sabato 13 aprile 2013

Combattenti della RSI,
ultime sentinelle della terra


Il primo fra noi a parlare di resistenza fu il prof. Carlo Alberto Biggini, ministro dell'educazione nazionale prima del 25 luglio e durante la RSI, con un articolo pubblicato nel "Popolo di Roma" del 21 aprile 1943. Dopo pochi giorni infatti con la caduta di Tunisi, si concluse l'ultimo atto della nostra tragedia africana. Lo scritto del ministro Biggini, affidando ad insegnanti e studenti la consegna ad impegnare tutte le energie nel fronteggiare l'imminente sbarco del nemico sulle nostre coste, suscitò un clima di alta tensione patriottica. La quale raggiunse il suo acme con il discorso, teso a promuovere la concordia di tutti per la difesa della Patria in pericolo, pronunciato in Campidoglio il 24 giugno da Giovanni Gentile.
Così parlò il ministro: «Questa grande ora della nostra storia non può non essere viva nella coscienza di ogni docente, perché viva fu, in circostanze simili, nella coscienza dei nostri padri (...) Oggi la loro voce ha nelle aule scolastiche un timbro che non ebbe mai; da Dante a Mazzini tutti i grandi italiani diventano testimoni della certezza che alla più nobile delle nazioni spetti il più nobile destino (...) La scuola ha sempre rivendicato a sé il diritto di essere la prima custode dell'integrità spirituale del Paese, ora più prezioso di questo non vi ha, per fornire di questo suo privilegio il segno più austero (...) insegnare non può avere oggi altro significato che insegnare a resistere. Oggi il nostro lavoro non può essere che lotta, affinché la nostra pace sia una vittoria». In quel frangente gli italiani percepirono di vivere un momento cruciale della loro storia. Poi la lotta ci fu e, sciaguratamente, fu anche fratricida. La cui analisi, però, esige una preliminare reinterpretazione critica delle sue non poche anomalie, prima fra tutte quella che, pur avendo assunto le caratteristiche di vera e propria guerra civile, a motivo di attività militarmente irrilevanti (Eisenhower), è stata contrabbandata come guerra di liberazione nazionale. Anche la sentenza n° 747 emessa dal Tribunale Supremo Militare in data 26.04.'54, nel generoso intento di evitare che: «... al cospetto delle altre nazioni "si formasse" una leggenda che non torna ad onore del popolo italiano», gettò un pietoso velo sopra un'amara realtà, affermando che: «... la guerra fraterna non fu inizialmente voluta, ma fatalmente sorse dalla disfatta». Ciò corrisponde al vero soltanto in parte, perché -come è stato dimostrato in sede storica- la guerra civile fu propiziata dal nemico ancor prima dell'8 settembre '43; nemico che non combatteva il fascismo in quanto tale, bensì mirava a fiaccare in ogni senso i popoli europei, per meglio dominarli in seguito,

La guerra civile in Italia
L'esercito italiano entrò in guerra nel '40 senza alcuna preparazione necessaria per affrontare la guerriglia-controguerriglia; la classe dirigente fascista -anche durante la RSI- dimostrò eccessiva tendenza al legalitarismo; lo scontro Ricci-Graziani e le difficoltà che incontrò la costituzione delle BB.NN. la dice lunga nel merito; la stessa Wehrmacht, erede del grande S.M. prussiano, elaborò le prime disposizioni per la controguerriglia nel maggio del 1944. Anche nella resistenza soltanto pochissimi dirigenti comunisti, che avevano assimilato i concetti leninisti riguardanti l'inimicizia assoluta, la inseparabilità della guerra partigiana dalla guerra civile e la ineluttabilità della rivoluzione violenta, possedevano cognizioni di guerra rivoluzionaria. Ciò li indusse in errori gravissimi. Non tollerarono il biunivoco rapporto che li legava (unico fattore, l'antifascismo) agli altri componenti il CLN, il quale registrò al suo interno drammatiche tensioni ed eccidi, molti dei quali attribuiti poi ai fascisti; combatterono come nemico di classe un esercito costituito da lavoratori e da figli di lavoratori; infierirono selvaggiamente, dopo il 25 aprile '45, su fascisti giovanissimi che, in buona fede, avevano deposto le armi.
Di fatto, salvo rarissime eccezioni da entrambe le parti contendenti, non emersero personalità autenticamente, rivoluzionarie, dotate cioè di forti convinzioni di indipendenza di giudizio e di vocazione alla lotta anche in solitudine. Tanto è che ben presto essi si divisero in attivisti della NATO e in quelli del Patto di Varsavia, così palesando tutto il proprio servilismo nei confronti dei «padroni del vapore», USA-URSS-Vaticano. Si deve però aggiungere che c'è, come sostiene Pacifico D'Eramo con il suo libro perennemente attuale "La liberazione dall'antifascismo": «incompatibilità tra l'abito mentale e morale fascista e la guerra partigiana, (...) ma anche necessità di agire a viso aperto, di battersi per i propri ideali sul campo di battaglia e non mediante l'insidia, il colpo alla nuca, la premeditata provocazione dell'odio, l'uccisione di connazionali inermi».
Comunque, l'attività della resistenza in Italia fu diretta:
1) ad uccidere proditoriamente fascisti e tedeschi, anche secondo le direttive giornaliere di radio Londra;
2) a molestare le formazioni militari di uno Stato italiano de facto, che tuttavia: «... emanava le sue leggi e i suoi decreti senza l'autorizzazione dell'Alleato tedesco, rispetto a quello de jure, che, invece: «... esercitava il suo potere sub condicione, nei limiti assegnati dal comando degli eserciti nemici (cfr. p. 35 della citata sentenza), e dava luogo ad una fiera ed efficiente difesa contro il nemico sui confini di terra, di mare e di cielo. I partigiani, invece, agirono d'appoggio alle truppe nemiche e sostennero persino (i soli socialcomunisti) la pretesa di Tito di portare il nostro confine orientale fino a Cervignano. Conclusa la pace, i partigiani R. Pacciardi e P. E. Taviani concessero rispettivamente l'installazione delle basi americane in Italia e la Zona B del Territorio Libero di Trieste alla Jugoslavia;
3) a disturbare le truppe non di un esercito occupante (non dimentichiamo che fu lo SM di Badoglio a sollecitare presso quello germanico l'invio in Italia di 16 divisioni), bensì quelle di una Nazione alleata. Ciò distingue nettamente la resistenza italiana dalle formazioni partigiane di altri paesi contro eserciti realmente invasori;
4) tale resistenza fu contraddistinta da completa dipendenza dagli eserciti nemici (che fossero nemici lo conferma, come abbiamo visto, il più alto Organo della giustizia militare dell'Italia attuale), i quali la diressero, finanziarono e armarono. Lo dimostrano il Promemoria di accordo fra il CLNAI e il Comando supremo alleato sottoscritto a Casetta il 07.12.1944, la presenza di un capo militare designato dagli alleati nella persona del gen. R. Cadorna, la occhiuta missione alleata con sede in Svizzera e le altre missioni paracadutate nelle zone in cui si verificavano deviazioni dai compiti loro assegnati dagli alleati;
5) i partigiani italiani, per altro, furono riconosciuti dal governo c.d. «legittimo», mediante provvedimento del 28.02.1945, con grave pregiudizio giuridico delle azioni precedentemente compiute.
In Italia, quindi, le resistenze furono due:
- quella della RSI, nel corso della quale circa 800 mila italiani, subendo con profonda ripulsa ed amarezza la guerra civile, combatterono tenacemente contro gli angloamericani e contro le bande slave che premevano sul confine orientale. Questa perse la guerra con onore e acquisì il diritto di risorgere nell'avvenire;
- quella dei partigiani degli angloamericani, la quale -malgrado la volontà contraria di taluni suoi protagonisti pensosi del bene della Patria- agì in funzione di finalità opposte agli interessi del popolo italiano. Questa non ha saputo vincere la pace ed è responsabile della degenerazione morale, politica e religiosa della Nazione.

Carenze semantiche del termine «partigiano»
Al centro delle varie interpretazione del «partigiano» si colloca, per acutezza e completezza d'indagine storico-giuridico-filosofica la "Teoria del partigiano", (Il Saggiatore, Milano 1981), pregevole opera del noto filosofo del diritto e dello stato, Carl Schmitt, alla quale, in questa sede, ci riferiamo solo di sfuggita. Come è noto, le convenzioni internazionali dell’Aja e di Ginevra individuano nella irregolarità e illegalità i precipui caratteri distintivi dell'azione partigiana, e quelli accessori nella mobilità, impegno politico, carattere tellurico, clandestinità e oscurità. Però, dal momento che nel corso di eventi bellici non sono da escludere azioni malavitose e mercenarie, adottando soltanto questi parametri, si corre il rischio di raccogliere sotto la medesima categoria più soggetti diversi e fra loro antinomici, e di omettere l'elemento fondamentale della prassi rivoluzionaria, la sorpresa. Ciò deriva dall'abusato sofisma che presenta la guerra rivoluzionaria come minore, rispetto a quella regolare vista come maggiore. Nondimeno, potendosi la prima valere degli aspetti più complessi della psicologia (si pensi alle innumerevoli varianti della prassi cui può dar luogo il volontarismo soggettivistico, secondo il quale le situazioni non sono valutabili se non dal modo in cui il singolo le percepisce), è da considerarsi arte più sottile e creativa della seconda. Comunque sia, è assurdo comprendere la nozione e il carattere della guerra partigiana come contemplata in un orizzonte in cui appaiano una pluralità di situazioni tutte ordinate -come in teologia- ad unico fine. Senza cioè tener conto che è la volontà autonoma individuale a guidare le azioni umane, e, quindi che le finalità ad esse sottese non possono che essere giudicate secondo situazioni operative oggettivamente e soggettivamente diverse.
Esaminiamo due personaggi esemplari: J. G. Tupac Amaru e R. Bentivegna. Il primo, dopo circa 300 anni di massacri e di orrende nefandezze perpetrate dagli spagnoli, nella sua terra e contro la sua gente, si ribellò e infine, legato a quattro cavalli venne cristianamente fatto squartare nella piazza di Cuczo. Il secondo, in assenza di altrui massacri, ne compì un primo al fine di provocarne un altro più grande contro i propri concittadini. Uccise poi a sangue freddo, un suo compagno di partigianeria, perché aveva semplicemente strappato un manifesto comunista. Non venne squartato. Anzi, gli venne concessa una ricompensa al V.M.
Questi due uomini tanto diversi possono essere davvero accomunati nell'unica definizione di «partigiani»?
Usato come sostantivo o come aggettivo, il termine «partigiano» fatto derivare da «Parteiganger» (= adepto di un partito) o da un vago «prender partito», non potendo esso assumere sempre un significato univoco atto a caratterizzare l'insieme delle azioni partigiane, necessita pertanto di una più acconcia definizione. La medesima lacuna è avvertita anche da Schmitt quando ammette che: «I diversi tipi di guerra partigiana possono ben mescolarsi e assomigliarsi nella pratica concreta, tuttavia nel fondo continuano a differenziarsi così profondamente da diventare il criterio secondo cui si vengono a formare certi schieramenti politici». A nostro avviso, per addivenire ad un appropriato criterio assiologico, s'impone quindi una più precisa focalizzazione delle motivazioni su cui si fondano le azioni partigiane. In altri termini, escludendo le azioni meramente malavitose, il significato di «partigiano» non può non implicare una radicale discriminazione fra:
* formazioni armate che agiscono a scopi mercenari;
* franchi tiratori
* spie e sabotatori;
* gruppi di rivoluzionari che, seguendo un progetto di rivoluzione mondiale, si battono per sconvolgere lo status quo nel proprio, o in altri paesi;
* rivoltosi di ogni specie;
* formazioni armate autoctone (regolari o non) che lottano all'interno, del proprio paese, contro eserciti invasori «nella più nobile di tutte le guerre, quella che un popolo combatte sul proprio suolo per la difesa della libertà e dell'indipendenza» (von Clausewitz).
Ai componenti di queste ultime non dovrebbe essere dato altro nome che quello di patrioti, anzi, secondo la bella definizione schmittiana, quello di «ultime sentinelle della terra» che ben si addice ai Combattenti della RSI.

Complotti, stragi di stato e antifascisteria
Il 1965 fu un anno denso di incognite per il Mediterraneo. L'andamento problematico delle operazioni militari in Vietnam e gli insuccessi registrati dall'USIS (United Simes information service) nello spegnere le tendenze autonomistiche dei Paesi del Mediterraneo, indussero il Pentagono ad una drastica correzione di rotta della propria politica nell'area. Gli accordi di Yalta impedirono l'atlantizzazione delle popolazioni balcaniche, le quali soltanto ora stanno subendo gli effetti della svolta del '65, mentre il mare nostrum è interamente atlantico da un pezzo. Questa, in sintesi, era la situazione nel '65. Dopo un periodo di fronda, De Gaulle si preparava a sfrattare la NATO e le relative basi. Franco, spinto anche dall'antiatlantico ammiraglio Carrero Blanco, minacciava di non rinnovare il contratto delle basi. In Algeria, Ben Bella manifestava chiare intenzioni socialistiche. Burghiba guardava sempre più a Parigi che a Washington. In Libia, Re Idris vacillava sotto la pressione modernizzatrice dei giovani ufficiali. Nasser, a capo della Lega Araba e militarmente rafforzato con l'aiuto dell'URSS, si era riavvicinato alla Siria e all'Iraq e aveva stipulato un accordo commerciale e di stretta collaborazione con la Francia. In Turchia, il governo di S. Demirel, monocolore appoggiato dai militari, giocava su due tavoli, uno con gli USA e l'altro con l'URSS. La Grecia, abitualmente poco atlantica, viveva un periodo di grande instabilità per il contrasto fra Re Costantino e Papandreu. Dotato del 2° esercito più potente d'Europa, Tito, consolidata la propria posizione di equidistanza dai due blocchi, godeva di notevole prestigio internazionale in quanto leader dei Paesi non allineati. Persino in Israele, il governo di L. Eshkol, consigliato da Golda Meir, perseguiva una politica di minore dipendenza dagli USA.
L'Italia -che ha sempre rappresentato l'anello debole di qualsiasi alleanza- avvertiva i postumi del «Piano Solo» e delle oscure dimissioni di Segni. Fiacchi e sterili i governi di centrosinistra, provocavano continui scioperi. Sotto la guida del massone G. Saragat, la Nazione presentava un quadro desolante di umiliazioni all'estero e di crescente decadenza morale, sociale e politica all'interno. Si faceva strada inoltre quel caos assiologico teso a ribaltare le basi delle valutazioni in sede storica e politica, il quale venne così interpretato da N. Bobbio in un raro momento di sincerità: «... il bilancio della nostra generazione è stato disastroso. Inseguimmo le alcinesche seduzioni della Giustizia e della Libertà: abbiamo realizzato ben poca giustizia, e forse stiamo perdendo la libertà (...) il tribunale della storia (...) ha l’ufficio non già di far vincere il giusto, ma di dare l’aureola del giusto a chi vince ...» (cfr. "Filosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo", ed. Garzanti 1971, p. XI). Senza fare alcun riferimento a quanto dianzi esposto, il recentissimo libro di U. M. Tassinari ("Fascisteria", ed. Castelvecchi, Roma 2001), assumendo ad oggetto «... l'eversione neofascista (...) in un quadro di complotti (...) in cui (...) diviene uno strumento (non sempre consapevole) fra i tanti gettati sul tavolo della Guerra Fredda ...», rappresenta una delle più complete cronistorie della strategia della tensione e uno sforzo di verità, simile a quello compiuto dalla Commissione Stragi. Constatiamo tuttavia che la verità rimane a notevole distanza dallo sforzo, e che l'antifascismo persiste nell'errore di non considerare il fascismo per quel che è stato, è e sarà: un movimento politico del tutto originale, inconfondibilmente individuato sotto gli aspetti fenomenologici, etici, politici, sociali, filosofici e religiosi, il quale ha raggiunto la completa formulazione rivoluzionaria con la fondazione della prima Repubblica Sociale della storia e con il pacifico superamento del capitalismo. Militarmente sconfitti e civilmente perseguitati, i fascisti sebbene siano stati reiteratamente istigati hanno evitato l'abbraccio mortale dell'antifascismo e continuato a contrastare il nemico di sempre, l'alleanza USA-URSS-Vaticano; inoltre, per la netta separazione del potere civile da quello ecclesiastico, hanno promosso la denuncia del Concordato.
È vero, alcuni ex-fascisti (ma non lo furono anche Fanfani, Moro, Taviani, Ingrao, ecc.?) sono passati all'antifascismo. Però, dal momento che, analogamente ai partigiani, furono sovvenzionati, armati e diretti da centrali antifasciste e antinazionali, non si vede per quale ragione la loro abiura sarebbe avvenuta in modo non sempre consapevole. La tesi buonista del Tassinari oltre a non reggere alla prova dei fatti, implica anche la non consapevolezza del PCI in ordine alla prassi imperialistica dell'URSS; per cui A. Del Noce ha sostenuto che: «... la forma filosoficamente più rigorosa (del marxismo- N.d.R.) non realizza la rivoluzione, ma il suo contrario» (cfr. "Il suicidio della rivoluzione", Rusconi, Milano 1992, p. 130). L'antifascismo, quindi non può sottrarsi alle responsabilità di quanto è avvenuto dal 25 aprile 1945 in poi.

Guerra fredda - genesi di una tragicommedia
La guerra fredda si reggeva su due pilastri: il rispetto dei patti di Yalta e il fraudolento iperdimensionamento dell'avversario. Tutti si sono avvalsi di tale singolare situazione: gli USA e l'URSS come giustificazione della rispettiva presenza militare ed influenza politica in territori altrui, e i comunisti e gli anticomunisti, per ottenere copiosi finanziamenti dai rispettivi padrini. In Italia se ne giovarono largamente anche il Vaticano e la mafia per i propri fini. Di ciò esistono prove tanto numerose quanto irrefutabili. Inquisita nel 1975 dalla Commissione Church, la CIA, ad es., ammise di aver distribuito in Italia, dal '48 al '72, ben 75 milioni di dollari. Nel solo 72, il MSI -circostanza confermata da Cossiga e da Caradonna- ottenne 800 mila dollari (cfr. Caretto-Marolo, "Made in USA", ed. Rizzoli, Milano 1996, p. 131). Tutti i partiti, del resto, hanno ammesso di aver ricevuto finanziamenti sia dall'Est che dall'Ovest.
Come abbiamo accennato, gli angloamericani hanno sempre posto notevole attenzione al Mediterraneo. Significativo in senso geopolitico è il messaggio inviato il I marzo '48 dall'ambasciatore USA a Vienna, Henhardt al segretario di stato Marschall: «... una Italia dominata dai comunisti comprometterebbe e forse renderebbe insostenibile l'intera posizione americana nel Mediterraneo e nel Medio Oriente (ibidern, p. 8). Da questa e da altre analoghe considerazioni nacque il problema dell'atteggiamento dell'URSS, del PCI e della cd. guerra rivoluzionaria. Quest'ultima si palesò subito come una macchinazione della CIA, finalizzata a coinvolgere i vertici degli eserciti di quei Paesi in cui avrebbe potuto rendersi necessario il passaggio dei potere nelle mani dei militari. Il PCI lo comprese in pieno: attenuò i tumulti di piazza e, nelle occasioni elettorali che lasciavano paventare il «sorpasso», fece sorgere surrentizie formazioni del tipo PSIUP, PDUP, ecc. A fortiori, lo compresero i fascisti. Qual era, però, il vero atteggiamento del PCI? Certuni sembrano accorgersi soltanto ora che tale atteggiamento abbia assunto carattere di relativa pericolosità nel breve periodo che va dal settembre '47 (riunione del Cominform di Szklarska Poreba) al 24 marzo '48, data del seguente telegramma cifrato di Molotov all'ambasciatore russo a Roma Kostylev: «per quanto riguarda la presa del potere attraverso una insurrezione armata, consideriamo che il PCI in questo momento non può attuarla in nessun modo» (cfr. "Nuova Storia Contemporanea", gennaio/febbraio 2001, p. 114). Da quel giorno, un solo bolscevico italiano, Pietro Secchia, continuò a sognare la lotta armata. A sognare, appunto. Tuttavia, nel medesimo periodo, non distratti osservatori capirono al volo il nuovo modus operandi dei bolscevichi in tutta l'Italia del Nord, Toscana compresa, e principalmente lungo il confine orientale, ove era evidente l'andirivieni dei partigiani italiani trasferitisi a suo tempo in territorio slavo (oltre un migliaio della sola Monfalcone), i quali una volta tornati clandestinamente in Italia, venivano assistiti e diretti dall'UAIS (Unione antifascista italo-slovena). Il dato essenziale della sordida vicenda dei complotti e delle stragi risiede quindi nel fatto che i complottatori, seppure ignorassero quel telegramma, erano bene a conoscenza dell'intrinseca impotenza del PCI e del suo rigido rapporto di dipendenza-obbedienza con Mosca. L'atteggiamento necessariamente difensivo del PCI emerse chiaramente nel luglio del '48 (attentato a Togliatti), e nel luglio del '60 con i disordini contro il governo Tambroni nei quali non pochi individuarono lo zampino di Fanfani.
Nessuna meraviglia, nella patria euroatlantica ed ebraizzata tutto è possibile: la politica influenza la cultura e non viceversa, la propaganda viene confusa con l'informazione, i «rivoluzionari» del PSI passano all'Alleanza atlantica nei primi anni '60, quelli del PCI nel '76 e, a fine secolo, insieme ai baciapile DC e agli ex-camerati del MSI, bombardano umanitariamente gli ex-compagni serbi.
Il quieta non movere non è per noi. È bene rimeditare sui punti salienti dei rapporti di collaborazione fra destra neofascista e regime antifascista, miranti all'asservimento della Nazione all'altrui imperialismo. Quello che diciamo non va trascurato. Ri-meditare non vuoi dire rimestare, ma piuttosto prendere coscienza dell'inganno perpetrato in danno della Nazione e di quanti, anche nel MSI, credettero sinceramente di fornire onorevole testimonianza di fedeltà alla Causa. Vuol dire, altresì, rivendicare con assoluta intransigenza i sacrifici e le umiliazioni patiti da quanti a quell'inganno tenacemente si opposero.
Appena cessate le ostilità in Europa, gli USA, mediante la "Operation Sunrise", valendosi della collaudata centrale di spionaggio del Vaticano, diedero luogo al salvataggio di quei fascisti e nazisti che già avevano dimostrato disponibilità alla collaborazione. Ad es., l'ammiraglio E. W. Stone, capo della Commissione alleata di controllo per l'Italia e vecchio amico del padre di J. V. Borghese, diede ordine a J. J. Angleton, capo dell'OSS, di travestire: «... da ufficiale americano il Comandante della Decima Mas, condannato a morte, e di nasconderlo» (ibid. p. 122). Un memorandum riservato della Casa Bianca del 09.03.48, dispone di considerare le elezioni del 18 aprile: «Con lo stesso spirito dello sbarco in Normandia», e che: «... non si deve lasciare nulla di intentato per impedire ai comunisti di prendere il controllo dell'Italia con mezzi legali» (ibid. p. 14). Un commento degli Autori avverte che già nel '46: «Nell'opinione dei servizi segreti americani, i vari gruppi eversivi fascisti (...) sono infiltrati dagli 007, o sono addirittura al servizio dell'America» (ibid. p. 176).
Uno dei «servizi» più rilevanti resi all'antifascismo dagli ex-fascisti si concretizzò nel Convegno promosso dallo SM (auspice la CIA) per lo studio della guerra rivoluzionaria, che ebbe luogo in Roma presso l'Istituto A. Pollio nei giorni 3, 4 e 5 maggio 1965. Presieduto dal magistrato S. Alagna, dal gen. A. Nulli-Augusti, A. Magi-Braschi, G. Finaldi e P. Balbo, segretario, tale Convegno vide la partecipazione di E. de Boccard, E. Betrametti, G. Giannettini, G. Accame, A. Cattabiani, V. De Biasi, C. De Risio, P. Filippani-Ronconi e F. Gianfranceschi, V. Angeli, M. Bon-Valsassina, D. Ferrari, I. M. Lombardo, R. Mieili, G. Pisanò, G. Ragno, P. Rauti. O. Roncolini, e O. Torchia. Senza considerare le recenti dichiarazioni rese dall'ex-generale G. Maletti, si trattò, a parer nostro, di un'accolita di servi dei servi dell'alleanza atlantica. Lo dimostrano l'animus mercennarius e la totale adesione dei partecipanti alle tesi dello S.M., che emergono dalle relazioni, le comunicazioni presentate e gli interventi ivi svolti (riportati in "La guerra rivoluzionaria", ed. G. Volpe, Roma 1965), tutti concordi nel compiere il sacro dovere di coinvolgere il maggior numero possibile di giovani in una eventuale lotta fratricida nel caso del sorpasso elettorale della DC da parte PCI e dell'agognata presa del potere, da parte dei militari. Taluni peccarono anche per eccesso di zelo: Beltrametti, ad es., si preoccupò del fatto che: «... il margine della smisurata potenza dell'America (...) si è assottigliato»; Pisanò, ammise che «le forze armate sono pronte a fare miracoli (sic) ma non basta, perché i comunisti, conducono una guerra completamente fuori da ogni schema», e P. Filippani-Ronconi il più culturalmente dotato e il meno ad essere mosso da motivi personali e di carriera, propose che i facenti parte «le associazioni d'arma, nazionaliste, irredentiste, ginnastiche, di militari in congedo -qualcosa come i Somoten (sostantivo catalano indicante un'antica milizia municipale = soldato ausiliario - N.d.R.) dovrebbero essere pronti ad affiancare (...) le forze dell'ordine», e così via mentendo. Mentiva spudoratamente anche lo S.M. il cui scopo era quello di strumentalizzare un congruo numero di civili più o meno militarizzati in grado di fornire anche lo spettacolo del popolo osannante le truppe liberatrici dalla barbarie bolscevica. Comunque, dalle risultanze del Convegno e dai successivi atti (eversivi, terroristici e non) non si reperisce alcuna azione o intenzione che possa far pensare minimamente alla difesa e all'affermazione di princìpi fascisti. Dov'era, dunque la fascisteria?

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