martedì 16 aprile 2013

Quando la Morte arriva cantando: "BANDIERA ROSSA".
              

I LAGER DI TITOtestimonianze e racconti di coloro che riuscirono a sopravvivere
 
L'allievo che si ispiro' al maestro degli orrori e delle torture - Josif Visarionovic Staljin

Roma sapeva, ma ha sempre preferito tacere per non rompere con Belgrado. "Il Borghese" ha scoperto un documento segreto della Marina Militare.

Premessa

Giuseppe Spano aveva 24 anni e molta fame. In poco piu' di un mese aveva perso oltre 20 chili ed era diventato pelle e ossa. Quel 14 giugno 1945 non resistette e rubo' un po di burro. Fu fucilato al petto per furto.

Ferdinando Ricchetti aveva 25 anni ed era pallido, emaciato. Il 15 giugno 1945 si avvicino' al reticolato per raccogliere qualche ciuffo d'erba da inghiottire. Fu fucilato al petto per tentata fuga.

Pietro Fazzeri aveva 22 anni e la sua fame era pari a quella di centinaia di altri compagni. Ma aveva paura di rubare e terrore di avvicinarsi al reticolato. Il 15 luglio 1945 mori' per deperimento organico.

In quale campo della morte sono state scritte queste storie? A Dachau, a Buchenwald oppure a Treblinka ? No, siamo fuori strada: questo e uno dei lager di Tito.

Borovnica, Skofja Loka, Osijek, Stara Gradiska, Sisak, Zemun, Vrsac. Pochi conoscono questi nomi. Dachau e Buchenvald sono certamente piu' noti, eppure sono la stessa cosa. Solo che i primi erano in Jugoslavia e gli internati erano migliaia di italiani, deportati dalla Venezia - Giulia alla fine del secondo conflitto mondiale e negli anni successivi, a guerra finita, durante l'occupazione titina.

Una verita negata sempre, per ovvi motivi, dal regime di Belgrado, ma inspiegabilmente tenuta nascosta negli archivi del nostro Ministero della Difesa. I governi che si sono succeduti dal dopoguerra fino ad oggi per codardia, hanno accettato supinamente di sacrificare sull'altare della politica atlantica migliaia di giuliani, istriani, fiumani, dalmati. Colpevoli solo di essere italiani.

"Condizioni degli internati italiani in Jugoslavia con particolare riferimento al campo di Borovnica (40B-D2802) e all'ospedale di Skofja Loka (11 -D-253 1) ambedue denominati della morte", titola il rapporto del 5 ottobre 1945, con sovrastampato "Segreto", dei Servizi speciali del Ministero della Marina. Il documento, composto di una cinquantina di pagine, contiene le inedite testimonianze e le agghiaccianti fotografie dei sopravvissuti, accompagnate da referti medici e dichiarazioni dell'Ospedale della Croce Rossa di Udine, in cui questi ultimi erano stati ricoverati dopo la liberazione, e da un elenco di prigionieri deceduti a Borovnica. Il colonnello medico Manlio Cace, che in quel periodo ha collaborato con la Marina nel redigere la relazione che, se non e stata distrutta, e ancora gelosamente custodita negli archivi del ministero della Difesa, lascio' fotografie e copia del documento al figlio Guido, il quale lo ha consegnato alle redazioni del Borghese e di Storia illustrata.

"Le condizioni fisiche degli ex internati", premette il rapporto, "costituiscono una prova evidente delle condizioni di vita nei campi iugoslavi ove sono ancora rinchiusi numerosi italiani, molti dei quali possono rimproverarsi solamente di aver militato nelle fila dei partigiani di Tito in fraterna collaborazione con i loro odierni aguzzini...

" Nel rapporto del carabiniere Damiano Scocca, 24 anni, preso dai titini il 1 maggio 1945, si puo' leggere quanto segue: " il vitto era pessimo e insufficiente e consisteva in due pasti al giorno composti da due mestoli di acqua calda con poca verdura secca bollita (...) A Borovnica non si faceva economia di bastonate; durante il lavoro sul ponte ferroviario nelle vicinanze del campo chi non aveva la forza di continuare a lavorare vi veniva costretto con frustate...".

"...Durante tali lavori", afferma il finanziere Roberto Gribaldo, in servizio alla Legione di Trieste e "prelevato" il 2 maggio, "capitava sovente che qualche compagno in seguito alla grande debolezza cadesse a terra e allora si vedevano scene che ci facevano piangere. il guardiano, invece di permettere al compagno caduto di riposarsi, gli somministrava ancora delle bastonate e tante volte di ritorno al campo gli faceva anche saltare quella specie di rancio".

Antonio Garbin, classe 1918, e soldato di sanita' a Skilokastro, in Grecia. L' 8 settembre 1943 viene internato dai tedeschi e attende la "liberazione" da parte delle truppe jugoslave a Velika Gorica (Zagabria). Ma si accorge presto di essere nuovamente prigioniero. "Eravamo circa in 250. Incolonnati e scortati da sentinelle armate che ci portarono a Lubiana dove, dicevano, una Commissione apposita avrebbe provveduto per il rimpatrio a mezzo ferrovia. Giunti a Lubiana ci avvertirono che la Commissione si era spostata...". I prigionieri inseguono la fantomatica commissione marciando di citta' in citta' fino a Belgrado. "In 20 giorni circa avevamo coperto una distanza di circa 500 chilometri, sempre a piedi", racconta ancora Garbin ai Servizi speciali della Marina italiana. "La marcia fu dura, estenuante e per molti mortale. Durante tutto il periodo non ci fu mai distribuita alcuna razione di viveri. Ciascuno doveva provvedere per conto proprio, chiedendo un pezzo di pane ai contadini che si incontravano... Durante la marcia vidi personalmente uccidere tre prigionieri italiani, svenuti e incapaci di rialzarsi. I morti pero sono stati molti di piu' ... Ci internarono nel campo di concentramento di Osijek. Avevamo gia raggiunto la cifra di 5 mila fra italiani, circa un migliaio, tedeschi, polacchi, croati...".

Nei campi di concentramento finiscono anche i civili, come Giacomo Ungaro, prelevato dai titini a Trieste il 10 maggio 1945. "Un certo Raso che attualmente trovasi al campo di Borovnica", e la dichiarazione di Ungaro, "per aver mandato fuori un biglietto e stato torturato per un' intera nottata; e stato poi costretto a leccare il sangue che perdeva dalla bocca e dal naso; gli hanno bruciacchiato il viso e il petto cosi' che aveva tutto il corpo bluastro. Sigari accesi ci venivano messi in bocca e ci costringevano ad ingoiarli".

I deperimenti organici, la dissenteria, le infezioni diventano presto compagni inseparabili dei prigionieri. "...Fui trasferito all'Ospedale di Skofja Loka. Ero in gravissime condizioni", e il lucido resoconto del soldato di sanita' Alberto Guarnaschelli, "ma dovetti fare egualmente a piedi i tre chilometri che separano la stazione ferroviaria dall'ospedale. Eravamo 150, ammassati uno accanto all'altro, senza pagliericcio, senza coperte. Nella stanza ve ne potevano stare, con una certa comodita', 60 o 70. Dalla stanza non si poteva uscire neppure per fare i bisogni corporali. A tale scopo vi era un recipiente di cui tutti si dovevano servire. Eravamo affetti da diarrea, con porte e finestre chiuse. Ogni notte ne morivano due, tre, quattro. Ricordo che nella mia stanza in tre giorni ne morirono 25. Morivano e nessuno se ne accorgeva...".

"Non dimentichero' mai i maltrattamenti subiti", e la testimonianza del soldato Giuseppe Fino, 31 anni, deportato a Borovnica ai primi di giugno 1945, "le scudisciate attraverso le costole perche sfinito dalla debolezza non ce la facevo a lavorare. Ricordero' sempre con orrore le punizioni al palo e le grida di quei poveri disgraziati che dovevano stare un' ora o anche due legati e sospesi da terra; ricordero sempre con raccapriccio le fucilazioni di molti prigionieri, per mancanze da nulla, fatte la mattina davanti a tutti...".
"Le fucilazioni avvenivano anche per motivi futili...", scrive il rapporto segreto riportando il racconto dei soldati Giancarlo Bozzarini ed Enrico Radrizzali, entrambi catturati a Trieste il 1 maggio 1945 e poi internati a Borovnica.

"La tortura al palo consisteva nell'essere legato con filo di ferro ad ambedue le braccia dietro la schiena e restare sospeso a un'altezza di 50 cm da terra, per delle ore. Un genovese per fame rubo' del cibo a un compagno, fu legato al palo per piu di tre ore. Levato da quella posizione non fu piu' in grado di muovere le braccia giacche', oltre ad avere le braccia nere come il carbone, il filo di ferro gli era entrato nelle carni fino all' osso causandogli un'infezione. Senza cura per tre giorni le carni cominciarono a dar segni di evidente materia e quindi putrefazione. Fu portato a una specie di ospedale e precisamente a Skofja Loka. Ma ormai non c'era piu niente da fare, nel braccio destro gia pul­lulavano i vermi... Al campo questo ospedale veniva denominato il Cimitero".

Nel lager di Borovnica furono internati circa 3 mila italiani, meno di mille faranno ritorno a casa. A questi ultimi i soldati di Tito imposero di firmare una dichiarazione attestante il "buon trattamento" ricevuto. "I prigionieri (liberati, ndr) venivano diffidati a non parlare" - racconta ancora Giacomo Ungaro, liberato nell'agosto 1945 " e a non denunziare le guardie agli Alleati perche in tal caso quelli che rimanevano al campo avrebbero scontato per gli altri

I principali sistemi di tortura

Per conoscere gli orrori di un campo di concentramento titino e opportuno riassumere i vari tipi di punizione, come emergono dai racconti dei sopravvissuti. La prima e la fucilazione decretata per la tentata fuga o per altri fatti ritenuti gravi da chi comanda il campo, il quale commina pene sommarie. Spesso il solo avvicinarsi al reticolato viene considerato un tentativo di evasione. Le esecuzioni avvienivano al mattino, di fronte a tutti gli internati.
Ce poi il "palo" che e un asta verticale con una sbarra fissata in croce: ai prigionieri vengono legate le braccia con un fil di ferro alla sbarra in modo da non toccare terra con i piedi. Perdono cosi l'uso degli arti superiori per un lungo tempo se la punizione non dura troppo a lungo. Altrimenti per sempre.
Altra pena e il "triangolo" che consiste in tre legni legati assieme al suolo a formare la figura geometrica al centro della quale il prigioniero e obbligato a stare ritto sull'attenti pungolato dalle guardie finche non sviene per lo sfinimento.
Infine, c'e la "fossa", una punizione forse meno violenta ma sempre terribile, che consiste in una stretta buca scavata nel terreno dell esatta misura di un uomo. Il condannato, che vi deve rimanere per almeno mezza giornata, non ha la possibilita' ne di piegarsi ne di fare alcun movimento.

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