Mussolini si confessa alle stelle.
Da parti di questo documento è ricavato il famoso “testamento politico” di Benito Mussolini, di incerta provenienza e probabilmente falso e strumentale. Riguardo a quanto segue, la veridicità è certa.
Durante un’udienza alla villa delle Orsoline, il giornalista Ivanoe Fossani si era sentito chiedere da Mussolini dove fosse esattamente l’isola di Trimellone, e gliela aveva mostrata sul Garda, verso la riva opposta a Gargnano. «Se un giorno – aveva poi detto Mussolini – ti mandassi a dire di volerti vedere, senz’altra indicazione, resta inteso che l’appuntamento è nell’isola Trimellone, alle ventuno. Vieni solo, assolutamente solo ». Il 20 marzo 1945, a mezzo dell’amico Ottavio Dinale, Fossani riceve l’avviso, e prima dell’ora stabilita si trova nell’isola, dominata dai resti di un vecchio forte. Mette alla catena un feroce cane lupo di guardia, prima che l’ospite atteso giunga attraverso il lago agitato, su un motoscafo che subito si allontana. Saltato agilmente sulla riva, Mussolini, senza dire parola, si mette a percorrere la piccola isola insieme al giornalista, sotto un nitido cielo stellato, chiuso dal monte Baldo verso Verona e dal monte Gu verso Brescia. Poiché il cane abbaia furiosamente, Mussolini gli va vicino, gli prende con la destra la mascella inferiore, con la sinistra lo accarezza fissandolo negli occhi ed esortandolo a chetarsi. Benché famoso per le sue precedenti aggressioni, il cane tace e, agitando festosamente la coda, si drizza contro l’uomo sulle gambe posteriori, e si accuccia silenzioso quando è respinto. Solo allora Mussolini comincia un soliloquio di sfogo alla fonda amarezza dell’animo suo, senza mai fare interloquire Fossani, che, durante l’incontro, dice soltanto il nome del cane: Tell. « Avevo intuito fin dall’inizio – avverte il giornalista – che il suono di un’altra parola avrebbe rotto l’incanto di un grande uomo sventurato, che aveva deciso di confessarsi alle stelle ». Il soliloquio, in cui Mussolini passa senza un ordine apparente da un argomento all’altro, è qui riportato. (Da: IVANOE FOSSANI- Mussolini si confessa alle stelle – Casa Editrice « Latinità », Roma, 1952).
SOLILOQUIO IN « LIBERTA » ALL’ISOLA TRIMELLONE - Ah ! Ero stufo, sono stufo, sarò stufo della continua sorveglianza. Sono anni che ad ogni passo trovo una faccia che mi spia. Con la scusa della protezione sono costretto a fare sapere ad altri quello che faccio. Le noie del potere sono due: dover trattare con ogni sorta di imbecilli ed essere controllato anche nelle cose intime. Lo fanno per tuo bene, dicono, ma intanto ti strappano a te stesso. E’ una prigione dorata. I secondini si inchinano al tuo passaggio, ma ti tengono in loro possesso. Hitler si è assunto l’incarico di farmi da scudo contro i «traditori» italiani, ma intanto i miei gesti e le mie parole gli sono riferiti giorno per giorno. Anche quando ricevo, i tedeschi mi ascoltano. Lo so di sicuro. La protezione è un aspetto legale dello spionaggio. Qui è bello. Quest’isola è meravigliosa. Mi dilato alla libertà. Ne avevo estremamente bisogno. Dopo di aver parlato a folle oceaniche è supremamente bello parlare a nessuno. Ma forse mi sbaglio. Può darsi che parli al Tutto di tutti, se si degnasse ascoltarmi. Se fosse estate mi leverei la giacca e mi rotolerei nell’erba con la gioia selvaggia dei bambini. Il misterioso potere della terra è enorme. Gli amori dei contadini sono i più vigorosi e naturali perché hanno per letto la terra e per eccitanti il profumo delle messi. Beati quelli che dormono nei solchi ! Questa notte ritorno ad essere interamente me stesso dopo un lungo e pericoloso cammino, percorso con persone che le coincidenze, non la mia preferenza, hanno posto sulla mia strada. Quella è Sirio, così bella e splendente di felicità perché è sola. In compagnia si crede di far meglio, invece si fa peggio, perché ognuno o con la ribellione o con la sottomissione cerca di imporre la propria esperienza. L’esperienza è una delle tante menzogne convenzionali. Essa non serve a niente perché ogni atto della vita è un fatto nuovo, che va risolto con l’intuizione. L’esperienza è storia e la storia è uno straordinario racconto, ma non una morale. Infatti da secoli e secoli l’umanità ripete gli stessi errori e li sconta col sangue. Mio padre, nonostante fosse un fabbro ferraio, diceva… No. Mi interessano i filosofi per la sottigliezza della loro dialettica, ma preferisco i poeti quando non si chiamano Metastasio. I filosofi parlano di ieri; i poeti parlano di domani. Non ho mai amato i cani perché ritengo che il coraggio e la fierezza del gatto siano più conformi alla dignità umana, eppure quel « Tell » mi fa pensare questa sera che anche la fedeltà dei cani è una grande virtù. Un popolo che fosse altrettanto fedele in una o due circostanze della sua storia occuperebbe nel mondo un posto di primissimo piano. I geni dovrebbero nascere con una stella in fronte, in modo da essere riconosciuti subito, ed i popoli dovrebbero seguirli con la stessa fedeltà del cane. Solo. La solitudine misura la grandezza morale ed intellettuale di un uomo. Io non ho mai potuto misurarmi perché mi sono messo in cammino col mio popolo, che sognavo di condurre dove penso abbia diritto di andare. Hanno detto che mi paragono a Cesare e a Napoleone. È un errore. So che sono le circostanze che cercano i loro uomini, non gli uomini le circostanze. Nessun uomo può essere più grande della sua epoca. Io non ho creato il fascismo: l’ho tratto dall’inconscio degli italiani. Se non fosse stato così, non mi avrebbero seguito tutti per vent’anni, dico tutti, perché una esigua minoranza addirittura microscopica non può aver alcun peso. I gesti, i riti e le divise introdotti nella vita della nazione mi vennero imputati come una personale mania di grandezza. Personalmente mi avrebbero lasciato indifferente se non fossi stato sicuro di compiacere al senso pittoresco degli italiani. Chi guida un popolo ha il dovere di non trascurare nulla di.quanto risveglia l’immaginazione, suscita entusiasmo, rinnova anche esteriormente i vecchi schemi della vita. La camicia nera ha infiammato la gioventù e successivamente la divisa ha ringiovanito anche i più pesanti e insonnoliti burocrati. Per avere un distintivo piuttosto che un altro, intere categorie si sono battute con furore. La politica è un’arte difficilissima tra le difficili perché lavora la materia più inafferrabile, più oscillante, più incerta. La politica lavora sullo spirito degli uomini, che è una entità assai difficile a definirsi, perché è mutevole. Mutevolissimo è lo spirito degli italiani. Quando io non sarò più, sono sicuro che gli storici e gli psicologi si chiederanno come un uomo abbia potuto trascinarsi dietro per vent’anni un popolo come l’italiano. Se non avessi fatto altro basterebbe questo capolavoro per non essere seppellito nell’oblio. Altri forse potrà dominare col ferro e col fuoco, non col consenso come ho fatto io. La mia dittatura è stata assai più lieve che non certe democrazie in cui imperano le plutocrazie. Il fascismo ha avuto più morti dei suoi avversari e il 25 luglio al confino non c’erano più di trenta persone. Io non ho soppresso nessuna libertà, tranne la licenza, che turba, corrompe e intacca il sistema nervoso della società. Io ho fatto un popolo, un vero popolo, in cui quel poco che c’era veniva ripartito umanamente. Con il fascismo i lavoratori hanno ottenuto le otto ore, alti salari, continuità di lavoro, provvidenze assistenziali, ferie annuali, gite dopolavoristiche, magistrature apposite, mentre i suoi figli più delicati venivano inviati nelle colonie montane o marine. Quando si scrive che noi siamo la guardia bianca della borghesia, si afferma la più spudorata delle menzogne. Io ho difeso, e lo affermo con piena coscienza, il progresso dei lavoratori più di quanto non fosse consentito dalla non lieta situazione del capitale italiano, che non è, non bisogna mai dimenticarlo, né quello americano né quello inglese. Tra le cause principali del tracollo del fascismo io pongo la lotta sorda e implacabile di taluni gruppi industriali e finanziari, che nel loro folle egoismo temevano ed odiano il fascismo come il peggior nemico dei loro inumani interessi. E furono gli altri gruppi consimili sparsi per il mondo ad inscenare un’oscena gazzarra e a premer con tutti i loro mezzi sui rispettivi Governi il giorno in cui, stanco di vedere il sudore degli italiani sfruttato esosamente coi dazi doganali e col gioco pitagorico del cambio monetario, iniziai il regime dell’autarchia. Devo dire per ragioni di giustizia che il capitale italiano, quello legittimo, che si regge con la capacità delle sue imprese, ha sempre compreso le esigenze sociali, anche quando doveva allungare il collo per far fronte ai nuovi patti di lavoro. L’umile gente del lavoro mi ha sempre amato e mi ama ancora. Ogni giorno aumenta la serie delle testimonianze. I carabinieri che mi hanno arrestato, i marinai che mi hanno trasferito, i popolani che ho incontrato durante la prigionia, avevano tutti negli occhi lampi di sdegno per la mia condizione e gesti di commovente devozione. Un marinaio fece tante manovre finché riuscì a farmi sapere che conservava il ricordo di Bruno nella fotografia di una rivista. Bruno, il più giovane capitano dell’Aviazione italiana, era un autentico eroe. Rischiava con la massima indifferenza e nascondeva le imprese nella più genuina delle modestie. Aveva delle mani potenti, fatte appositamente per dominare le leve degli apparecchi. Si offriva sempre dove c’era un pericolo o un sacrificio. Non ha mai accettato un privilegio. I suoi compagni lo adoravano, i suoi superiori lo stimavano. Sperava di condurre l’apparecchio che gli mancò sotto in una grande impresa degna del leggendario valore italiano. Le gazzette straniere sono piene d’ironie sul coraggio del soldato italiano. Non so da dove provenga tanta malvagità. Nel medioevo abbiamo avuto i migliori capitani del mondo, i migliori soldati di Napoleone erano italiani. Come eroismo individuale i nostri soldati hanno scritto delle pagine insuperate e insuperabili. Certe azioni sembrano favole, non realtà. A noi è sempre mancato un grande Stato Maggiore, ma questa è una questione di cervello, non di fegato. In Libia i generali sono morti più dei soldati. Fino al reggimento il nostro Esercito è superiore anche a quello tedesco. Comunque nessun soldato ha tanto poco come quello italiano: di paga, di vitto, di armi. Anche in questa guerra i nostri soldati si sono battuti meravigliosamente, ma il loro sacrificio è stato tradito dall’insipienza e dalla corruzione di molti capi. Se avessi affidato le operazioni in Grecia ad un caporale, i risultati non avrebbero potuto essere peggiori. Pantelleria si è arresa, mentre tutto il popolo si prestava ad esaltarne l’eroica resistenza, ingannato da uno spudorato bollettino precedente, con due morti e con acqua e viveri per parecchi mesi. Augusta, di cui gli ammiragli mi avevano sempre esaltato la potenza, fece di più: ha distrutto i cannoni prima ancora che il nemico si affacciasse nello specchio delle acque. Questo è un capitolo nero della nostra storia. Lo riapriremo e lo chiuderemo a guerra finita. Ora non è in gioco solamente il destino dell’Italia e della Germania, ma anche quello dell’Europa. L’Europa verrà cacciata dall’Africa e sarà ridotta, col suo numero esorbitante di popolazione, a mangiare le cortecce degli alberi o a diventare il laboratorio di fatica dell’America. Anche l’Inghilterra sconterà il suo egoismo. Finirà per perdere il suo impero coloniale e diverrà un semplice ponte di congiunzione tra l’America e l’Europa occidentale. Se l’Inghilterra, invece di mandare la cavalleria di San Giorgio a creare zizzanie e odî insanabili, avesse fuso l’Europa in un blocco di ideali e di interessi, la nostra posizione sarebbe inattaccabile. Non ha capito che l’ora dei piccoli e spesso meschini interessi particolari è passata e che i problemi da nazionali si sono fatti continentali. Prima di stringere il Patto d’acciaio ho tentato tutte le vie per trovare un’intesa con l’altra parte. Alla Francia ho ceduto per sempre Tunisi, come primo pegno di concordia. Avevo chiesto la sicurezza del pane per il mio popolo, ma anche questo mi è stato negato. L’Inghilterra non ci ha voluti. Voleva la nostra neutralità e i nostri porti a sua disposizione, e tutto questo, cioè 1′ipoteca dell’avvenire e la nostra dignità, per un misero piatto di lenticchie. Quando ho visto che non c’era nulla da fare, mi sono legato con la Germania. O con gli uni o con gli altri. Il dilemma non ammette altre soluzioni. La nostra posizione geografica è fuori dell’orbita della neutralità. O accettare la guerra o diventare un accampamento di eserciti nemici. Nell’ultima soluzione perderemmo il diritto di essere una nazione senza neppure il vantaggio di schivare i disastri della guerra. Chi dice che ho sbagliato, ha il dovere di dimostrare come si sarebbe potuto far meglio. Io sono sempre pronto ad ammettere i miei errori. Non ho mai pensato di essere infallibile. Anche in questa guerra ho sbagliato anch’io, ma assai meno degli altri. I tedeschi non mi hanno mai ascoltato ed hanno fatto male. Hitler, che è il solo che mi stimi sinceramente, non ha voluto portare subito, come io intendevo, il centro della guerra nel Mediterraneo. Prese Malta e Gibilterra, saremmo stati padroni del nostro mare e la Spagna, la Turchia e l’Egitto sarebbero venute con noi, l’Africa sarebbe passata sotto il nostro controllo e l’Etiopia non sarebbe caduta. Inoltre avremmo tenuto lontana migliaia di chilometri la minaccia aerea. Io ero contrario all’attacco contro la Russia. Al posto del Fuhrer mi sarei fatto aggredire e sarei rimasto sulla difensiva. Avrei sfruttato il vantaggio morale di essere tradito e quello materiale di logorare il nemico. Hitler è caduto nella trappola di Stalin, che è. lo statista più furbo e più abile del mondo, perché ha una direzione sola. Io ero sicuro dell’intervento americano, perché lo sviluppo storico ed economico dell’America lo esigeva. Vittoriosa, l’America balza alla testa del mondo, superando la sua antica dominatrice. La guerra favorisce l’assorbimento delle Repubbliche americane in un solo Stato, che è già di fatto se non di diritto. Le grandi riserve di oro hanno urgente bisogno di investimento, pena lo svilimento del metallo. Ribbentropp, l’orgoglioso birraio, mi ha detto che gli italiani hanno troppa fantasia e Hitler gli ha dato ascolto. Io non potevo fare di più perché la capacità dei diplomatici risiede per quattro quinti nella voce dei loro cannoni. Si è detto che siamo andati alla guerra con le fionde. Non è vero. L’Esercito italiano non era mai stato tanto armato, la flotta era superiore a quella francese ed era in grado di reggere qualunque confronto. In fatto di armamenti le nazioni povere saranno sempre in stato di inferiorità. Si è fatto quello che i nostri mezzi consentivano. Ma era sufficiente per il ruolo che dovevamo sostenere. Sono entrato in guerra in un momento in cui sfido qualunque italiano a dire a se stesso che aveva dei dubbi sull’esito del conflitto. La stampa alleata mi ha chiamato Maramaldo. Sembrava che la maggior fatica fosse ormai quella di sedere al tavolo verde e dettare la pace. Confesso che anch’io mi sono illuso se non nell’estrema facilità del successo, in una vittoria non troppo sanguinosa. E sono entrato più per frenare l’ingordigia tedesca, che per cupidigia nazionale. Subito dopo mi accorsi degli errori in cui si muoveva lo Stato Maggiore tedesco o per meglio dire Hitler. Egli, a differenza di me, che avevo assunto la responsabilità politica della guerra e solo formalmente quella militare, e lasciavo fare ai generali, dirigeva le operazioni con l’ostinazione che gli è propria. Primo errore fu quello di lasciarsi irretire nel gioco finissimo di Laval e di Pétain, ai quali la Francia deve la propria salvezza, ed impedire a noi di sbarcare subito a Tunisi. Il Corpo di spedizione era già in movimento e dovetti farlo rientrare con la morte nel cuore. Altro errore capitale fu quello di usare la tattica estensiva e non quella intensiva. I tedeschi hanno sparso le loro, ed anche le nostre forze, su un arco troppo vasto. Bisognava invadere l’Inghilterra e non curarsi troppo delle molestie di poco conto. Si poteva. Invece Hitler ha avuto timore della Russia, che all’attacco, lontana migliaia di chilometri dalle basi di riferimento, non avrebbe rappresentato una minaccia allarmante. Non ha capito che o si vinceva così o la guerra sarebbe stata perduta, perché il fattore tempo era a nostro svantaggio. L’Inghilterra in piedi significava l’appiglio per l’entrata in campo dell’America. Forse l’Inghilterra non avrebbe ceduto subito, avrebbe magari ripiegato in America con la sua flotta, ma il successo morale avrebbe travolto gli indecisi e le vele della nostra fortuna si sarebbero automaticamente gonfiate. Chi ha perduto la casa desidera innanzi tutto ritornarci, ‘tanto più se le condizioni di recupero sono generose, come indubbiamente sarebbero state. Ma la verità vera è che Hitler, noncurante della forza di difesa del colosso russo, ancora intatto, aveva un sacro rispetto per l’Inghilterra e non voleva umiliarla, nella speranza di averla alleata nella sistemazione dell’Europa. Le offerte di pace fattele dopo Dunkerque erano tali da soddisfare non solo gli interessi degli inglesi, ma anche il loro orgoglio. Hitler è duro, qualche volta feroce, eppure ha degli abbandoni sentimentali da lasciare stupiti. Hess non ha né tradito, né soggiaciuto ai capricci dei nervi. È andato in Inghilterra a compiere una missione, che aveva l’aspetto dell’isterismo. I capi inglesi, che hanno tutti i nervi di quel vecchio leone di Churchill, hanno capito e giocato sulla psicologia.
A palazzo Venezia una indovina mi ha detto: « Se comanderete tutto voi, anche i tedeschi, la guerra sarà vinta; in caso contrario avrete ottantacinque probabilità su cento di perderla ». Eravamo nel giugno del 1941, esattamente un anno dopo l’entrata in guerra. Io sono sicuro che se avessi avuto la direzione generale delle operazioni, politica e strategica, la guerra sarebbe stata vinta. Quando ho fatto di mia testa ho sempre indovinato. Ogni uomo ha la sua stella. La mia è una stella buona, ma non posso associarla ad altre senza neutralizzarla. La nostra guerra non è stata « nostra », perché si è svolta nell’orbita tedesca. E’ il destino di Hitler che si è imposto, non il mio. A questo fatto importantissimo non ci avevo pensato. Ma io la guerra avrei potuto vincerla ugualmente se fossi stato meno sensibile al rispetto umano. Se fossi stato un dittatore come amavano descrivermi gli ignobili pennaioli stranieri, anime perdute nelle mani dei falsari della storia, e come spesso mi rimproveravo di non essere, avrei obbligato Marconi, magari con la tortura, a consegnarmi la sua scoperta, la più grande di questo secolo. Quando io ho detto al mondo che se l’Italia fosse stata costretta a prendere le armi avrebbe sorpreso per il suo genio inventivo, non bluffavo. Io non ho mai bluffato. Ho alzato spesso la voce, ma mai ho puntato alla cieca sulla carta della fortuna. Là dove non avevo la forza, avevo la certezza politica. Per l’Etiopia il mio Stato Maggiore ha tremato non appena ha visto la flotta inglese sfilare tra Malta e Gibilterra. Moltissimi mi hanno scongiurato di non insistere per non venire alle mani con l’Inghilterra. Essi erano certi che l’Inghilterra non ci avrebbe lasciati passare. Io ero sicuro del contrario. Quella era una manovra, che mascherava contemporaneamente parecchie cose, tra cui una presunta offesa alla dignità del popolo britannico, per eccitare i sentimenti nazionalistici e condurre la nazione senza troppa fatica, al momento opportuno, nella bolgia infernale della guerra. L’Inghilterra aveva, invece, tutto l’interesse di lasciarci passare, come l’America aveva tutto l’interesse di spingere il Giappone contro la Cina, per indebolire i probabili alleati della Germania. Infatti la guerra è scoppiata due anni prima del previsto, nell’anno, nel giorno e nell’ora scelti dall’Inghilterra. Il gioco è stato così abile che la Germania non si è accorta che camminava con le gambe inglesi. A cose fatte un ambasciatore mi disse che avevo sfidato l’Inghilterra col due di bastoni. Lo stesso ambasciatore, dopo il discorso delle « armi strabilianti », andò da Ciano a dire che se avessi posseduto realmente quelle armi mi sarei guardato bene dal farlo sapere. Invece lo dicevo per frenare gli stimoli alla guerra, di questa stramaledetta guerra, che io sentivo avvicinarsi col passo felpato dei criminali. Se quel diplomatico fosse stato con me ad assistere agli esperimenti di Marconi sarebbe rimasto di sasso. Sulla strada di Ostia, ad Acilia, Marconi ha fermato i motori delle automobili, delle motociclette e dei camion. Nessuno sapeva rendersi conto dell’improvviso guasto e poterono ripartire soltanto quando lo volle il grande inventore. L’esperimento venne ripetuto sulla strada di Anzio, coi medesimi risultati. Ad Orbetello, due apparecchi radiocomandati vennero incendiati ad oltre duemila metri di altezza. Marconi aveva scoperto il « raggio della morte » e lo aveva perfezionato in modo da poterlo usare con discreta facilità e con una spesa relativamente modesta. Col « raggio della morte » si sarebbe andati in capo al mondo nel giro di tre mesi. Quando parlai ero sicuro di quello che dicevo. Senonché Marconi, che negli ultimi tempi era diventato religiosissimo, ebbe uno scrupolo di carattere umanitario e chiese consiglio al Papa, e il Papa lo sconsigliò di rivelare una scoperta tosi micidiale. Marconi, turbatissimo, venne a riferirmi sul suo caso di coscienza e sull’udienza papale. Io rimasi esterrefatto. Gli dissi che la scoperta poteva essere fatta da altri ed usata contro di noi, contro il suo popolo, quindi; che io non gli avrei usata nessuna violenza morale, preferendo che risolvesse da solo il suo caso di coscienza, sicuro che i suoi profondi sentimenti di italianità avrebbero avuto il sopravvento. Pochi giorni dopo Marconi ritornò e sul suo viso erano evidenti i segni della tremenda lotta interiore tra i due sentimenti, religioso e patriottico. Per rasserenarlo lo assicurai che il « raggio » non sarebbe stato usato se non come estrema risoluzione. Il grande scienziato se ne andò barcollando. Io avevo ancora fiducia di poterlo convincere gradatamente dell’assurdità della sua posizione. Infatti lo scienziato non può essere responsabile del cattivo uso che. si può fare della sua invenzione. Invece Marconi moriva improvvisamente, forse di crepacuore. Da quel momento, temetti che la mia stella incominciasse a spegnersi. Le stelle dei dittatori durano poco tra i popoli latini. In altri popoli, invece, la dittatura è una necessità organica. I tedeschi hanno avuto, prima del nazismo, un liberalismo, una democrazia e un socialismo a carattere dittatoriale. Vogliono sempre un capo che comandi duro. I russi sono passati dall’autocrazia della corte a quella della piazza. Stanno benissimo perché l’uomo che comanda sta sempre al Cremlino. I turchi sono in repubblica, ma il comando è ferreo. Tutti i dittatori, compreso quello latino della Spagna, hanno fatto strage dei loro nemici. Io sono il solo in passivo: tremila morti contro qualche centinaio. Credo di avere nobilitato la dittatura. Forse l’ho svirilizzata, ma le ho strappato gli strumenti di tortura. Stalin è seduto sopra una montagna di ossa umane. E’ male ? E’ bene ? Io non mi pento di avere fatto tutto il bene che ho potuto anche agli avversari, anche ai nemici, che complottavano contro la mia vita, sia con l’inviare loro dei sussidi, che per la frequenza diventavano degli stipendi, sia strappandoli alla morte. Ma se domani togliessero la vita ai miei uomini, quale responsabilità avrei assunto salvandoli? Stalin è in piedi e vince, io cado e perdo. La storia si occupa solamente dei vincitori e del volume delle loro conquiste ed il trionfo giustifica tutto. La rivoluzione francese è considerata per i suoi risultati, mentre i ghigliottinati sono confinati nella cronaca nera. Del dittatore comunemente inteso io non ho avuto né la strafottenza, né la malvagità. A rigore di termini non sono stato neppure un dittatore, perché il mio potere di comando coincideva perfettamente con la volontà di ubbidienza del popolo italiano. Del dittatore avevo solamente la responsabilità. Infatti io rispondevo di tutto, anche di quello che sfuggiva al mio controllo. Non è difficile eludere il controllo di un uomo solo. Ci sono mille sfumature per ritardare un ordine o non eseguirlo. Intorno a me sentivo spesso un cerchio, ma non sapevo in quale punto si doveva infrangerlo. Ho avuto più dipendenti che collaboratori. Colpa mia ? Del mio carattere ? Dell’ascendente che esercitavo sugli uomini fino a paralizzare la loro personalità ? Fatto sta che nessuno è mai venuto a dirmi: « Rinuncio alla mia carica perché non condivido il vostro punto di vista ». Ogni mia proposta veniva salutata come la soluzione più geniale, tanto se si trattava di politica che di economia, di problemi militari o di urbanistica, di scienza o di sport. La parola « genio » mi veniva ripetuta cento volte al giorno, anche da persone che nel campo del pensiero occupavano i posti più alti. Un vicario di Cristo mi chiamava 1′« Uomo della Provvidenza » e sovrani, statisti, scienziati, artisti venivano da ogni parte del mondo per assicurarmi che io ero la più grande personalità dell’epoca. Faticai più io per non perdere l’equilibrio che non i miei ammiratori a mantenersi sulle punte aguzze del fanatismo. Il mio torto è stato quello di dare vita alla « diarchia ». Ma non è stato per vanità personale. La rivoluzione aveva i suoi diritti e le sue esigenze. In questo modo intendevo conciliare la dignità della rivoluzione col fermo proposito di servire il re. Dopo la conquista dell’Etiopia, c’era nel Partito e in molti dell’opinione pubblica uno stato d’animo di colpo di Stato. Se il 9 maggio invece di mettere la corona imperiale sulla testa del re l’avessi messa sulla mia, la stragrande maggioranza del popolo italiano mi avrebbe acclamato imperatore. Non volli. Finché i re sono degni del loro posto bisogna rispettarli. I Savoia avevano diritto alla gratitudine degli italiani perché l’unità d’Italia si deve anche a loro. Eppure, lo dico con rammarico, l’insidia maggiore contro di me ed il fascismo si annidava. Vittorio Emanuele III, uomo di talento, ma superbo, insensibile, avaro anche di riconoscimenti, non sapeva nascondere la propria irritazione ad ogni mio successo, che era successo italiano ed anche suo. Io consideravo la situazione come il giusto castigo di un convinto repubblicano che era finito per diventare il fedele sostenitore della monarchia. La Corte polarizzava il vecchio mondo, che non si adatta mai alle situazioni nuove, gli interessi offesi, le vanità deluse e tutti gli infiniti generi del malcontento. In più, pericolosissimi, bisogna aggiungere gli intrighi stranieri. Tuttavia, senza le sorti infelici della guerra, il fascismo sarebbe stato invulnerabile. Chi perde la guerra, perde se stesso. È una legge che non ammette attenuanti. Ma anche noi non siamo stati all’altezza della vicenda storica. Noi siamo stati rovinati dallo spirito borghese, che significa l’abbandono alla soddisfazione, all’adattamento, allo scetticismo, alla vita comoda. I tempi duri si sono presentati quando si era fatto spreco di entusiasmo e si riteneva che tutto fosse già compiuto. In un discorso alla Camera avevo detto che sarebbe stata cura del fascismo di ammobiliare un po’ meno sontuosamente il cervello degli italiani per curare un po’ più il loro carattere. Invece si è fatto troppa retorica, a scapito della severità del costume. Troppe cariche, troppi ciondoli, troppe canzoni, anche per i giovani, che dovevano essere i portatori di un nuovo sistema di vita. Riconosco che anch’io mi sono lasciato trascinare dalla marcia trionfale dell’entusiasmo. Per noi italiani è difficile resistere alla musica e alle canzoni. Io ho avuto due disgrazie: un’ulcera allo stomaco, che avrebbe atterrato un bue e che sovente mi impediva, nonostante il grande sforzo di volontà, di disporre dell’energia necessaria, e la morte di Arnaldo. Arnaldo era un italiano di antico stampo: probo, intelligente, sereno, umano. Era il mio anello di congiunzione col popolo. Ciò che mi riferiva era sempre esatto, giustissimo quello che mi consigliava. Dopo la sua scomparsa crebbe la mia diffidenza per gli uomini. Rarissime volte ho stimato le persone che ho conosciuto. Il genere umano è ancora troppo legato agli stimoli animali. L’egoismo è la legge sovrana. Anche le persone cosiddette superiori valgono per la piccola parte in cui si sono specializzate; le altre parti sono completamente negative. Nel popolo minuto ho trovato le più belle virtù sociali. I più ricchi sono i critici più spietati della vita, perché il piacere conduce all’esasperazione dei sensi. Chi cade nella rete dei godimenti materiali è perduto per la società. Il lavoratore che assolve il dovere sociale senz’altra speranza che un pezzo di pane e la salute della propria famiglia, ripete ogni giorno un atto di eroismo. La gente del lavoro è infinitamente superiore a tutti i falsi profeti che pretendono di rappresentarla. I quali falsi profeti hanno buon gioco per l’insensibilità di chi avrebbe il sacrosanto dovere di provvedere. Per questo sono stato e sono socialista. L’accusa di incoerenza non ha fondamento. La mia condotta è sempre stata rettilinea nel senso di guardare alla sostanza delle cose e non alla forma. Mi sono adattato socialisticamente alla realtà. Man mano che l’evoluzione della società smentiva molte delle profezie di Marx, il vero socialismo ripiegava dal possibile al probabile. L’unico socialismo attuabile socialisticamente è il corporativismo, punto di confluenza, di equilibrio e di giustizia degli interessi privati rispetto all’interesse collettivo. Io ho dato ai lavoratori italiani quello che le nazioni più progredite non si sognano neppure. Ciononostante sono qui, legato al palo dei reazionari. Ho tolto la libertà. Si, ho tolto quel veleno che i popoli poveri ingoiano stupidamente con entusiasmo. Ho fatto versare il sangue del mio popolo. Sì, ogni conquista ha il suo prezzo. L’Etiopia era una necessità materiale, non un’avventura romantica. La Spagna ! Spero di trovarmi a tu per tu con la politica estera inglese. Allora l’aprirò io questa scatola a sorpresa. La politica inglese è diabolica. Se ne accorgeranno gli americani quando si affacceranno alla politica europea. Nel momento in cui saranno impegnati nell’inevitabile duello mortale con la Russia, o cederanno al nodo scorsoio dell’Inghilterra o l’Inghilterra si alleerà con la Russia. Tutti dicono che se non avessi fatto questa stupida guerra, avrei un monumento in ogni piazza d’Italia. Ogni uomo di Stato sogna i monumenti, ma se si decide per la guerra significa che il suo popolo non può vivere in pace. Tutti vorrebbero mangiare senza lavorare, vivere senza malattie, essere felici senza sacrifici. Ciò è innaturale. Anche il filo d’erba per godere il sole deve rompere la crosta della terra e qualche volta la roccia nuda. Sono un sanguinario vendicativo perché a Verona ho fatto uccidere i miei collaboratori. Non è vero! Non è vero! Non è vero ! Rigetto lontano da me l’accusa infame. Non volevo il processo, non volevo l’esecuzione. Non ho potuto dirlo neppure al cappellano degli Scalzi, perché i muri delle mie stanze hanno gli orecchi. Non potevo essere il carnefice del padre dei miei nipoti. Se avessi voluto vendicarmi dell’atteggiamento dei ventuno membri del Gran Consiglio, avrei potuto farli arrestare a palazzo Venezia. Avevo ancora l’autorità per farlo. In Germania, Ciano è stato mio ospite. Il processo l’hanno voluto i tedeschi. Io mi sono opposto, ho cercato di frapporvi tutti gli ostacoli, ho fatto capire alla stampa che bisognava « insabbiarlo », ho pregato Farinacci, che per la sua intransigenza era il più qualificato, di placare la canea urlante, e lo ha fatto con un corsivo del suo giornale. Non ci fu verso. I tedeschi mi fecero capire che, secondo il loro modo di giudicare le cose, chi difende un colpevole è un complice. Io non conto più niente. In Germania tutti mi disprezzano, tranne Hitler, che ha ancora per me del rispetto, e non pochi mi sospettano autore del 25 luglio. Io sono prigioniero dal giorno che mi arrestarono in casa del re. La domanda di grazia non mi è pervenuta mai. Il vero capo della Repubblica Sociale non è Mussolini, ma Rahn. Se Hitler e la Germania vincessero la guerra, Mussolini e l’Italia l’avrebbero ugualmente perduta. Per noi non c’è più via di scampo. Di là, siamo dei nemici che si sono arresi senza condizioni, di qua siamo dei traditori. Tutti avremo le nostre colpe, ma bisogna riconoscere che il destino è crudele. Noi, dopo tutto, non cercavamo che un pezzo di pane meno ingrato. Noi combattiamo per imporre una più alta giustizia sociale. Gli altri combattono per mantenere i privilegi di casta e di classe. Noi siamo le nazioni proletarie che insorgono contro i plutocrati. Non può durare l’assurdo delle carestie artificiosamente provocate. Esse denunciano la clamorosa insufficienza del sistema. Sono più che mai convinto che il mondo non può uscire dal dilemma: o Roma o Mosca. Non avevamo previsto che questa guerra sarebbe pesata più sugli inermi che non sugli armati. I nostri nemici hanno pensato che è più facile vincere i vecchi, le donne ed i bambini che non i soldati. Le incursioni aeree paralizzano le retrovie, scatenano il terrore, fanno insorgere il bisogno della pace a qualunque costo. Non ho niente da rimproverare agli italiani. Ai bombardamenti aerei l’uomo non ha i nervi sufficienti per resistere. Noi siamo stati massacrati dall’alto. Mai si era visto nella storia, neppure nei periodi di più acuta barbarie, cercare di ottenere la vittoria con un simile disprezzo della vita delle popolazioni. Ciò significa che l’umanità peggiora nel senso morale in proporzione di quanto migliora nel progresso. Per accusare, tuttavia, bisognerebbe essere sicuri che noi, possedendo gli stessi mezzi, avremmo agito diversamente. Io non sono sicuro di me e tanto meno del mio alleato, che ha contro di sé ‘i bombardamenti di Londra. Eppure l’esempio della Russia potrebbe valere per tutti. Essa sta marciando a grandi passi senza scaricare una bomba sopra una casa. Adesso, gli Alleati sembrano disposti a distruggere la Germania. Io resto stupito da tanta incapacità di comprensione. Distrutta la Germania, chi fermerà la Russia ? Nessun esercito, tranne il tedesco, può competere con quello russo. La Russia è a Berlino prima degli altri ed una volta in possesso dell’Europa centrale non vedo chi la possa fare sloggiare. I trattati di pace ? Le armi segrete ? I trattati li detta sempre il più forte, e il segreto di uno non può impedire il segreto di un altro. Se lo stesso errore si commettesse per il Giappone, la Cina sfilerebbe in parata davanti ad un maresciallo bolscevico. E l’India cosa farebbe ? Cosa farebbero gli altri Dominions ? Cosa sarebbe del mondo intero ? È mai possibile che l’America e l’Inghilterra non avvertano un pericolo così grande ? Hanno forse in mano l’esercito russo ? Hanno pronta la mina della rivoluzione da fare scoppiare sotto il Cremlino ? O non sono forse caduti in una delle più colossali mistificazioni ? Personalmente io penso che sia più facile trovare dei traditori nelle nazioni borghesi che non tra un popolo ad alta tensione ideale. Io non capisco, non ci capisco niente. Anche qui accadrà quello che deve accadere. Capisco solamente che per noi si aprirà un periodo tremendo. Nessuno potrà frenare l’odio e le ambizioni. La stessa unità italiana verrà spezzata. Ci verrà tolto Trieste, ci verranno tolte Fiume e la Dalmazia, ci verrà tolto l’Alto Adige, ci verrà tolta la Val d’Aosta, potrebbe esserci tolta la Sicilia, Roma stessa potrebbe essere ridata al Papa. Io prego perché gli uomini che mi succederanno siano tanto illuminati da poter risparmiare alla patria le supreme umiliazioni. Spero che il Pontefice sarà tanto alto da non prestarsi al gioco di chi vorrebbe decapitare l’Italia. Roma è sempre spiritualmente sua, alla stessa maniera che è di tutti i cristiani. I fascisti che rimarranno fedeli ai principi dovranno essere dei cittadini esemplari. Pur partecipando alla vita politica, non dovranno intromettersi nei dissidi e negli intrighi, che ritardano le soluzioni. Essi dovranno rispettare le leggi che il popolo vorrà darsi e cooperare lealmente con le autorità legittimamente costituite per aiutarle a rimarginare nel più breve tempo possibile le ferite della patria. Chi agisce diversamente dimostrerebbe di ritenere la patria non più patria quando si è chiamati a servirla dal basso. I fascisti, insomma, dovranno agire per sentimento, non per risentimento. Dal loro contegno dipenderà una più sollecita revisione storica del fascismo, perché adesso è notte, ma poi verrà il giorno. L’uomo politico che prendesse sul serio l’antifascismo di oggi cadrebbe in un grave errore. Quando muta il vento della fortuna, la massa cambia direzione alle vele. Ma il vento della fortuna è assai mutevole e cambia per tutti. Il giudizio di oggi non conta. Conterà quello di domani, a passioni sopite, a confronti stabiliti. Vent’anni di fascismo nessuno potrà cancellarli dalla storia d’Italia. Non ho nessuna illusione sul mio destino. Non mi processeranno, perché sanno che da accusato diverrei pubblico accusatore. Probabilmente mi uccideranno e poi diranno che mi sono suicidato, vinto dai rimorsi. Chi teme la morte non è mai vissuto, ed io sono vissuto anche troppo. La vita non è che un tratto di congiunzione tra due eternità: il passato ed il futuro. Finché la mia stella brillò, io bastavo per tutti; ora che si spegne, tutti non basterebbero per me. Io andrò dove il destino mi vorrà, perché ho fatto quello che il destino mi dettò. Quelli che mi uccideranno saranno inseguiti dal mio fantasma, che vuole dir loro la parola del perdono. Ma essi fuggiranno per timore della vendetta, così non ci incontreremo mai. Io sarò io anche quando loro non saranno più loro. Gli uomini che ho più ammirati sono Dante, Machiavelli, Giovanni dalle Bande Nere, Marconi. Il primo conferì all’umano il diritto del giudizio divino, il secondo diede lo Stato alla fazione, il terzo dominò lo strazio della carne, il quarto abolì le distanze e riunì i punti estremi della terra nello spazio di pochi secondi. Bastano dunque pochi italiani per rappresentare da soli l’umanità. Chi piange oggi, non speri di ridere domani, perché le altre lacrime sarebbero ugualmente italiane. I miei veri figli nasceranno dopo e saranno quelli che vedranno in me quello che io stesso non ho potuto vedere. Nessuno che sia un vero italiano, qualunque sia la sua fede politica, disperi dell’avvenire. Le risorse del nostro popolo sono immense. Se saprà trovare un punto di saldatura, recupererà la sua forza prima ancora di qualche vincitore. Per questo punto di fusione io darei la vita anche ora, spontaneamente, qualunque sia, purché improntata a vero spirito italiano. Dopo la sconfitta io sarò coperto furiosamente di sputi, ma poi verranno a mondarmi con venerazione. Allora sorriderò, perché il mio popolo sarà in pace con se stesso.
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