Il Governo Mussolini
Il governo formato il 29-30 ottobre 1922 da Mussolini non ancora quarantenne, fino ad allora il più giovane presidente del Consiglio nella storia d’Italia era ancora, nonostante la carta bianca concessagli dal re, un governo di coalizione, nel quale i fascisti non erano neppure in maggioranza: ne facevano parte ministri e sottosegretari popolari, liberali, democratici, nazionalisti, cattolici, indipendenti, e i due più alti ufficiali dell’Esercito e della Marina, il generale Diaz e l’ammiraglio Thaon di Revel. Ma la situazione del paese in cui nelle giornate decisive era emersa la mancata volontà, dovunque, di resistere era ormai definitivamente nelle mani di Mussolini, e la sua tendenza accentratrice lo spingeva a restringere il campo della coalizione, tanto è vero che, cogliendo il primo pretesto, si disfece della collaborazione del Partito Popolare.
A questo punto Renzo De Felice inserisce nella sua biografia di Mussolini una riflessione, che ci sembra da condividere: Mussolini non era un "capo". Per tre ragioni: perché non aveva un’idea precisa, che gli fosse moralmente di sostegno e di guida nell’azione, degli obiettivi finali alla realizzazione dei quali doveva tendere questa sua azione, cosicché la "grandezza", e il "bene" dell’Italia finivano per ridursi all’esercizio del potere, inevitabilmente inteso come potere personale; perché nutriva una completa sfiducia nella capacità degli uomini di sacrificarsi per la "grande causa" di uno Stato forte e rispettato nel mondo, con punte di vero e proprio disprezzo; e perché non aveva la capacità di valutare gli uomini, il che spiega in gran parte il fatto che si circondò di collaboratori di scarso valore o corrotti. E non fidandosi di nessuno, voleva vedere e controllare tutto, perdendo una quantità di tempo nella lettura dei giornali e nell’occuparsi di questioni minime, esaurendosi nell’ordinaria amministrazione, raramente cimentandosi con lo sforzo di elaborare una linea politica di carattere strategico.
Intanto inaugurò un modo nuovo di trattare il Parlamento: nel suo primo discorso alla Camera dei deputati come presidente del Consiglio, il 16 novembre 1922, disse che avrebbe potuto, se lo avesse voluto, ridurre quell’aula di Montecitorio "sorda e grigia" a "un bivacco di manipoli". Disse anche: "Io non voglio, finché mi sarà possibile, governare contro la Camera, ma la Camera deve sentire la sua particolare posizione che la rende passibile di scioglimento fra due giorni o fra due anni". Parole così oltraggiose — e anche ricattatorie — per tutte le forze politiche non fasciste furono tuttavia applaudite da ogni parte della Camera, a eccezione dei socialisti, dei comunisti e dei repubblicani. E la Camera gli concesse i pieni poteri. Giolitti, Salandra, Bonomi e Orlando votarono a favore, Nitti lasciò l’aula durante la discussione, Amendola si astenne. Al Senato soltanto 26 senatori votarono contro la concessione dei pieni poteri. Tra i votanti a favore, Luigi Einaudi e Luigi Albertini, il quale scrisse nel Corriere della Sera che il fascismo aveva "salvato l’Italia dal pericolo socialista". Poco dopo, il 18 dicembre 1922, fu compiuta a Torino, dalle squadre fasciste, un’orribile "azione punitiva" con devastazioni di abitazioni e uccisioni di avversari, nella completa inerzia delle autorità.
Una settimana dopo il suo insediamento, Mussolini si recò a Losanna, dove in un congresso internazionale si doveva discutere la pace con la Turchia; ma vi si fermò soltanto un paio di giorni, mostrando "la faccia feroce" ma senza dare il minimo contributo alla discussione e soltanto esibendo atteggiamenti sprezzanti verso i delegati e i giornalisti. E nell’azione diplomatica svolta a proposito dell’occupazione francese della Ruhr all’inizio del 1923, Mussolini cominciò, in fatto di politica estera come osservano Salvatorelli e Mira a "parlare a vanvera", dimostrando il suo dilettantismo. Si recò anche, nel dicembre 1922, a un altro congresso internazionale a Londra per il problema delle riparazioni tedesche, e vi restò tre giorni, e ancora una volta si attribuì falsamente un ruolo decisivo, che non vi aveva avuto affatto. Nell’estate del ‘23, cogliendo al volo a pretesto l’uccisione in territorio greco del generale Taluni, Mussolini ordinò l’occupazione militare dell’isola di Corfù, previo un bombardamento della cittadella in cui persero la vita numerosi bambini armeni ivi rifugiati. Ma nonostante le roboanti minacce all’Inghilterra e alla Società delle Nazioni, un mese dopo Mussolini fu costretto a ritirarsi dall’isola, e dovette accontentarsi di cinquanta milioni di lire pagate dai greci.
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