mercoledì 10 aprile 2013

La questione del fascismo.
Scomparso da quasi mezzo secolo come protagonista della politica europea, il f. è tuttora uno dei problemi più studiati e più controversi della storia contemporanea. La questione del f., considerato sia come fenomeno internazionale sia come movimento-regime italiano, ha ormai una lunga tradizione iniziata quando il movimento, fondato da B. Mussolini il 23 marzo 1919, conquistò il potere con la ''marcia su Roma'' (28 ottobre 1922) dando vita a un nuovo regime politico. Studi, ricerche e dibattiti sul f. sono continuamente aumentati, soprattutto tra gli anni Sessanta e Ottanta, specialmente in Italia e in Germania. In questi due paesi, la memoria dell'esperienza totalitaria fa ancora gravare sul senso dell'identità nazionale, sia pure con diversa intensità, il problema etico-politico della responsabilità collettiva verso un "passato che non vuol passare" (Nolte 1987), suscitando polemiche anche fuori del campo scientifico. Ma il problema del f. non si limita al caso italiano o tedesco: nel periodo fra le due guerre mondiali, infatti, movimenti che si richiamavano direttamente al f. o al nazismo o a questi somigliavano per il nazionalismo radicale, l'antiliberalismo, l'antibolscevismo, l'organizzazione paramilitare, l'attivismo di piazza e lo stile politico, sorsero e si diffusero in tutti i paesi europei, rappresentando ovunque una minaccia, potenziale o effettiva, per i regimi democratici. La riflessione sulla vulnerabilità della democrazia parlamentare nella moderna società di massa è parte integrante della questione del f. e ne accresce l'importanza per gli studiosi contemporanei. Come pochi fenomeni del nostro tempo, il f. è stato studiato da storici, sociologi, politologi, filosofi e psicologi, mossi dall'esigenza comune di spiegare i motivi per i quali ebbero origine e si affermarono, in paesi già investiti dalla modernizzazione e dalla democratizzazione, movimenti come il f. e il nazionalsocialismo, che reclamavano il monopolio del potere politico e il controllo totale sulle masse, avvolgendo la società nelle spire di un regime totalitario che subordinava la collettività al partito unico in nome di miti nazionalistici di potenza e di espansione.
Nell'arco di oltre mezzo secolo sono state proposte numerose e contrastanti definizioni e teorie del fenomeno fascista. Ripercorrendo la storia di queste interpretazioni assistiamo a una progressiva dilatazione del f., dalla sua originaria dimensione italiana ed europea verso una dimensione mondiale. Il f. ha finito così con l'assumere l'aspetto di un'entità universale e metastorica, che si sarebbe manifestata e potrebbe manifestarsi ovunque, al di là dei confini propri del ''f. storico'', compreso nel periodo fra le due guerre mondiali. Dopo il 1945, per es., sono stati definiti ''fascisti'' il regime di J. Peron in Argentina, la repubblica di Ch. De Gaulle in Francia, i regimi a partito unico del Terzo Mondo, la dittatura dei colonnelli in Grecia, la presidenza Nixon, i regimi militari dell'America latina, ma anche le democrazie borghesi e gli stessi regimi comunisti. Si è parlato di ''f. rosso'' a proposito della sinistra extraparlamentare e dei gruppi terroristi comunisti, e di involuzione ''fascista'' del regime comunista cinese in occasione della strage di Piazza Tien An Men a Pechino (3-4 giugno 1989). Di recente è stata coniata una nuova categoria di f., quella di ''f. medio-orientale'', per definire il regime di Ṣaddām Ḥussayn in ῾Irāq. Nel linguaggio politico corrente il termine ''fascismo'' è universalmente adoperato in senso spregiativo come sinonimo di destra, controrivoluzione, reazione, conservatorismo, autoritarismo, corporativismo, nazionalismo, razzismo, imperialismo. Con un processo continuo di inflazione semantica, il concetto del f. è stato adottato indiscriminatamente nella lotta politica, nella storiografia e nelle scienze sociali, diventando però sempre più generico, al punto che qualche studioso ha proposto di bandirlo dalla comunità scientifica.

Interpretazioni del fenomeno fascista.
Inizialmente, negli anni Venti, il f. fu considerato prevalentemente un'espressione tipica della storia e del carattere degli Italiani. La cultura fascista, in quel periodo, insisteva sulla italianità del f. come rinascita della ''stirpe'' iniziata con l'interventismo e la guerra. Anche in campo antifascista prevaleva la tendenza a considerare il f. un fenomeno italiano, come rivolta antiproletaria e anticapitalista della piccola borghesia umanistica, impregnata di nazionalismo e di retorica romanistica (L. Salvatorelli) o addirittura come "autobiografia della nazione" (P. Gobetti), cioè come manifestazione e prodotto di secolari deficienze storiche e morali tipiche della società, della classe dirigente e del popolo italiano.
La specificità italiana del f. era un giudizio diffuso anche nelle interpretazioni degli stranieri, ma durante gli anni Trenta, con il proliferare in Europa di movimenti e di regimi autoritari nazionalisti, e soprattutto dopo l'avvento al potere del nazismo, il f. fu percepito sempre più, da avversari e da simpatizzanti, come un fenomeno internazionale. La stessa propaganda fascista cominciò a esaltare l'''universalità'' del f., profetizzando il prossimo avvento di un'Europa fascista o fascistizzata. La guerra civile in Spagna, l'alleanza fra Italia, Germania e Giappone nella seconda guerra mondiale, lo stesso carattere ideologico di questa guerra intesa come conflitto fra f. e antifascismo, rafforzarono definitivamente la convinzione che il f. potesse essere considerato un unico fenomeno internazionale. Questa convinzione fu il denominatore comune delle interpretazioni elaborate dai movimenti antifascisti fra gli anni Trenta e Cinquanta.
La cultura marxista e il movimento comunista furono i primi ad attribuire al f., fin dagli anni Venti, una dimensione internazionale, identificandolo con la reazione della borghesia che, per far fronte all'avanzata del proletariato, si serviva di bande armate di piccoli borghesi declassati. La 3ª Internazionale sancì la codificazione dell'interpretazione del f. come "dittatura terroristica del grande capitale". Per i marxisti, ogni società capitalistica era strutturalmente predisposta al f., mentre dai comunisti era definito fascista qualsiasi movimento o regime anticomunista, compresi, in un determinato momento, i partiti socialisti e socialdemocratici (teoria del ''socialfascismo''). Una parziale correzione di questa visione del rapporto fra capitalismo e f. è stata avanzata da studiosi marxisti che hanno escluso un nesso di causalità necessaria fra capitalismo e f., constatando che, in effetti, nella maggior parte dei paesi capitalisti, come gli Stati Uniti, l'Inghilterra e la Francia, senza considerare paesi minori, come il Belgio e l'Olanda, il regime democratico superò gravi crisi politiche ed economiche, come quella del 1929, senza cedere alle seduzioni del f., che pure vi erano presenti (P. M. Baran, P. A. Sweezy). Altri studiosi dello stesso orientamento hanno parzialmente modificato la definizione del f. come agente del capitalismo, riconsiderando il rapporto fra regime fascista e capitalismo come un'"alleanza" (R. Kühnl), in cui il f. mantiene un suo grado di autonomia, mirando a far prevalere il "primato della politica" anche nella sfera dell'economia (T. Mason).
L'interpretazione marxista è stata contestata dalla cultura liberale, che ha attribuito la genesi e l'affermazione del f. a una "malattia morale", esplosa dopo la prima guerra mondiale, ma iniziata già negli ultimi decenni dell'Ottocento con un progressivo decadimento della coscienza europea, l'imbarbarimento della società e l'irrazionalismo culturale (J. Huizinga). L'infiacchimento della fede nella libertà, l'esaltazione imperialistica, il dispiegarsi della volontà di potenza e della brama di potere, l'attivismo politico e il culto della violenza, sostenuti dai nuovi strumenti dell'industria e della tecnica, furono i fattori che, dopo lo sconvolgimento rivoluzionario della guerra mondiale, favorirono il trionfo del "volto demoniaco del potere" (G. Ritter) con le tirannie di nuovi ''superuomini'' che fondavano il loro potere sulla demagogia, sul terrore e sulla "intronizzazione del pensiero mitico" (E. Cassirer). E come "malattia morale", il f. era stato un "morbo contemporaneo", "sparso dappertutto nel mondo" (B. Croce).
La visione del f. come fenomeno di patologia storica, proiettata però su una dimensione plurisecolare e "metapolitica" (P. Viereck), è stata alla base anche delle interpretazioni di orientamento radicale democratico. F. e nazismo erano visti, cioè, come prodotto di processi storici e sociali tipici di paesi, come l'Italia e la Germania, giunti tardi all'unificazione nazionale, conservando nelle loro strutture politiche, sociali e culturali, una tradizione di autoritarismo che risaliva indietro nei secoli e aveva radici profonde anche nel ''carattere'' dei due popoli, che non avevano assimilato le istituzioni e i valori della moderna coscienza liberale (W. M. McGovern, D. Mack Smith, E. Vermeil). Pur accentuando la specificità delle tradizioni storiche nazionali, fino a lasciar trasparire un pregiudizio etnologico, questa interpretazione portava anch'essa alla teorizzazione della ''universalità'' del fenomeno fascista come reazione alla modernità identificata con il sistema politico ed economico delle democrazie occidentali.
Sebbene fossero opposte per categorie culturali e principi ideologici, queste interpretazioni concordavano però sostanzialmente nel risolvere il problema del f. con l'individuazione delle cause e delle condizioni che lo avevano generato (la reazione borghese, la malattia morale, la resistenza alla modernità), giudicando il f. in sé, come movimento politico, un'aberrazione nel cammino della storia verso la modernità concepita come progresso della razionalità e della libertà. L'irrazionalismo, aspetto essenziale e importante del f., finiva così col diventare una giustificazione per ''demonizzare'' il f. o per rappresentarlo come una ''negatività storica''.
L'insistenza sulla natura patologica del f. è presente soprattutto nei tentativi di interpretazione psicologica. Il f. è stato visto come manifestazione della "personalità autoritaria" (Th. Adorno), come reazione aggressiva di masse sessualmente represse (W. Reich), come "fuga dalla libertà" dei ceti piccolo borghesi che, traumatizzati dai processi di atomizzazione e di alienazione della società di massa, cercarono sicurezza e senso di appartenenza nell'ordine comunitario di un nuovo autoritarismo (E. Fromm). Una diversa prospettiva di analisi, più propensa a prendere in considerazione gli aspetti del f. come ideologia, movimento e regime, è stata adottata dagli studiosi che hanno inquadrato il problema del f. nel fenomeno della moderna società di massa (J. Ortega y Gasset, E. Lederer, W. Kornhauser), considerandolo una nuova forma di radicalismo nazionalista di massa, sostanzialmente diverso dalle destre tradizionali e con un proprio autonomo dinamismo (S. M. Lipset, K. Mannheim, T. Parsons). Altri studiosi hanno accostato il f. al comunismo, accomunandoli sotto la categoria del ''totalitarismo'', cioè di un nuovo sistema di dominio politico, fondato sul partito unico, su un'ideologia integralista, sul terrorismo, sulla mobilitazione demagogica delle masse, sul culto idolatrico del ''capo'' e sulla volontà di controllo totale, materiale e spirituale, della società (H. Arendt, R. Aron, Z. K. Brzezinski, C. Friedrich, S. Neumann, L. Shapiro). In senso più generico e più universalizzante, il concetto di f. è stato adoperato nelle scienze sociali per definire ideologie, movimenti e regimi politici connessi con determinati stadi della industrializzazione, della modernizzazione, della mobilitazione sociale (L. Garruccio, G. Germani, J. A. Gregor, B. Moore jr., A. F. K. Organski, M. Vajda), mentre altri studiosi, pur condividendo la visione del f. come fenomeno internazionale, hanno messo in rilievo l'unicità della costellazione di situazioni e di fattori che consentirono al f., ''ultimo arrivato'' fra i movimenti politici europei dopo la prima guerra mondiale, di assumere, nella scena politica fra le due guerre, un ruolo di protagonista, con una propria fisionomia ideologica, sociale e organizzativa (J. J. Linz). Attraverso queste interpretazioni, le scienze sociali hanno contribuito a collocare il problema del f. in una prospettiva propriamente scientifica, favorendo il superamento delle interpretazioni più immediatamente condizionate da presupposti e fini di natura ideologica e politica.

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