Quando Togliatti disse: “E’ meglio dimenticare i comunisti italiani morti nei Gulag”.
“Cercavano il paradiso, trovarono l’inferno”. Sul retro della copertina dell’ultimo libro di Arrigo Petacco, A Mosca solo andata – La tragica avventura dei comunisti italiani in Russia, campeggia la frase che può essere considerata il riassunto di un’epoca. Quella che va tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, che vide protagonisti migliaia di comunisti italiani emigrati in Unione sovietica e caduti vittime di una folle ideologia.
Una delle pagine meno note e più nere della nostra storia viene riportata alla luce dopo gli anni della “damnatio memoriae” decisa a metà degli anni Sessanta dalla direzione del Partito Comunista Italiano. In quegli anni Paolo Robotti, spietato inquisitore stalinista ai tempi delle purghe e cognato di Palmiero Togliatti, aveva chiesto al partito, invano, il permesso di pubblicare le proprie memorie nel tentativo, piuttosto tardivo, di riabilitare tutti quei giovani comunisti, perlopiù operai, braccianti e artigiani provenienti dal Piemonte, accorsi in Urss per contribuire all’edificazione del primo Stato socialista. A Mosca, però, questi trovarono una società che non aveva affatto eliminato la povertà, come voleva la propaganda comunista, dove la censura era arrivata persino a colpire la stampa comunista straniera, colpevole, secondo il regime di Stalin, di pubblicizzare progressi di marca socialista, come i diritti sindacali. Finirono stritolati nella macchina del terrore e della morte, uccisi dal sospetto, dalla fame, dal freddo, dalla gelida spietatezza sovietica. Chiunque poteva cadere vittima del sistema. Si veniva arrestati, interrogati, torturati, deportati, fucilati senza il minimo diritto di difesa, senza la possibilità di un giusto processo, senza l’occasione di replicare a quei sospetti che la polizia politica considerava prove inoppugnabili. Ci si poteva salvare in due modi: diventare una spia del regime o essere espulsi in Italia per volere del Comintern. Fondamentale in quegli anni il ruolo giocato da Palmiro Togliatti, futuro segretario del Pci e vicerè di Stalin durante la guerra civile spagnola degli anni ’30, il quale, pur di garantirsi la salvezza personale, oltre che quella politica, non si adoperò mai veramente per evitare la carneficina di italiani. Dopo la guerra, il Pci di Togliatti tenne nascoste le disavventure che questi semplici militanti subirono. Perfino dopo che Kruscev ebbe riabilitato i comunisti russi condannati ingiustamente dal suo predecessore. Un giorno Robotti si presentò davanti al cognato consegnando una lista contenente i nomi dei compagni italiani da riabilitare. Togliatti la lesse, si fermò un instante a riflettere, poi la accartocciò, gettandola nel cestino. “Queste cose sono da dimenticare. Meglio non parlarne”, sentenziò, abbandonando per la seconda volta i propri connazionali.
“Cercavano il paradiso, trovarono l’inferno”. Sul retro della copertina dell’ultimo libro di Arrigo Petacco, A Mosca solo andata – La tragica avventura dei comunisti italiani in Russia, campeggia la frase che può essere considerata il riassunto di un’epoca. Quella che va tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, che vide protagonisti migliaia di comunisti italiani emigrati in Unione sovietica e caduti vittime di una folle ideologia.
Una delle pagine meno note e più nere della nostra storia viene riportata alla luce dopo gli anni della “damnatio memoriae” decisa a metà degli anni Sessanta dalla direzione del Partito Comunista Italiano. In quegli anni Paolo Robotti, spietato inquisitore stalinista ai tempi delle purghe e cognato di Palmiero Togliatti, aveva chiesto al partito, invano, il permesso di pubblicare le proprie memorie nel tentativo, piuttosto tardivo, di riabilitare tutti quei giovani comunisti, perlopiù operai, braccianti e artigiani provenienti dal Piemonte, accorsi in Urss per contribuire all’edificazione del primo Stato socialista. A Mosca, però, questi trovarono una società che non aveva affatto eliminato la povertà, come voleva la propaganda comunista, dove la censura era arrivata persino a colpire la stampa comunista straniera, colpevole, secondo il regime di Stalin, di pubblicizzare progressi di marca socialista, come i diritti sindacali. Finirono stritolati nella macchina del terrore e della morte, uccisi dal sospetto, dalla fame, dal freddo, dalla gelida spietatezza sovietica. Chiunque poteva cadere vittima del sistema. Si veniva arrestati, interrogati, torturati, deportati, fucilati senza il minimo diritto di difesa, senza la possibilità di un giusto processo, senza l’occasione di replicare a quei sospetti che la polizia politica considerava prove inoppugnabili. Ci si poteva salvare in due modi: diventare una spia del regime o essere espulsi in Italia per volere del Comintern. Fondamentale in quegli anni il ruolo giocato da Palmiro Togliatti, futuro segretario del Pci e vicerè di Stalin durante la guerra civile spagnola degli anni ’30, il quale, pur di garantirsi la salvezza personale, oltre che quella politica, non si adoperò mai veramente per evitare la carneficina di italiani. Dopo la guerra, il Pci di Togliatti tenne nascoste le disavventure che questi semplici militanti subirono. Perfino dopo che Kruscev ebbe riabilitato i comunisti russi condannati ingiustamente dal suo predecessore. Un giorno Robotti si presentò davanti al cognato consegnando una lista contenente i nomi dei compagni italiani da riabilitare. Togliatti la lesse, si fermò un instante a riflettere, poi la accartocciò, gettandola nel cestino. “Queste cose sono da dimenticare. Meglio non parlarne”, sentenziò, abbandonando per la seconda volta i propri connazionali.
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