martedì 3 giugno 2014

Fini schiera le truppe per rifondare la destra: quattro amici al bar



Il patetico tentativo dell'ex presidente della Camera di tornare in politica: "Sto ragionando con me stesso e con alcuni conoscenti. Da me un contributo culturale"
Per due giorni, quarantotto lunghissime ore, s'è attesa una smentita, una precisazione, un moto di rabbia, un segno di vita.

S'era certi che Gianfranco Fini se la prendesse ancora una volta con il Giornale, additandoci come ai vecchi tempi. E chiarisse che la frase sul suo ritorno in campo, sfuggitagli durante un convegno su due «mostri sacri» della storia del Msi, Pinuccio Tatarella e Domenico Mennitti, fosse dovuta all'impeto oratorio, alla commozione del ricordo, alla nostalgia del passato che non torna. Se non con i contorni della farsa.
Questo è il punto. Perché ieri, invece, qualcosa s'è mosso. Ancora poco, pochissimo per decifrarlo compiutamente, ma il segnale s'è dato. L'«ora delle decisioni irrevocabili è giunta» (cfr. B. Mussolini, «il più grande statista del secolo», intervista di G. Fini alla Stampa, 1994) e Gianfry rilascia una fondamentale intervista al quotidiano romano Il Messaggero per confermare. Altro che Schettino: risale a bordo, cazzo. Quello che serve all'Italia, tuona Fini, è «una destra che non scimmiotti Le Pen e che non abbia come unico obbiettivo quello di alleanze a prescindere dai programmi e dai valori di riferimento». Di sicuro, Fini si vuol riferire al gennaio del 1988, quando lui stesso, appena nominato segretario del Msi al congresso di Sorrento, assieme ai papà nobili Giorgio Almirante e Pino Romualdi, come primo atto della propria gestione scelse di andare a Nizza, sala dei congressi dell'Acropolis, per rendere omaggio al leader del Front National, Jean Marie Le Pen. Un debutto europeo in piena regola, con tanti elogi al papà di Marine, guastati forse solo dal suo «francese sbilenco» e dall'«eccesso di retorica», ricorda Massimo Magliaro, storico capufficio stampa di Almirante. Duri e puri, dunque. Non come «la scimmiottatura del neolepennismo dei Fratelli d'Italia che, lo dico con dolore, hanno utilizzato anche la storia di An senza conoscerla pur avendone fatto parte». Fini non ammette ignoranza né incoerenze. Perché quella di Marine Le Pen, avverte, «è una politica nazionalista e per certi aspetti xenofoba e non ha nulla a che vedere con una cultura autenticamente di destra». Chiaro sulla posizione da tenere in Italia, tra chi sostiene il governo Renzi e chi l'avversa, Fini non ha dubbi. Duro e puro: «Quella del Ncd di Alfano è la posizione giusta». Dichiarandosi «preoccupato», legittimamente si candida a «ridefinire un'identità culturale e programmatica del centrodestra». Sia pure, si schermisce, «nei limiti delle mie possibilità».
Non vuole sentir parlare di bazzecole quali «leadership» o «primarie»: sono l'ultimo dei problemi, dice (tradotto: piatto ricco, forse mi ci ficco). Mira a qualcosa di più alto, il suo contributo sarà «culturale» come in passato. «Ma sto anche ragionando con me stesso e con altri amici per vedere se ci sono le possibilità di far sentire una voce organizzata di una destra che non ha nulla a che vedere con quella in campo». Ecco, questa discussione «con se stesso» è la traccia più evidente del suo nuovo impegno. Ma attenzione, potrebbe finire in minoranza. Che faccio?, mi caccio.


 
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