiva il rispetto degli accordi. Ma una masnada di feroci partigiani, giunti da Lovere su due camion, impose la consegna dei prigionieri e il 28 aprile, dopo feroci maltrattamenti, 43 di loro (uno riuscì a fuggire e tre giovanissimi vennero risparmiati) vennero condotti presso il cimitero di Rovetta e qui fucilati. L’ultimo ad essere ucciso, dopo aver assistito alla morte di tutti i camerati, fu il Vice brigadiere Giuseppe Mancini, figlio di Edvige Mussolini sorella del Duce.
Dopo la guerra alcuni di quei partigiani ritenuti responsabili della strage furono individuati e processati. Ma la sentenza fu di non luogo a procedere in forza del Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 194 del 12 aprile 1945, firmato da Umberto di Savoia, che in un unico articolo dichiarava non punibili le azioni partigiane di qualsiasi tipo perché da considerarsi "azioni di guerra". Fu, cioè, dalla viltà dei giudici, considerata azione di guerra legittima anche il massacro di prigionieri inermi compiuta, per giunta, quando la guerra era ormai terminata.
La strage di Lovere (Bergamo)
Mercoledì 25 aprile 1945 un piccolo presidio della Legione "Tagliamento", 26 militi della 4^ Cmp, II Rgt, di stanza nell’edificio delle scuole elementari a Piancamuno in Val Canonica venne sorpreso da un gruppo di partigiani fra i quali erano dei polacchi in divisa tedesca. Malgrado la sorpresa i militi reagiscono, ma le perdite sono gravi : 9 morti fra cui il comandante aiutante maresciallo Ernesto Tartarini e tre feriti. Anche il comandante partigiano, però, tale Luigi Macario, viene ucciso insieme ad altri due, cosicché i partigiani, rimasti senza comandante, cedono al fuoco intenso dei militi superstiti e si ritirano. A questo punto giunge in aiuto una squadra del plotone Guastatori al comando del brigadiere Amerigo De Lupis.
Egli si rende conto che i tre feriti che giacciono all’Ospedale di Darfo non hanno una assistenza adeguata. Uno dei tre, infatti, Sandro Fumagalli, muore la mattina del 26. Allora nel pomeriggio il De Lupis, con una piccola scorta, porta i due feriti ancora vivi all’Ospedale di Lovere, sul lago d’Iseo. Ma egli non sa che i partigiani stanno occupando la città. Al mattino, infatti, il locale presidio del 612° Comando Provinciale della G.N.R. comandato dal Ten. Agostino Ginocchio si è arreso a un gruppo di partigiani e altri partigiani stanno affluendo dalle montagne. Così il De Lupis e i suoi uomini vengono sorpresi all’uscita dall’Ospedale e catturati. Condotti presso la casa canonica (Palazzo Bazzini) che veniva utilizzata come prigione, vennero rinchiusi insieme agli uomini del Ten. Ginocchio. Testimoni dell’epoca affermano che ai prigionieri vennero inflitti pesanti maltrattamenti. Il 30 aprile un legionario, Giorgio Femminini di 20 anni, ottenne di potersi sposare con la sorella di un commilitone, Laura Cordasco, così fu condotto in chiesa col De Lupis e il commilitone Vito Giamporcaro come testimoni. Ma poiché la cerimonia si prolungava i partigiani condussero via tutti gli uomini del De Lupis e li portarono dietro il cimitero dove furono massacrati con raffiche di mitra. Gli uccisi furono sei: Amerigo De Lupis, Aceri Giuseppe, Femminini Giorgio, Mariano Francesco, Giamporcaro Vito, Alletto Antonino. I due legionari: Le Pera Giovanni e De Vecchi Francesco, ricoverati, come si è detto, in ospedale per gravi ferite, furono quasi ogni giorno percossi e maltrattati e, infine, prelevati da partigiani fra il 7 e l’ 8 di Giugno, oltre 40 giorni dopo la fine della guerra, percossi, seviziati e, infine, gettati nel lago e annegati. 
I massacrati di Ponte Crenna (Pavia)
Il 12 agosto 1944 quattro giovani militi venivano catturati dai partigiani e barbaramente assassinati a Ponte Crenna nell’Oltrepo Pavese. Fra essi Walter Nannini, medaglia d’Argento alla memoria.
La strage di S. Eufemia e Botticino Sera (Brescia)
Fra il 9 e il 13 maggio 1945 furono prelevati 11 fascisti a Lumezzane e altri a Toscolano Maderno. Orribilmente seviziati, 23 vennero uccisi proprio di fronte alla chiesa di S.Eufemia mentre altri 10 vennero uccisi e gettati in una fossa a Botticino, in una località detta Mulì de l’Ora. Qui furono ritrovati in stato di avanzata decomposizione, con tracce di inaudita violenza e le unghie strappate. Autori dell’eccidio furono i partigiani comandati da tale Tito Tobegia.
L’eccidio dell’Ospedale psichiatrico di Vercelli
Nei giorni dal 23 al 26 aprile 1945 si erano concentrate a Vercelli tutte le forze della R.S.I. della zona, circa 2000 uomini, che andarono a costituire la Colonna Morsero, dal nome del Capo Provincia di Vercelli Michele Morsero. Tale colonna partì da Vercelli alle ore 15 del 26 aprile, dirigendo verso nord per raggiungere la Valtellina. La colonna raggiunse Castellazzo, a Nord di Novare, la mattina del 27 aprile e, dopo trattative, la sera decise, dopo molte incertezze, di arrendersi ai partigiani di Novara dietro promessa di essere trattati da prigionieri di guerra. Il 28 aprile i prigionieri vengono condotti a Novara e rinchiusi in massima parte nello stadio. Subito cominciarono gli insulti e i maltrattamenti e il 30 cominciarono i prelevamenti di gruppi di fascisti dei quali non si ebbe più notizia. Lo stesso accadde nei giorni successivi insieme a feroci pestaggi. Il 2 maggio Morsero viene portato a Vercelli e fucilato. Intanto sono giunti gli americani che tentano di ristabilire un minimo di legalità. Ma il Corriere di Novara dell’8 maggio parla di molti cadaveri di fascisti ripescati nel canale Quintino Sella. Finché il 12 maggio giungono da Vercelli i partigiani della 182^ Brigata Garibaldi di "Gemisto" cioè Francesco Moranino che prelevano circa 140 fascisti elencati in una loro lista. 
Questi uomini saranno le vittime della più incredibile ferocia. Portati all’Ospedale Psichiatrico di Vercelli saranno, in buona parte massacrati all’interno di questo. Le pareti dei locali dove avvenne l’eccidio erano lorde di sangue fino ad altezza d’uomo. Altri saranno schiacciati in un cortile da un autocarro, altri fucilati nell’orto accanto alla lavanderia, altri, pare tredici, fucilati a Larizzate e altri ancora, infine, portati con due autocarri e una corriera (quindi in numero rilevante) al ponte di Greccio sul canale Cavour e qui, a quattro a quattro, uccisi e gettati nel canale. Nei giorni successivi i cadaveri ritrovati nei canali di irrigazione alimentati dal canale Cavour furono più di sessanta.
Solo il giorno 13 maggio, domenica, gli americani prenderanno il controllo dei prigionieri ed eviteranno altri massacri. Era già pronta la lista dei prigionieri da prelevare quello stesso giorno alle ore 18.
Il massacro di Schio (Vicenza)
La notte del 7 luglio 1945 una pattuglia partigiana irruppe nel carcere di Schio dove erano detenute 91 persone presunti fascisti. Di queste, contro cui furono sparate molte raffiche di mitra, ne furono massacrate ben 54 di cui 19 donne, mentre 14 rimasero ferite (11 in modo grave). Il tribunale militare alleato individuò alcuni degli esecutori materiali del crimine ed emise alcune condanne, però mai eseguite. Dai dibattimenti emerse che molte di quelle persone non avevano alcuna colpa e nei loro confronti era già pronto l’ordine di scarcerazione. Il governatore militare alleato ebbe ad affermare che i fatti di Schio " costituiscono una macchia per l’Italia ed hanno avuto una larga pubblicità nei giornali statunitensi, britannici e sudafricani dove vengono considerati senza attenuanti ".
Il massacro di Avigliana (Torino)
Qui furono uccisi, a guerra finita, dopo che si erano arresi ed erano stati disarmati, 33 militari della R.S.I.
I morti di Agrate Conturbia (NO)
"Caduti per la Patria" sta scritto su una croce che fa la guardia a 33 salme di fascisti senza nome, trucidati nel sottostante bosco detto "la Bindellina"
I feroci massacri del Biellese
A Bocchetta Sessera (Vercelli) una stele ricorda le decine di cadaveri di fascisti, non solo uomini ma anche donne, stuprate e seviziate prima di essere uccise, che si presume ancora si trovino nel bosco sottostante. Fu questa, una delle zone dove la ferocia partigiana toccò livelli inimmaginabili. Qui operava Francesco Moranino detto Gemisto che, ricordiamolo, nel 1955 fu condannato all’ergastolo dalla Corte d’Appello di Firenze per strage di partigiani non comunisti e che fuggì a Praga, da dove rientrò in Italia dopo che il P.C.I. lo ebbe fatto eleggere Senatore
Gli N.P. trucidati a Valdobbiadene (Treviso)
Qui, dopo che il 9 marzo 1945 il grosso del Btg N.P. della X^ fu trasferito sul fronte del Senio, rimasero a presidio soltanto 45 marò. Essi, che avevano sempre vissuto in buona armonia con la popolazione e, quindi, pensavano di non avere nulla da temere, dopo il 25 aprile, a guerra finita, si consegnarono ai partigiani della Brigata "Mazzini" (Comandante Mostacetti). Ma nella notte fra il 4 e il 5 maggio essi furono divisi in tre gruppi per essere, si disse loro, trasferiti altrove. Il primo gruppo fu condotto in località Saccol di Valdobbiadene, spinto in una galleria e, qui, trucidato a colpi di mitra e di bombe a mano. La galleria, poi, fu fatta saltare per occultare il crimine. Il secondo gruppo fu condotto in località Medean di Comboi. Qui ai marò vennero legate le mani dietro la schiena con filo di ferro, indi, dopo essere stati depredati, vennero uccisi e bruciati. Stessa sorte ebbe il terzo gruppo, condotto in località Bosco di Segusino.
L’eccidio del 2° R.A.U.
Gli uomini del 2° R.A.U. ( Reparti Arditi Ufficiali) appartenente al R.A.P (Raggruppamento Anti Partigiano), che operava in Piemonte, si arresero ai partigiani il 27 aprile a Cigliano, a nord di Torino, essendo stato promesso il trattamento dovuto ai prigionieri di guerra e l’onore delle armi. Ma il 29 vengono divisi in due gruppi: nel primo vengono inclusi quasi tutti gli ufficiali, le ausiliarie e due signore mogli di ufficiali, nel secondo gli altri. Il primo gruppo viene condotto a Graglia fra inauditi maltrattamenti, senza cibo ne acqua per tre giorni. Fu negata l’acqua anche alla signora Della Nave, incinta. Il 2 di Maggio 1945 furono divisi in tre gruppi: il primo fu condotto al ruscello che divide il comune di Graglia da quello di Netro, il secondo in località Paiette e il terzo alla Cascina Quara presso il Santuario. E furono tutti trucidati. Oggi tutte le salme riposano in una tomba-ossario nel cimitero di Graglia dove una lapide bronzea recante il gladio della R.S.I. che ne ricorda il sacrificio.
L’eccidio dei fratelli Govoni
Alle ore 23 dell’11 Maggio 1945 ad Argelato (Bologna), frazione Casadio, podere Grazia, assieme al altri dieci fascisti prelevati a San Giorgio in Piano, partigiani emiliani trucidavano i sette fratelli Govoni : Dino, Emo, Augusto, Marino, Giuseppe, Primo e Ida, di appena venti anni.
Gli uccisi del XIV Btg Costiero da Fortezza
Il 5 Maggio 1945, a guerra ormai conclusa, 20 militi del battaglione, che aveva valorosamente combattuto a difesa dei confini orientali, si consegnarono ai partigiani, fidando nelle leggi internazionali che tutelano i prigionieri di guerra. Ma i partigiani, totalmente irrispettosi di ogni legge, li condussero, dopo molte marce, a Sella Doll di Montesanto e qui, fattili inginocchiare sul bordo di una trincea della prima guerra mondiale, barbaramente li uccisero con un colpo alla nuca.
La strage di Codevigo (Padova)
Qui nei primi giorni del Maggio 1945 (fra il 3 e il 13) furono seviziate e uccise oltre 365 persone fra cui 17 fascisti (uomini e donne) dello stesso Codevigo (12 maggio). I militari, appartenenti a formazioni R.S.I. della provincia di Ravenna, erano stati catturati negli ultimi giorni di aprile e chiusi in carcere. Ma i partigiani romagnoli di Arrigo Boldrini li prelevarono dicendo che li avrebbero condotti a Ravenna. Li condussero, invece, a Codevigo e qui, dopo averli seviziati, li condussero al ponte sul fiume Brenta e li uccisero a due a due, gettandoli poi nel fiume. Molte salme furono trascinate via dalla corrente. Altre, gettate nei cimiteri dei dintorni. 
I trucidati a Ponte di Greggio (VC)
I fatti avvennero nei primi giorni del Maggio 1945.
I massacri di Sondrio
A fine guerra (Aprile-Maggio 1945) l’attuale Palazzo di Giustizia di Sondrio era una prigione piena di fascisti. Ogni giorno i partigiani ne prelevavano una trentina e li fucilavano.
I massacri dei bersaglieri del "Mussolini"
Come è noto il Btg di bersaglieri volontari "Mussolini" fronteggiò gli slavi del X° Corpus sul fronte orientale fin dal 10/12 ottobre 1943. Il 30 Aprile 1945, dopo la morte di Mussolini e la resa delle truppe italo-tedesche, anche gli uomini del "Mussolini" decisero di arrendersi ai partigiani di Tito, alle condizioni stabilite che prevedevano l’immediato rilascio dei soldati e la trattenuta dei soli ufficiali per accertare eventuali responsabilità. Ma i "titini" si guardarono bene dal rispettare le condizioni concordate e, invece di lasciare liberi i soldati, condussero tutti a Tolmino e li rinchiusero in una caserma. Da qui qualcuno fortunatamente riuscì a fuggire, ma, dopo alcuni giorni, 12 ufficiali e novanta volontari furono prelevati, condotti sul greto dell’Isonzo e, qui, trucidati. Dopo altri giorni altri dodici furono prelevati, condotti a Fiume e uccisi. E ancora il 18 maggio dall’Ospedale Militare di Gorizia furono prelevati 50 degenti e uccisi. Dieci erano bersaglieri. Intanto i sopravvissuti avevano iniziato una marcia allucinante, senza cibo né acqua, picchiati e seviziati, e altri furono uccisi durante la marcia. Finalmente giunsero al tristemente famoso campo di prigionia di Borovnica ove fame, epidemie, sevizie e torture inumane seminano morte fra gli odiatissimi bersaglieri. Alla chiusura di quel campo, nel 1946, i sopravvissuti furono internati in altri campi ove le condizioni non migliorarono assolutamente. Alla fine, il 26 giugno 1947, soltanto 150 bersaglieri, ridotti in condizioni inumane, poterono tornare in Italia. Dei quasi quattrocento caduti del battaglione, ben 220 furono quelli uccisi dopo il 30 aprile 1945.
La strage delle ausiliarie
Negli ultimi giorni dell’ Aprile e nei primi di Maggio 1945 l’odio bestiale dei partigiani si scatenò con particolare accanimento contro le donne che avevano prestato servizio in qualità di ausiliarie nell’esercito della R.S.I. Esse subirono torture, pestaggi, sovente stupri ripetuti, e si tentò di umiliarle in ogni modo, spesso denudandole ed esponendole così al ludibrio di folle imbestialite.
L’elenco delle ausiliarie cadute che compare in un’opera di Pisanò è di 200 nominativi, ma si avverte che tale elenco non è completo proprio perché non è mai stato possibile fare luce completa sulla quantità di crimini commessi dai partigiani in quella primavera di sangue a danno di queste giovani donne coraggiose e fedeli fino alla fine.
L’olocausto della "Monterosa"
Tra il 24 e il 25 Aprile tutte le truppe schierate sul fronte alpino occidentale ricevettero l’ordine di ripiegare sul fondovalle. Così anche gli uomini della Divisione Alpina "Monterosa" iniziarono il ripiegamento. E, a cominciare dal 26 aprile, molti reparti, ad evitare spargimenti di sangue ormai inutili, si arresero al C.L.N. della zona avendo formali promesse di trattamento conforme alle leggi internazionali. Purtroppo tali leggi non furono rispettate e anche qui, come altrove, decine e decine di uomini ormai disarmati, furono trucidati con bestiale ferocia. Non è possibile ricostruire tutti i fatti, molti dei quali, probabilmente, non sono mai stati resi noti. E’ molto noto, invece, il caso degli uomini del Btg "Bassano" che si erano arresi il 26 aprile al C.L.N. di Saluzzo. Come al solito essi avevano avuto ampie garanzie di salvaguardia della loro incolumità. Ma, ancora come il solito, tali promesse non erano state rispettate. E l’Avv. Andrea Mitolo di Bolzano, già ufficiale del "Bassano", con una circostanziata denuncia alla Procura della Repubblica di Saluzzo, descrive la fine di ventidue uomini, ufficiali e soldati, trucidati dai partigiani di "Gianaldo" (Italo Berardengo) dopo che si erano arresi ed erano stati disarmati.
Né, parlando della Monterosa, possiamo non ricordare l’infame attentato alla tradotta che trasportava sul fronte occidentale gli uomini della "Monterosa" che erano stati ritirati dal fronte della Garfagnana. Tra Villafranca e Villanova d’Asti fu minata la linea ferroviaria e l’esplosione, provocata al passaggio della tradotta, travolse due vagoni e uccise 27 alpini ferendone altri 21 anche in modo molto grave. Malgrado l’odiosità del vile attentato non fu attuata alcuna rappresaglia.
I trucidati della Divisione "Littorio"
Negli ultimi giorni di Aprile anche i reparti della "Littorio" che, come è noto, difendevano i confini occidentali, iniziarono il ripiegamento verso il fondo valle. Anche qui, come altrove, i reparti che rimasero in armi fino all’arrivo degli anglo-americani, si consegnarono a questi e furono avviati ai campi di concentramento.
Quelli, invece, come il III Btg del 3° Rgt granatieri, si consegnarono ai partigiani, ebbero sorte diversa. Era stato raggiunto un accordo coi partigiani del capitano Aldo Quaranta per un indisturbato deflusso di tutti i reparti e il III Btg, giunto il 27 aprile a Borgo San Dalmazzo, si arrese al capo del CLN del luogo, tale Oratino. L’accordo era che i militari sarebbero stati messi gradualmente in libertà forniti di lasciapassare. Fra gli uomini del Btg e i partigiani non c’erano mai stati scontri o altri incidenti, per cui il patto fu accettato dagli uomini della "Littorio" fidando nella parola dell’Oratino. Ma anche questa volta gli uomini del CLN e i partigiani non tennero fede alla parola data e il Maggiore Grisi, comandante del III Btg, il maggiore Montecchi, il Ten. Buccianti, il Cap. Calabrò, i Marescialli Sanvitale e Magni, il Caporal Maggiore Sciaratta ed altri furono uccisi alcuni dopo un processo sommario, altri senza processo e, soprattutto, senza che fossero loro contestate reali colpe.
I morti della Divisione "San Marco"
Negli ultimi giorni di Aprile, a guerra conclusa, molti uomini della Divisione "San Marco" furono uccisi dai partigiani. Giorgio Pisanò, nella sua "Storia delle Forze Armate della R.S.I." ne elenca alcune centinaia fra cui circa 300 ignoti ancora in divisa ma privi di ogni segno di riconoscimento, trucidati a Colle di Cadibona, Monte Manfrei, Passo del Cavallo, Santa Eufemia e in altri luoghi.
Il Deposito Divisionale, ritiratosi a Lumezzane V.T., qui il 27 aprile accettò la resa con l’onore delle armi e un promesso salvacondotto per tutti. Ma una volta deposte le armi i partigiani condussero gli ufficiali a Gardone e, dopo due giorni, li trucidarono a S.Eufemia della Fonte (BS). Fra di essi il Comandante del Deposito Ten. Col. Zingarelli, la cui salma fu ritrovata con le altre orrendamente mutilate. 
I trucidati della 29° Divisione SS italiane
I reparti più atti al combattimento di questa divisione ( Btg "Debica" e Gruppo di combattimento "Binz") si arresero agli americani nei giorni 29 e 30 aprile. Il resto della divisione, invece, ( Btg Pionieri e Btg dislocati a Mariano Comense e a Cantù) dopo una strenua resistenza condotta fino all’esaurimento delle munizioni, fu catturato dai partigiani. Gli ufficiali furono tutti trucidati. Il Ten. Luigi Ippoliti, ferito, fu prelevato in ospedale il 5 maggio 1945, condotto presso il cimitero di Meda e qui massacrato legato alla barella.
I caduti del 3° Rgt Bersaglieri volontari
Il I Btg era schierato a Genova e a levante di Genova. I reparti che erano a levante di Genova si sacrificarono quasi interamente per contrastare l’avanzata del negri della 92^ Div. "Buffalo". I reparti che si trovavano in città furono attaccati dai partigiani e si difesero fino all’ultima cartuccia. Essendo ormai disarmati, furono catturati e, immediatamente, quasi tutti uccisi. Il II Btg si trovava, invece, in Liguria in difesa del confine occidentale. Quando giunse l’ordine di ripiegamento, risalì insieme alla 34^ Div. Tedesca fino a Quagliuzzo in Piemonte e qui, il 3 maggio, si arrese al CNL locale previo rilascio di un lasciapassare per tutti gli uomini. Malgrado il lasciapassare, però, il Cap. Francoletti e il Ten. Casolini furono condotti sul greto della Dora e qui massacrati. I corpi non furono mai ritrovati. Questo Btg ebbe anche due giovani mascotte, di quattordici e 12 anni, assassinate dai partigiani.
I caduti dei Guastatori del Genio II Btg
Anche questo reparto (che aveva poi assunto il nome di II Btg Pionieri "Nettuno") ebbe i suoi caduti dopo la cessazione delle ostilità. Nei giorni successivi al 25 aprile 1945 il Btg fu sciolto a Somma Lombardo (Varese). La popolazione del luogo si adoperò in ogni modo per salvare gli uomini del Btg, favorendo il rientro nelle loro famiglie. Malgrado il generoso intervento, i partigiani catturarono il Capitano Dino Borsani e, dopo due settimane di torture, lo trucidarono insieme a tre militari sulle rive del Ticino. Era il 10 maggio 1945.
Gli uccisi del Btg Volontari Mutilati "Onore e Sacrificio"
Anche questo Battaglione che la Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra aveva voluto costituire (come già accadde durante la campagna etiopica del 1936) ebbe trucidati molti dei suoi appartenenti. Il Btg era stato costituito a Milano e qui era sempre rimasto, a svolgere compiti territoriali. Dopo la resa anche su questi mutilati infierì la ferocia partigiana e, allorché ebbero deposto le armi, molti furono gli assassinati
L’eccidio di Ozegna
Pur non essendo accaduto dopo il termine della guerra, si ritiene opportuno narrare qui anche questo fatto, per la vigliaccheria con cui venne consumato l’agguato. L’8 di luglio del 1944 un reparto motorizzato del Btg "Barbarigo" della X^ MAS, che dalla metà di giugno si trovava in Piemonte, al ritorno da una missione fece sosta nella piazza di Ozegna. Lo comandava il Capitano di Corvetta Umberto Bardelli, comandante del Battaglione. Sulla stessa piazza si trovavano alcuni partigiani coi quali Bardelli avviò una pacata discussione invitandoli a non combattere contro altri italiani per conto dello straniero invasore. La conversazione fu pacata e i partigiani ammisero che occorreva fare fronte comune contro gli stranieri. Ma l’atteggiamento remissivo e non ostile nascondeva l’agguato. Infatti, mentre essi parlavano in quel modo con Bardelli, un centinaio di partigiani si ammassarono nelle vie che sboccavano nella piazza e, non appena i parlamentari partigiani si allontanarono, un inferno di fuoco si scatenò sugli uomini del "Barbarigo". Bardelli tentò di organizzare la resistenza, gridando: - Barbarigo non si arrende - , ma cadde quasi subito sotto il fuoco delle armi partigiane della banda di Piero Urati (detto Piero Pieri) insieme a dodici marò. I sopravvissuti, molti dei quali erano feriti, dovettero arrendersi.
Il massacro del Distaccamento "Torino" della X^
Il 26 aprile 1945 le forze del Presidio militare di Torino lasciarono la città agli ordini del comandante regionale militare Gen. Adami-Rossi. Ma il distaccamento "Torino" della Decima Flottiglia MAS non le seguì e si chiuse nella caserma Montegrappa preparandosi ad una resistenza ad oltranza. Disponeva anche di qualche carro armato. La resistenza durò tre giorni ma alla fine, esaurito il carburante per i carri e scarseggiando le munizioni, il 30 aprile cessò. Qualcuno riuscì a mettersi in salvo attraverso certi cunicoli sotterranei, ma sui rimasti si abbatté la ferocia partigiana. Circa 70 uomini furono fucilati nel cortile della caserma, altri furono massacrati dalle varie formazioni partigiane che avevano partecipato all’assalto e alla cattura di prigionieri. Alla fine, dopo che avevano dovuto assistere al martirio dei camerati, vennero fucilate anche tutte le ausiliarie del reparto.
Il sacrificio della Compagnia "Adriatica" della X^ MAS
All’atto dell’abbandono di Ravenna il Ten. Di Vasc. Giannelli costituì, coi marinai presenti, una compagnia di fucilieri. Era il 1° dicembre 1944. Spostatasi a Chioggia, la compagnia si aggregò alla X^ e, nel gennaio 1945, partì per Fiume e, da qui, si portò sull’isola di Cherso. Qui, nel maggio 1945, la compagnia si sacrificò pressoché per intero per la difesa dell’isola.
Il sacrificio della Compagnia "D’Annunzio" della X^ MAS
Costituitasi a Fiume nel maggio 1944, fu l’estremo avamposto della Decima sui confini orientali. Posta alla difesa di Fiume, costituì anche tre distaccamenti: Laurana, Lussimpiccolo e Lussingrande. Il 25 aprile 1945 Laurana venne attaccata dai "titini" e i 130 marinai si difesero strenuamente fino all’arrivo dei soccorsi. Ma ben 90 caddero nello scontro. Gli altri due distaccamenti si difesero eroicamente fino alla totale distruzione. Fiume si difese con uguale valore fino al 1° maggio, nella vana attesa di uno sbarco anglo-americano. E il 2 maggio i superstiti furono catturati dagli iugoslavi. Ben pochi rientrarono dalla prigionia nel 1947.
Il sacrificio della Compagnia "Sauro" della X^ MAS
Costituita a Pola nel settembre 1943 con gli uomini del deposito del Reggimento San Marco rimasti, dopo la visita di Borghese passò alle dipendenze della X^. A fine aprile e fino al 3 maggio combatté strenuamente fino all’ultimo per la difesa della città. Pochi sopravvissero e furono catturati dagli slavi.
I trucidati della base operativa "Est" della X^
La Base "Est" aveva sede a Brioni Maggiore ma, a fine aprile, col precipitare degli eventi, si concentrò presso il Comando di Marina-Pola. Dopo aver partecipato alla difesa della città, quando essa cadde il personale fu catturato dagli slavi. Solo quattro marinai furono risparmiati. Ufficiali, sottufficiali e 50 fra gradutai e marinai furono trucidati a Portorose, a Brioni e a Pola.
Il sacrificio della Scuola Sommozzatori della X^
Questa scuola, costituita a Portofino nel gennaio 1944, nell’estate fu trasferita in Istria, sul confine orientale, a Portorose. Una parte del personale, catturata negli ultimi giorni di aprile, fu subito passata per le armi. Altri, caduti prigionieri a Pola ove si erano concentrati, finirono nei terribili campi di concentramento iugoslavi. Pochi i sopravvissuti.
I morti del Btg. "Sagittario" della X^
Il 30 aprile 1945 il Btg., insieme ad altri reparti del II° Gruppo di Combattimento, raggiunse Marostica e qui, secondo gli ordini, si dette in prigionia agli americani. Ma, dopo la resa, il Comandante Ten.Vasc.F.M. Ugo Franchi e numerosi marinai, furono prelevati e assassinati dai partigiani.
L’assassinio del Maggiore Adriano Visconti
Il 29 aprile 1945 a Gallarate il Primo Gruppo Caccia dell’Aeronautica Repubblicana si arrendeva al CLN del luogo previo accordo che garantiva a tutti l’incolumità. Gli ufficiali vennero condotti a Milano nella Caserma del "Savoia Cavalleria" in Via Vincenzo Monti. Qui, contrariamente agli accordi, gli ufficiali, cui era stato concesso di tenere le proprie armi, vennero disarmati. E mentre attraversavano il cortile della caserma, il Maggiore Adriano Visconti, comandante del Gruppo e il S.Ten. Valerio Stefanini, Aiutante Maggiore, vennero vilmente assassinati con raffiche di mitragliatore sparati alle spalle. Furono sepolti nel cortile stesso della caserma.
I massacrati del Btg. "Folgore"
Il 29 aprile 1945 il Btg. "Folgore" del Rgt "Folgore" si stava dirigendo verso Venaria Reale. Contemporaneamente una pattuglia su un autocarro si diresse a Torino per ritirare alcuni autocarri presso il deposito reggimentale e per recuperare i feriti del Btg presso l’O.M. Ma a Porta Susa un blocco partigiano impedì la realizzazione del progetto. Allora il sottufficiale capo-pattuglia parlamentò coi partigiani ed ebbe l’assicurazione che i feriti sarebbero stati rispettati. 
Purtroppo, invece, tutti i feriti furono massacrati. Il 1° maggio il Btg., giunto a Strambino il giorno prima, si sciolse, e il Capitano Fredda sciolse gli uomini da ogni obbligo. Ma quasi nessuno abbandonò il reparto che il 5 maggio, ad Ivrea, si consegnò in prigionia di guerra agli americani ricevendo l’onore delle armi. L’ausiliaria Portesan e il sergente maggiore Ciardella furono i soli a lasciare il Btg il 2 maggio, ma, appena fuori dalla zona presidiata, furono trucidati dai partigiani.
Le stragi di Genova
Fra il 26 e il 27 aprile 1945 cessava la resistenza dei presidi della GNR rimasti in città. Con l’assunzione del potere da parte del CLN iniziarono i massacri che coinvolsero anche gran parte dei familiari dei militi. Massacri che continuarono anche dopo l’arrivo a Genova della 92^ Div. "Buffalo" americana.
Le stragi di Imperia
I partigiani entrarono in Imperia il 25 aprile 1945. Fu subito costituita una "commissione di giustizia" che arrestò 500 fascisti o presunti tali. Si disse che era per salvaguardarne la vita. Ma il 4 maggio una quarantina di loro fu seviziata e uccisa. E anche nella provincia avvennero massacri spaventosi.
Le stragi di Milano
Il 608° Comando Provinciale GNR, fedele alle consegne, non si sbandò il 25 aprile 1945 e, chiusisi i vari distaccamenti nelle caserme, resisté fino all’ultima cartuccia. Dopo di che, malgrado le promesse di rispetto della vita, ci furono i massacri, compiuti prevalentemente dai partigiani dell’Oltrepo pavese. Interi plotoni vennero passati per le armi. E le uccisioni continuarono anche quando i pochi superstiti ritornarono alle loro case dai campi di concentramento.
Le stragi di Varese
Anche qui le forze del 609° Com. Prov. GNR rimaste sul posto, dopo essere state sopraffatte il 26 aprile 1945, subirono le atroci vendette dei partigiani che, dopo aver subito fucilato il Cap. Osvaldo Pieroni con alcuni altri, continuarono fino a tutto maggio le esecuzioni sommarie, abbandonando insepolti i cadaveri, spesso rimasti senza nome.
Le stragi di Como
Nella notte del 27 aprile 1945 il Colonnello Vanini aveva ordinato la resa e lo scioglimento del 610° Com. Prov. GNR. Ciò fu fatto, come dagli altri reparti della R.S.I., per evitare il bombardamento della città che sarebbe stato richiesto dai partigiani. Subito dopo cominciarono, anche qui, le sevizie e le uccisioni di numerosissimi militari, che continuarono per quasi tutto maggio.
Le stragi di Sondrio
Il 611° Com. Prov. GNR si arrese ai partigiani il 28 aprile 1945 dietro promesse di trattamento civile e conforme alle convenzioni internazionali. Ma ai primi di maggio ebbero inizio le uccisioni di massa. Fra gli uccisi anche due Capitani medici. Il S.Ten. Paganella fu gettato da un campanile. Molti uccisi ebbe anche il I Btg Milizia Francese, dipendente dallo stesso Comando. 
Le stragi di Brescia
Gli uomini del 613° Com. Prov. GNR si arresero fra il 28 e il 30 aprile 1945. Subito ci furono sevizie e uccisioni compiute dai partigiani. Il maggiore Spadini subì un vergognoso processo e fu condannato a morte e fucilato il 13.2.1946. 
Le stragi di Pavia
Le forze del 616° Com. Prov. GNR furono particolarmente pressate dalle ingenti bande partigiane della zona. Il 25 aprile 1945 il presidio di Strabella visse un episodio eroico. Per consentire al grosso delle truppe di ritirarsi verso nord, dodici giovanissimi volontari si assunsero il compito di impegnare le forze partigiane. I dodici giovani, poi ridotti a sei, si difesero disperatamente per tutto il giorno e tutta la notte. Poi accettarono la resa con l’onore delle armi. Ma poco dopo, furiosi per essere stati tenuti in scacco da sei ragazzi, i partigiani li prelevarono (ad eccezione di uno che riuscì a fuggire) e li fucilarono insieme ad altre 14 persone. La stessa sorte fu riservata a molti militi degli altri presidi.
Le stragi di Vicenza
Gli uomini del 619° Com.Prov. GNR, all’atto dello sfondamento del fronte nell’aprile 1945 si ritirarono verso le montagne. Ma qui dovettero arrendersi ai partigiani. Vari distaccamenti, però, si difesero strenuamente finché vennero sopraffatti e massacrati con inaudita ferocia. 
Le stragi di Treviso
Anche in questa provincia gli uomini del 620° Com. Prov. GNR, dopo la resa avvenuta fra il 27 e il 30 aprile 1945, subirono la feroce vendetta partigiana. A Revine Lago, a Oderzo, a Susegana furono soppressi centinaia di uomini. Quelli del presidio di Fregona, arresisi il 27 aprile, furono portati a Piano del Cansiglio e infoibati.
Le stragi di Padova
Il 623° Com. Prov. GNR cessò di esistere il 28 aprile 1945. In tutta la provincia infierirono gli uomini della brigata garibaldina di "Bulow" (Boldrini) che commisero innumerevoli eccidi.
Le stragi di Bologna
Il 629° Com. Prov. GNR partecipò, il 21 aprile 1945, alla difesa di Bologna, poi si ritirò verso il Po e qui si sciolse. I suoi uomini furono braccati e moltissimi furono gli assassinati e lasciati senza sepoltura.
Le stragi di Parma
Il 631° Com. Prov: GNR partecipò alla difesa della città il 23 aprile 1945, poi una colonna si ritirò fino a Casalpusterlengo ove si sciolse. Ma i presidi di Colorno e di Salsomaggiore furono massacrati al completo.
Le stragi di Modena
Il 633° Com.Prov.GNR nell’aprile 1945 si ritirò ordinatamente fino quasi a Como dove si sciolse. Ma nella provincia di Modena le uccisioni indiscriminate di fascisti continuarono fino al 1946.
Le stragi di Forlì
Gli uomini del 636° Com. Prov. GNR ripiegati al nord, confluirono nel Btg. "Romagna" che fu inviato nel Veneto. Qui, negli ultimi giorni di aprile 1945 avvenne la resa e, dopo la resa, il pressoché totale annientamento ad opera dei partigiani.
Le stragi del 3° Rgt M.D.T. "D’Annunzio"
Il 3° Reggimento "Gabriele D’Annunzio", che era di stanza a Fiume, negli ultimi giorni di aprile 1945 tentò il ripiegamento verso Trieste e Gorizia. I suoi uomini, costretti ad arrendersi agli slavi il 3 maggio subirono orrende sevizie, numerose uccisioni, e anche infoibamenti.
Gli uccisi del Btg "Montebello"
Una parte del Comando e la 4^ Cmp di questo Btg il 23 aprile 1945 erano rimasti a Cossato. Qui dovettero arrendersi ai partigiani che garantirono l’onore delle armi e la vita salva agli uomini. Ma, come al solito, appena deposte le armi, iniziarono le sevizie e le uccisioni. Il giorno 30 aprile a Sordevolo un primo gruppo di uomini, compreso il Cappellano militare Cap. Don Leandro Sangiorgi, furono uccisi. Un altro gruppo fu ucciso il 1° maggio a Coggiola. Altri, condotti nel famigerato campo sportivo di Novara, finirono poi massacrati nell’Ospedale Psichiatrico di Vercelli.
Il sacrificio del Btg "9 settembre"
Arresosi il 27 aprile 1945, ebbe garanzie di rispetto della vita degli uomini. Invece dal 1° maggio bande partigiane prelevavano gruppi di prigionieri e, condottili in montagna ove li tenevano anche tre giorni senza cibo, li seviziavano e li uccidevano. Si erano arresi in 190. Ne sopravvissero una diecina.
Il tributo di sangue delle Brigate Nere
La XI Brigata Nera "Cesare Rodini" di Como si arrese il 28 aprile 1945 e gli squadristi furono avviati a Coltano. Ma al presidio di Cremia, della Cmp "Menaggio", toccò una sorte tragica. Il 25 aprile un giovanissimo squadrista, Gianni Tomaini classe 1930, portò anche a questo presidio l’ordine di rientrare a Menaggio. Ma il comandante del presidio stava già trattando la resa coi partigiani, che promettevano salva la vita. Ma appena consegnate le armi tutti gli squadristi furono portati a Dongo, sottoposti ad inaudite sevizie e trucidati tutti, compreso il giovane Tomaini.
E questo non fu l’unico episodio di piccoli presidi delle B.N. massacrati in quel modo. Le B.N., infatti, pagarono un alto tributo di sangue in quelle tragiche giornate.
La strage della cartiera Burgo di Mignagola
I partigiani, dopo la resa dei combattenti della RSI, organizzarono veri e propri campi di sterminio, dove in brevissimo tempo procedevano, dopo nefande sevizie, a barbare uccisioni, che eufemisticamente chiamavano "epurazioni". Alla cartiera "Burgo" di Mignagola, frazione di Carbonera (TV), nei pressi di Breda di Piave, furono sterminate 400 o forse anche 1000 persone. Tra i trucidati il giovane ufficiale Gino Lorenzi, crocifisso; era un sottotenente della GNR appena uscito dalla scuola A.U. 
Lo inchiodarono con grossi chiodi ai polsi e alle caviglie su di una rozza croce costituita da due tronchi d’albero e fu lasciato morire lentamente fra tormenti atroci, finché le volpi lo finirono.
Ma non fu l’unica crocifissione; si ha notizia anche della barbara e feroce tortura inflitta ancora ad un giovane sottotenente della GNR appena uscito dalla scuola A.U. : Walter Tavani crocifisso a un portone a Cavazze (MO). E ancora altri Martiri crocifissi ai portoni delle stalle scelti tra gli oltre settanta assassinati nell’Argentano dopo sevizie atroci: aver avuto mozzate le mani, strappati gli occhi, inchiodata la lingua, strappate le unghie,amputati i genitali. 
Eccidio del carcere giudiziario di Ferrara
L’otto giugno 1945 una squadra di partigiani, che esibivano sul taschino del giubbotto un grosso distintivo con la falce e martello, si fecero aprire con uno stratagemma, la porta del carcere "Piangipane" , di Ferrara, tre di essi, armati di mitra, dopo aver fatto evadere i partigiani detenuti per reati comuni, penetrarono nell’ala dove erano rinchiusi i detenuti politici, e, fattesi aprire le celle dal capo guardia, ingiunsero ai reclusi di ammassarsi in fondo al corridoio e li massacrarono a ripetute raffiche di mitra sparate ad altezza d’uomo. Non soddisfatti, continuarono a sparare nel mucchio dei corpi ammucchiati per terra in una pozza di sangue, prima di fuggire nel cortile, dove uccisero anche il capo guardia.
In successive e tardive indagini furono identificati i tre sicari, ma , giudicati dalla Corte di Appello di Ancona, questa ritenne estinti i reati per amnistia, quasi che l’eccidio fosse stato "commesso nella lotta contro il fascismo".
Il rogo di Francavilla Fontana (Brindisi)
L’otto maggio 1945 una piccola folla di facinorosi sobillati da comunisti, prelevò i fratelli Chionna dalla loro abitazione, che venne depredata di ogni bene asportabile e quindi devastata, soltanto perché colpevoli di aver conservato sentimenti fascisti. I due vennero sospinti con feroci sevizie fino alla piazza principale della cittadina, dove era stata allestita una pira a cui fu dato fuoco. Il linciaggio si concluse con il rogo dei due fascisti gettati tra le fiamme ancora vivi.
Nefandezze nel modenese
A Medolla (MO) il grande invalido di guerra Weiner Marchi, costretto in una carrozzella, il 29 aprile, venne seviziato vigliaccamente e poi, ferito e sanguinante, fu gettato, ancora vivo, in pasto alle scrofe affamate in un recinto.
A Modena il 27 aprile Rosalia Bertacchi Paltrinieri, segretaria del Fascio femminile e la fascista Jolanda Pignati furono violentate di fronte ai rispettivi mariti e figli, quindi, trascinate vicino al cimitero, furono sepolte vive. 
Assassinio della levatrice di Trausella (TO)
A Trausella (TO), la levatrice di quel comune fu prelevata, "con audace azione di guerra", mentre si recava ad assistere una partoriente, trascinata presso il comando di una "valorosa e intrepida" formazione partigiana, fu violentata da un numero imprecisato di eroici "combattenti per la libertà", che poi la trucidarono, assassinandola tra tormenti atroci avendole tamponato i genitali con ovatta impregnata di benzina, a cui appiccarono il fuoco, rinnovando l’orrenda combustione con altri tamponi infiammati fino al purtroppo stentato sopraggiungere della liberazione con la morte.
L’eccidio di Volto di Rosolina (Rovigo)
Nei giorni immediatamente successivi al 25 aprile 1945 le truppe italo-tedesche abbandonarono la zona di Rosolina. In località Volto operava una batteria antiaerea della X Flottiglia Mas. Il 26 aprile i marò della Decima fanno saltare le munizioni e i cannoni e cercano di mettersi in salvo vestendosi in borghese. Ma nella notte fra il 26 e il 27 vengono raggiunti dai partigiani e uccisi senza pietà con raffiche di mitra. L’allora parroco Don Mario Busetto ha lasciato una testimonianza dalla quale si ricava che in data 30 aprile furono scoperti sotto la sabbia 9 cadaveri. Il 15 giugno 1946, poi, vennero scoperti e sepolti altri 5 cadaveri. Insieme ai 14 marò furono uccise anche due giovani sorelle che prestavano servizio alla batteria in qualità di ausiliarie: Adelasia Zampollo di anni 17, nata a Chioggia e residente a Genova e la sorella Amorina di 24 anni, che aveva un figlio piccolo.
Le stragi di Omegna
Nella notte fra il 25 e il 26 gennaio del 1945 una squadra di partigiani penetrò con l’inganno nella casa di Raffaele Triboli e lo prelevò insieme alla moglie Clorinda Benassai e alla figlia di 21 anni Gianna. La casa fu rapinata di tutto quanto poteva valere qualcosa. Restavano soli in casa nel terrore i figli Francesca di 14 anni, Antonietta di 13 e Raffaele di 9. I tre prelevati furono torturati, le donne violentate e, infine, gettati, pare ancora vivi, nel lago d’Orta, chiusi dentro un telo di paracadute. Né, questo, fu l’unico massacro compiuto dai partigiani nella zona del lago d’Orta.
La strage dei ragazzini di Mario Onesti
Il 25 aprile 1945 un reparto di giovanissimi militi della contraerea della Malpensa, guidato dal sergente Mario Onesti si dirigeva verso Oleggio. Intercettati dai partigiani della brigata di Moscatelli, si difendono come possono. Alla fine il cappellano partigiano, Don Enrico Nobile, invita i militi ad arrendersi. Avranno salva la vita e un salvacondotto per tornarsene a casa. Il sergente interpella i suoi giovanissimi militi, poco più che adolescenti, e decide di accettare. Qualcuno non si fida e riesce a fuggire, ma undici, col loro sergente, si consegnano e, alle 18,30, si redige un verbale dell’accordo. Ma i partigiani non hanno nessuna intenzione di rispettare il patto e il giorno dopo, 26 aprile, i ragazzi vengono trattenuiti prigionieri nelle segrete del castello di di Samarate, dove vengono sottoposti a indicibili torture. E il giorno dopo ancora, 27 aprile, alle 8 di mattina vengono caricati su un camion e portati sul luogo del supplizio. Il prete che avrebbe dovuto essere garante dell’accordo è impotente e può solo impartire una frettolosa benedizione. Poi la fucilazione. Tutti offrono il petto ai fucilatori. Si ode qualche grido di "Viva l’Italia". Non sazi gli aguzzini infieriscono sui corpi degli uccisi, anche ficcando ombrelli negli occhi dei morti.
La strage della famiglia di Carlo Pallotti
Il 9 gennaio 1945 alcuni partigiani penetrarono in una casa colonica nella campagna modenese dove si era rifugiato il veterinario Carlo Pallotti, fascista, insieme alla famiglia e massacrarono l’intera famiglia : il Pallotti, la moglie Maria Bertoncelli e i giovanissimi figli Luciano e Maria Luisa. Responsabili furono ritenuti i partigiani modenesi Michele Reggianini e Giuseppe Costanzini che, però, non subirono alcuna condanna per questo crimine in quanto il massacro fu ritenuto, dalla magistratura della nuova Italia democratica, una legittima azione di guerra.
Le condanne a morte richieste dal P.M. Oscar Luigi Scalfaro
(Pare opportuno inserire anche queste morti fra le stragi di quel periodo)
Il Giornale del 9/3/1995, con un articolo a firma P.Pisanò, informa:
"Sono 8, le condanne a morte di fascisti, chieste e ottenute dal P.M. O.L.Scalfaro, alla Corte assise di Novara, dopo il 25/4/1945.La biografia ufficiale, parla di un solo imputato, per il quale la condanna a morte era inevitabile; ma tale imputato..venne poi graziato...La realtà è un po’ diversa. 1943: Il futuro presidente della Repubblica entra in magistratura.1°maggio 1945: O.L.Scalfaro assume volontariamente la carica di vicepresidente del tribunale di Novara. 13 giugno 1945: Sostituiti i tribunali del popolo con le CAS (Corte Assise straordinarie), O.L.Scalfaro sostiene la pubblica accusa contro Enrico Vezzalini, soldato valoroso pluridecorato. 15 e 28/6/1945: L’Ufficio del PM ottiene la condanna a morte di Enrico Vezzalini, Arturo Missiato, Domenico Ricci, Salvatore Santoro, Giovanni Zeno e Raffaele Infante.Condanne eseguite all’alba del 23 sett.1945 (ndr: al poligono di tiro di Novara). 16 luglio 1945: Il PM chiede ed ottiene la condanna a morte di Giovanni Pompa, 42 anni, della GNR. Sentenza eseguita il 21/10/1945. 12 dic.1945: il PM chiede ed ottiene la condanna a morte di Salvatore Zurlo. Da "Il Corriere di Novara" del 19 dic.1945: "Il PM Scalfaro parla con vigoria ed efficacia che lo fanno ascoltare senza impazienza dal pubblico....Il Pm, dopo la chiarissima requisitoria conclude domandando la pena di morte per lo Zurlo..."Lo Zurlo, nel 1946, in processo d’appello,ebbe la sentenza annullata. Otto condanne a morte ottenute, sette eseguite. O.L.Scalfaro, brillante inquisitore da tribunale del popolo, si è ormai messo in luce per tentare le vie della politica, candidandosi all’ Assemblea Costituente e, pur senza abbandonare la magistratura e relative prebende, avviarsi verso la gloria di Roma". 
Questo articolo è rimasto, all’epoca, senza reazioni di sorta dell’interessato: tutto vero, dunque. Ma giornalisti de "L’Ultima Crociata", andati a Novara per rivedere le carte di quei processi, non trovarono un bel nulla.
 
Fonte art
http://www.italia-rsi.org/