Varese – I partigiani Gianna e Neri furono assassinati per ordine del partito comunista e non della Resistenza. I due volevano che l'oro requisito al Duce, in fuga verso la Svizzera, venisse restituito all'erario .
Con l'oro di Dongo comprarono anche Botteghe Oscure»
Quando Benito Mussolini nell'aprile del '45 fu fermato dai partigiani a Dongo, piccolo paesino sulla riva occidentale del Lago di Como, aveva con sé una vera fortuna: danaro contante (circa 230 miliardi di allora) e oltre 42 chili in lingotti d'oro, ovvero tutto quel che restava del patrimonio della Rsi. Passato alla storia come il famigerato "oro di Dongo", quel "bottino" ha segnato il destino di molte persone, tra cui anche quelli dei partigiani Neri e Gianna. I due, infatti, volevano che la fortuna requisita al duce in fuga verso la Svizzera fosse restituita all'erario italiano e per questo furono fatti eliminare dal Pci. Renato Morandi, classe 1923, all'epoca dei fatti era un giovane comandante partigiano della Brigata Garibaldi, che operava proprio nel comasco. (foto: la tessera di Renato Morandi del C.d.L.N)
Morandi, lei conosceva personalmente Gianna e Neri? «Certo, io operavo in quella zona con loro, ma all'epoca dei fatti non c'ero perché a causa di una grave malattia avevo dovuto allontanarmi dalle operazioni. Ricordo però molto bene la figura di Neri come una persona intelligente e aperta, un vero comandante, con un'esperienza militare grandissima. Si era formato in Abissinia e sul fronte russo, dove aveva imparato le tecniche della guerriglia. Era un camminatore formidabile, su e giù per le valli, non era mai stanco». Perché ad un certo punto lei diventa un testimone fondamentale di questa vicenda? «La vicenda della morte di Gianna e Neri è sempre stata presente nella vita di molti partigiani di quella zona. Nel 1999 io ero stato attaccato da un giornalista per un'altra vicenda, sempre legata alla lotta partigiana nel comasco. Per fare luce su quegli episodi e per ricostruire vicende di cui ricordavo poco andai all'istituto storico della Resistenza di Como e lì iniziai a prendere atto direttamente, de visu, della brutta fine che fecero alcune persone oneste, in relazione alla sparizione dell'oro di Dongo, tra questi c'erano anche i partigiani Gianna e Neri. E così iniziai a chiedere conto sia all'Anpi sia al partito. Ci furono comunque altre persone coinvolte e ridotte al silenzio». Chi e in che modo? «Beh Moretti e Terzi dovettero espatriare all'estero, in Jugoslavia. Erano testimoni scomodi e vennero allontanati subito dopo i fatti e tramite la sezione del Pci di Udine portati in Jugoslavia, dove hanno lavorato per molti anni. Ho incontrato Terzi a Varese nel 1991 a casa di Franco Giannantoni. E anche in quella occasione si parlò di Gianna e Neri». Che cosa accadde dopo il sequestro dei beni della Rsi? «Neri il 4 maggio del 1945 va a trovare il segretario del partito comunista di Como, chiedendo ragione della fine dell'oro di Dongo. Dei valori sequestrati erano stati stilati da lui stesso tre elenchi, ma nulla di quell'enormità era finito all'erario, cioè allo Stato. Neri venne ucciso dopo quella visita». E Gianna? «Erano molto legati tra loro, si amavano. Dopo due mesi dalla scomparsa di Neri, Gianna andò a chiedere sue notizie per cercare di capire che cosa fosse successo. Venne prelevata il pomeriggio del 23 giugno, mentre in bicicletta tornava da Dongo. L'hanno seguita, caricata in macchina e fatta sparire. Sono morti entrambi per la loro onestà e la loro coscienza di cittadini italiani» Dove finirono i soldi? «A Milano e a Roma, comprarono proprietà e tra queste probabilmente anche Botteghe Oscure». Il libro di Franco Giannatoni e Giorgio Cavalleri ha dato un contributo decisivo alla scoperta della verità? «Sì, perché è un libro ben documentato, dove si fa finalmente luce su questa drammatica vicenda partendo dai fatti e dai documenti. È un riconoscimento di onestà che meritano. Rimangono ancora poche ombre su cui ci sono delle supposizioni realistiche» Tra le ombre di cui lei parla c'è anche il destino della borsa contenente il compromettente carteggio con il premier inglese Winston Churchill? «Si conoscono mandanti ed esecutori materiali, purtroppo non si sa dove furono fatti sparire i corpi di Gianna e Neri. Poi c'è anche il mistero riguardante quella borsa. Il contenuto fu diviso in due: una parte andò ai partigiani di fede monarchica, che avevano un rappresentante in brigata, l'altra sparì. Da qualche parte le risposte ci saranno e penso che all'Istituto Gramsci di Roma ci sia ancora un pezzo di verità da scoprire». Franco Giannantoni e Giorgio Cavelleri "Gianna" e "Neri" fra speculazioni e silenzi Edizoni Arterigere.
Fonte articolo Michele Mancino michele@varesenews.it
Con l'oro di Dongo comprarono anche Botteghe Oscure»
Quando Benito Mussolini nell'aprile del '45 fu fermato dai partigiani a Dongo, piccolo paesino sulla riva occidentale del Lago di Como, aveva con sé una vera fortuna: danaro contante (circa 230 miliardi di allora) e oltre 42 chili in lingotti d'oro, ovvero tutto quel che restava del patrimonio della Rsi. Passato alla storia come il famigerato "oro di Dongo", quel "bottino" ha segnato il destino di molte persone, tra cui anche quelli dei partigiani Neri e Gianna. I due, infatti, volevano che la fortuna requisita al duce in fuga verso la Svizzera fosse restituita all'erario italiano e per questo furono fatti eliminare dal Pci. Renato Morandi, classe 1923, all'epoca dei fatti era un giovane comandante partigiano della Brigata Garibaldi, che operava proprio nel comasco. (foto: la tessera di Renato Morandi del C.d.L.N)
Morandi, lei conosceva personalmente Gianna e Neri? «Certo, io operavo in quella zona con loro, ma all'epoca dei fatti non c'ero perché a causa di una grave malattia avevo dovuto allontanarmi dalle operazioni. Ricordo però molto bene la figura di Neri come una persona intelligente e aperta, un vero comandante, con un'esperienza militare grandissima. Si era formato in Abissinia e sul fronte russo, dove aveva imparato le tecniche della guerriglia. Era un camminatore formidabile, su e giù per le valli, non era mai stanco». Perché ad un certo punto lei diventa un testimone fondamentale di questa vicenda? «La vicenda della morte di Gianna e Neri è sempre stata presente nella vita di molti partigiani di quella zona. Nel 1999 io ero stato attaccato da un giornalista per un'altra vicenda, sempre legata alla lotta partigiana nel comasco. Per fare luce su quegli episodi e per ricostruire vicende di cui ricordavo poco andai all'istituto storico della Resistenza di Como e lì iniziai a prendere atto direttamente, de visu, della brutta fine che fecero alcune persone oneste, in relazione alla sparizione dell'oro di Dongo, tra questi c'erano anche i partigiani Gianna e Neri. E così iniziai a chiedere conto sia all'Anpi sia al partito. Ci furono comunque altre persone coinvolte e ridotte al silenzio». Chi e in che modo? «Beh Moretti e Terzi dovettero espatriare all'estero, in Jugoslavia. Erano testimoni scomodi e vennero allontanati subito dopo i fatti e tramite la sezione del Pci di Udine portati in Jugoslavia, dove hanno lavorato per molti anni. Ho incontrato Terzi a Varese nel 1991 a casa di Franco Giannantoni. E anche in quella occasione si parlò di Gianna e Neri». Che cosa accadde dopo il sequestro dei beni della Rsi? «Neri il 4 maggio del 1945 va a trovare il segretario del partito comunista di Como, chiedendo ragione della fine dell'oro di Dongo. Dei valori sequestrati erano stati stilati da lui stesso tre elenchi, ma nulla di quell'enormità era finito all'erario, cioè allo Stato. Neri venne ucciso dopo quella visita». E Gianna? «Erano molto legati tra loro, si amavano. Dopo due mesi dalla scomparsa di Neri, Gianna andò a chiedere sue notizie per cercare di capire che cosa fosse successo. Venne prelevata il pomeriggio del 23 giugno, mentre in bicicletta tornava da Dongo. L'hanno seguita, caricata in macchina e fatta sparire. Sono morti entrambi per la loro onestà e la loro coscienza di cittadini italiani» Dove finirono i soldi? «A Milano e a Roma, comprarono proprietà e tra queste probabilmente anche Botteghe Oscure». Il libro di Franco Giannatoni e Giorgio Cavalleri ha dato un contributo decisivo alla scoperta della verità? «Sì, perché è un libro ben documentato, dove si fa finalmente luce su questa drammatica vicenda partendo dai fatti e dai documenti. È un riconoscimento di onestà che meritano. Rimangono ancora poche ombre su cui ci sono delle supposizioni realistiche» Tra le ombre di cui lei parla c'è anche il destino della borsa contenente il compromettente carteggio con il premier inglese Winston Churchill? «Si conoscono mandanti ed esecutori materiali, purtroppo non si sa dove furono fatti sparire i corpi di Gianna e Neri. Poi c'è anche il mistero riguardante quella borsa. Il contenuto fu diviso in due: una parte andò ai partigiani di fede monarchica, che avevano un rappresentante in brigata, l'altra sparì. Da qualche parte le risposte ci saranno e penso che all'Istituto Gramsci di Roma ci sia ancora un pezzo di verità da scoprire». Franco Giannantoni e Giorgio Cavelleri "Gianna" e "Neri" fra speculazioni e silenzi Edizoni Arterigere.
Fonte articolo Michele Mancino michele@varesenews.it
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