lunedì 8 aprile 2013


DIBATTITO SULLA NATURA DEL FASCISMO

A. James Gregor

Credo che per comprendere, anche solo in parte, un fenomeno così complesso come il fascismo sia necessario avere un punto di partenza ben definito, una prospettiva ed un orientamento precisi. Lo storico, per esempio, che si trova di fronte ad un numero di fatti singoli potenzialmente infinito, deve seguire un criterio selettivo in base al quale sceglierne taluni e scartarne altri, poiché vi sono fatti significativi e fatti che tali non sono. Naturalmente, lo storico tenta di dare una «ricostruzione» del passato che sia il più possibile vicina alla «verità» su quanto è accaduto. È chiaro, però, che non esiste un'unica ricostruzione capace di offrirci la completa verità sul passato; né esiste il «passato» al singolare. Abbiamo un groviglio di accadimenti, semplici e complessi, e lo storico ce ne potrà fornire una narrazione «vera» e significativa solo se il suo racconto sarà costruito su un numero intelligentemente selezionato di tali fatti. Per scegliere bene i fatti veramente significativi, lo storico dovrà seguire dei criteri, espliciti od impliciti, di selezione. È in questa scelta che il generalist - il sociologo - esercita la sua importante funzione. I sociologi sostengono che loro compito specifico è quello di scoprire le leggi della vita sociale, capaci di spiegare i1 modo di comportarsi della collettività: in realtà, fino ad oggi, i sociologi non sono riusciti a formulare neppure una di queste leggi, a meno che non sia tautologica od intuitiva. La funzione della sociologia consiste essenzialmente nella individuazione di una serie di termini generali,di concetti,di tipologie atti ad identificare le categorie in base alle quali raggruppare e classificare questi fenomeni e quelli ad essi affini. Sappiamo tutti che non esistono, al mondo due cose perfettamente uguali. E' ovvio, però, che non sarebbe possibile riuscire a comprendere appieno qualcosa del mondo naturale o sociale se ci ostinassimo a considerarlo come una collezione di fatti unici e singoli. Le limitazioni stesse del nostro linguaggio ce lo impediscono. Il linguaggio è già una generalizzazione, un modo di comunicare attraverso dei simboli.Se ogni fatto fosse unico,per ognuno sarebbe necessario un termine atto ad identificarlo: il nostro linguaggio sarebbe così complesso da servire a ben poca cosa. Piuttosto, noi ci serviamo della parola, partendo da talune distinzioni intuitive. La maggior parte di esse nel linguaggio comune, sono grezze e semplici. Ma nella misura in cui ci impegnamo in uno studio approfondito di un qualche fenomeno importante, il nostro linguaggio deve essere sempre più specializzato.Il profano può usare le parole fascismo o fascista e lo fa assia spesso in senso ingiurioso. In questo caso ne fa un uso inesatto (non-cognitive). Se utilizza gli stessi termini per finalità descrittive, egli probabilmente vuole riferirsi a qualcosa come “il partito politico di Mussolini” e, così facendo, ha dato vita ad una categoria, ad una generalizzazione. Ha una idea di quali sono i fatti che deve elencare per spiegare cosa intende per «fascismo» o per «fascista». Dal canto suo, lo specialista può benissimo adoperare gli stessi termini per indicare un effettivo o potenziale insieme di fatti totalmente estranei a questi che sono soltanto di uso comune. Quale sia la migliore caratterizzazione del termine dipende da molte considerazioni. Prima di tutto si deve stabilire a quale funzione il termine stesso deve servire. Se si vuole adoperarlo per ingiuriare un avversario politico, è allora sufficiente che esso esprima una generica disapprovazione. Se invece intende usarlo al fine di scambiarsi delle cognizioni,di avere,immagazzinare e trasmettere delle informazioni allora è necessario trasmettere alla parola un significato specifico. In quest'ultimo caso, poi, bisogna decidere se usarlo euristicamente, per giungere a scoprire qualcosa di nuovo, o descrittivamente per riassumere le conoscenze del passato. Gli storici tendono ad usare le parole in senso descrittivo. Il discorso sul fascismo ce ne offre un esempio chiaro. Nolte, per esempio, parla di una isolata «epoca fascista» e De Felice tende anch'egli ad usare la parola fascismo nello stesso modo, sempre però con riferimento descrittivo ad un certo gruppo di eventi del passato. Non voglio dire che questo modo di procedere sia errato. Ritengo, però, che sia ingannevole. A mio avviso non può esistere un «fascismo» che possa essere isolato in un tempo od in un luogo particolari. Quando ha avuto inizio, per esempio, il «fascismo»? Quando Mussolini diventò «fascista»? Quando è finito il «fascismo»? È ancora vivo il «fascismo»? Ho fatto questa lunga premessa di tipo metodologico proprio per spiegare come io sia giunto ad una concezione del fascismo che mi sembra euristicamente feconda. Vi sono, infatti, pervenuto attraverso un largo uso di generalizzazioni sociologiche e di categorie come quelle di «totalitarismo» e di «modernizzazione», che mi hanno suggerito l'idea di stabilire connessioni tra il fascismo paradigmatico, quello di Mussolini, ed i fenomeni che si manifestano, con sempre maggior evidenza, nel «terzo mondo». Nel mondo di lingua anglosassone il fascismo storico è stato spesso travisato, proprio perché affrontato partendo da preconcetti e da posizioni acritiche. Il Mussolini che emerge dalla letteratura angloamericana (od almeno dalla maggior parte di essa) è soltanto una caricatura del Mussolini storico e politico, di quello realmente esistito. Sono convinto che (l'ho già detto), con tutti i limiti che queste indagini comportano, la sociologia possa aiutarci a comprendere il fascismo. Ma che cosa è dunque il fascismo? Io sono arrivato alla conclusione che esso possa venire definito come un tipo estremo di movimento rivoluzionario di massa, che aspiri ad impegnare la totalità delle risorse umane e naturali di una comunità storica per lo sviluppo nazionale. In altre parole, se l'intenzione palese del fascismo era quella di restaurare la posizione di grande potenza dell'Italia nel mondo, esso poteva conseguire questo obiettivo soltanto attraverso finalità di tipo produttivistico e di sviluppo. Sotto questo profilo mi sembra che si possa stabilire un collegamento tra fascismo e movimento di modernizzazione. Un movimento di modernizzazione, per raggiungere i suoi obiettivi, ha bisogno di un organismo centralizzato per la mobilitazione, la dislocazione e la direzione delle risorse. Ed ecco che compaiono lo Stato totalitario ed il partito unico autoritario. Non è un caso che avversari dichiarati del fascismo fossero le nazioni ricche, o, come si diceva allora, «plutocratiche». Il carattere rivoluzionario, e rivoluzionario progressista, del fascismo non può essere messo in dubbio. Andrei addirittura oltre: il fascismo è stato il primo rappresentante di quelle rivoluzioni che oggi vengono definite «rivoluzioni progressiste». Anche l'Unione Sovietica, più o meno nello stesso periodo, assunse caratteri simili. Gli aspetti internazionalistici, libertari, distributivi e democratici del marxismo classico si risolsero in aspetti nazionalisti, autoritari, produttivistici ed elitistici di un fascismo incoerente ed incongruente. Tanto nella Russia di Stalin quanto nell'Italia fascista vennero eliminati esponenti politici di opposizione legati alla socialdemocrazia ed al bolscevismo. È vero che il fascismo italiano fu, storicamente, un fenomeno unico, ma, se teniamo presente le considerazioni metodologiche che ho fatto all'inizio, mi sembra indubbio che, interpretandolo come una possibile risposta ai problemi politici e sociali che accompagnano gli sforzi di una nazione sottosviluppata per uscire dalla sua situazione e conquistare un «posto al sole», esso acquista una importanza di gran lunga più vasta di quella che la sua esistenza storica lascerebbe supporre. Nei paesi europei parzialmente o marginalmente industrializzati il fascismo poté attecchire e fu tanto più forte quanto più il prodotto nazionale lordo ed il reddito pro-capite erano bassi. Se diamo uno sguardo alla situazione dei paesi sottosviluppati che, oggi, affrontano problemi analoghi a quelli dell'Italia di un cinquantennio fa, possiamo concludere che in questi paesi si hanno, o probabilmente, si avranno regimi di tipo fascista o fascistoide, nel senso che si proporranno obiettivi analoghi e si forniranno giustificazioni analoghe a quelle del fascismo paradigmatico. Il caso del socialismo africano mi sembra probante. Nello schema che ho proposto sembrerebbe non rientrare il caso della Germania nazionalsocialista. Non era forse la Germania un paese industriale? Se è vera la mia tesi, perché allora la Germania finì per schierarsi al fianco di potenze rivoluzionarie con le quali ben poco aveva in comune? A questa domanda si può subito rispondere che l'esperienza traumatica succeduta alla prima guerra mondiale e la sua forzata riduzione a potenza di seconda categoria, quando esistevano tutte le premesse perché essa potesse aspirare ad un ruolo di prim'ordine, offre una spiegazione già di per sé sufficiente. D'altro canto, come potenza «fascista», il nazionalsocialismo è certamente qualcosa di anomalo. Per i nazisti l'oggetto di lealtà carismatica non era la nazione - come era per i fascisti - ma una non ben definita comunità e confraternita razziale. Il nazionalsocialismo, anzi, accentuò, con il tempo, l'aspetto internazionalistico. Non esiterei a dire che il nazismo fu più lontano dal fascismo di Mussolini di quanto non lo sia stato il socialismo dell'Unione Sovietica.

Augusto Del Noce

Anch'io sono sostanzialmente d'accordo sul fatto che esiste una differenza di fondo tra fascismo e nazismo. Per molti versi, i due movimenti non sono soltanto dissimili, sono addirittura opposti. In questi due fenomeni bisogna vedere, a mio avviso, due differenti tipi di risposta alla rivoluzione bolscevica. Da una parte abbiamo il nazismo che si caratterizza come rifiuto totale del bolscevismo. Dall'altra parte abbiamo il fascismo che può essere visto come tentativo di rivoluzione ulteriore a quella russa. In altre parole il fascismo sarebbe la posizione rivoluzionaria, di origine marxista, quale doveva diventare dopo aver accettato i risultati della critica al marxismo teorico svolta in Italia negli ultimi anni del secolo scorso e di cui l'attualismo gentiliano è la conclusione filosofica. È infatti proprio fra il 1895 ed il 1900 che, in Italia, si sviluppa la prima grande disputa sul marxismo teorico che ha una importanza decisiva per comprendere il fascismo e che segna l'europeizzarsi della cultura italiana. Ora il fascismo accoglie i risultati critici di quella discussione presentandosi come superamento rivoluzionario del leninismo e tentativo di sganciare l'idea di rivoluzione dal materialismo. È qui la chiave per intendere anche l'incontro fra Gentile e Mussolini, poiché anche l'attualismo vorrebbe essere un marxismo separato dal materialismo (che coinciderebbe poi, come ho dimostrato altrove, con il giobertismo separato dal platonismo). Se vogliamo cercare nel passato le radici del fascismo, sono tentato di dire che il suo inizio teorico deve essere ritrovato nel primo studio, nel mondo, che riguardi la filosofia giovanile di Marx, cioè nel commento di Gentile alle Tesi su Feuerbach di Marx che è del 1899. Con esso ha inizio quella posizione che potremmo dire di inveramento del marxismo e che si differenzia da quella revisionistica, nella misura in cui tende ad eliminare dalla filosofia marxiana quel che c'è in essa di metafisicistico e di materialistico. Insomma, comincia con Giovanni Gentile, proprio sul piano teorico, quella posizione dell'inveramento che sarà propria e del fascismo e del successivo progressismo antifascista. L'incontro tra Mussolini e Gentile era necessario, nonostante la diversità delle formazioni, perché l'irrazionalizzazione dell'hegelismo compiuta da Gentile corrispondeva all'irrazionalizzazione del socialismo rivoluzionario operata da Mussolini. Certo: quello Gentile-Mussolini è più un incontro di impotenze che un incontro positivo. Ma, Gentile che, a partire dalla critica speculativa del marxismo, ha incontrato il pensiero risorgimentale, pensa che lo stesso dovrebbe avvenire per Mussolini, il quale, muovendo da una critica politico-pratica di Marx, dovrebbe giungere a «compiere» il risorgimento. A questo punto vorrei fare una osservazione ed una proposta. Si tratta di questo. Noi continuiamo a parlare di fascismo e spesso in senso improprio. Io credo che sarebbe bene, al fine di evitare equivoci e speculazioni, ed anche al fine di comprendere meglio la storia contemporanea, sostituire addirittura al termine «fascismo» il termine più comprensivo di «interventismo rivoluzionario». È dall'interventismo rivoluzionario, infatti, che nasce il fascismo di Mussolini, ma anche l'azionismo e, in certa misura, il comunismo gramsciano, il tema comune restando sempre quello di una rivoluzione postbolscevica. Finora ho fatto cenno all'esito fascista dell'interventismo rivoluzionario. Il secondo sbocco, l'azionismo, che si riallaccia alla tematica gobettiana, svolge un ruolo di accusatore del fascismo, poiché vede in Mussolini e nella sua politica, che si è conciliata con la monarchia e con la Chiesa, un tradimento della rivoluzione. Non a caso quello che potremmo chiamare l'iniziatore dell'antifascismo, Piero Gobetti, che si forma, al pari di Mussolini, nel clima gentiliano di La Voce, ha molti temi in comune con Mussolini stesso pur essendone oppositore irriducibile. In comune Mussolini e Gobetti hanno la convinzione che la guerra debba sfociare in una rivoluzione e in un rinnovamento radicale, quello con la rottura con l'Italia prebellica; entrambi, poi, pensano ad una rivoluzione che vada oltre la forma marxista-leninista, e ciò perché concordano nella accettazione della critica idealistica del marxismo. Che cosa li oppone? Mussolini, per Gobetti, è il rivoluzionario che tradisce, perché viene a compromesso con quei mali che sono radicati nella tradizione italiana dalla Controriforma in poi. Cioè, Mussolini rinuncia alla virtù che più apprezza Gobetti, ossia l'intransigenza. Mussolini appare a Gobetti, come l'uomo che si inserisce nella scia del giolittismo, coprendosi con una maschera eroica mutuata da d'Annunzio. In altre parole, per il salveminiano Gobetti si può dire che esista una unità Giolitti-Mussolini, nel senso che Mussolini porterebbe al limite, attraverso la mistificazione del volontarismo eroico, i lati peggiori del giolittismo. A sua volta il fascismo appare come una continuazione del più deteriore giolittismo, mentre Giovanni Gentile finisce per essere considerato (di qui gli attacchi ed i giudizi negativi di Gobetti successivamente, però, alla marcia su Roma) il filosofo retore che copre ideologicamente questa operazione. Antifascista è anche il comunismo gramsciano, che si fonda però su una diversa interpretazione del risorgimento. Una interpretazione non positiva, nel senso che al moto risorgimentale abbiano partecipato le masse popolari, ma negativa, nel senso che in esso hanno finito per trionfarvi i moderati, anche per le imperdonabili insufficienze degli azionisti di allora (da cui il radicale antimazzinianesimo di Gramsci). La parte moderata deve poi far ricorso alla forza per resistere alla pressione popolare: così il fascismo, secondo Gramsci, è antipopolare perché si collega al risorgimento e non cerca di trasformare il risorgimento in rivoluzione. Detto questo, è necessario sottolineare che anche Gramsci rientra nella linea di rivoluzione ulteriore al marxismo, nella misura in cui, accortosi che Lenin è diverso da Marx, vorrebbe costruire una filosofia che impedisca al leninismo di dare luogo ai due fenomeni degenerativi dello stalinismo e del trotzkismo, che si oppongono senza che uno riesca a prevalere sull'altro (anche se poi, chiamato ad una scelta, Gramsci sarebbe piuttosto stalinista che trotzkista). Per concludere e riassumere direi dunque che il fascismo rientra nella più vasta categoria di una rivoluzione ulteriore al marxismo. Una rivoluzione tuttora in corso, tanto che si potrebbe affermare una sostanziale continuità tra fascismo e postfascismo. In questo senso il fascismo ha certamente un profondo carattere rivoluzionario ed antitradizionale che potrebbe anche giustificare la definizione di movimento collegato ad un «processo di modernizzazione», data da Gregor. A patto, però, di precisare che il processo di modernizzazione si risolve in un processo dissolutivo.

Renzo De Felice

Secondo me un eventuale discorso sulla modernizzazione deve tenere adeguatamente conto della realtà nazionale su cui il fascismo si innesta. Questa realtà nazionale rende il fascismo italiano assolutamente diverso non soltanto dal nazismo, ma anche dalle dittature del «terzo mondo», dal peronismo e persino dagli stessi fenomeni contemporanei come il codreanismo rumeno che non è affatto fascista. Parlare di «fascismi» mi sembra perciò inesatto. Per avere una visione adeguata del fascismo vanno battuti due sentieri: la distinzione tra fascismo-movimento e fascismo-regime e la ricerca di ciò che sta a monte, sia del movimento, sia del regime. Il fascismo-movimento è l'autoproiezione di ciò che da varie e diverse parti si sarebbe voluto che il fascismo fosse; ed è una realtà che cambia continuamente, che non si lascia racchiudere negli schemi di una definizione precisa. È un agglomerato di elementi culturali (consapevoli od inconsapevoli) e psicologici che sono in parte quelli del fascismo intransigente, quello pre-marcia su Roma, ed in parte sono qualcosa di nuovo e di diverso, che vuole costituire l'autorappresentazione del fascismo proiettato nel futuro al di là, perciò, di condizionamenti, di paure, della vita di Mussolini. C'è poi il fascismo-regime, la realizzazione politica del movimento che tiene conto della realtà sociopolitica con i suoi problemi e con le sue difficoltà. Esso è la politica di Mussolini, il risultato di una politica che tende a fare del fatto fascismo la sovrastruttura di un potere personale, finisce per edificare una costruzione in cui non sempre e non tutto il movimento si riconosce e si ritrova. In questa prospettiva un Giovanni Gentile, od anche, per altri versi, un Gioacchino Volpe, appartengono piuttosto al fascismo-regime, mentre il movimento rimane sostanzialmente antigentiliano. Ma quali sono le radici, le origini storiche, culturali e morali del fascismo? Mi rifarei, come punto di partenza, al discorso sviluppato dallo storico israeliano Jacob L. Talmon sulle origini della «democrazia totalitaria», per dire che il fascismo sarebbe il punto di arrivo di un filone - spurio quanto si vuole - di un certo radicalismo di stampo borghese, in una linea caratterizzata da una determinata accezione della rivoluzione francese, che va da Rousseau a Babeuf e poi a Blanqui ed a Proudhon. Del resto, se pensiamo al dibattito che suscitò nel 1923 la pubblicazione del Nazionalfascismo di Luigi Salvatorelli e se pensiamo a quello che scrivevano allora personaggi dell'antifascismo, del giro gobettiano, per dirla con Del Noce, come Augusto Monti o Camillo Bellieni ed anche altri, non mi sembra che abbiamo motivo di scandalizzarci. Essi sviluppano un concetto, a mio parere, fondamentalmente giusto: il nazionalfascismo, come dice Salvatorelli, o radicalfascismo è espressione di un certo radicalismo di stampo democratico che ha le sue origini nella rivoluzione francese. Direi, poi, che se andiamo a vedere le cose in particolare ci accorgiamo che il fascismo ha in sé una certa idea di progresso, si fonda sul concetto di progresso storico, pensa addirittura di creare un uomo nuovo. Queste idee - quella del progresso e quella della creazione di un uomo nuovo - le troviamo, insomma, in tutti gli illuministi. Per quanto riguarda il nazionalsocialismo, tanto per cominciare il discorso, farei riferimento - così come prima ho fatto con il Talmon - al recente libro di George Mosse sulla nazionalizzazione delle masse. Nel nazismo non troviamo assolutamente l'i-dea di progresso. L'uomo nuovo, i nazisti non lo pensano neppure lontanamente: c'è, nella loro concezione, un uomo ariano tedesco che va riscoperto. Non si deve creare, perciò, un uomo nuovo, poiché già esiste e non può essere modificato in alcun modo, ma va preso, liberato da tutte le incrostazioni che dall'illuminismo e dalla rivoluzione francese in poi gli si sono appiccicate sopra e va realizzato. Su questo punto esiste, dunque, una differenza radicale tra fascismo e nazismo. Ecco. In questo senso, io dico, appunto, che bisognerebbe, secondo me, cercare di approfondire un certo tipo di discorso. Anche la polemica antiborghese del fascismo, a parte i tatticismi del momento, rientra in questo quadro. Il fascismo non rifiuta totalmente il borghese, pensa piuttosto di acquisirlo e superarlo. Per i nazisti, ovviamente, il discorso non vale: se andate a parlar loro di acquisire, sia pure per superarlo, il borghese, beh, vi infornano. Quindi, in conclusione: c'è un radicalismo di sinistra che sta a monte del fascismo; c'è un radicalismo di destra che sta a monte del nazismo. Sono due cose ben diverse. Tutto ciò a livello di movimento. Certo, a livello di regime, le cose in parte cambiano, perché è evidente che certi motivi di tipo tradizionalista, di tipo conservatore, di tipo cattolico, anche clericale, che sono peculiari di un'altra logica che non è quella del movimento, politicamente diventano manifestazioni e realtà in atto del fascismo. Ho parlato per battute e formulette. Però, secondo me, si tratta di battute e formulette che possono servire ad indirizzare verso ciò che intendo dire. Molto brevemente: io il discorso sul fascismo cercherei di portarlo avanti essenzialmente su un piano di acquisizione dei fatti, di ricostruzione degli avvenimenti, del sapere un po' bene, insomma, come stanno le cose. L'interpretazione complessiva verrà ad un certo punto. Via via si costruirà da sola. Ce la troveremo, alla fine, davanti quasi senza accorgercene. Rimane il fatto che se non cerchiamo di servirci di certi strumenti - ed io credo che, sul piano pratico, uno di questi possa essere proprio quello della distinzione tra movimento e regime, ed un altro possa essere quello della ricerca, a monte, di certe radici remote - continueremo a pestare acqua nel mortaio. Rimane certo un fatto (e, anche qui, non vorrei che, detto come l'ho detto, si perdesse) e cioè che tutte le radici sono vere, che tutte le radici sono da ritrovare, che tutte le radici sono da valorizzare. Però c'è di mezzo la guerra mondiale,: senza la guerra tutte queste radici non avrebbero germogliato e non avrebbero fatto spuntare una foglia. Fin qui ho voluto cercare di mettere in chiaro alcune cose a cui credo e che possono essere anche sbagliate; perché io sono convinto che la storiografia italiana soffre principalmente di un male: soffre di sicurezza. Tutti sono sicurissimi. Io, personalmente, dico che non sono sicuro affatto. Vorrei riuscire via via a capire le cose. Gli altri invece sono tutti sicuri. Beati loro!

A. James Gregor

So bene che esiste una differenza tra la posizione di De Felice e la mia. Credo però che, se si tien conto della diversa prospettiva e del diverso punto di partenza, non si tratti di differenze sostanziali. Per esempio De Felice ha ricordato che gli storici debbono cominciare con l'acquisizione di dati per ricostruire un periodo specifico di storia, ma suppongo che egli non voglia sostenere che una delle caratteristiche del fascismo sia quella che esso è un fenomeno italiano e soltanto italiano...

Renzo De Felice

Io, invece, questo, lo vorrei quasi dire. Come pure un'altra cosa vorrei dire. Credo che sia piuttosto pericoloso parlare, allo stesso titolo, di fascismi arrivati al potere e di fascismi che non sono mai giunti al potere. Bene o male, di fascismi giunti al potere sul serio, ce ne sono due soltanto, perché, per esempio, tutti i fascismi della seconda guerra mondiale sono giunti al potere in circostanze tali ed in un clima tale che andare a vedere il loro vero volto diventa, secondo me, pressoché impossibile. Quindi, di veri fascismi, semmai, ce ne sono due. E poi c'è da vedere se tutti e due sono fascismi!

A. James Gregor

Non si può sostenere che, siccome geograficamente l'Italia è una, di fascismo ce n'è stato uno solo; che, siccome Mussolini era Mussolini, non poteva esistere un altro duce; che, siccome l'Italia ha la forma di uno stivale e le altre nazioni hanno forme diverse, il fascismo, come fenomeno storico, è una produzione esclusivamente italiana etc. Per la sociologia - mi rifaccio a quello che ho sostenuto prima - non si può dire che il fascismo, come del resto ogni altra cosa, sia unico, non abbia legami, od almeno rapporti di affinità o somiglianza con altri tipi di regimi. Certo. Non si può sostenere che sia identico ad altre forme di regime politico. Però non è possibile negare l'esistenza di somiglianze. Per esempio, quando qui in Italia si diceva: «Mussolini ha sempre ragione», in Germania si esprimeva un concetto simile. Questo sta ad indicare l'esistenza di un certo tipo di rapporto fra i capi e le masse, che, per esempio, può essere preso in considerazione a livello paradigmatico con il concorso di altre circostanze. Non so, se io, negli Stati Uniti, dicessi: «Ragazzi, il presidente Ford ha sempre ragione», loro si butterebbero sul pavimento e si sbellicherebbero dalle risa, ma se, durante la seconda guerra mondiale, avessi detto: «President Roosevelt is a man indispensable» si sarebbero comportati diversamente. Che cosa prova questo? Vediamo il fatto: quando una popolazione si trova in una condizione di pericolo, reale od immaginario, cerca una via di uscita o di salvezza in un uomo-guida. Ecco: così può forse essere schematizzato un primo tentativo di spiegare questi movimenti di massa; però ci troviamo di fronte ad un comportamento che non è esclusivo di un tipo di regime, che è comune anche ai regimi poliarchici occidentali. Di esempi se ne potrebbero portare molti. Il problema, dal punto di vista delle scienze sociali, è quello di individuare dei fatti paradigmatici. Ma torniamo al punto. Guardiamo al diciannovesimo secolo ed agli inizi del ventesimo. Certe nazioni avanzate avevano imboccato la strada della industrializzazione, o, più in generale, della modernizzazione, per creare quell'uomo nuovo, quella società progredita di cui si è detto. Su questa strada si trovavano, però, bloccate da nazioni che avevano, come l'Inghilterra, mezzo mondo sotto di sé. Ed anche come gli Stati Uniti, che avevano creato un impero nell'America del Nord. Ed è proprio questo sviluppo che ha consentito loro di creare un sistema pluripartitico, una poliarchia. Quando, però, ci troviamo di fronte a nazioni che imboccano questa strada dello sviluppo, osserviamo che esse, sotto la spinta di pericoli reali od immaginari, tendono a cercare una via che li porti ad uno stadio di sviluppo, ma sotto la guida di sistemi autoritari. È quanto è accaduto in Italia. È quanto è accaduto nella stessa Russia. Per la Germania il discorso è diverso, ma la spiegazione è semplice. La Germania, è vero, non voleva creare un uomo nuovo, non esaltava, come l'Italia fascista, la «borghesia produttiva». Ma perché? Perché non era necessario. Perché la Germania si trovava in una situazione postindustriale. I nazisti battevano su temi che noi, negli Stati Uniti, abbiamo riscoperto oggi: l'ecologia, per esempio, ed il ritorno dell'uomo alla terra. Nella letteratura del periodo nazista si trova la tematica della necessità di rendere le città più abitabili diffondendo il verde e le piante, quella della riconquista della semplicità e della naturalità dell'uomo, la cui anima sarebbe stata oscurata dalla super-urbanizzazione e dall'industrialismo etc. Per il fascismo le cose stanno diversamente: il fascismo parla di una popolazione disciplinata che lavora, di treni che debbono partire in orario e così via. Ci troviamo, insomma, di fronte a temi tipici dei processi di sviluppo; e non è un caso che disposizioni simili le ritroviamo oggi nei paesi del «terzo mondo». Quindi. Va bene. Diciamo pure che il fascismo deve essere studiato come un movimento italiano: questa è la posizione della storiografia. La storiografia deve partire da queste basi. La sociologia deve procedere oltre. Del resto quando uno storico vuole cercare fra gli innumerevoli dati che ha a disposizione quelli significativi, deve anch'egli avere una qualche concezione interpretativa; non può limitarsi a cercare tutti i dati, metterli insieme e scrivere un libro. Deve operare una selezione. Uno storico, nel momento stesso in cui fa storia, ha già un disegno interpretativo, proprio perché è costretto a scegliere tra una infinità di elementi. Questa credo che sia la relazione che esiste fra storia e sociologia. Il concetto di modernizzazione, detto questo, mi sembra spieghi molte cose.

Augusto Del Noce

Sono pienamente d'accordo con l'amico De Felice su vari punti. Prima di tutto sul fatto che il luogo in cui si realizza il fascismo è l'Italia. A mio avviso è necessario restringere il discorso sul fascismo all'Italia. Il fascismo è una realtà non confrontabile con qualsiasi altra, non so, con il nazismo, con il peronismo, con i movimenti del terzo mondo etc. Il fascismo italiano tenta l'universalità, ma questo tentativo fallisce completamente. Dove invece mi trovo perplesso è sulla distinzione tra movimento e regime. Non è che io dissenta, ma vorrei qualche spiegazione ulteriore. De Felice definisce il movimento come autoproiezione ed allora, forse, si vorrebbe dire che esso, quello mussoliniano, si realizza attraverso componenti: abbiamo, allora, una varietà di autoproiezioni, futuristi e reazionari, futuristi e nazionalisti etc. Per un altro verso egli lo intende, diciamo così, come processo rivoluzionario, orientato verso il futuro e verso la creazione dell'uomo nuovo. Se lo consideriamo nel secondo senso, però, dobbiamo, allora, pensare a quello che dicevo un momento fa, vale a dire che sarebbe, bene forse eliminare lo stesso concetto di fascismo per parlare di questo tentativo di rivoluzione ulteriore al comunismo. Una rivoluzione che, poi, si fraziona in varie posizioni ed in varie eresie e dà luogo, appunto, a tante linee eretiche. In altre parole, mi sembra che De Felice intenda la parola movimento in due sensi: uno, quello dell'autoproiezione, l'altro, quello della tensione verso l'uomo nuovo o la realizzazione della democrazia totalitaria. Insomma una posizione che nasce, sempre, a differenza del nazismo, da una tensione rivoluzionaria (e di qui le continue insoddisfazioni nei confronti del regime) e la posizione, diciamo così, bonapartistica che Mussolini è costretto ad assumere nel tentativo di conciliare varie forze. Qui è appunto la radice di quel «fascio» che poi si decompone. Noi oggi viviamo, più che in un periodo successivo al fascismo, nel periodo della decomposizione di questo fascio. E notiamo che, in fondo, lo stesso Gramsci, nel suo giudizio su Mussolini, se si va a guardare bene, non nega il carattere rivoluzionario del capo del fascismo, la sua intenzione rivoluzionaria. Dice, piuttosto, che Mussolini ha adottato il tipo cesariano-bonapartista, cioè un tipo ormai completamente inadeguato alla realtà nuova e quindi destinato al fallimento.

Renzo De Felice

Io comprendo benissimo le esigenze di Gregor. Scienze sociali, scienza politica, sociologia tendono, bene o male, ad analisi intese a ricostruire il significato di certi fenomeni sui tempi lunghi. Nell'ambito di questo tipo di impostazione è chiaro che un certo tipo di associazioni possa avere una sua validità di massima. Io però debbo dire, con tutto il rispetto per queste scienze, che a tutte queste cose ci credo poco. Mi fanno sempre pensare, senza offesa per nessuno, a grattacieli costruiti su palafitte. Ho poi l'impressione che anche certe categorie che vengono utilizzate o certi fenomeni che vengono presi in considerazione sarebbe il caso di controllarli bene. Il discorso sul carisma. È un discorso che viene fatto sempre. Beh, secondo me, bisognerebbe vederlo dal punto di vista della massa su cui si esercita una certa funzione carismatica ed al tempo stesso di colui, uomo o partito, che tale funzione esercita. C'è poi il discorso se il carisma è individuale o collettivo, e qui cominciano col cambiare alcuni termini del problema. Poi, è veramente uguale un discorso sul carisma per la Germania nazista e per l'Italia fascista? Io personalmente ho dei dubbi. Ho l'impressione che Mosse abbia messo in chiaro nel suo libro (e definitivamente) questa faccenda: in Italia il discorso sul carisma vale, in Germania non vale, o vale fatte tutte quelle osservazioni che fa Mosse. E questo è tanto vero che, secondo me, Mussolini punta sul carisma non solo per sostenere il suo potere, ma tenta una operazione (in questo caso, sì, di tipo terzomondista) per trasferire in prospettiva il carisma dalla sua persona al partito. Perché, se vogliamo fare di questi discorsi, allora dobbiamo metterci, anche, nella logica del momento. Noi diciamo: nel '43 il fascismo è caduto, nel '45 Mussolini è stato ucciso. D'accordo. Però questa gente ragionava ed agiva pensando di non finire nel 1943, di non morire nel 1945 ed aveva presente il problema di un dopo Mussolini. Da parte sua, credo, Mussolini cercava di trasferire il carisma personale al partito proprio in questa logica. Dal canto suo Hitler tentava, invece, di spersonalizzarsi al massimo dal carisma proprio perché puntava su altri fattori per perpetuare il potere. Mosse individua questi vari fattori nel discorso che fa a proposito dell'importanza del rituale: Hitler cerca di non avere un potere di tipo carismatico perché è convinto, è sicurissimo che il suo successore ne avrà meno di lui e che, nel confronto, ci potrebbe essere uno scadimento, un danno per il partito e per il regime. Quindi, quando andiamo a parlare di carisma vediamo un po' bene quali sono le realtà alle quali applichiamo questa categoria. La chiave di tutto il discorso, secondo me, è un'altra, che io prima ho lasciato da parte e su cui non ho molto insistito perché pensavo fosse a monte di tutto il discorso. Chiarisco. Secondo me il fascismo è un fenomeno di ceti medi. Ne deriva che tutta una serie di diversità con altri paesi sta proprio nel tipo di realtà sociale di questi paesi stessi, nel tipo di presenza o di misura in essi del ceto medio, di importanza o non importanza che questo ceto medio ha assunto, non solo economicamente. Qui, secondo me, è il punto da stabilire, ma proprio in termini di partecipazione al potere. Debbo dire che sono partito accettando in pieno il discorso di Luigi Salvatorelli sul ceto medio; oggi lo accetto ancora, ma capovolgendola. In altri termini, quello che esprime il fascismo non è un ceto medio in crisi, un ceto medio che si realizza nel fascismo per contrastare la propria proletarizzazione. Ci sono anche fenomeni di questo genere, ma sono marginali, sono irrilevanti, direi, nel quadro del fenomeno generale che è quello di un ceto medio emergente che sta sorgendo e che, proprio perché sta sorgendo socialmente ed economicamente, pretende la partecipazione al potere. Queste considerazioni finiscono per rivelarsi decisive, se si vogliono fare confronti con altri paesi, con l'Inghilterra, con la Francia. Qual è la posizione del ceto medio in questi paesi'? Si hanno situazioni ben diverse e non a caso, per esempio in Francia, un discorso di tipo filofascista o protofascista o parafascista inizia intorno al 1930. Incomincia intorno al '30 proprio perché in Francia, dove il ceto medio è già arrivato a conquistare una certa posizione, lì si può dire che ci sia il pericolo di tornare indietro a seguito della grande crisi, o per lo meno di perdere potere, di perdere influenza politica. Ecco quindi che scatta la molla che serve ad agitare certi motivi e mettere in moto certi meccanismi. Poi c'è il discorso più generale, connesso alla crisi del 1929. Si crede, a torto od a ragione, nella inadeguatezza del sistema capitalistico e del sistema liberaldemocratico e si va alla ricerca di un sistema che non sia capitalista, che non sia collettivistico, che non sia liberaldemocratico, che non sia comunista etc. Ma, appunto, ripeto, il problema a monte è quello del ceto medio ed esso taglia le gambe a tutta una serie di discorsi su altri fascismi presunti. Tanto per fare un esempio, Gino Germani ha dimostrato esaurientemente che la base del peronismo (parlo del peronismo storico, non di quello in atto) non è una base borghese, è piuttosto, per dirla con i sociologi, una base di prima e non di seconda mobilitazione. E lo stesso, a maggior ragione, vale per i paesi del terzo mondo, nei quali, davvero, di borghesia come forza sociale non si può parlare, tant'è che, per questi paesi, è necessario ricorrere al discorso sui militari, cioè ad un discorso che non è più di veri e propri ceti sociali, ma di élite intellettuali e, a rigore, nemmeno intellettuali, ma tecniche. Quanto poi alle osservazioni che faceva Del Noce sul movimento non mi sembra di cogliere una grande contraddizione in quello che ho detto. I due aspetti ai quali ha fatto cenno Del Noce sono due facce della stessa medaglia. Esprimono la stessa realtà, che è quella del movimento, il quale è tale proprio perché non è definibile in senso preciso, perché è un qualcosa in continua trasformazione ed in continuo divenire. Se cerchiamo di definirla meglio rischiamo di non afferrarla più. Si tratta, comunque, di un qualcosa che, da un lato, ha alla sua base questa spinta dei ceti medi e dall'altro, una critica alla democrazia non di tipo ideologico, ma di tipo tecnico. Si critica il sistema democratico perché è inefficace, perché non fa funzionare bene lo Stato etc. Non è la democrazia che si colpisce in quanto sistema ideologico, ma la sua non funzionalità. Può sembrare una sfumatura, ma è invece una cosa sostanziale. Se prendiamo in considerazione il partito, osserviamo che esso è contro la democrazia all'esterno, ma reclama la democrazia al suo interno. E questo è un fatto abbastanza significativo.

Augusto Del Noce

Sono d'accordo sul fatto della critica alla democrazia come inefficienza, sviluppata dal fascismo. Continuo a rimanere perplesso, però, sulla distinzione tra movimento e regime. Facciamo un esempio. Si parlava, prima, dei ceti medi. Bene. Tutto il fascismo di sinistra, degli anni Trenta e Quaranta, che poi andrà a costituire i quadri dei partiti antifascisti, dove lo collochiamo? Certo, all'interno del movimento. Ma allora dobbiamo parlare di unità del movimento che non possiamo più identificare col ceto medio, perché è orientato in senso rivoluzionario. Il futurismo dobbiamo farlo rientrare nel movimento. Ma il collegamento tra futurismo e ceti medi mi sembra abbastanza difficile da stabilire, in quanto, almeno nelle intenzioni, il futurismo si presenta anti-piccolo-borghese. Non credo che la parola ceto medio si trovi mai nella letteratura futurista. Non dimentichiamo che il futurismo mostra anche simpatie comuniste. Insomma, non sono sicuro che l'adesione del ceto medio sia da mettere nel movimento o non piuttosto nel processo che conduce al regime. Che cosa abbiamo, infatti? Abbiamo i ceti medi proletarizzati, dopo la prima guerra mondiale, che cercano un regime ordinato e che allora volgono le loro simpatie al fascismo. Ma questa adesione del ceto medio ha un carattere diverso da quello degli stessi fascisti di sinistra degli anni trenta-quaranta. Però qui ci troviamo entrambi a mal partito, perché usiamo termini sociologici...

A. James Gregor

Ecco: mi sembra che questa sia proprio la conferma di quello che dicevo, e cioè che bisogna tener conto anche dei concetti elaborati dalla sociologia. Non saranno gran cosa, d'accordo. Però sono utili. Il guaio è quando si vuole parlare esclusivamente attraverso le generalizzazioni sociologiche. Io, comunque, vorrei dire una cosa. Perché, come elemento specifico che serve a distinguere il fascismo, si vuol scegliere proprio la base sociale costituita dai ceti medi? Su questo piano, allora, possiamo dire che ci sono tanti altri elementi tipici del fascismo. Non so. Per esempio, i fascisti portavano le camicie nere, od il fez; Mussolini era calvo etc. Si tratta, però, di elementi non sostanziali. Se io sposto il discorso e dico per esempio: il fascismo è un movimento che vuole lo sviluppo della nazione e deve utilizzare qualsiasi risorsa, le cose stanno diversamente. Il ceto medio diviene un elemento importante per il caso italiano. Non è lo stesso in situazioni diverse, dove però i problemi sono i medesimi. È per questo che continuo ad insistere sul fatto che si debba privilegiare un discorso sul fascismo come movimento verso l'industrializzazione e la modernizzazione.

Renzo De Felice

È vero tutto quello che Gregor dice. Però, la prospettiva che veniva data a questa modernizzazione, a questa industrializzazione, a questo moto verso lo sviluppo a che tipo di modelli, confusi o velleitari quanto si vuole, si rifaceva? Che tipo di società si pensava di edificare? Non è una società indiscriminata che abbraccia tutti. È piuttosto una società che abbraccia principalmente, come prospettiva, una concezione che è quella dei ceti medi. Anzi un certo tipo di ostilità che c'è nei confronti della borghesia, della grande borghesia è abbastanza marcata, abbastanza evidente, così come una certa ostilità nei confronti del proletariato. Insomma, non facciamo della retorica. Abbiamo una posizione che è sì di valorizzazione, ma anche di tipo paternalistico e fondata sulla consapevolezza di ciò che occorre perché non se ne può fare a meno. Per ottenere un certo grado e tipo di industrializzazione occorrono degli operai. Quindi un certo atteggiamento, nei confronti di questo tipo di proletariato. Però, contemporaneamente, c'è anche una logica che non è soltanto di discorso economico-tecnico, ma anche ideologico e che si risolve nel non accrescere troppo questo proletariato. I temi della ruralizzazione, dell'antiurbanizzazione, della valorizzazione della campagna sono di tipo ideologico. Implicano la volontà di mantenere questa grossa riserva che è la campagna, proprio per evitare uno sviluppo eccessivo del proletariato. Ed è una linea che procede abbastanza bene fino a quando non giunge la grande crisi, che sconquassa il mondo intero e che ha riflessi netti persino sulla politica di Mussolini. Mussolini, poi, dal canto suo, non si è mai sognato di fare una politica di industrializzazione abbastanza regolata e controllata. Ma questo fatto risponde proprio ad una proiezione ideologica del ceto medio, non di altre forze. Che poi ci siano presenze e confluenze di altro tipo, d'accordo. Però, l'elemento portante è questo.

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