venerdì 5 aprile 2013

Il Fascismo e la dittatura

Una delle maggiori armi della propaganda antifascista nonché uno dei pilastri ideologici di quella che il grande storico Renzo De Felice definiva “vulgata” è l’accusa mossa al Regime Fascista di essere stato solamente una dittatura e, di conseguenza, all’ideologia fascista di non esistere, se non nel postulare una forma istituzionale di soppressione delle libertà. Bisogna riconoscere che l’accusa è di una certa efficacia poiché, approfittando dell’ignoranza comune diffusa tra le masse lobotomizzate da oltre 60 anni di lavaggio del cervello, è molto diffusa tra i miseri profeti di questa reale dittatura partitocratrica, che hanno buon gioco nell’agitare lo spauracchio della “dittatura fascista”. Un mito nato nel 1943 quando la nascente resistenza antifascista, sbucata dal nulla dopo 20 anni di volontario esilio, dichiarò di voler “aiutare” gli occupanti anglo-americani in quella che i nuovi padroni ci imponevano di accettare come “liberazione” per l’appunto dalla “dittatura fascista” nonché restituzione coatta a suon di bombardamenti e conseguenti massacri di una presunta “libertà democratica”. Ma l’accusa è strumentalmente propagandistica. Ogni fenomeno storico sia livello sociale che politico andrebbe inquadrato nella sua specificità, posto cioé in relazione con determinati eventi contingenti e analizzato in tutto il suo sviluppo evolutivo. L’istituto della dittatura è nato nell’antica repubblica romana, come magistratura straordinaria, la nomina del dittatore dotato di ampi poteri militari e civili avveniva in circostanze particolarmente delicate o pericolose per lo Stato Romano, in cui era necessario che una sola persona prendesse le decisioni, al posto del Senato. Alla dittatura i Romani facevano ricorso in situazioni di emergenza, come per sedare una rivolta (dictator seditionis sedandae causa) o per affrontare pericoli esterni e governare lo Stato in situazioni di difficoltà (dictator rei gerendae causa).
Nessuna pregiudiziale quindi per i romani, disposti in tempo di crisi a limitare parzialmente o totalmente le proprie prerogative individuali per la suprema salvezza dello Stato. Il dittatore durava in carica fino a quando non avesse svolto i compiti per i quali era stato nominato, e comunque non più di sei mesi, tempo che fu esteso da Giulio Cesare dapprima ad un anno, successivamente a dieci fino a quando il Senato non votò la nomina a dictator perpetuus (dittatore perpetuo). Niccolò Machiavelli, sebbene recuperando la concezione Latina dello Stato giudicava nei “Discorsi sulla prima deca di Tito Livio” la repubblica romana la forma più perfetta, stabile e compiuta del vivere civile, sviluppò ulteriormente ne “Il Principe” il concetto dell’adattamento delle istituzioni a particolari contingenze storiche sollevando il tema dei compiti di un Principe ideale il quale – se necessario – non deve essere buono “infra tanti che non sono buoni” ma deve saper ricorrere alla forza e alla violenza seppur deplorevoli, ma quantunque essenziali per mantenere stabilità e potere. Per Machiavelli il fine del politico è quello di mantenere l’esistenza dello Stato e a tale scopo può e deve ricorrere a qualsiasi mezzo, persino il più moralmente scorretto. Checché ne abbiano a dire gli antifascisti di tutte le logge, l’Italia del 1919 era un Paese in pieno sfacelo sociale, economico e politico, con uno Stato liberale incapace di comprendere la nuova era dell’avvento delle masse salite prepotentemente alla ribalta della storia con la Prima Guerra mondiale, guidata da una classe politica imbelle che alla conferenza di pace di Versaglia non riuscì a far valere i giusti diritti dell’Italia sanciti dal Patto di Londra del 1915, abbandonando clamorosamente le trattative in segno di protesta. Uno Stato che diserta dinanzi ai suoi diritti non è più uno Stato, ma una grottesca impalcatura di ridicoli commediografi. Vinta la guerra restava da vincere la pace, ma essa veniva malamente perduta dal debole governo italiano e appariva chiaro a molti che era necessario un radicale cambiamento istituzionale. In una Italia in pieno disastro morale e materiale, in balia dei disordini avvenuti nel biennio bolscevico, si erse la figura di Benito Mussolini chiamando a raccolta senza pregiudiziali sociali classiste il meglio del popolo italiano nei Fasci di Combattimento, dando il vita ad una nuova aristocrazia politica popolare animata da principi rivoluzionari e con la volontà di prendere il posto della vecchia èlite dominante dimostratasi incapace di reggere ulteriormente il Paese uscito dalla guerra. “Chi ben guardi – scrisse Bottai nel dopoguerra – il Fascismo non è sorto tanto dall’opposizione formale a un regime costituzionale preesistente, quanto dalla carenza, dalla vacanza, di cotesto regime”. Per porre fine alla crisi e risanare la Nazione dando un nuovo ordine al paese, fu necessario instaurare una dittatura così come i Romani hanno insegnato che in tempi eccezionali occorrono misure altrettanto eccezionali. La dittatura – ( che non fu esclusivo esercizio del potere da parte di Mussolini ma della nuova aristocrazia politica confluita nel Partito fascista, ndr.) – fu necessaria per salvare la Nazione e ridare Ordine al Paese. “Non esiste una dottrina della dittatura. Quando la dittatura è necessaria, bisogna attuarla” disse Mussolini, ribadendo che “Anche noi abbiamo bisogno della dittatura per riorganizzare il paese e per ridargli il sangue perduto nell’esperimento democratico”. La dittatura quindi, secondo il Fascismo, non è vista come un Sistema, ma come un Mezzo necessario in certe situazioni storiche quando la crisi politica richiede un accentramento dei poteri nelle mani di pochi uomini i quali rappresentano il meglio di un determinato popolo. Anche la violenza, come insegna Machiavelli, è necessaria talvolta ai grandi uomini della storia per salvare lo Stato che altrimenti scivolerebbe nell’oclocrazia o nell’anarchia. E Mussolini, come hanno riconosciuto anche diversi antifascisti, ha assolto al suo compito di risollevare il paese piombato nella crisi del dopoguerra. Ma l’essenza stessa della crisi risiedeva in quel regime politico noto come “liberalismo” che occorreva superare con un nuovo regime politico di tipo rivoluzionario, sensibile di fronte all’avvento delle masse e desideroso di immetterle nella vita dello Stato, invece di respingerle ai margini, per l’appunto quanto intendeva realizzare il fascismo con la realizzazione dello Stato Etico corporativo. Ma può esserci una Rivoluzione senza una momentanea e temporanea fase di dittatura necessaria a trasformare le vecchie e obsolete istituzioni preesistenti, gestite da una classe politica che di certo non vuole rinunciare spontaneamente in nome del bene pubblico al potere ed ai privilegi acquisiti? Secondo i fascisti ma anche secondo i marxisti la risposta è no, per questi ultimi anzi è necessaria e teorizzata a livello ideologico una fase di “dittatura del proletariato” prima dell’avvento della futura “società comunista”. Persino la Rivoluzione francese, che ha rappresentato la fonte da cui sono scaturite le istituzioni di molte delle odierne democrazie liberali, lottando contro l’assolutismo monarchico, ha vissuto una sua fase necessaria di violenta dittatura che ha portato alla ghigliottina oltre mezzo milione di francesi (eppure comunisti e giacobini non hanno subito la medesima condanna morale dei fascisti). Il Fascismo come tutti i movimenti rivoluzionari, si vide costretto dalle contingenze storiche ad attuare una vera e propria dittatura, ma solo dopo il 1924, e usò tale mezzo 1) per riportare ordine e sviluppo in un paese in crisi; 2) per realizzare in maniera più veloce il cambiamento delle istituzioni rappresentative in ossequio a quanto la storia a partire dall’età moderna ha già dimostrato, che cioé le dittature rivoluzionarie sono soltanto dei momenti di passaggio tra una forma di governo e l’altra. La transizione dittatoriale è dovuta al fatto che la riorganizzazione dello Stato è talmente profonda da dover essere condotta da una elite di poche migliaia di persone con una esatta visione di ciò che dovrà essere lo Stato Nuovo e che poi costruiranno un sistema in grado di coinvolgere le masse all’interno di un tale nuovo impianto politico che sia in grado di perpetuarsi nel tempo. Alla fase della dittatura il fascismo, in ossequio alla dottrina politica che espresse, voleva fare seguire lo Stato Etico Nazionale del Lavoro, retto da una Repubblica Presidenziale fondata su una Democrazia Corporativa, che a mezzo del Partito fascista e di tutte le organizzazioni ad esso correlate avrebbe immesso le masse in modo diretto, partecipativo e totalitario, nella gestione della Res – publica, come dimostra l’iter riformatore dei provvedimenti legislativi attuati dal regime lungo il corso di tutta la sua storia e culminati con la proclamazione della Repubblica Sociale Italiana, le cui riforme, in parte furono malamente plagiate dagli antifascisti nel dopoguerra. Una Democrazia Totalitaria, ecco dunque cosa si prefiggeva di rappresentare il Fascismo. Si guardi bene il lettore dal cadere in possibili fraintendimenti e strumentalizzazioni che possono derivare dall’uso della parola “totalitario”. Sull’argomento il lavoro dello storico Jacob Talmon (“Le origini della democrazia totalitaria”) è veramente un classico che merita di essere citato. Secondo lo studioso polacco… “accanto alla democrazia di tipo liberale nel diciottesimo secolo sorse dalle stesse premesse una tendenza verso quella che noi definiremo democrazia di tipo totalitario (…). La differenza essenziale tra le due correnti di pensiero democratico nel loro sviluppo non consiste, come spesso si sostiene, nell’affermazione del valore della libertà da una parte e nella sua negazione dall’altra. Essa consiste piuttosto nelle loro diverse posizioni rispetto alla politica (…). Entrambi gli orientamenti affermano il sommo valore della libertà, ma mentre l’uno individua l’essenza di tale libertà nella spontaneità e nell’assenza di coercizione, l’altro sostiene che essa si può realizzare solo attraverso la ricerca e il conseguimento di un fine assoluto e collettivo”. Solo all’interno dello Stato, per i fascisti, gli individui avrebbero potuto trovare la loro vera libertà, trascendendo ciascuno la propria “particolarità” per divenire parte attiva e responsabile di un organismo Morale fondato sull’armonico collettivo. La dimostrazione più palese che il Fascismo non fosse una dittatura per principio, ma per metodo, è data dal suo percorso storico e dall’avvento al potere. All’indomani della marcia su Roma, atto insurrezionale da cui sarebbe sbocciata la rivoluzione condotta in maniera graduale, Mussolini pronunciò testuali parole in Parlamento: “Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere (…). Con 300 mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto”. L’intento di Mussolini, specificato nella seconda parte del discorso, era quello di costituire un Governo di coalizione nazionale che includesse esponenti dei più svariati partiti politici, esclusi in un primo tempo i socialisti. Successivamente, dopo gli schiaccianti successi ottenuti, Mussolini cercò di trattare con i socialisti per un accordo di governo che gli avrebbe garantito, oltre che un consenso plebiscitario, anche di eliminare i partiti “conservatori” e magari pure la Monarchia attuando per vie diverse il tanto agognato Stato Corporativo del Lavoro. Il delitto Matteotti, attuato irresponsabilmente da estremisti provenienti dalle fila del fascismo e subito imprigionati, pose fine al sodalizio coi socialisti e alla possibilità di realizzare la rivoluzione in maniera “democratica”. Gli avvenimenti successivi che videro la secessione dell’Aventino e la ripresa della violenza, indussero Mussolini a proclamare la dittatura (3 gennaio 1925) e a divenire “dittatore per caso” secondo una celebre frase di Italo Balbo. La dittatura fu qualcosa di improvvisato e costrinse Mussolini ad agire nel seguente modo: cercare di costruire uno Stato Etico Corporativo nel contesto di uno stato autoritario. Quindi in Italia si cercò di fare una “rivoluzione dall’alto” di tipo graduale. La gradualità è dovuta sia ad elementi ideologici che pratici: per pratici si intende il fatto che uno Stato autoritario ha degli equilibri e che il capo deve sapersi destreggiare all’interno di questi equilibri. Mussolini guadagnò progressivamente potere nel corso degli Anni ’30 e poté permettersi di osare sempre di più: vediamo così comparire il Partito Totalitario e collegato ad esso in vari modi il Fiduciario di fabbrica (primo passo verso la socializzazione) e poi la Camera delle Corporazioni al posto della Camera dei Deputati, tutti piccoli passi verso la costruzione dello Stato Nuovo. Altra cosa da segnalare è la scarsa fiducia di Mussolini nei confronti della classe dirigente con cui aveva a che fare: egli era convinto che i giovani allevati dal fascismo avrebbero attuato e perpetuato la rivoluzione fascista che avrebbe potuto realizzarsi compiutamente solo nel futuro, costituendo le basi di una nuova Civiltà. Ecco perché l’istruzione aveva una importanza fondamentale: da lì sarebbe sorta la nuova classe dirigente. In proposito lo storico De Felice affermava già nella “Intervista sul fascismo”che … “Il fascismo è un fenomeno rivoluzionario (…) che tende alla mobilitazione, non alla demobilitazione delle masse, e alla creazione di un nuovo tipo di uomo. Il regime fascista ha come elemento che lo distingue dai regimi reazionari e conservatori la mobilitazione e la partecipazione delle masse (…). Un altro elemento rivoluzionario è che il fascismo italiano si pone un compito, quello di trasformare la società e l’individuo in una direzione che non era mai stata sperimentata né realizzata (…). L’idea che lo Stato, attraverso l’educazione, possa creare un nuovo tipo di cittadino, è una idea tipicamente democratica, classica dell’illuminismo, una manifestazione di carattere rousseauiano. Se leggiamo la Congiuria di Babeuf, tanto per fare un esempio, vediamo che nei programmi dei babuvisti uno dei punti centrali è proprio questo. E non solo dei babuvisti: è tutta una mentalità illuministica, rousseauiana, blanquista, proudhoniana. Ciò è molto significativo, perché le radici culturali di questa idea mussoliniana sono tipiche della sua formazione giovanile, che si riallaccia a un certo radicalismo di sinistra (e non a un radicalismo di destra, come invece fa il nazismo)”.
Ricapitolando sui motivi della dittatura fascista possiamo affermare che :
1) Fu necessaria per attuare in maniera lenta e graduale la rivoluzione e costruire il nuovo Stato, senza subire intoppi da parte dei poteri conservatori (borghesia, monarchia, chiesa). La dittatura ha permesso al Fascismo di scalzare lentamente il feudo di queste forze e gli eventuali compromessi condotti non dovevano impedire la riuscita piena e integrale della Rivoluzione. Tenendo sempre presente che la rivoluzione antropologica aveva la priorità per la riuscita della rivoluzione politica, economica e sociale.
2) Fu necessaria come Mezzo temporaneo per riportare ordine nel Paese in piena crisi economica e spirituale e sull’orlo della guerra civile all’indomani della grande guerra. In una Italia dilaniata dalla violenza e da forze politiche che intendevano attuare violentemente i propri principi rivoluzionari, primi tra tutti i social-comunisti sull’esempio della rivoluzione leninista, occorreva – come solevano fare i Romani – una classe dirigente che risolvesse in tempi rapidi la crisi accentrando a se ogni potere.
3) Fu contingente al delitto Matteotti, che fece comodo all’antifascismo e ad una frangia reazionaria estremista del PNF vicina alla monarchia, i quali volevano impedire le trattative tra Mussolini e il PS volto ad un possibile ingresso dei socialisti al Governo e quindi ad una attuazione per vie democratiche dello Stato Fascista. Difatti la dittatura fu solo proclamata nel 1925, a tre anni di distanza dalla marcia su Roma.
4) Fu, in ultima analisi, necessaria al Fascismo per distruggere gradualmente il vecchio mondo liberal-conservatore-monarchico che da solo non avrebbe mai rinunciato spontaneamente al potere ed ai privilegi acquisiti. Qualsiasi rivoluzione deve fare i conti, nella sua attuazione, con una realtà molto diversa dalla teoria. Questa infatti prefigurava l’evoluzione della società totalitaria come progressiva attuazione della Giustizia sociale, dove masse e individui vivono in piena armonia di interessi, con spontanea e corale adesione al partito unico, ormai divenuto organismo dello Stato e fedele interprete di tutte le loro esigenze. Secondo quanto scrisse un giovane fascista nel 1941: “Tale evoluzione, che possiamo chiamare ideale, ha, però, il torto di avere in sé la semplicità lineare di un ottimismo comune a tutte le soluzioni teoriche, ed è, quindi, ben lungi dall’essere conforme alla dura realtà, che i partiti unici dei regimi totalitari moderni si son trovata di fronte, ciascuno nell’ambito della propria società nazionale. E’ una soluzione teorica perché presuppone una società composta da individui idealmente onesti, i quali, una volta constatata la saggia politica sociale del nuovo regime, sappiano avere la forza di abbandonare i privilegi acquisiti attraverso l’altalena dei partiti al potere e le ben costruite cittadelle del loro cinico egoismo, per collaborare disinteressatamente alla costruzione di una più vasta fortezza nazionale, fatta di vera giustizia e di alta civiltà. Se la mentalità di una società potesse pienamente evolvere dalla concezione liberale-individualistica dei regimi pluto-democratici verso la concezione totalitaria dei regimi a partito unico, ben vane sarebbero state le lotte rivoluzionarie, sostenute cronologicamente dal comunismo, dal fascismo e dal nazionalsocialismo. E’ vero sì che queste tre rivoluzioni hanno incontrato sin dal loro primo inizio l’adesione di un gran numero di seguaci, ma è anche vero – però – che esse sono state e sono ancora insidiate dalle deleterie forze di una concezione materialistica della vita, che, fuggendo il campo aperto, se ne sta radicata nella scatola cranica dei sopravvissuti di una mentalità amorale e, all’ombra dell’infida bandiera delle false libertà democratico-parlamentari, agisce, anonima, silenziosa e camuffata, sabotando e disgregando”.
Per concludere occorre spendere qualche parola in più su alcune peculiarità della dittatura fascista, quale storicamente si è inverata. Essa, in realtà, lo fu solo in ambito istituzionale perché di fatto volendo mobilitare le masse non ebbe le connotazioni pratiche delle classiche dittature autoritarie. Va inoltre sottolineato che nel suo percorso storico rivoluzionario che lo portò al potere, il Fascismo ebbe più morti e torturati di quanti non ne ebbero gli avversari antifascisti nel periodo della guerra civile 1919-1922. Dopo la presa al potere il consenso che gravitava attorno quella che viene semplicisticamente definita “tirannide” aumentò vertiginosamente toccando il suo apice tra il 1929 ed il 1936, in quelli che De Felice definisce “gli anni del consenso”. Mussolini ammonì con fiero cipiglio “Quella che chiamano la mia dittatura, è basata su molto entusiasmo popolare”, è storicamente innegabile che la Rivoluzione Fascista ebbe il consenso delle masse, senza il quale non avrebbe potuto governare per ben venti anni. L’antifascismo si trova quindi inchiodato da un paradosso : se la maggioranza di un popolo è a favore di A , che si sottopone al giudizio collettivo e vince sconfiggendo B, dovrebbe essere legittimato democraticamente. Ora, se la maggioranza del popolo italiano era favorevole al Fascismo come è stato dimostrato in sede storica, ne dovrebbe conseguire con ciò una legittimazione in sede democratica. Filosoficamente questo ragionamento non fa una grinza e quindi l’assurda accusa al fascismo di essere stato solamente una “dittatura”esercitata contro il volere del popolo dovrebbe per questo cadere rovinosamente. Da notare che tale dittatura non usò mai strumenti repressivi terroristici su larga scala, come ad esempio l’uccisione degli avversari politici. Gli antifascisti che agivano su un terreno puramente culturale ed intellettuale a regime già instaurato furono lasciati liberi di dire ciò che volevano (è il caso di Croce e della sua cricca, nonché molti altri avversari dichiarati che rimasero senatori per un buon ventennio), gli antifascisti più sediziosi che intendevano abbattere politicamente lo Stato Fascista furono invece inviati al confino o spinti verso l’esilio politico. Altri partirono volontariamente all’estero spacciandosi per “martiri dell’antifascismo”. La pena di morte per reati politici era prevista solo in caso in cui si fosse commesso un omicidio o tentato omicidio a sfondo politico (indifferentemente dal colore politico, basti citare l’esempio del processo Previani, ventiseienne camicia nera scelta, condannato a morte per omicidio volontario cui fu proprio Mussolini a negare la grazia). Scrive Gabriella Portalone in “La politica giudiziaria del fascismo”: «non si può definire particolarmente feroce un regime che in vent’anni comminò 53 pene di morte per motivi politici, di cui la metà in periodo di guerra, in cui il Tribunale Speciale era chiamato a giudicare anche per delitti comuni, come per esempio lo spionaggio, particolarmente pericolosi durante la guerra per la sicurezza dello Stato. E’ da sottolineare inoltre, che la prima condanna a morte per motivi politici fu emanata oltre due anni dopo il ripristino di detta pena e l’istituzione del Tribunale Speciale. Non possiamo non fare questa considerazione, anche se può apparire cinica, soprattutto se paragoniamo il rigore del regime fascista a quello ben più incisivo di altri totalitarismi. In Germania tra il ’34 e il’44 furono erogate più di 7.000 pene capitali, per non parlare dei milioni di condanne a morte inflitte in URSS nel periodo staliniano o delle fucilazioni in serie, ancor oggi, eseguite nella Cina comunista e di cui, per ” correttezza politica” si parla ben poco” ». La Costituzione della Repubblica Sociale Italiana, che rappresenta lo stadio teorico finale di un Modello di Stato Fascista completo, fu garante delle libertà fondamentali dei cittadini. Nell’articolo 92 della Costituzione della Repubblica Sociale leggiamo che “Tutti i cittadini sono uguali dinanzi alla legge” e nel successivo “I diritti civili e politici sono attribuiti a tutti i cittadini”. La Costituzione della RSI tutelava “la libertà di parola, di stampa, d’associazione, di culto” intesi come “attributo essenziale della personalità umana e come strumento utile per gli interessi e per lo sviluppo della Nazione” (articolo 97), di conseguenza: “L’organizzazione politica è libera. I partiti possono esplicare la loro attività di propaganda delle loro idee e dei loro programmi, purché non in contrasto con i fini supremi della Repubblica” (articolo 98). Ciò dimostra ulteriormente a cosa mirasse in definitiva il progetto politico fascista smontando anche la falsa accusa antifascista che descrive la guerra civile del 1943-45 come “guerra di liberazione” dalla “dittatura fascista”.
AquilaLatina

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