Il tragico destino degli “emigrati politici”: andarono per fondare lo stato Socialista, li attendeva il gulag. Con l’indifferenza del compagno Togliatti.
Arrigo Petacco ne parla in un saggio dal titolo “A Mosca, solo andata”, edito da Mondadori
Una brutta storia, di quelle che fanno accapponare la pelle. Sconosciuta ai più, come sempre quando si tratta di crimini “rossi”. La racconta Arrigo Petacco nel nuovo saggio “A Mosca, solo andata”, edito da Mondadori. Tutto nasce dalle “memorie” di Paolo Robotti, cognato di Palmiro Togliatti, inquisitore stalinista nell’epoca delle cosiddette “purghe”, il quale aveva richiesto al partito di poter pubblicare i suoi ricordi, per “riabilitare” in qualche modo i giovani comunisti finiti nel buco nero dei gulag. Presentò a Togliatti una lista di 125 nomi di compagni fucilati. Togliatti lesse il foglio, senza passione. Lo gettò nel cestino dicendo “queste sono cose da dimenticare. Meglio non parlarne”. Quegli uomini erano tutti giovanissimi, tra i venti e i venticinque anni. Avevano lasciato l’Italia, direzione Mosca, esuli in una terra che credevano amica. Non li attendeva, come speravano, la possibilità di contribuire a far nascere il primo stato Socialista, ma la deportazione, l’arresto, la tortura, la morte. Naturalmente Robotti quell’autorizzazione non la ebbe mai dal PCI, ben attento a non “lavare in piazza i panni sporchi”. Poco importava che il sogno rosso avesse tradito quei giovani, che avesse fatto vivere loro il terrore, innocenti. Dei crimini comunisti nessuno doveva parlare, mai. La solita storia della verità a proprio uso e consumo, dei buoni e dei cattivi, i rossi (i buoni, nemmeno a dirlo) e i neri (i cattivi, naturalmente). La solita minestra riscaldata della storia scritta dai vincitori. Indifferenza. È la sola parola che si può utilizzare per descrivere l’atteggiamento del Partito Comunista di fronte alle sorti terribili di quelle persone, loro “compagni”, “fratelli di fede”. Bisognava giungere nel terzo millennio, nell’era della tecnologia e di internet, quando tenere nascosti i fatti della storia diventa impossibile, per far uscire allo scoperto delitti di tale gravità, che pesano come macigni sulle coscienze di chi c’era, e colpevolmente ha taciuto. Ci voleva il coraggio di Petacco, penna nei confronti della quale non si può far finta di niente. Chissà se anche questa volta i soliti professori in cattedra parleranno di “negazionismo”? questa parola, che va così tanto di moda ultimamente, grazie alla quale si può mettere una pietra sopra a qualsiasi cosa? Chissà se qualcuno si alzerà in piedi, con il dito alzato all’indirizzo dell’audace scrittore, per dire che così si va ad infangare la memoria di Togliatti, al quale in tutta Italia sono dedicate vie e piazze? Colpevole. Senza appello. Questo si dovrebbe dire. E ogni Comune d’Italia dovrebbe approvare con Ordine del Giorno la rimozione delle targhe apposte su quelle vie e su quelle piazze, ammettendo di aver reso lustro ad un traditore e ad un complice degli assassini russi. Il libro di Petacco rivela con straziante lucidità i processi inquisitori a cui erano sottoposti quanti, rifugiatisi in Russia dopo l’avvento del Fascismo in Italia, erano ritenuti dal regime moscovita persone da sottoporre a processi sommari. Il lavoro degli inquisitori di Stalin era di una precisione maniacale, nessuno poteva sfuggire: i cosiddetti “figli del partito”, i bambini che restavano senza genitori, venivano mandati in istituti organizzati dal Comintern per forgiare “uomini nuovi”. Molti uomini furono fucilati, molti deportati nei gulag, a quelli che chiesero la cittadinanza sovietica fu tolto ogni diritto. Coloro che rimasero “italiani”, in alcuni casi, si salvarono: furono rimandati a casa, ma a prezzo di un silenzio infrangibile. Erano scappati dall’Italia, perché in Italia c’era il Fascismo, e il Duce. Se fossero rimasti in Patria, quei figli, bambini innocenti, sarebbero andati a scuola, e avrebbero avuto la tutela dell’ONMI. Avevano invece scelto di rincorrere un sogno, rivelatosi un inferno. È una storia penosa, che fa rabbrividire. Soprattutto in alcuni passaggi del saggio di Petacco, si ha la sensazione di un dolore senza fine. Quelli, in particolare, in cui riporta alcune lettere di deportati. Una sia esempio per tutte: “non rivedrò più te, né mio figlio, né fratelli, né compagni. Angiolina mia, ti supplico, anche se non dovessi più scrivere, fin che hai un attimo di respiro insisti di voler sapere dove sono finito. … se ti diranno che mi sono ammazzato, che sono finito sotto un’automobile, non credere e non credere neppure se ti mostrassero le firme dei testimoni. Questo … è il grido disperato di un comunista che … non vuole fare una morte ingloriosa per mano dei propri fratelli”. Dalla lettera di Luigi Calligaris alla moglie Angiolina.
Arrigo Petacco ne parla in un saggio dal titolo “A Mosca, solo andata”, edito da Mondadori
Una brutta storia, di quelle che fanno accapponare la pelle. Sconosciuta ai più, come sempre quando si tratta di crimini “rossi”. La racconta Arrigo Petacco nel nuovo saggio “A Mosca, solo andata”, edito da Mondadori. Tutto nasce dalle “memorie” di Paolo Robotti, cognato di Palmiro Togliatti, inquisitore stalinista nell’epoca delle cosiddette “purghe”, il quale aveva richiesto al partito di poter pubblicare i suoi ricordi, per “riabilitare” in qualche modo i giovani comunisti finiti nel buco nero dei gulag. Presentò a Togliatti una lista di 125 nomi di compagni fucilati. Togliatti lesse il foglio, senza passione. Lo gettò nel cestino dicendo “queste sono cose da dimenticare. Meglio non parlarne”. Quegli uomini erano tutti giovanissimi, tra i venti e i venticinque anni. Avevano lasciato l’Italia, direzione Mosca, esuli in una terra che credevano amica. Non li attendeva, come speravano, la possibilità di contribuire a far nascere il primo stato Socialista, ma la deportazione, l’arresto, la tortura, la morte. Naturalmente Robotti quell’autorizzazione non la ebbe mai dal PCI, ben attento a non “lavare in piazza i panni sporchi”. Poco importava che il sogno rosso avesse tradito quei giovani, che avesse fatto vivere loro il terrore, innocenti. Dei crimini comunisti nessuno doveva parlare, mai. La solita storia della verità a proprio uso e consumo, dei buoni e dei cattivi, i rossi (i buoni, nemmeno a dirlo) e i neri (i cattivi, naturalmente). La solita minestra riscaldata della storia scritta dai vincitori. Indifferenza. È la sola parola che si può utilizzare per descrivere l’atteggiamento del Partito Comunista di fronte alle sorti terribili di quelle persone, loro “compagni”, “fratelli di fede”. Bisognava giungere nel terzo millennio, nell’era della tecnologia e di internet, quando tenere nascosti i fatti della storia diventa impossibile, per far uscire allo scoperto delitti di tale gravità, che pesano come macigni sulle coscienze di chi c’era, e colpevolmente ha taciuto. Ci voleva il coraggio di Petacco, penna nei confronti della quale non si può far finta di niente. Chissà se anche questa volta i soliti professori in cattedra parleranno di “negazionismo”? questa parola, che va così tanto di moda ultimamente, grazie alla quale si può mettere una pietra sopra a qualsiasi cosa? Chissà se qualcuno si alzerà in piedi, con il dito alzato all’indirizzo dell’audace scrittore, per dire che così si va ad infangare la memoria di Togliatti, al quale in tutta Italia sono dedicate vie e piazze? Colpevole. Senza appello. Questo si dovrebbe dire. E ogni Comune d’Italia dovrebbe approvare con Ordine del Giorno la rimozione delle targhe apposte su quelle vie e su quelle piazze, ammettendo di aver reso lustro ad un traditore e ad un complice degli assassini russi. Il libro di Petacco rivela con straziante lucidità i processi inquisitori a cui erano sottoposti quanti, rifugiatisi in Russia dopo l’avvento del Fascismo in Italia, erano ritenuti dal regime moscovita persone da sottoporre a processi sommari. Il lavoro degli inquisitori di Stalin era di una precisione maniacale, nessuno poteva sfuggire: i cosiddetti “figli del partito”, i bambini che restavano senza genitori, venivano mandati in istituti organizzati dal Comintern per forgiare “uomini nuovi”. Molti uomini furono fucilati, molti deportati nei gulag, a quelli che chiesero la cittadinanza sovietica fu tolto ogni diritto. Coloro che rimasero “italiani”, in alcuni casi, si salvarono: furono rimandati a casa, ma a prezzo di un silenzio infrangibile. Erano scappati dall’Italia, perché in Italia c’era il Fascismo, e il Duce. Se fossero rimasti in Patria, quei figli, bambini innocenti, sarebbero andati a scuola, e avrebbero avuto la tutela dell’ONMI. Avevano invece scelto di rincorrere un sogno, rivelatosi un inferno. È una storia penosa, che fa rabbrividire. Soprattutto in alcuni passaggi del saggio di Petacco, si ha la sensazione di un dolore senza fine. Quelli, in particolare, in cui riporta alcune lettere di deportati. Una sia esempio per tutte: “non rivedrò più te, né mio figlio, né fratelli, né compagni. Angiolina mia, ti supplico, anche se non dovessi più scrivere, fin che hai un attimo di respiro insisti di voler sapere dove sono finito. … se ti diranno che mi sono ammazzato, che sono finito sotto un’automobile, non credere e non credere neppure se ti mostrassero le firme dei testimoni. Questo … è il grido disperato di un comunista che … non vuole fare una morte ingloriosa per mano dei propri fratelli”. Dalla lettera di Luigi Calligaris alla moglie Angiolina.
Nessun commento:
Posta un commento
Commenti dai camerati.