Ci proponiamo di mettere in rilievo, in rapidi cenni, un aspetto non ancora studiato della personalità del nostro Duce: il suo pensiero filosofico e religioso, quale si può desumere dai suoi scritti. In verità, i biografi di lui, indagando il periodo della formazione della sua personalità, non hanno trascurato questo lato: discepolo del Nietzsche è stato definito anche recentemente; egli stesso ha riconosciuto nel Pareto un altro suo maestro; e tutti sanno che nell°elenco bisognerebbe mettere Renan, Sorel, e molti altri, ai quali, anche se non vanno tra i filosofi nel più stretto significato della parola, non si può negare il merito di avere influito, più o meno efficacemente, anche sul movimento del pensiero speculativo nell'ultimo Ottocento o ai primi di questo secolo: nel periodo, appunto, della formazione mentale e spirituale di Mussolini. E come non aggiungere qui il nome di Marx, e di Prudhon, e di Stirner, e non ricordare la letteratura che fu comune, in quel tempo, a tutti coloro che guidavano il movimento socialista e s'ispiravano alle opere, allora divulgatissime, degli apostoli della rivoluzione? Tempo, quello, di rivoluzioni sociali, alimentate anche da un pensiero filosofico e religioso che lavorava nel loro seno nascostamente. Positivismo e anticlericalismo tingevano, allora, l'atmosfera, abbuiando più che chiarendo; ma nel buio, nel tramonto delle idee che avevano governato per tanti secoli la storia, balenavano qua e là lampi di nuove idee e forze spirituali. Era una continuazione e uno sviluppo, in fine, della rivoluzione francese: continuazione e sviluppo, che è nel fondo ancora del pensiero e della vita contemporanea, nonostante le critiche e revisioni ai cui è stata sottoposta. Ma noi non di questo vogliamo occuparci: se ci mettessimo in quest’ordine di ricerche storiche, potremmo, sì, avere la soddisfazione di veder sorgere e ingrandire la personalità e mentalità di Mussolini lungo una linea di coincidenza con il movimento della storia, si che il "fenomeno"di lui verrebbe illustrato e spiegato, dal lato almeno delle idee, del tutto naturalmente. Si potrebbe, ad esempio, per la parte filosofica, rifarsi al bergsonismo, al pragmatismo, all'influsso esercitato su tutti i campi della cultura dal nuovo pensiero idealistico italiano, e inquadrare lì dentro anche il pensiero di Mussolini. E per la parte riguardante il problema religioso, similmente: citare tutti i documenti che alla fine del secolo scorso e nel primo decennio di questo accennavano già ad una considerazione più rispettosa, più intelligente,dei valori spirituali contenuti nella fede religiosa; e ricordare la rinascita improvvisa di sentimenti, che parevano sepolti e obliati, in quel grandioso esame di coscienza dei popoli che fu la guerra mondiale. E via via.
Ma per questa via noi non vogliamo metterci, perché essa ci condurrebbe, si, a spiegare il "fenomeno Mussolini" ma il "fenomeno", appunto, il "fenomeno storico", non quello che c'è di proprio suo, nel suo pensiero, in sé e per sé, indipendentemente dagli influssi subiti.
Invece, noi proprio a questo vogliamo guardare.
Noi ci poniamo, dunque, questa domanda: c'è, in Mussolini, un germe dli pensiero che da un punto di vista filosofico, anche nel più rigoroso significato del termine, abbia qualche importanza per originalità e capacità di ulteriori sviluppi?
E c'è in lui, nel suo atteggiamento verso la questione religiosa, qualcosa di nuovo, che accenni ad una possibilità di rinnovamento di idee e sentimenti, anche in questo campo di secolari, anzi millenario, lotte e discussioni?
La nostra intenzione è di essere, per quanto è possibile, obiettivi, e di tenerci dentro all'argomento, non sconfinando in altri campi: di trattare la questione, come si dice, tecnicamente. Non eviteremo neppure la pedanteria delle citazioni, dove saranno necessarie. E cominciamo, secondo la vecchia buona norma scolastica, dal dubbio. Non può ben risolvere le questioni, disse Aristotele, se non chi, prima, ha dubitato, veduto il pro e il contro. Il dubbio "metodico " , in questo senso, è, come si vede, ben più antico di Cartesio.
Il "contro" è buono ognuno ad addurlo: Mussolini è un politico, non è un teoretico, un elaboratore di concetti, un costruttore di un sistema di idee da inserire in quella storia peculiare dove si parla di Talete, di Platone e di Aristotele, di Cartesio, di Kant e di Hegel. Senza un tal carattere teoretico, che fa della filosofia una scienza, la quale, come ogni altra scienza, ha il suo vero significato in una storia sua propria, nella storia della ilosofia stessa, senza un tal carattere e valore del pensiero, non si può parlare di filosofia. ll temperamento mussoliniano è, anzi, all'antitesi di ogni atteggiamento speculativo: tutto volto alla realtà concreta della vita, della storia, dei fatti, per dirigerli e dominarli. Di metafisica, di costruzioni astratte, di schemi e ideologie (a questo volgarmente vien ridotto il lavoro del filosofo), nessuna traccia nel suo pensiero, nessun appiglio nel suo temperamento. Egli ha detto una volta, sia pure per buon umore, ma tradendo, in fondo, una sua convinzione, che "i filosofi risolvono dieci problemi sulla carta, ma sono incapaci di risolverne uno solo nella realtà della vita". La filosofia gli sa di "scuola", di dottrine e dottrinari, con relative cattedre e ristrettezze mentali e d’animo. Onde ha sempre consigliato i giovani di rapidamente assimilare", ma " di espellere non meno rapidamente" la cultura universitaria. L’intelligenza è buona cosa, ma deve essere adoperata "per fare la critica del socialismo, del liberalismo, della democrazia": per illuminare le menti,dal punto di vista fascista, sui problemi della vita contemporanea. Se no, se l'intelligenza fosse impiegata a criticare "tutto cio che di criticabile vi è in un movimento così complesso come il movimento fascista, allora io vi dichiaro schiettamente che preferisco al cattedratico impotente lo squadrista che agisce" (Discorso all'Augusteo, 21 giugno 1925). In conchiusione: il suo interesse è puramente pratico; anche se stima e promuove la cultura, compresa in questa la filosofia, anzi a cominciare da essa, lo scopo è sempre per le conseguenze e ripercussioni politiche, non mai per il valore del pensiero in sé e per sé. Similmente si deve dire per il problema religioso. Mussolini è un laico, un purissimo laico. Della religione comprende e sente il lato umano e storico in generale; non ha mai lasciato trapelare un interesse a questioni dogmatiche, anzi s'è guardato accuratamente dall'entrarvi anche quando l'occasione gli veniva offerta naturalmente. È vero che con lui il nome di Dio risuonò, forse per la prima volta, solenne e ammonitore, nella fredda e grigia aula del Parlamento. È vero che si deve a lui la distruzione in Italia della Massoneria, e la Conciliazione col Vaticano. Ma queste imprese non furono da lui eseguite, e di fatto giustificate, con ragioni che non fossero essenzialmente politiche e sociali. E se pure si ha da concedere qualche valore religioso alla invocazione di Dio, essa non va più in là di una fede in un principio del tutto indeterminato, troppo più vicino al vago principio, di una fede di stile mazziniano, che a quello ben definito, preciso e impegnativo, del Cristianesimo, anzi del Cattolicismo. Senza dire che, anche per la parte, diciamo così, pratica, nessun uomo sembra più alieno dall'atteggiamento ascetico e mistico proprio delle anime veramente e profondamente religiose, che o si ritirano dal mondo, o nel mondo vogliono vivere solo per onorare ed amare Dio. Qui "il seguace di Nietzsche " si rivela senz'alcuna ombra di dubbio e di possibili cavilli: la morale del Fascismo da lui fondato è tutta un'esaltazione di principii fondamentalmente pagani, come già molti hanno messo in rilievo.
Tutte queste cose sono state dette, oppure è facile dirle: queste, ed altre somiglianti. Se non che, proprio perché sono facili a dire, e sono state dette facilmente, sorge in ognuno spontaneo il sospetto della loro superficialità, e quindi, poiché la superficialità è sempre falsa, della loro non verità.
Il discorso vale, in primo luogo, per quella concezione puramente teoretica della filosofia, come di una scienza avulsa dalla vita: oggi anche ogni mediocre studioso di filosofia sa che se pur c'è mai stata una tale aridità (non, certo, nei veri filosofi, nei maestri), tutta la speculazione contemporanea è diretta contro di essa. Chi definisse la filosofia come lo sforzo supremo d'impadronirsi delle ragioni della vita, definirebbe quel che è il segreto del filosofo moderno, il tormento profondo del suo pensiero e della sua vita stessa. Segreto e tormento, del resto, che non è una prerogativa di colui che noi chiamiamo "filosofo"; ma è prerogativa e gloria dell'umanità pensante, di cui la storia della filosofia è soltanto la documentazione, ed i singoli grandi filofisofi sono soltanto gli esemplari più cospicui. E sono per questo, anche, i più grandi educatori del genere umano. È negli scolari e passivi ripetitori che la filosofia, svuotata della vita che l'animò, diventa sistema, dottrina, astrazione, metafisicheria: e contro di essa, allora, ben vengano - ché son salutari - i motteggi ed i sarcasmi. Alle altre scienze si può perdonare se si astraggono dalla vita (come, se no, far della fisica e della matematica?): alla filosofia, no. E non astrarsi dalla vita, non basta: ché, questo, è il lato soltanto negativo. Bisogna viverci dentro, prima di filosofarci su (primum vivere), o, piuttosto (ché il prima e il dopo son modi di dire volgare), bisogna vivere e pensare insieme, con intensità di vita e insieme con profondità di pensiero. Ma la vita, si dirà, non è soltanto quella politica, né al pensiero si offrono soltanto i problemi del socialismo e del liberalismo. E noi risponderemo raccomandando di non perdere il buon senso, e quindi di neanche supporre che l'abbia perduto Mussolini. Il quale deve essere persuaso più degli altri che fa la miglior politica colui che non ne fa affatto: che bada a far l'ingegnere, se ingegnere; il professore, se professore; il poeta, se poeta; il manovale, se manovale: ciascuno, a far bene il suo dovere, nella famiglia e nella società, nella sua arte o vocazione o mestiere per cui è nato. E sarebbe grottesco fargli dire che tutti gli uomini di pensiero abbiano come unico argomento da svolgere la critica del socialismo e del liberalismo, L'apologia del Fascismo. Immaginate se la già enorme (e, naturalmente, mediocre per la maggior parte) letteratura sul Fascismo dovesse accrescersi di quotidiane monotone trattazioni in piccoli o grossi tomi, per opera di tutti coloro che hanno qualche barlume d'intelligenza e tengono una cattedra all°Università o nel movimento della pubblica cultura! Non è questo, certamente, il senso del discorso su accennato. E' quest’altro, invece: che nessun uomo di pensiero, che si senta italiano, può disinteressarsi dei problemi che sta vivendo e agitando il Fascismo nel mondo; cosi come nessuno scienziato, e sia pure un cultore del calcolo infinitesimale, può disinteressarsi dei problemi che riguardano la vita e il valore dell°uomo. Tantomeno, poi, il filosofo. Dal quale, tuttavia, non sarebbe corretto di esigere che, per questa maggiore vicinanza ai problemi della vita politica e morale, si trasformasse in scrittore, esclusivamente, di questioni economiche e sociali, In Italia c'è un gruppo di giovani dalle menti educate alla filosofia che fa questo, e lo fa bene. Ma, come nell'universo materiale in ogni punto s'incentra la realtà del tutto, tanto più questa considerazione vale per l'universo spirituale: i problemi della filosofia hanno tutti un'intima connessione con la vita ed una immancabile risonanza nell'azione, ma non tutti l'hanno in modo manifesto ed immediato. Anzi, spesso, quanto meno un tal rapporto è immediato ed evidente, tanto più è intimo e profondo. Il filosofo trova soltanto alla fine, dopo un lungo giro di pensieri che sembrano ì più lontani dalle questioni della vita quotidiana, soltanto alla fine trova una via soddisfacente alla soluzione di queste. Ne è prova ed esempio anche la filosofia bergsoniana arrivata soltanto ora alla questione sociale, morale e religiosa, dopo di essersi lungamente indugiata in problemi che parevano del tutto alieni. I problemi della filosofia si illuminano e ravvivano l`un l'altro, e nessuno ha luce e vita per sé. Essi si debbono, come si dice con termine tecnico, mediare fra loro. Prenderne uno, esclusivamente, separato dagli altri, è precludersi la via a ìntenderlo veramente. Questa, forse, è anche la ragione della insoddisfazione che ci resta delle molte teorie avanzate, pur da uomini d“ingegno e di dottrina, sullo Stato fascista e sui problemi da esso suscitati. La superiorità di Mussolini, invece, non soltanto come uomo politico, ma anche come pensatore, è la consapevolezza della risonanza che hanno nello Stato tutti i problemi della vita spirituale. Noi, ripetiamo, vogliamo essere obiettivi, tecnici. Rimosse le volgari obiezioni, concediamo senza fatica che nella specificazione delle varie forme dell'attività umana ( non entriamo in discussione sul valore di queste distinzioni), filosofo, propriamente, è colui che più degli altri persiste nell'atteggianiento critico-teoretico del pensiero e della riflessione sui problemi della vita e della storia umana. Noi, quindi, non abbiamo nessuna difficoltà a presentare la nostra tesi nei termini più modesti: l'interesse predominante dello spirito mussoliniano è, senza dubbio, pratico-politico; ma in lui è vivissima la consapevole esigenza anche del valore del pensiero in sé e per sé, della considerazione della vita sub specie aeternitatis, propria della filosofia e della religione . Ma spingiamo la nostra tesi anche un po' più in là: l'esperienza della vita e del mondo storico, da lui vissuta con potente e originale personalità, dà anche al suo pensiero una nota di originalità potente, della quale è possibile uno sviluppo in sede puramente teoretica. Queste due parti della tesi sono, tuttavia, da dimostrare. Per la prima, si potrebbe addurre l'interesse confessato per la filosofia, per la storia della filosofia e delle questioni religiose, sin dalla prima giovinezza, quando leggeva "La morale dei positivisti" dell'Ardigò e la "Storia della filosofia" del Fiorentino, e più tardi, quando scrisse per suo conto una storia della filosofia, un libro su Giovanni Huss, un abbozzo su le origini del Cristianesimo. Ma, poiché i documenti ci mancano quasi del tutto, non giova insisterci. Le prove, invece, abbondano nei suoi scritti più maturi. Quante volte ha ripetuto che il Fascismo "non è soltanto azione, è anche pensiero"; e che, pur rinunciando a formule e schemi, il Fascismo "pena la morte, peggio, il suicidio, deve darsi un corpo di dottrine", le quali "non saranno, non devono essere delle camicie di Nesso che vincolino per l'eternità, ma devono costituire una norma orientatrice" ! E nella lettera a M. Bianchi, del 27 agosto 1921 (si noti, nel periodo più intenso dell'azione rivoluzionaria), augurava che sorgesse presto una "filosofia del fascismo", e aggiungeva: "Attrezzare il cervello di dottrine e di solidi convincimenti non significa disarmare, ma irrobustire, rendere sempre più cosciente l'azione. I soldati che si battono con cognizione di causa sono sempre i migliori. Il Fascismo può e deve prendere a divisa il binomio mazziniano: Pensiero e Azione". L'anno seguente (" Gerarchia", n. 3) forse gli sembrò che una tale filosofia ci fosse già nel movimento idealistico italiano: "Questo processo politico è affiancato da un processo filosofico: se è vero che la materia è rimasta per un secolo sugli altari, oggi è lo spirito che ne prende il posto. Tutte le creazioni dello spirito, a cominciare da quelle religiose, vengono al primo piano... Quando si dice che Dio ritorna, s'intende affermare che i valori dello spirito ritornano". In pieno Parlamento, infatti, egli aveva fatto una specie di clamorosa professione di idealismo: "Voi socialisti siete testimoni che io non sono mai stato positivista, mai, nemmeno quando ero nel vostro partito. Non solo per noi non esiste un dualismo fra materia e spirito, ma noi abbiamo annullato questa antitesi nella sintesi dello spirito. Lo spirito solo esiste, nient'altro esiste: né voi, né quest'aula, né le cose e gli oggetti che passano nella cinematografia fantastica dell’universo, il quale esiste in quanto io lo penso e solo nel mio pensiero, non indipendentemente dal mio pensiero. È l'anima, signori, che è ritornata" (Discorsi dal banco di deputato, pag. 118: questo è del 1° dicembre 1921). L'accenno al problema gnoseologico, alla centralità del pensiero conoscitivo nel problema della realtà del mondo, non è il punto che più interressa qui; l'adesione all'idealismo è data soprattutto, io credo, per lo spiritualismo implicito in esso. Questo è un punto che ancor oggi presenta le maggiori difficoltà. Ad alcuni sembra (secondo chi scrive, giustamente) che il carattere gnoseologico predominante nell’idealismo, mentre non arriva a dar ragione di quella che è la realtà oggetto dell'esperienza comune e dell'indagine scientifica, nello stesso tempo impoverisca e disperda in schemi logici (la dialettica) l'intimità della vita spirituale e il senso del mistero, del Trascendente, in essa implicato. Di queste difficoltà Mussolini non sembra inconsapevole, come dimostra il discorso tenuto il 31 ottobre 1926 al Congresso degli scienziati. "Qualche volta mi sono posto dinanzi al fatto scienza, per vedere la mia posizione personale, la posizione del mio spirito di fronte a questo fatto: prima di tutto per definirlo. La mia definizione non dico che sia quella esatta, e potete anche respingerla, se la trovate inesatta, oppure insufficiente: credo che sia l'indagine e il controllo dei fenomeni che cadono sotto la nostra sensibilità e sotto quella degli strumenti che noi possiamo adoperare... Dove può arrivare la scienza? Molto in là. Il secolo diciannovesimo ha fatto fare un balzo enorme alla scienza... Non c'è dubbio che la scienza tende al massimo fine; non c'è dubbio che la scienza, dopo avere studiato il mondo dei fenomeni, cerca affannosamente di spiegarne il perché. Il mio sommesso avviso è questo: non ritengo che la scienza possa arrivare a spiegare il perché, e quindi rimarrà sempre una zona di mistero, una parete chiusa. Lo spirito umano deve scrivere su questa parete una sola parola: Dio. Quindi, a mio avviso, non può esistere un conflitto fra scienza e fede. Queste sono polemiche di venti o trent’anni fa. La filosofia ha il suo campo, quello dello spirito. Vi è una zona riservata alla meditazione dei supremi fini della vita. Quindi, la scienza parte dall'esperienza, ma sbocca fatalmente nella filosofia e, a mio awiso, solo la filosofia può illuminare la scienza".
Il problema è troppo grave e complesso per discuterne qui tanto più che, come s'è detto, res sub judice adhuc est. Ma i termini di esso sono ben quelli posti da Mussolini: il mondo della conoscenza e della scienza è quello dell'esperienza sensibile (così come il mondo della vita sociale e politica è quello del sentimento e della volontà); il problema dello spirito (nel quale, del resto, sboccano alla fine tutti gli altri problemi) è il problema proprio della filosofia: problema filosofico che è insieme un problema religioso. Si comprende, quindi, il tono diverso del discorso tenuto il 26 maggio 1929 al Congresso dei filosofi: rivendicato il merito del Fascismo per i valori dello spirito e della cultura; e riaffermata la sua convinzione sull'importanza della filosofia che, se fatta in mezzo alla vita contemporanea, "serve ad animare gli orientamenti pratici dell'azione quotidiana", riconosce che c'è un lamento generale, in Italia e fuori, perché l'arte e la filosofia sembrano in un periodo di decadenza: "Siamo in un periodo di transizione, siamo in un periodo nel quale, per necessità contingenti, siamo affaticati da problemi di ordine empirico materiale... D'altra parte, io penso che la grande fioritura dello spirito non sia lontana: io credo che fra qualche tempo avremo una grande filosofia, una grande poesia, una grande arte. I materiali per questo si stanno elaborando proprio mentre noi parliamo". Quali sono questi materiali che si stanno elaborando, e da cui dovrà sorgere una nuova grande filosofia, secondo il pensiero e le speranze di Mussolini? Comincia di qui la parte più difficoltosa del nostro argomento, perché, mancando accenni più espliciti, dobbiamo servirci più d'intuizioni che di dimostrazioni. Ci soccorre, tuttavia, una tale abbondanza di documenti che permette di arguire, con suficiente approssimazione, quale sia la sua intenzione. Anzitutto è chiaro che una parte almeno di quei materiali deve essere costituita da quanto di meglio possono ofrire i principali indirizzi del pensiero filosofico contemporaneo. E però la mente corre, in primo luogo, a quelle correnti di pensiero che anche in ltalia ebbero grande divulgazione al principio del secolo, e alle quali anche Mussolini, in via diretta o indiretta, deve qualcosa per la formazione della sua mentalità: vogliam dire il contingentismo, il bergsonismo e il pragmatismo. Abbiamo citato dianzi la sua affermazione di non essere stato mai positivista, ma, nello stesso tempo, abbiamo usato la maggior cautela per non presentarlo, quindi, senz'altro, come un idealista. Questo binomio, o dilemma che dir si voglia, vale meglio per la generazione, cresciuta subito dopo, esclusivamente dentro l'atmosfera dell°idealismo italiano. Mussolini s'è formato, in un primo tempo, dentro il clima mentale europeo; e però non è stato mai positivista perché ha compreso subito la vitalità e fecondità di quella critica del positivismo che veniva eseguita, pur dentro di esso, dagli indirizzi di pensiero ora, ricordati. I risultati principali di quella critica furono questi: la realtà del mondo, non più veduta negli schemi intellettualistici del determinismo scientifico e del pesante grossolano positivismo, a sfondo materialistico, ma ravvivata dal senso della novità e della creazione, per cui il fenomeno si presenta sempre come qualcosa di singolare; il primato dell'intuizione che meglio di tutte le analisi concettuali coglie l'initimità delle cose e quella vita della coscienza in noi che, sola, ci guida a intendere lo slancio vitale che pervade il mondo della natura; il primato, quindi, anche dell'azione, come pensiero volitivo che realizza in concreto il mondo inserendovi l'evento e il fatto talora decisivo. Non è il luogo, questo, per mettere in rilievo (e d'altronde appartiene alla cultura filosofica corrente) quanta vivacità e freschezza di idee fossero contenute in tale movimento di pensiero, che contribuì come nessun altro mai nella storia della filosofia a dileguare dalle menti secolari abitudini scolastiche, a render più agile e penetrante l'ntelligenza, a dar vita nuova alla cultura, a far sentire la superiorità dell'azione su un pensiero astrattamente speculativo. Ma neppure è il caso di indugiarci a mostrare i difetti e le deficienze di quel movimento di pensiero che, pur criticando il positivismo, restava preso nell'orbita dei suoi problemi e del naturalismo in essi dominante. Il contingentismo ha avuto la sua migliore applicazione nella nuova scienza fisica, che segna il tramonto della vecchia concezione del determinismo materialistico. Ma fuori di lì non poté e non può andare: quando, già nei fondatori, si provò a ricavare qualche conseguenza d'ordine metafisico, di quelle "verità eterne" che reggono, non i fenomeni fisici, ma la vita dell'uomo, riuscì ben misera cosa. Ma lo stesso si deve dire del bergsonismo, e molto più del pragmatismo. Quell'intuizionismo conchiudeva in una svalutazione, non solo della scienza, governata esclusivamente da motivi pratici, ma della stessa vita cosciente, ridotta a un "fluire" evanescente, a cui soltanto la mirabile arte dello scrittore prestava tesori di suggestioni. E che dire di quel vuoto ed effimero pragmatismo, a cui qualcuno ancor oggi tenta di fare buon viso? L'azione per l'azione è come l'arte per l'arte: una frivolezza. L’azione, svuotata del suo contenuto ideale e del pensiero che la illumina e guida, diventa il principio di un volgare e inconchiudente praticismo. Veniamo all'idealismo italiano. Qui siamo in un ambiente del tutto diverso, e in casa nostra, per cui, non soltanto la grandezza della costruzione (che ha posto, d'un tratto, l'Italia in prima linea nel movimento del pensiero filosofico contemporaneo) ma anche carità di patria ci persuade a utilizzare quanto più materiale si può. A noi sembra, infatti, che la mentalità mussoliniana abbia assorbito, e fatto propria sostanza, ciò che ha di più veramente originale e duraturo quest'idealismo: l'acuto senso storico dei problemi e la concezione spirituale della vita . Anche qui, anzi qui a maggior ragione, dobbiamo resistere alla tentazione di allungare il nostro studio con citazioni di pensieri e di atteggiamenti mussoliniani, che balzano alla memoria in folla. I suoi scritti e discorsi, e quegli atteggiamenti rivelatori del suo orientamento mentale così nelle grandi questioni internazionali come nel più modesto travaglio intorno ai dati della statistica, sono ben vivi e presenti al pensiero e al cuore di ogni italiano, anche se la riflessione comune inclini a trasvolare sui particolari per coglierne e sentirne l'animazione del tutto. Piuttosto, fermiamoci un momento per determinare i limiti entro i quali quei principii dell”idealismo trovano un'eco nella mentalità mussoliniana. La questione (ripetiamo ancora una volta) è oltremodo difficoltosa, perché si tratta di cosa non ancora da lui dichiarata e definita: si che si corre il rischio di sembrare che si voglia sostituirsi a lui nell'interpretazione del suo pensiero, ovvero (peggio che mai) sovrapporgli vedute nostre personali. Noi faremo del nostro meglio per evitare entrambi gli inconvenienti. Osiamo, dunque, fissare questi punti, a nostro avviso,di fondamentale divergenza del pensiero mussoliniano da quello idealistico. In primo luogo, la sua lontananza dalla concezione idealistica in quanto questa è ispirata ad un assoluto storicismo che erige metafisicamente la Storia al significato e valore dell'Assoluto. Questa metafisica, che si risolve in un panteismo storico, non è, ci sembra, nella convinzione di Mussolini. Il quale, giustamente, per quanto riponga tutta la dignità dell'uomo e della storia nel valore spirituale, ha troppo preciso e sicuro il senso della finitezza dell'umano: del limite che, mentre potenzia il pensiero e l'azione dell'uomo, ne delinea insieme esattamente i confini. ln altri termini, egli ha una concezione più veramente storica della Storia. Ma, appunto per questo, egli si trova ad ugual distanza da quella specie di umanismo teologico che in alcuni idealisti è rimasto come residuo dell'hegelismo. È un idealismo, questo, di carattere fondamentalmente razionalistico. In questo punto, Mussolini, se non c'inganniamo, tradisce il carattere schiettamente cattolico della sua mentalità: se un Dio ci ha da essere, se c'è, meglio che sia quello religioso del Cristianesimo, del Cattolicismo. Qui si passa, quindi, ad una considerazione apparentemente opposta alla precedente: L'idealismo è troppo umanistico : il suo razionalismo affievolisce e smorza nell’uomo l'impulso alla lotta e al sacrificio,l'anelito del futuro, il senso pericoloso della vita, l'audacia dell'iniziativa e il gusto dell'eroico. Nell'uno come nell'altro caso l'uomo è agito dalla Storia, dallo Spirito Universale, da una «dialettica» che per "deificarlo" istrada ogni sua azione e pensiero lungo una legge impersonale che ha la rigidezza del fato, e lo spersonalizza. All'immanentismo, storico o razionalistico, manca una parola magica: la fede. Se la usa, ne storpia il significato. Pronunziare questa parola, tuttavia, è presentare il problema più arduo e assillante per l'attuale coscienza contemporanea. Mussolini lo sente, lo dichiara. Ci è venuto, a questo problema, lentamente: "Nella gioventù io non credevo affatto: avevo inutilmente invocato il nome di Dio" (Ludwig, Colloqui, pag. 224). Nel 1922, invece, già afferma: "Se il Fascismo non fosse una fede, come darebbe lo stoicismo e il coraggio ai suoi gregari? Solo una fede che ha raggiunto le altitudini religiose, può suggerire le parole uscite dalle labbra ormai esangui di Federico Florio" ( Il Popolo d'Italia, 19 gennaio)."Non si può compiere nulla di grande se non si è in stato di amorosa passione, in stato di misticismo religioso" (Discorso alla Sciesa di Milano, 5 ottobre 1922).
Fede dell'uomo in se stesso? E fede del fascista nell'idea stessa del Fascismo? Certamente, anche questo. Può - gli domanda Ludwig (pag. 224 di Colloqui) - un discepolo di Machiavelli e di Nietzsche aver fede? Mussolini gli risponde: "In se stesso: ciò sarebbe già qualcosa". E in “Gerarchia” (Viatico per il 1926): " ll Fascismo vince e vincerà finché conserverà quest'anima ferocemente unitaria e questa sua religiosa obbedienza, questa sua ascetica disciplina. Fede, dunque, non relativa, ma assoluta". Ma l'assolutezza di questa fede nell'ldea esclude la fede propriamente religiosa, in Dio, o, piuttosto, la presuppone? La fede in se stesso, che direbbesi meglio "fiducia", se non ha da essere mero calcolo delle proprie forze, non potrebbe essere alimentata da una forza superiore, ossia da una fede schiettamente religiosa? Al filosofo idealista questo sembra un problema insolubile: o si ha fede nelle proprie forze, egli dice, e si può procedere all'azione; ovvero nelle proprie forze non si ha fede, e allora nasce la sfiducia e l'inattività. Il dilemma, come sono tutti i ragionamenti fatti a fil di logica, è troppo semplice: lo spirito umano è molto più sottile e complicato di ogni dialettica e di ogni logica astratta. Vediamo se dal pensiero di Mussolini possiamo ricavare qualche luce. Qualche volta egli ha accennato a un processo interiore come a fonte comune così della politica come dell'arte. Alla prima mostra del Novecento italiano (15 febbraio 1926) disse: " Ieri sera, dopo avere attentamente esaminata la Mostra, alcuni interrogativi hanno inquietato il mio spirito. Ve li accenno brevemente perché voi ne facciate oggetto di meditazioni necessarie. Primo, quale rapporto intercede tra la politica e l'arte? Quale tra il politico e l'artista? È possibile di stabilire una gerarchia fra queste due manifestazioni dello spirito umano? Che la politica sia un'arte, non v'è dubbio. Non è, certo, una scienza. Nemmeno mero empirismo. È, quindi, un'arte. Anche perché nella politica c'è molto intuito. La creazione politica, come quella artistica, è una elaborazione lenta e una divinazione subitanea. A un certo momento l'artista crea coll'ispirazione, il politico con la decisione. Entrambi lavorano con la materia e con lo spirito. Entrambi inseguono un ideale che li pungola e li trascende".Egli prosegue domandandosi se la guerra e il Fascismo abbiano lasciato tracce nell'arte: "Il volgare direbbe di no perché, salvo il quadro "A noi", non c'è nulla che ricordi e - ohimé! - fotografi gli avvenimenti trascorsi o riproduca le scene delle quali fummo in varia misura spettatori o protagonisti. Eppure- il segno degli eventi c'è. Basta saperlo trovare. Questa pittura, questa scultura, diversifica da quella immediatamente precedente in Italia. Ha un suo inconfondibile sigillo. Si vede che è il risultato di una severa disciplina interiore". Questa "disciplina interiore" è, dunque, un punto di coincidenza della politica e dell'arte, e risulta da "un'elaborazione lenta e una divinazione subitanea". La politica, l'azione, non è "mero empirismo". Parlando del Luzzatti, disse: "Egli aveva navigato per tutti i mari e negli oceani dello scibile umano, senza cadere nelle secche dello scetticismo e della negazione, perché egli credeva fermamente, e la fede è una sicura bussola per ogni viaggio ideale".Di quale fede si parla qui? Di una fede, non v'è dubbio, schiettamente religiosa. Nella Vita di Arnaldo si dice: " Il giornalista diventa scrittore quando si interiorizza, quando comincia a vedere le cose non più sotto l'aspetto cinematico della contingenza, ma in quello della trascendenza; quando piega il capo per riflettere su i problemi originari; quando, come nel caso di Arnaldo, portato da un atroce dolore sulla cima, si sente come liberato dagl'impacci che lo legavano alla pianura e respira oramai nell'atmosfera delle cose infinite ed eterne. Il giornalismo del quotidiano finisce e comincia la poesia. Poesia dell'amore e della morte; della speranza e della rassegnazione; della vita terrena e del di là seducente e consolatore" (pag. 61). La precedente "disciplina interiore" consiste, dunque, in questo "liberarsi" da ogni esteriorità, vivere " nell'atmosfera delle cose infinite ed eterne", cercarsi alla radice del proprio essere sino al punto in cui all'" aspetto cinematico della contingenza" subentra "quello della trascendernza " Lì la poesia s'incontra con la Religione. L'immagine più divulgata di Mussolini, anche all’estero, è quella di una potente e fiera e intransigente volontà: egli è un "dominatore". Chi non ricorda il motto: "agli amici tutto il bene, ai nemici tutto il male possibile "? I Colloqui del Ludwig hanno ancor più divulgato il senso suo della " solitudine interiore" , e il suo acuto pessimismo intorno agli uomini fatto di compassione e di disprezzo . Questo è l'uomo e il mondo guardato da un lato. Ma Mussolini ne conosce anche un altro: eccolo. "Egli (Arnaldo) fu un buono: il che non significa debole, poiché la bontà può benissimo conciliarsi con la più grande forza d’animo, col più ferreo compimento del proprio dovere. Essa è il risultato di una visione del mondo, nella quale gli elementi ottimistici superano i pessimistici, poiché la bontà non può essere scettica, ma deve essere credente. Rimanere buoni tutta la vita: questo dà la misura della vera grandezza di un'anima! Rimanere buoni, malgrado tutto. Il buono non si domanda mai se valga la pena: egli pensa che vale sempre la pena. Soccorrere un disgraziato, anche se immeritevole; asciugare una lacrima, anche se impura; dare un sollievo alla miseria, una speranza alla tristezza, una consolazione alla morte: tutto ciò significa non considerarsi estranei all'umanità, ma parteci -carne e ossa - di essa: significa tessere la trama della simpatia, con fili invisibili, ma potenti, i quali legano gli spiriti e li rendono migliori" (Vita di A., pag. 111-112). Siamo, dunque, passati d'un tratto, da Nietzsche a Tolstoi? L'apparenza può essere questa, la realtà è tutt’altra. ll principio nietzschiano s'è venuto trasformando nell'animo e nella mente di Mussolini in un principio d'interiorità spirituale, che liberando l'uomo da ogni interesse mondano lo innalza per questo stesso sul mondo e gli dà la forza di dominarlo; ma, nello stesso tempo, raccogliendolo nella solitudine di se stesso, gli fa scoprire la sorgente eterna d'ogni valore spirituale, la quale è, infine, anche, la fonte segreta della sua forza e azione nel mondo .Ciò ch'è grande nell'uomo, diceva Zarathustra, è l'esser egli un ponte, non già una mèta. Questa nota "super-umanistica", come superamento del "mero umanismo", è ben rimasta in Mussolini. Così come lo spirito di spregiudicatezza mentale,l'antifilisteismo, antidemocratismo, l'avversione alla " vita comoda" e l’istinto "guerriero ". Ma egli non può più essere persuaso di quel baccanale dell'Io in cui si risolve l'anticristianesimo del Superuomo e il suo disprezzo per ogni tradizione morale e religiosa dell'umanità. Il Titanismo, anche senza i fulmini più di nessun Giove, si abbatte e distrugge da se stesso. Per lo spirito eroico non basta la coscienza di possedere in sé il principio creatore della realtà: ci vuole anche la coscienza di un principio superiore che dia valore permanente alla sua azione. Quel dilemma, dunque, posto dal filosofo idealista è falso. Il che non fa meraviglia. Può la filosofia, ossia il pensiero critico, esaurire le ragioni della vita e della fede? Se tale esaurimento riuscisse alla filosofia e alla riflessione, scomparirebbe, sì, la fede, ma con essa scomparirebbe anche la vita. È misticismo, questo? Sì, è misticismo. Fa paura la parola? Fa paura al filosofo illuminista, non ha fatto paura ad un filosofo come Bergson. C'è misticismo e misticismo, del resto: anzi, innumerevoli misticismi. C’è quello Buddistico e c'è quello del Nietzsche (ch'è, anch'esso, un misticismo, per quanto opposto all'altro). C'è un misticismo pagano e un misticismo cristiano: il Bergson ha trovato in questo secondo la fonte autentica della moralità e della religiosità. C'è un misticismo protestante e c'è un misticismo cattolico: questo secondo è il meno mistico di tutti. Come la pensa Mussolini in questo punto? Lasciamo a lui la parola. "Egli (Arnaldo) era un credente, ma non -come egli disse nell'ultima conferenza alla Scuola di Mistica fascista - credente in un Dio generico che si chiama talvolta per sminuirlo Infinito, Cosmo, Essenza: ma in Dio nostro Signore, Creatore del Cielo e della Terra, e nel suo Figliolo che un giorno premierà nei regni ultraterreni le nostre poche virtù, e perdonerà, speriamo, i molti difetti legati alle vicende della nostra vita terrena» (Vita di A. pag. 114). Questa, la fede di Arnaldo. Quella di Benito segue poco dopo: "Tutto quello che fu fatto non potrà essere cancellato, mentre il mio spirito, oramai liberato dalla materia, vivrà, dopo la piccola vita terrena, la vita immortale e universale di Dio" (pag. 117) Noi non abbiamo nessun interesse (e neanche competenza) a entrare qui in questioni teologiche. Ci basta di aver dimostrato il nostro assunto: che il problema filosofico e quello religioso sono tra i problemi più vivi nel pensiero e nell'animo di Mussolini. E crediamo di aver raggiunta una sufficiente prova sia della prima e sia della seconda parte della nostra tesi. Ma, forse, la prova per la prima parte sembrerà raggiunta meglio che per la seconda. Quali germi di pensiero nuovo e originale - si domanderà - e fecondo di possibili sviluppi, sono contenuti in questo - diciam pure così - spiritualismo fascista? La risposta non può esser dubbia: lo spiritualismo mussoliniano è orientato verso un principio di pura interiorità, in cui trovano la loro coincidenza i problemi insieme della filosofia e della religione, dell'arte e della vita sociale-politica, della scienza e della storia umana Arrivati a questo punto, ognuno concederà che, a rigor di termini, avremmo il diritto di fermarci. Il diritto, e forse anche il dovere: ché, quando il filosofo si avventura in campi estranei alla sua scienza, corre sempre il rischio di sbandarsi. È, bensì vero che la filosofia pervade tutta la vita, tutti i campi della realtà; ma, così considerando le cose, il filosofo si trova riportato al livello di ogni uomo, e non sempre, allora, egli può competere con gli altri per ampiezza e ricchezza di vita e di esperienza. Ma lasciamo andare la questione dei diritti e dei doveri. Sta di fatto che questo saggio, per quanto voglia esser modesto, non può terminare qui: non si può trattare del pensiero di Mussolini senza almeno un cenno al suo capolavoro. ll capolavoro di Mussolini è lo Stato fascista, il quale è, bensì, un'opera di creazione politica, ma è tutto permeato di pensiero e di convincimenti, che rivelano, a chi ben consideri, quello stesso atteggiamento filosofico e religioso che noi abbiamo cercato di ricostruire dianzi sulla base dei suoi scritti e delle sue dichiarazioni. Noi abbiamo non solo il diritto, ma anche il dovere di aggiungere, si potrebbe dire, la prova sperimentale della tesi esposta precedentemente.
In corrispondenza con tale tesi, dunque, noi dovremmo far vedere, in primo luogo, che non può comprendere lo Stato fascista chi si pone da un punto di vista filosofico e religioso diverso da quello del suo creatore; e in secondo luogo, passando al lato positivo, che in tale creazione politica agiscono quegli stessi motivi originali di interiorità e senso della trascendenza che noi abbiamo indicati prima come posizione peculiare del suo atteggiamento mentale e spirituale in rispetto a tutti i problemi della realtà e della vita. Come premessa comune a entrambi i lati del problema che qui si presenta, bisogna far attenzione a questo fatto: che noi ora passiamo a considerare l' “uomo " non più nella sua intimità e interiorità, in quella solitudine in cui soltanto Dio gli fa compagnia; ma nella vita sociale e politica, dove la sua vita è condizionata dalla vita comune e dal mondo storicamente determinato in cui egli si trova a inserire la sua azione di ogni giorno, La sua intimità e interiorità egli la deve vivere in questo mondo; la sua personalità egli la deve costruire come individualità che ha un significato e un valore essenzialmente sociale; egli ha qui per giudice, non più Dio direttamente, ma il mondo della storia e della civiltà umana. L'uomo del senso comune, ch'è spesso anche l’uomo del buon senso, può trovare motivo di diffidare, anzi di sorridere, di ogni spiritualismo che non tenga conto di una tale condizionalità: che parli di un’interiorità che si consuma dentro se stessa senza prodursi nel mondo; quasi che il filosofo e il mistico potessero mai realizzare una spiritualità pura, incorporea Invece, lo spirito umano ha bisogno del corpo per realizzarsi, la vita è attaccata a interessi materiali: bisogna far i conti con la materia per realizzarsi spiritualmente. Non per questo la questione economica non è una questione spirituale anch'essa: l'animale non ha nessuna questione economica da risolvere (già, l'animale non ha problemi di nessuna specie). È per l’uomo che il mangiare, il bere, il vestire panni e le altre necessità della vita, si presentano, non come cose a cui pensa la natura o il caso, ma come risultato della sua libera attività, del suo lavoro e ingegno; è per l’uomo, in quanto la società gli rende possibile la sua vita, che il lavoro è, oltre un diritto, un dovere: un dovere sociale. Ma, d'altra parte, è pure ovvio che la spiritualità della questione economica esprime soltanto la condizione umana di quella spiritualità più profonda che l'uomo trova nella sua pura interiorità; e che scambiare la questione economica con la questione morale, come fece il socialismo, è scambiare la condizione con il condizionato, i mezzi con il fine. Chiediamo scusa se la premessa sembrerà un po' troppo lunga; ma essa era necessaria per spiegare nel modo più breve la nostra insoddisfazione per tutte le teorie fin qui addotte sullo Stato fascista. Preghiamo, con piena sincerità, il lettore di non sospettare che si abbia noi la pretesa di possedere il segreto di quella teoria. Teniamo estremamente, anzi, a dichiarare che innanzi all'Opera di Mussolini ci sentiamo disorientati. Solo vorremmo che anche gli altri confessassero questo disorientamento. Intorno allo Stato fascista si è scritto oramai una biblioteca, fra l'ltalia e l’estero. È naturale che gli scritti migliori siano quelli degli Italiani, tra i quali sono uomini di prim’ordine per cultura, e per intelligenza. E tuttavia avviene qui quel che avviene nei commenti di ogni capolavoro, poniamo della Divina Commedia: c'è qualcosa che, dopo tutte le indagini e i chiarimenti, sfugge. Nella poesia e nell`arte si può dar la colpa alla critica che non arriva mai a tradurre in concetti l'intuizione sentimentale. Qui, nell'opera politica di Mussolini, a noi sembra che la colpa sia dei teorici che restano al di sotto del punto centrale in cui lavora il suo genio creatore fra problemi di azione e di pensiero che costituiscono la sua personalità vivente. Facciamo almeno qualche cenno più esplicito. La letteratura su accennata può dividersi in opere di economisti, di giuristi, di politici, di filosofi. I discorsi fatti in generale sono, necessariamente, sempre un po' vaghi. Ma, noi qui abbiamo un interesse ben determinato, e non abbiamo nessun dovere di allontanarci da esso per entrare nella discussione dei particolari. A cominciare, quindi, dai filosofi, dichiariamo che una filosofia capace di penetrare in ciò che ha di più singolare lo Stato fascista non esiste ancora. I filosofi che ne hanno fin qui parlato (e alludiamo non soltanto agli italiani, ma anche agli stranieri), s'indugiano ancora in posizioni che Mussolini, anzi la storia guardata dal punto di vista fascista, s'è lasciato dietro le spalle.
Ad esempio: c'è chi è ricorso allo Hegel per dimostrare ch'egli è il vero precursore della nuova civiltà del mondo inaugurata dal Fascismo. Non c'è bisogno di molta dottrina per far osservare che nel secolo intercorso fra lo Hegel e il Fascismo sono avvenute queste cose fondamentali: la critica fatta allo spiritualismo idealistico-teologico dello Hegel da parte del marxismo da una parte, e del liberalismo dall'altra; e poi la critica, che già corre per il mondo, del Fascismo contro entrambi questi. Il marxismo ebbe tutte le ragioni di richiamare quello spiritualismo astratto alla base materiale-economica per intendere il concreto mondo storico e agire in esso. Il liberalismo ebbe altrettanta ragione di non volerne sapere di quel teologismo, perché quel che a lui premeva era la libertà dell'uomo, e però dell'individuo vero e reale. Oggi il Fascismo ha superato, per parlare lo stesso linguaggio hegeliano, non soltanto l'astrattezza ed erroneità dello hegelismo, ma anche l'angustia mentale (ch'era una astrattezza ed erroneità opposta) comune al marxismo e al liberalismo. Come ritornare, dopo questo, a Hegel? Precursore? Ma, allora, ricominciamo da Platone e da Aristotele! Quanto inchiostro versato in questi anni per dimostrare che non c'è libertà senza autorità; che l'individuo s'identifica con lo Stato; che economia, etica e politica sono la stessa cosa; che la sovranità dello Stato è un Assoluto che non può ammettere altro Assoluto fuori di sé, ed altrettali filosofemi caratteristici della filosoffia hegeliana! La quale risolveva dialetticamente tutti i problemi del mondo e della storia in un processo logico del pensiero che alla fine si poneva come l'Assoluto metafisico, come il vero Dio, e vanificava, così, quelli che sono i concreti problemi del mondo storico e dell’uomo. Noi non intendiamo, con questo, di dire che tanto inchiostro sia stato versato inutilmente. Tutt'altro! È stato del tutto opportuno, per rinfrescare la memoria delle persone colte e per dirozzare la mente degli ignari su quelle che sono le premesse del pensiero contemporaneo e della civiltà moderna. Intendiamo di dire, invece, che quelle argomentazioni sono fuori fuoco: non colgono il Fascismo nel suo punto vitale. Per cogliere questo sono preferibili le poche meravigliose pagine, che veramente dànno il nuovo" senso dello Stato", contenute nel discorso del Duce all'Assemblea quinquennale del Regime, il 10 marzo 1929 : Lo Stato come organismo giuridico, come la nazione stessa organizzata politicamente, come la sostanza etica di un popolo, e altrettali definizioni, colgono la propria natura dello Stato fascista? Filosofi, giuristi, politici si affaticano insieme a cercar di adattare le vecchie definizioni al corpo della realtà nuova. C'è un concetto che ritorna frequentemente in tutte le definizioni: quello della personalità dello Stato, come di una personalità superiore che assorbe, o deve assorbire, quella inferiore degli individui che lo compongono. Ma basta poca riflessione per accorgersi che quello Stato è una formula, una realtà anonima, una personalità che e tale soltanto nel senso in cui si parla di "persona" in giurisprudenza quando si vuol dire di un ente o istituto che ha un riconoscimento dalla legge ed è "soggetto" di diritti. Ossia, è una personalità che è il massimo della impersonalità. La personalità, invece, dello Stato fascista consiste in questo: che c'è un Capo, una personalità e volontà in carne e ossa, che governa e dirige tutta la complessa vita statale. Lo Stato come Costituzione, come organismo politico-giuridico con tutti i suoi attributi e le sue forme di sovranità, resta come un presupposto che il Fascismo non ha nessuna intenzione di negare, perché, appunto, lo presuppone come un dato acquisito dalla coscienza giuridica e politica moderna. Se no, si tornerebbe al tipo delle Signorie, della coincidenza immediata di Stato e Principe (già notata da Mussolini nel suo Preludio al Machiavelli). Ma, come Aristotele diceva già sin da allora, che l'ordine e la forza di un esercito li fa sopratutto il buon comandante, così il Fascismo pensa che per uno Stato forte e capace di contar qualcosa nella determinazione della storia mondiale, quel che più conta è la volontà e capacità di chi siede al governo, dirige e determina la via da seguire. In quella Volontà si debbono organizzare tutti i voleri, in quella personalità debbono prender corpo tutte le gerarchie, classi e categorie dello Stato, tutte le attività della Nazione. Gerarchie, classi e categorie, le quali collegano il Capo con il resto del corpo politico, sì che, per il tramite di esse, la personalità dello Stato, espressa in sommo grado dal Capo, arrivi via via sino al popolo ed alla massa altrimenti amorfa e sbandata. È questione, dunque, di libertà e di autorità? Certamente! Ma non in quei termini astratti, non in una dialettica che per dimostrare troppo non dimostra niente, o può dimostrare ugualmente bene l'opposto. Mussolini non s'è mai indugiato in tali esercitazioni: dichiarando che " la libertà è un mezzo, non un fine" ha risolto la questione perentoriamente. Questo è autoritarismo, dispotismo, ecc., ha esclamato e tentato di dimostrare un filosofo liberale, a cui hanno fatto eco altri filosofi e politici stranieri. Strano! Quel filosofo passa la sua vita nella meditazione della Storia, e non s'è ancora accorto che la Storia la fa non l'individuo isolato con la sua astratta libertà, ma l'individuo in quanto volontà e libertà organizzata in quell'organistmo spirituale che è lo Stato. Sono gli Stati che decidono del mondo storico-sociale, non gl'individui come tali: così come sono gli eserciti che determinano la vittoria, non i soldati singolarmente presi " Stato etico", si dice: e questo, si aggiunge, almeno questo, è pure un concetto di marca schiettamente Hegeliana. Per cui, dall'altra parte, si protesta: eccoci tornati, col Fascismo, alla "morale di Stato", alla "morale governativa": quale aberrazione filosofica e morale! Se non che, anche qui, non si può raccomandare abbastanza di non perdersi in queste discussioni, e di attingere direttamente alla fonte delle parole e del pensiero di Mussolini. Prendiamo un passo: "Né si pensi di negare il carattere morale dello Stato Fascista, perché io mi vergognerei di parlare da questa tribuna se non sentissi di rappresentare la forza morale e spirituale dello Stato. Che cosa sarebbe lo Stato se non avesse un suo spirito, una sua morale, che è quella che dà la forza alle sue leggi, e per la quale esso riesce a farsi ubbidire dai cittadini? Che cosa sarebbe lo Stato? Una cosa miserevole, davanti alla quale i cittadini avrebbero il diritto della rivolta e del disprezzo. Lo Stato Fascista rivendica in pieno il suo carattere di eticità: è Cattolico, ma è Fascista, anzi sopratutto, esclusivamente, essenzialmente Fascista. Il Cattolicismo lo integra, e noi lo dichiariamo apertamente, ma nessuno pensi, sotto la specie filosofica o metafisica, di cambiarci le carte in tavola".
Vediamo di non cambiargli le carte in tavola. Contro una Chiesa che, movendo dal principio di esclusivo monopolio nella direzione delle coscienze, tende a tener per sé, come si dice nel linguaggio scolastico (del tempo in cui si faceva questione fra Papa e Imperatore per il governo del mondo), tutto "lo spirituale", e a lasciare allo Stato la sola cura dei beni materiali: contro tale Chiesa Mussolini adduce, di pieno diritto, la rivolta della sua coscienza, del suo senso di Capo di uno Stato moderno, che sa di governare degli uomini liberi e non già un gregge, di guidare un popolo verso un ideale di civiltà e non già di essere un semplice amministratore di beni, ed afferma il carattere spirituale dello Stato e il fondamento morale che sostiene la sua autorità di Capo. Ma da questo al concetto che risolve il problema morale nel problema dello Stato, c'è un molto rispettabile intervallo, anzi un abisso, che a noi non risulta in alcun modo che Mussolini abbia mai tentato di varcare. Stato unitario, totalitario: tutto nello Stato, per lo Stato, nulla fuori e, sopratutto, nulla contro di esso. E può essere diversamente data la nuova concezione fascista? Come in guerra tutte le forze materiali e spirituali della Nazione vengono organizzate, senza residuo, per la vittoria delle armi; così in pace lo Stato fascista ha bisogno di tutte le forze, fisiche, morali e intellettuali, dei suoi cittadini per vincere quella più grande battaglia che determina il posto di uno Stato nel mondo e il corso della storia stessa Quindi nulla, di quanto l’individuo può dare, sfugge all'interesse dello Stato fascista: la sua cultura, la sua educazione, la sua coscienza morale, la stessa sua coscienza religiosa. Ma questo non implica un "assorbimento" dell'individuo nel senso che lo Stato ne succhi e svuoti la personalità! Tutt'altro: lo Stato fascista ha ogni interesse, anzi, a potenziare la personalità fisica e morale dell'individuo, a sollecitarne la libera iniziativa, a trar profitto dalla sua vocazione e dalle sue inclinazioni, e, ove occorra, anche dalle sue ambizioni e dalle legittime aspirazioni al benessere e agli agi materiali. Non, dunque, che sia erronea la cosiddetta identificazione dell'individuo con lo Stato; ma, presentata in quella dialettica astratta, non dice nulla di positivo, e può condurre, ripetiamo, anche a dire il contrario . Così, per la questione economica. Stato corporativo, sì, certo: è un caposaldo dello Stato fascista, che qui si lascia di nuovo dietro le spalle il socialismo e il liberalismo insieme. Ma se, da questo si vuol dedurre che l'originalità e importanza dello Stato fascista sia tutta in questo punto, nell'aver immessa una "coscienza statale" nel giuoco degli interessi materiali che governano l'economia di un Paese, c'è l’evidente pericolo di fare del Fascismo un'antitesi, sì, del comunismo e bolscevismo, ma sullo stesso piano. Insomma: economia, etica, politica sono, bensì, legate indissolubilmente nello Stato fascista, ma non per questo l'una è la stessa cosa dell’altra. E veniamo, infine, alla tanto dibattuta questione religiosa. Stato confessionale? No, certo: si è detto e ripetuto. Allora, Stato superconfessionale ? Si, certo, nell'ovvio senso in cui, negandosi che sia confessionale, si vuole pure affermare la sua religiosità. La religiosità, si ha una grande premura di aggiungere e ripetere a sazietà, "immanente". Non ha detto il Duce: "tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato"? Ma la conseguenza, al solito, è tratta troppo facilmente, con una argomentazione che, per voler esser troppo profonda, resta alla superficie della questione e del pensiero di Mussolini. Il quale non ha mai sognato di fare della religione una questione meramente politica. Dal dire che lo Stato fascista ha estremo interesse a coltivare la coscienza religiosa della Nazione; a dire che, quindi, è lo Stato stesso che crea quella coscienza e ne è l'arbitro, ci corre quel solito intervallo o abisso che Mussolini non consta abbia tentato di abolire. Ancora una volta! Noi non abbiamo nessuna nostra filosofia da esibire, e non pretendiamo a nessun brevetto di scopritori o interpreti del pensiero mussoliniano. Ci limitiamo a esibire dei "materiali" e dei "punti di vista", quali possono essere rigorosamente documentati da fatti e da scritti. E però domandiamo: quella teoria " immanentistica " è in accordo con ciò che consta del pensiero e dell'azione mussoliniana? Abbiamo addotto sufficienti documenti in precedenza, e però rispondiamo: non consta, anzi consta il contrario. Diciamo meglio e di più: quel che consta è un'impostazione del problema politico-religioso in termini del tutto nuovi e fecondi di sviluppi nell'avvenire della coscienza politico-religiosa, non soltanto degli Italiani, ma dell'uomo semplicemente, in universale. C’è un fatto: che lo Stato ha affermato la sua assoluta sovranità nel mondo dello spirito storicamente considerato; e contemporaneamente la Chiesa ha rinunciato a entrare più nelle questioni interne allo Stato e nelle competizioni, di qualsiasi specie, fra gli Stati. Nelle due sfere si sono, per la prima volta dacché esistono, delineati e definiti esattamente, per lo meno in via di diritto, i rispettivi confini. Con questa reciproca delimitazione hanno posto, insieme, il loro preciso rapporto: quindi né assoggettamento della sovranità dell'uno all'altra, né separazione nel senso che l'uno non voglia saper nulla dell'altra. Lo Stato fascista, proprio perché è uno Stato etico, sa che, per parlare in termini bergsoniani, ci sono due fonti, o si dica due punti di vista, della vita morale e religiosa dell'uomo, a seconda che questa si consideri nella realtà sociale-politica della storia, ovvero in quella interiorità dell'uomo e della personalità che è la sua spiritualità pura. Abbiamo spiegato a sufficienza, dianzi, che questi due punti di vista non si escludono, anzi sono vitalmente e indissolubilmente legati. Lo Stato fascista può, dunque, liberamente riconoscere che, fra tutte le religioni esistenti, quella Cattolica è più delle altre consona alla sua mentalità e ai suoi fini: per la spiritualità ch'è alla base del Cristianesimo, e per il senso della vita morale concepita nel Cattolicismo secondo quegli stessi principii di disciplina, di gerarchia, di obbedienza all'autorità, che sono alla base della concezione politica del Fascismo. Lo Stato ha tutto da guadagnare da questo accordo della coscienza religiosa con la coscienza politica degli Italiani, che pone termine a un dissidio rimasto, secondo l'espressione di Mussolini stesso, come una spina confitta nel profondo dell'anima nazionale. Ma la Chiesa non ha da guadagnare di meno; anzi, ha innanzi un programma da realizzare anche più vasto e profondo: liberata dagl'interessi politici, accostarsi sempre di più alle coscienze nella pura interiorità, parlare ad esse un linguaggio più intelligibile e persuasivo, rinnovare nelle menti e nei cuori i motivi di quella fede che fece la sua grandezza in altri tempi, anzi in ogni tempo. Solo per questa via alla conciliazione fra essa e lo Stato potrà seguire l'altra fra essa e il pensiero moderno.
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Ma per questa via noi non vogliamo metterci, perché essa ci condurrebbe, si, a spiegare il "fenomeno Mussolini" ma il "fenomeno", appunto, il "fenomeno storico", non quello che c'è di proprio suo, nel suo pensiero, in sé e per sé, indipendentemente dagli influssi subiti.
Invece, noi proprio a questo vogliamo guardare.
Noi ci poniamo, dunque, questa domanda: c'è, in Mussolini, un germe dli pensiero che da un punto di vista filosofico, anche nel più rigoroso significato del termine, abbia qualche importanza per originalità e capacità di ulteriori sviluppi?
E c'è in lui, nel suo atteggiamento verso la questione religiosa, qualcosa di nuovo, che accenni ad una possibilità di rinnovamento di idee e sentimenti, anche in questo campo di secolari, anzi millenario, lotte e discussioni?
La nostra intenzione è di essere, per quanto è possibile, obiettivi, e di tenerci dentro all'argomento, non sconfinando in altri campi: di trattare la questione, come si dice, tecnicamente. Non eviteremo neppure la pedanteria delle citazioni, dove saranno necessarie. E cominciamo, secondo la vecchia buona norma scolastica, dal dubbio. Non può ben risolvere le questioni, disse Aristotele, se non chi, prima, ha dubitato, veduto il pro e il contro. Il dubbio "metodico " , in questo senso, è, come si vede, ben più antico di Cartesio.
Il "contro" è buono ognuno ad addurlo: Mussolini è un politico, non è un teoretico, un elaboratore di concetti, un costruttore di un sistema di idee da inserire in quella storia peculiare dove si parla di Talete, di Platone e di Aristotele, di Cartesio, di Kant e di Hegel. Senza un tal carattere teoretico, che fa della filosofia una scienza, la quale, come ogni altra scienza, ha il suo vero significato in una storia sua propria, nella storia della ilosofia stessa, senza un tal carattere e valore del pensiero, non si può parlare di filosofia. ll temperamento mussoliniano è, anzi, all'antitesi di ogni atteggiamento speculativo: tutto volto alla realtà concreta della vita, della storia, dei fatti, per dirigerli e dominarli. Di metafisica, di costruzioni astratte, di schemi e ideologie (a questo volgarmente vien ridotto il lavoro del filosofo), nessuna traccia nel suo pensiero, nessun appiglio nel suo temperamento. Egli ha detto una volta, sia pure per buon umore, ma tradendo, in fondo, una sua convinzione, che "i filosofi risolvono dieci problemi sulla carta, ma sono incapaci di risolverne uno solo nella realtà della vita". La filosofia gli sa di "scuola", di dottrine e dottrinari, con relative cattedre e ristrettezze mentali e d’animo. Onde ha sempre consigliato i giovani di rapidamente assimilare", ma " di espellere non meno rapidamente" la cultura universitaria. L’intelligenza è buona cosa, ma deve essere adoperata "per fare la critica del socialismo, del liberalismo, della democrazia": per illuminare le menti,dal punto di vista fascista, sui problemi della vita contemporanea. Se no, se l'intelligenza fosse impiegata a criticare "tutto cio che di criticabile vi è in un movimento così complesso come il movimento fascista, allora io vi dichiaro schiettamente che preferisco al cattedratico impotente lo squadrista che agisce" (Discorso all'Augusteo, 21 giugno 1925). In conchiusione: il suo interesse è puramente pratico; anche se stima e promuove la cultura, compresa in questa la filosofia, anzi a cominciare da essa, lo scopo è sempre per le conseguenze e ripercussioni politiche, non mai per il valore del pensiero in sé e per sé. Similmente si deve dire per il problema religioso. Mussolini è un laico, un purissimo laico. Della religione comprende e sente il lato umano e storico in generale; non ha mai lasciato trapelare un interesse a questioni dogmatiche, anzi s'è guardato accuratamente dall'entrarvi anche quando l'occasione gli veniva offerta naturalmente. È vero che con lui il nome di Dio risuonò, forse per la prima volta, solenne e ammonitore, nella fredda e grigia aula del Parlamento. È vero che si deve a lui la distruzione in Italia della Massoneria, e la Conciliazione col Vaticano. Ma queste imprese non furono da lui eseguite, e di fatto giustificate, con ragioni che non fossero essenzialmente politiche e sociali. E se pure si ha da concedere qualche valore religioso alla invocazione di Dio, essa non va più in là di una fede in un principio del tutto indeterminato, troppo più vicino al vago principio, di una fede di stile mazziniano, che a quello ben definito, preciso e impegnativo, del Cristianesimo, anzi del Cattolicismo. Senza dire che, anche per la parte, diciamo così, pratica, nessun uomo sembra più alieno dall'atteggiamento ascetico e mistico proprio delle anime veramente e profondamente religiose, che o si ritirano dal mondo, o nel mondo vogliono vivere solo per onorare ed amare Dio. Qui "il seguace di Nietzsche " si rivela senz'alcuna ombra di dubbio e di possibili cavilli: la morale del Fascismo da lui fondato è tutta un'esaltazione di principii fondamentalmente pagani, come già molti hanno messo in rilievo.
Tutte queste cose sono state dette, oppure è facile dirle: queste, ed altre somiglianti. Se non che, proprio perché sono facili a dire, e sono state dette facilmente, sorge in ognuno spontaneo il sospetto della loro superficialità, e quindi, poiché la superficialità è sempre falsa, della loro non verità.
Il discorso vale, in primo luogo, per quella concezione puramente teoretica della filosofia, come di una scienza avulsa dalla vita: oggi anche ogni mediocre studioso di filosofia sa che se pur c'è mai stata una tale aridità (non, certo, nei veri filosofi, nei maestri), tutta la speculazione contemporanea è diretta contro di essa. Chi definisse la filosofia come lo sforzo supremo d'impadronirsi delle ragioni della vita, definirebbe quel che è il segreto del filosofo moderno, il tormento profondo del suo pensiero e della sua vita stessa. Segreto e tormento, del resto, che non è una prerogativa di colui che noi chiamiamo "filosofo"; ma è prerogativa e gloria dell'umanità pensante, di cui la storia della filosofia è soltanto la documentazione, ed i singoli grandi filofisofi sono soltanto gli esemplari più cospicui. E sono per questo, anche, i più grandi educatori del genere umano. È negli scolari e passivi ripetitori che la filosofia, svuotata della vita che l'animò, diventa sistema, dottrina, astrazione, metafisicheria: e contro di essa, allora, ben vengano - ché son salutari - i motteggi ed i sarcasmi. Alle altre scienze si può perdonare se si astraggono dalla vita (come, se no, far della fisica e della matematica?): alla filosofia, no. E non astrarsi dalla vita, non basta: ché, questo, è il lato soltanto negativo. Bisogna viverci dentro, prima di filosofarci su (primum vivere), o, piuttosto (ché il prima e il dopo son modi di dire volgare), bisogna vivere e pensare insieme, con intensità di vita e insieme con profondità di pensiero. Ma la vita, si dirà, non è soltanto quella politica, né al pensiero si offrono soltanto i problemi del socialismo e del liberalismo. E noi risponderemo raccomandando di non perdere il buon senso, e quindi di neanche supporre che l'abbia perduto Mussolini. Il quale deve essere persuaso più degli altri che fa la miglior politica colui che non ne fa affatto: che bada a far l'ingegnere, se ingegnere; il professore, se professore; il poeta, se poeta; il manovale, se manovale: ciascuno, a far bene il suo dovere, nella famiglia e nella società, nella sua arte o vocazione o mestiere per cui è nato. E sarebbe grottesco fargli dire che tutti gli uomini di pensiero abbiano come unico argomento da svolgere la critica del socialismo e del liberalismo, L'apologia del Fascismo. Immaginate se la già enorme (e, naturalmente, mediocre per la maggior parte) letteratura sul Fascismo dovesse accrescersi di quotidiane monotone trattazioni in piccoli o grossi tomi, per opera di tutti coloro che hanno qualche barlume d'intelligenza e tengono una cattedra all°Università o nel movimento della pubblica cultura! Non è questo, certamente, il senso del discorso su accennato. E' quest’altro, invece: che nessun uomo di pensiero, che si senta italiano, può disinteressarsi dei problemi che sta vivendo e agitando il Fascismo nel mondo; cosi come nessuno scienziato, e sia pure un cultore del calcolo infinitesimale, può disinteressarsi dei problemi che riguardano la vita e il valore dell°uomo. Tantomeno, poi, il filosofo. Dal quale, tuttavia, non sarebbe corretto di esigere che, per questa maggiore vicinanza ai problemi della vita politica e morale, si trasformasse in scrittore, esclusivamente, di questioni economiche e sociali, In Italia c'è un gruppo di giovani dalle menti educate alla filosofia che fa questo, e lo fa bene. Ma, come nell'universo materiale in ogni punto s'incentra la realtà del tutto, tanto più questa considerazione vale per l'universo spirituale: i problemi della filosofia hanno tutti un'intima connessione con la vita ed una immancabile risonanza nell'azione, ma non tutti l'hanno in modo manifesto ed immediato. Anzi, spesso, quanto meno un tal rapporto è immediato ed evidente, tanto più è intimo e profondo. Il filosofo trova soltanto alla fine, dopo un lungo giro di pensieri che sembrano ì più lontani dalle questioni della vita quotidiana, soltanto alla fine trova una via soddisfacente alla soluzione di queste. Ne è prova ed esempio anche la filosofia bergsoniana arrivata soltanto ora alla questione sociale, morale e religiosa, dopo di essersi lungamente indugiata in problemi che parevano del tutto alieni. I problemi della filosofia si illuminano e ravvivano l`un l'altro, e nessuno ha luce e vita per sé. Essi si debbono, come si dice con termine tecnico, mediare fra loro. Prenderne uno, esclusivamente, separato dagli altri, è precludersi la via a ìntenderlo veramente. Questa, forse, è anche la ragione della insoddisfazione che ci resta delle molte teorie avanzate, pur da uomini d“ingegno e di dottrina, sullo Stato fascista e sui problemi da esso suscitati. La superiorità di Mussolini, invece, non soltanto come uomo politico, ma anche come pensatore, è la consapevolezza della risonanza che hanno nello Stato tutti i problemi della vita spirituale. Noi, ripetiamo, vogliamo essere obiettivi, tecnici. Rimosse le volgari obiezioni, concediamo senza fatica che nella specificazione delle varie forme dell'attività umana ( non entriamo in discussione sul valore di queste distinzioni), filosofo, propriamente, è colui che più degli altri persiste nell'atteggianiento critico-teoretico del pensiero e della riflessione sui problemi della vita e della storia umana. Noi, quindi, non abbiamo nessuna difficoltà a presentare la nostra tesi nei termini più modesti: l'interesse predominante dello spirito mussoliniano è, senza dubbio, pratico-politico; ma in lui è vivissima la consapevole esigenza anche del valore del pensiero in sé e per sé, della considerazione della vita sub specie aeternitatis, propria della filosofia e della religione . Ma spingiamo la nostra tesi anche un po' più in là: l'esperienza della vita e del mondo storico, da lui vissuta con potente e originale personalità, dà anche al suo pensiero una nota di originalità potente, della quale è possibile uno sviluppo in sede puramente teoretica. Queste due parti della tesi sono, tuttavia, da dimostrare. Per la prima, si potrebbe addurre l'interesse confessato per la filosofia, per la storia della filosofia e delle questioni religiose, sin dalla prima giovinezza, quando leggeva "La morale dei positivisti" dell'Ardigò e la "Storia della filosofia" del Fiorentino, e più tardi, quando scrisse per suo conto una storia della filosofia, un libro su Giovanni Huss, un abbozzo su le origini del Cristianesimo. Ma, poiché i documenti ci mancano quasi del tutto, non giova insisterci. Le prove, invece, abbondano nei suoi scritti più maturi. Quante volte ha ripetuto che il Fascismo "non è soltanto azione, è anche pensiero"; e che, pur rinunciando a formule e schemi, il Fascismo "pena la morte, peggio, il suicidio, deve darsi un corpo di dottrine", le quali "non saranno, non devono essere delle camicie di Nesso che vincolino per l'eternità, ma devono costituire una norma orientatrice" ! E nella lettera a M. Bianchi, del 27 agosto 1921 (si noti, nel periodo più intenso dell'azione rivoluzionaria), augurava che sorgesse presto una "filosofia del fascismo", e aggiungeva: "Attrezzare il cervello di dottrine e di solidi convincimenti non significa disarmare, ma irrobustire, rendere sempre più cosciente l'azione. I soldati che si battono con cognizione di causa sono sempre i migliori. Il Fascismo può e deve prendere a divisa il binomio mazziniano: Pensiero e Azione". L'anno seguente (" Gerarchia", n. 3) forse gli sembrò che una tale filosofia ci fosse già nel movimento idealistico italiano: "Questo processo politico è affiancato da un processo filosofico: se è vero che la materia è rimasta per un secolo sugli altari, oggi è lo spirito che ne prende il posto. Tutte le creazioni dello spirito, a cominciare da quelle religiose, vengono al primo piano... Quando si dice che Dio ritorna, s'intende affermare che i valori dello spirito ritornano". In pieno Parlamento, infatti, egli aveva fatto una specie di clamorosa professione di idealismo: "Voi socialisti siete testimoni che io non sono mai stato positivista, mai, nemmeno quando ero nel vostro partito. Non solo per noi non esiste un dualismo fra materia e spirito, ma noi abbiamo annullato questa antitesi nella sintesi dello spirito. Lo spirito solo esiste, nient'altro esiste: né voi, né quest'aula, né le cose e gli oggetti che passano nella cinematografia fantastica dell’universo, il quale esiste in quanto io lo penso e solo nel mio pensiero, non indipendentemente dal mio pensiero. È l'anima, signori, che è ritornata" (Discorsi dal banco di deputato, pag. 118: questo è del 1° dicembre 1921). L'accenno al problema gnoseologico, alla centralità del pensiero conoscitivo nel problema della realtà del mondo, non è il punto che più interressa qui; l'adesione all'idealismo è data soprattutto, io credo, per lo spiritualismo implicito in esso. Questo è un punto che ancor oggi presenta le maggiori difficoltà. Ad alcuni sembra (secondo chi scrive, giustamente) che il carattere gnoseologico predominante nell’idealismo, mentre non arriva a dar ragione di quella che è la realtà oggetto dell'esperienza comune e dell'indagine scientifica, nello stesso tempo impoverisca e disperda in schemi logici (la dialettica) l'intimità della vita spirituale e il senso del mistero, del Trascendente, in essa implicato. Di queste difficoltà Mussolini non sembra inconsapevole, come dimostra il discorso tenuto il 31 ottobre 1926 al Congresso degli scienziati. "Qualche volta mi sono posto dinanzi al fatto scienza, per vedere la mia posizione personale, la posizione del mio spirito di fronte a questo fatto: prima di tutto per definirlo. La mia definizione non dico che sia quella esatta, e potete anche respingerla, se la trovate inesatta, oppure insufficiente: credo che sia l'indagine e il controllo dei fenomeni che cadono sotto la nostra sensibilità e sotto quella degli strumenti che noi possiamo adoperare... Dove può arrivare la scienza? Molto in là. Il secolo diciannovesimo ha fatto fare un balzo enorme alla scienza... Non c'è dubbio che la scienza tende al massimo fine; non c'è dubbio che la scienza, dopo avere studiato il mondo dei fenomeni, cerca affannosamente di spiegarne il perché. Il mio sommesso avviso è questo: non ritengo che la scienza possa arrivare a spiegare il perché, e quindi rimarrà sempre una zona di mistero, una parete chiusa. Lo spirito umano deve scrivere su questa parete una sola parola: Dio. Quindi, a mio avviso, non può esistere un conflitto fra scienza e fede. Queste sono polemiche di venti o trent’anni fa. La filosofia ha il suo campo, quello dello spirito. Vi è una zona riservata alla meditazione dei supremi fini della vita. Quindi, la scienza parte dall'esperienza, ma sbocca fatalmente nella filosofia e, a mio awiso, solo la filosofia può illuminare la scienza".
Il problema è troppo grave e complesso per discuterne qui tanto più che, come s'è detto, res sub judice adhuc est. Ma i termini di esso sono ben quelli posti da Mussolini: il mondo della conoscenza e della scienza è quello dell'esperienza sensibile (così come il mondo della vita sociale e politica è quello del sentimento e della volontà); il problema dello spirito (nel quale, del resto, sboccano alla fine tutti gli altri problemi) è il problema proprio della filosofia: problema filosofico che è insieme un problema religioso. Si comprende, quindi, il tono diverso del discorso tenuto il 26 maggio 1929 al Congresso dei filosofi: rivendicato il merito del Fascismo per i valori dello spirito e della cultura; e riaffermata la sua convinzione sull'importanza della filosofia che, se fatta in mezzo alla vita contemporanea, "serve ad animare gli orientamenti pratici dell'azione quotidiana", riconosce che c'è un lamento generale, in Italia e fuori, perché l'arte e la filosofia sembrano in un periodo di decadenza: "Siamo in un periodo di transizione, siamo in un periodo nel quale, per necessità contingenti, siamo affaticati da problemi di ordine empirico materiale... D'altra parte, io penso che la grande fioritura dello spirito non sia lontana: io credo che fra qualche tempo avremo una grande filosofia, una grande poesia, una grande arte. I materiali per questo si stanno elaborando proprio mentre noi parliamo". Quali sono questi materiali che si stanno elaborando, e da cui dovrà sorgere una nuova grande filosofia, secondo il pensiero e le speranze di Mussolini? Comincia di qui la parte più difficoltosa del nostro argomento, perché, mancando accenni più espliciti, dobbiamo servirci più d'intuizioni che di dimostrazioni. Ci soccorre, tuttavia, una tale abbondanza di documenti che permette di arguire, con suficiente approssimazione, quale sia la sua intenzione. Anzitutto è chiaro che una parte almeno di quei materiali deve essere costituita da quanto di meglio possono ofrire i principali indirizzi del pensiero filosofico contemporaneo. E però la mente corre, in primo luogo, a quelle correnti di pensiero che anche in ltalia ebbero grande divulgazione al principio del secolo, e alle quali anche Mussolini, in via diretta o indiretta, deve qualcosa per la formazione della sua mentalità: vogliam dire il contingentismo, il bergsonismo e il pragmatismo. Abbiamo citato dianzi la sua affermazione di non essere stato mai positivista, ma, nello stesso tempo, abbiamo usato la maggior cautela per non presentarlo, quindi, senz'altro, come un idealista. Questo binomio, o dilemma che dir si voglia, vale meglio per la generazione, cresciuta subito dopo, esclusivamente dentro l'atmosfera dell°idealismo italiano. Mussolini s'è formato, in un primo tempo, dentro il clima mentale europeo; e però non è stato mai positivista perché ha compreso subito la vitalità e fecondità di quella critica del positivismo che veniva eseguita, pur dentro di esso, dagli indirizzi di pensiero ora, ricordati. I risultati principali di quella critica furono questi: la realtà del mondo, non più veduta negli schemi intellettualistici del determinismo scientifico e del pesante grossolano positivismo, a sfondo materialistico, ma ravvivata dal senso della novità e della creazione, per cui il fenomeno si presenta sempre come qualcosa di singolare; il primato dell'intuizione che meglio di tutte le analisi concettuali coglie l'initimità delle cose e quella vita della coscienza in noi che, sola, ci guida a intendere lo slancio vitale che pervade il mondo della natura; il primato, quindi, anche dell'azione, come pensiero volitivo che realizza in concreto il mondo inserendovi l'evento e il fatto talora decisivo. Non è il luogo, questo, per mettere in rilievo (e d'altronde appartiene alla cultura filosofica corrente) quanta vivacità e freschezza di idee fossero contenute in tale movimento di pensiero, che contribuì come nessun altro mai nella storia della filosofia a dileguare dalle menti secolari abitudini scolastiche, a render più agile e penetrante l'ntelligenza, a dar vita nuova alla cultura, a far sentire la superiorità dell'azione su un pensiero astrattamente speculativo. Ma neppure è il caso di indugiarci a mostrare i difetti e le deficienze di quel movimento di pensiero che, pur criticando il positivismo, restava preso nell'orbita dei suoi problemi e del naturalismo in essi dominante. Il contingentismo ha avuto la sua migliore applicazione nella nuova scienza fisica, che segna il tramonto della vecchia concezione del determinismo materialistico. Ma fuori di lì non poté e non può andare: quando, già nei fondatori, si provò a ricavare qualche conseguenza d'ordine metafisico, di quelle "verità eterne" che reggono, non i fenomeni fisici, ma la vita dell'uomo, riuscì ben misera cosa. Ma lo stesso si deve dire del bergsonismo, e molto più del pragmatismo. Quell'intuizionismo conchiudeva in una svalutazione, non solo della scienza, governata esclusivamente da motivi pratici, ma della stessa vita cosciente, ridotta a un "fluire" evanescente, a cui soltanto la mirabile arte dello scrittore prestava tesori di suggestioni. E che dire di quel vuoto ed effimero pragmatismo, a cui qualcuno ancor oggi tenta di fare buon viso? L'azione per l'azione è come l'arte per l'arte: una frivolezza. L’azione, svuotata del suo contenuto ideale e del pensiero che la illumina e guida, diventa il principio di un volgare e inconchiudente praticismo. Veniamo all'idealismo italiano. Qui siamo in un ambiente del tutto diverso, e in casa nostra, per cui, non soltanto la grandezza della costruzione (che ha posto, d'un tratto, l'Italia in prima linea nel movimento del pensiero filosofico contemporaneo) ma anche carità di patria ci persuade a utilizzare quanto più materiale si può. A noi sembra, infatti, che la mentalità mussoliniana abbia assorbito, e fatto propria sostanza, ciò che ha di più veramente originale e duraturo quest'idealismo: l'acuto senso storico dei problemi e la concezione spirituale della vita . Anche qui, anzi qui a maggior ragione, dobbiamo resistere alla tentazione di allungare il nostro studio con citazioni di pensieri e di atteggiamenti mussoliniani, che balzano alla memoria in folla. I suoi scritti e discorsi, e quegli atteggiamenti rivelatori del suo orientamento mentale così nelle grandi questioni internazionali come nel più modesto travaglio intorno ai dati della statistica, sono ben vivi e presenti al pensiero e al cuore di ogni italiano, anche se la riflessione comune inclini a trasvolare sui particolari per coglierne e sentirne l'animazione del tutto. Piuttosto, fermiamoci un momento per determinare i limiti entro i quali quei principii dell”idealismo trovano un'eco nella mentalità mussoliniana. La questione (ripetiamo ancora una volta) è oltremodo difficoltosa, perché si tratta di cosa non ancora da lui dichiarata e definita: si che si corre il rischio di sembrare che si voglia sostituirsi a lui nell'interpretazione del suo pensiero, ovvero (peggio che mai) sovrapporgli vedute nostre personali. Noi faremo del nostro meglio per evitare entrambi gli inconvenienti. Osiamo, dunque, fissare questi punti, a nostro avviso,di fondamentale divergenza del pensiero mussoliniano da quello idealistico. In primo luogo, la sua lontananza dalla concezione idealistica in quanto questa è ispirata ad un assoluto storicismo che erige metafisicamente la Storia al significato e valore dell'Assoluto. Questa metafisica, che si risolve in un panteismo storico, non è, ci sembra, nella convinzione di Mussolini. Il quale, giustamente, per quanto riponga tutta la dignità dell'uomo e della storia nel valore spirituale, ha troppo preciso e sicuro il senso della finitezza dell'umano: del limite che, mentre potenzia il pensiero e l'azione dell'uomo, ne delinea insieme esattamente i confini. ln altri termini, egli ha una concezione più veramente storica della Storia. Ma, appunto per questo, egli si trova ad ugual distanza da quella specie di umanismo teologico che in alcuni idealisti è rimasto come residuo dell'hegelismo. È un idealismo, questo, di carattere fondamentalmente razionalistico. In questo punto, Mussolini, se non c'inganniamo, tradisce il carattere schiettamente cattolico della sua mentalità: se un Dio ci ha da essere, se c'è, meglio che sia quello religioso del Cristianesimo, del Cattolicismo. Qui si passa, quindi, ad una considerazione apparentemente opposta alla precedente: L'idealismo è troppo umanistico : il suo razionalismo affievolisce e smorza nell’uomo l'impulso alla lotta e al sacrificio,l'anelito del futuro, il senso pericoloso della vita, l'audacia dell'iniziativa e il gusto dell'eroico. Nell'uno come nell'altro caso l'uomo è agito dalla Storia, dallo Spirito Universale, da una «dialettica» che per "deificarlo" istrada ogni sua azione e pensiero lungo una legge impersonale che ha la rigidezza del fato, e lo spersonalizza. All'immanentismo, storico o razionalistico, manca una parola magica: la fede. Se la usa, ne storpia il significato. Pronunziare questa parola, tuttavia, è presentare il problema più arduo e assillante per l'attuale coscienza contemporanea. Mussolini lo sente, lo dichiara. Ci è venuto, a questo problema, lentamente: "Nella gioventù io non credevo affatto: avevo inutilmente invocato il nome di Dio" (Ludwig, Colloqui, pag. 224). Nel 1922, invece, già afferma: "Se il Fascismo non fosse una fede, come darebbe lo stoicismo e il coraggio ai suoi gregari? Solo una fede che ha raggiunto le altitudini religiose, può suggerire le parole uscite dalle labbra ormai esangui di Federico Florio" ( Il Popolo d'Italia, 19 gennaio)."Non si può compiere nulla di grande se non si è in stato di amorosa passione, in stato di misticismo religioso" (Discorso alla Sciesa di Milano, 5 ottobre 1922).
Fede dell'uomo in se stesso? E fede del fascista nell'idea stessa del Fascismo? Certamente, anche questo. Può - gli domanda Ludwig (pag. 224 di Colloqui) - un discepolo di Machiavelli e di Nietzsche aver fede? Mussolini gli risponde: "In se stesso: ciò sarebbe già qualcosa". E in “Gerarchia” (Viatico per il 1926): " ll Fascismo vince e vincerà finché conserverà quest'anima ferocemente unitaria e questa sua religiosa obbedienza, questa sua ascetica disciplina. Fede, dunque, non relativa, ma assoluta". Ma l'assolutezza di questa fede nell'ldea esclude la fede propriamente religiosa, in Dio, o, piuttosto, la presuppone? La fede in se stesso, che direbbesi meglio "fiducia", se non ha da essere mero calcolo delle proprie forze, non potrebbe essere alimentata da una forza superiore, ossia da una fede schiettamente religiosa? Al filosofo idealista questo sembra un problema insolubile: o si ha fede nelle proprie forze, egli dice, e si può procedere all'azione; ovvero nelle proprie forze non si ha fede, e allora nasce la sfiducia e l'inattività. Il dilemma, come sono tutti i ragionamenti fatti a fil di logica, è troppo semplice: lo spirito umano è molto più sottile e complicato di ogni dialettica e di ogni logica astratta. Vediamo se dal pensiero di Mussolini possiamo ricavare qualche luce. Qualche volta egli ha accennato a un processo interiore come a fonte comune così della politica come dell'arte. Alla prima mostra del Novecento italiano (15 febbraio 1926) disse: " Ieri sera, dopo avere attentamente esaminata la Mostra, alcuni interrogativi hanno inquietato il mio spirito. Ve li accenno brevemente perché voi ne facciate oggetto di meditazioni necessarie. Primo, quale rapporto intercede tra la politica e l'arte? Quale tra il politico e l'artista? È possibile di stabilire una gerarchia fra queste due manifestazioni dello spirito umano? Che la politica sia un'arte, non v'è dubbio. Non è, certo, una scienza. Nemmeno mero empirismo. È, quindi, un'arte. Anche perché nella politica c'è molto intuito. La creazione politica, come quella artistica, è una elaborazione lenta e una divinazione subitanea. A un certo momento l'artista crea coll'ispirazione, il politico con la decisione. Entrambi lavorano con la materia e con lo spirito. Entrambi inseguono un ideale che li pungola e li trascende".Egli prosegue domandandosi se la guerra e il Fascismo abbiano lasciato tracce nell'arte: "Il volgare direbbe di no perché, salvo il quadro "A noi", non c'è nulla che ricordi e - ohimé! - fotografi gli avvenimenti trascorsi o riproduca le scene delle quali fummo in varia misura spettatori o protagonisti. Eppure- il segno degli eventi c'è. Basta saperlo trovare. Questa pittura, questa scultura, diversifica da quella immediatamente precedente in Italia. Ha un suo inconfondibile sigillo. Si vede che è il risultato di una severa disciplina interiore". Questa "disciplina interiore" è, dunque, un punto di coincidenza della politica e dell'arte, e risulta da "un'elaborazione lenta e una divinazione subitanea". La politica, l'azione, non è "mero empirismo". Parlando del Luzzatti, disse: "Egli aveva navigato per tutti i mari e negli oceani dello scibile umano, senza cadere nelle secche dello scetticismo e della negazione, perché egli credeva fermamente, e la fede è una sicura bussola per ogni viaggio ideale".Di quale fede si parla qui? Di una fede, non v'è dubbio, schiettamente religiosa. Nella Vita di Arnaldo si dice: " Il giornalista diventa scrittore quando si interiorizza, quando comincia a vedere le cose non più sotto l'aspetto cinematico della contingenza, ma in quello della trascendenza; quando piega il capo per riflettere su i problemi originari; quando, come nel caso di Arnaldo, portato da un atroce dolore sulla cima, si sente come liberato dagl'impacci che lo legavano alla pianura e respira oramai nell'atmosfera delle cose infinite ed eterne. Il giornalismo del quotidiano finisce e comincia la poesia. Poesia dell'amore e della morte; della speranza e della rassegnazione; della vita terrena e del di là seducente e consolatore" (pag. 61). La precedente "disciplina interiore" consiste, dunque, in questo "liberarsi" da ogni esteriorità, vivere " nell'atmosfera delle cose infinite ed eterne", cercarsi alla radice del proprio essere sino al punto in cui all'" aspetto cinematico della contingenza" subentra "quello della trascendernza " Lì la poesia s'incontra con la Religione. L'immagine più divulgata di Mussolini, anche all’estero, è quella di una potente e fiera e intransigente volontà: egli è un "dominatore". Chi non ricorda il motto: "agli amici tutto il bene, ai nemici tutto il male possibile "? I Colloqui del Ludwig hanno ancor più divulgato il senso suo della " solitudine interiore" , e il suo acuto pessimismo intorno agli uomini fatto di compassione e di disprezzo . Questo è l'uomo e il mondo guardato da un lato. Ma Mussolini ne conosce anche un altro: eccolo. "Egli (Arnaldo) fu un buono: il che non significa debole, poiché la bontà può benissimo conciliarsi con la più grande forza d’animo, col più ferreo compimento del proprio dovere. Essa è il risultato di una visione del mondo, nella quale gli elementi ottimistici superano i pessimistici, poiché la bontà non può essere scettica, ma deve essere credente. Rimanere buoni tutta la vita: questo dà la misura della vera grandezza di un'anima! Rimanere buoni, malgrado tutto. Il buono non si domanda mai se valga la pena: egli pensa che vale sempre la pena. Soccorrere un disgraziato, anche se immeritevole; asciugare una lacrima, anche se impura; dare un sollievo alla miseria, una speranza alla tristezza, una consolazione alla morte: tutto ciò significa non considerarsi estranei all'umanità, ma parteci -carne e ossa - di essa: significa tessere la trama della simpatia, con fili invisibili, ma potenti, i quali legano gli spiriti e li rendono migliori" (Vita di A., pag. 111-112). Siamo, dunque, passati d'un tratto, da Nietzsche a Tolstoi? L'apparenza può essere questa, la realtà è tutt’altra. ll principio nietzschiano s'è venuto trasformando nell'animo e nella mente di Mussolini in un principio d'interiorità spirituale, che liberando l'uomo da ogni interesse mondano lo innalza per questo stesso sul mondo e gli dà la forza di dominarlo; ma, nello stesso tempo, raccogliendolo nella solitudine di se stesso, gli fa scoprire la sorgente eterna d'ogni valore spirituale, la quale è, infine, anche, la fonte segreta della sua forza e azione nel mondo .Ciò ch'è grande nell'uomo, diceva Zarathustra, è l'esser egli un ponte, non già una mèta. Questa nota "super-umanistica", come superamento del "mero umanismo", è ben rimasta in Mussolini. Così come lo spirito di spregiudicatezza mentale,l'antifilisteismo, antidemocratismo, l'avversione alla " vita comoda" e l’istinto "guerriero ". Ma egli non può più essere persuaso di quel baccanale dell'Io in cui si risolve l'anticristianesimo del Superuomo e il suo disprezzo per ogni tradizione morale e religiosa dell'umanità. Il Titanismo, anche senza i fulmini più di nessun Giove, si abbatte e distrugge da se stesso. Per lo spirito eroico non basta la coscienza di possedere in sé il principio creatore della realtà: ci vuole anche la coscienza di un principio superiore che dia valore permanente alla sua azione. Quel dilemma, dunque, posto dal filosofo idealista è falso. Il che non fa meraviglia. Può la filosofia, ossia il pensiero critico, esaurire le ragioni della vita e della fede? Se tale esaurimento riuscisse alla filosofia e alla riflessione, scomparirebbe, sì, la fede, ma con essa scomparirebbe anche la vita. È misticismo, questo? Sì, è misticismo. Fa paura la parola? Fa paura al filosofo illuminista, non ha fatto paura ad un filosofo come Bergson. C'è misticismo e misticismo, del resto: anzi, innumerevoli misticismi. C’è quello Buddistico e c'è quello del Nietzsche (ch'è, anch'esso, un misticismo, per quanto opposto all'altro). C'è un misticismo pagano e un misticismo cristiano: il Bergson ha trovato in questo secondo la fonte autentica della moralità e della religiosità. C'è un misticismo protestante e c'è un misticismo cattolico: questo secondo è il meno mistico di tutti. Come la pensa Mussolini in questo punto? Lasciamo a lui la parola. "Egli (Arnaldo) era un credente, ma non -come egli disse nell'ultima conferenza alla Scuola di Mistica fascista - credente in un Dio generico che si chiama talvolta per sminuirlo Infinito, Cosmo, Essenza: ma in Dio nostro Signore, Creatore del Cielo e della Terra, e nel suo Figliolo che un giorno premierà nei regni ultraterreni le nostre poche virtù, e perdonerà, speriamo, i molti difetti legati alle vicende della nostra vita terrena» (Vita di A. pag. 114). Questa, la fede di Arnaldo. Quella di Benito segue poco dopo: "Tutto quello che fu fatto non potrà essere cancellato, mentre il mio spirito, oramai liberato dalla materia, vivrà, dopo la piccola vita terrena, la vita immortale e universale di Dio" (pag. 117) Noi non abbiamo nessun interesse (e neanche competenza) a entrare qui in questioni teologiche. Ci basta di aver dimostrato il nostro assunto: che il problema filosofico e quello religioso sono tra i problemi più vivi nel pensiero e nell'animo di Mussolini. E crediamo di aver raggiunta una sufficiente prova sia della prima e sia della seconda parte della nostra tesi. Ma, forse, la prova per la prima parte sembrerà raggiunta meglio che per la seconda. Quali germi di pensiero nuovo e originale - si domanderà - e fecondo di possibili sviluppi, sono contenuti in questo - diciam pure così - spiritualismo fascista? La risposta non può esser dubbia: lo spiritualismo mussoliniano è orientato verso un principio di pura interiorità, in cui trovano la loro coincidenza i problemi insieme della filosofia e della religione, dell'arte e della vita sociale-politica, della scienza e della storia umana Arrivati a questo punto, ognuno concederà che, a rigor di termini, avremmo il diritto di fermarci. Il diritto, e forse anche il dovere: ché, quando il filosofo si avventura in campi estranei alla sua scienza, corre sempre il rischio di sbandarsi. È, bensì vero che la filosofia pervade tutta la vita, tutti i campi della realtà; ma, così considerando le cose, il filosofo si trova riportato al livello di ogni uomo, e non sempre, allora, egli può competere con gli altri per ampiezza e ricchezza di vita e di esperienza. Ma lasciamo andare la questione dei diritti e dei doveri. Sta di fatto che questo saggio, per quanto voglia esser modesto, non può terminare qui: non si può trattare del pensiero di Mussolini senza almeno un cenno al suo capolavoro. ll capolavoro di Mussolini è lo Stato fascista, il quale è, bensì, un'opera di creazione politica, ma è tutto permeato di pensiero e di convincimenti, che rivelano, a chi ben consideri, quello stesso atteggiamento filosofico e religioso che noi abbiamo cercato di ricostruire dianzi sulla base dei suoi scritti e delle sue dichiarazioni. Noi abbiamo non solo il diritto, ma anche il dovere di aggiungere, si potrebbe dire, la prova sperimentale della tesi esposta precedentemente.
In corrispondenza con tale tesi, dunque, noi dovremmo far vedere, in primo luogo, che non può comprendere lo Stato fascista chi si pone da un punto di vista filosofico e religioso diverso da quello del suo creatore; e in secondo luogo, passando al lato positivo, che in tale creazione politica agiscono quegli stessi motivi originali di interiorità e senso della trascendenza che noi abbiamo indicati prima come posizione peculiare del suo atteggiamento mentale e spirituale in rispetto a tutti i problemi della realtà e della vita. Come premessa comune a entrambi i lati del problema che qui si presenta, bisogna far attenzione a questo fatto: che noi ora passiamo a considerare l' “uomo " non più nella sua intimità e interiorità, in quella solitudine in cui soltanto Dio gli fa compagnia; ma nella vita sociale e politica, dove la sua vita è condizionata dalla vita comune e dal mondo storicamente determinato in cui egli si trova a inserire la sua azione di ogni giorno, La sua intimità e interiorità egli la deve vivere in questo mondo; la sua personalità egli la deve costruire come individualità che ha un significato e un valore essenzialmente sociale; egli ha qui per giudice, non più Dio direttamente, ma il mondo della storia e della civiltà umana. L'uomo del senso comune, ch'è spesso anche l’uomo del buon senso, può trovare motivo di diffidare, anzi di sorridere, di ogni spiritualismo che non tenga conto di una tale condizionalità: che parli di un’interiorità che si consuma dentro se stessa senza prodursi nel mondo; quasi che il filosofo e il mistico potessero mai realizzare una spiritualità pura, incorporea Invece, lo spirito umano ha bisogno del corpo per realizzarsi, la vita è attaccata a interessi materiali: bisogna far i conti con la materia per realizzarsi spiritualmente. Non per questo la questione economica non è una questione spirituale anch'essa: l'animale non ha nessuna questione economica da risolvere (già, l'animale non ha problemi di nessuna specie). È per l’uomo che il mangiare, il bere, il vestire panni e le altre necessità della vita, si presentano, non come cose a cui pensa la natura o il caso, ma come risultato della sua libera attività, del suo lavoro e ingegno; è per l’uomo, in quanto la società gli rende possibile la sua vita, che il lavoro è, oltre un diritto, un dovere: un dovere sociale. Ma, d'altra parte, è pure ovvio che la spiritualità della questione economica esprime soltanto la condizione umana di quella spiritualità più profonda che l'uomo trova nella sua pura interiorità; e che scambiare la questione economica con la questione morale, come fece il socialismo, è scambiare la condizione con il condizionato, i mezzi con il fine. Chiediamo scusa se la premessa sembrerà un po' troppo lunga; ma essa era necessaria per spiegare nel modo più breve la nostra insoddisfazione per tutte le teorie fin qui addotte sullo Stato fascista. Preghiamo, con piena sincerità, il lettore di non sospettare che si abbia noi la pretesa di possedere il segreto di quella teoria. Teniamo estremamente, anzi, a dichiarare che innanzi all'Opera di Mussolini ci sentiamo disorientati. Solo vorremmo che anche gli altri confessassero questo disorientamento. Intorno allo Stato fascista si è scritto oramai una biblioteca, fra l'ltalia e l’estero. È naturale che gli scritti migliori siano quelli degli Italiani, tra i quali sono uomini di prim’ordine per cultura, e per intelligenza. E tuttavia avviene qui quel che avviene nei commenti di ogni capolavoro, poniamo della Divina Commedia: c'è qualcosa che, dopo tutte le indagini e i chiarimenti, sfugge. Nella poesia e nell`arte si può dar la colpa alla critica che non arriva mai a tradurre in concetti l'intuizione sentimentale. Qui, nell'opera politica di Mussolini, a noi sembra che la colpa sia dei teorici che restano al di sotto del punto centrale in cui lavora il suo genio creatore fra problemi di azione e di pensiero che costituiscono la sua personalità vivente. Facciamo almeno qualche cenno più esplicito. La letteratura su accennata può dividersi in opere di economisti, di giuristi, di politici, di filosofi. I discorsi fatti in generale sono, necessariamente, sempre un po' vaghi. Ma, noi qui abbiamo un interesse ben determinato, e non abbiamo nessun dovere di allontanarci da esso per entrare nella discussione dei particolari. A cominciare, quindi, dai filosofi, dichiariamo che una filosofia capace di penetrare in ciò che ha di più singolare lo Stato fascista non esiste ancora. I filosofi che ne hanno fin qui parlato (e alludiamo non soltanto agli italiani, ma anche agli stranieri), s'indugiano ancora in posizioni che Mussolini, anzi la storia guardata dal punto di vista fascista, s'è lasciato dietro le spalle.
Ad esempio: c'è chi è ricorso allo Hegel per dimostrare ch'egli è il vero precursore della nuova civiltà del mondo inaugurata dal Fascismo. Non c'è bisogno di molta dottrina per far osservare che nel secolo intercorso fra lo Hegel e il Fascismo sono avvenute queste cose fondamentali: la critica fatta allo spiritualismo idealistico-teologico dello Hegel da parte del marxismo da una parte, e del liberalismo dall'altra; e poi la critica, che già corre per il mondo, del Fascismo contro entrambi questi. Il marxismo ebbe tutte le ragioni di richiamare quello spiritualismo astratto alla base materiale-economica per intendere il concreto mondo storico e agire in esso. Il liberalismo ebbe altrettanta ragione di non volerne sapere di quel teologismo, perché quel che a lui premeva era la libertà dell'uomo, e però dell'individuo vero e reale. Oggi il Fascismo ha superato, per parlare lo stesso linguaggio hegeliano, non soltanto l'astrattezza ed erroneità dello hegelismo, ma anche l'angustia mentale (ch'era una astrattezza ed erroneità opposta) comune al marxismo e al liberalismo. Come ritornare, dopo questo, a Hegel? Precursore? Ma, allora, ricominciamo da Platone e da Aristotele! Quanto inchiostro versato in questi anni per dimostrare che non c'è libertà senza autorità; che l'individuo s'identifica con lo Stato; che economia, etica e politica sono la stessa cosa; che la sovranità dello Stato è un Assoluto che non può ammettere altro Assoluto fuori di sé, ed altrettali filosofemi caratteristici della filosoffia hegeliana! La quale risolveva dialetticamente tutti i problemi del mondo e della storia in un processo logico del pensiero che alla fine si poneva come l'Assoluto metafisico, come il vero Dio, e vanificava, così, quelli che sono i concreti problemi del mondo storico e dell’uomo. Noi non intendiamo, con questo, di dire che tanto inchiostro sia stato versato inutilmente. Tutt'altro! È stato del tutto opportuno, per rinfrescare la memoria delle persone colte e per dirozzare la mente degli ignari su quelle che sono le premesse del pensiero contemporaneo e della civiltà moderna. Intendiamo di dire, invece, che quelle argomentazioni sono fuori fuoco: non colgono il Fascismo nel suo punto vitale. Per cogliere questo sono preferibili le poche meravigliose pagine, che veramente dànno il nuovo" senso dello Stato", contenute nel discorso del Duce all'Assemblea quinquennale del Regime, il 10 marzo 1929 : Lo Stato come organismo giuridico, come la nazione stessa organizzata politicamente, come la sostanza etica di un popolo, e altrettali definizioni, colgono la propria natura dello Stato fascista? Filosofi, giuristi, politici si affaticano insieme a cercar di adattare le vecchie definizioni al corpo della realtà nuova. C'è un concetto che ritorna frequentemente in tutte le definizioni: quello della personalità dello Stato, come di una personalità superiore che assorbe, o deve assorbire, quella inferiore degli individui che lo compongono. Ma basta poca riflessione per accorgersi che quello Stato è una formula, una realtà anonima, una personalità che e tale soltanto nel senso in cui si parla di "persona" in giurisprudenza quando si vuol dire di un ente o istituto che ha un riconoscimento dalla legge ed è "soggetto" di diritti. Ossia, è una personalità che è il massimo della impersonalità. La personalità, invece, dello Stato fascista consiste in questo: che c'è un Capo, una personalità e volontà in carne e ossa, che governa e dirige tutta la complessa vita statale. Lo Stato come Costituzione, come organismo politico-giuridico con tutti i suoi attributi e le sue forme di sovranità, resta come un presupposto che il Fascismo non ha nessuna intenzione di negare, perché, appunto, lo presuppone come un dato acquisito dalla coscienza giuridica e politica moderna. Se no, si tornerebbe al tipo delle Signorie, della coincidenza immediata di Stato e Principe (già notata da Mussolini nel suo Preludio al Machiavelli). Ma, come Aristotele diceva già sin da allora, che l'ordine e la forza di un esercito li fa sopratutto il buon comandante, così il Fascismo pensa che per uno Stato forte e capace di contar qualcosa nella determinazione della storia mondiale, quel che più conta è la volontà e capacità di chi siede al governo, dirige e determina la via da seguire. In quella Volontà si debbono organizzare tutti i voleri, in quella personalità debbono prender corpo tutte le gerarchie, classi e categorie dello Stato, tutte le attività della Nazione. Gerarchie, classi e categorie, le quali collegano il Capo con il resto del corpo politico, sì che, per il tramite di esse, la personalità dello Stato, espressa in sommo grado dal Capo, arrivi via via sino al popolo ed alla massa altrimenti amorfa e sbandata. È questione, dunque, di libertà e di autorità? Certamente! Ma non in quei termini astratti, non in una dialettica che per dimostrare troppo non dimostra niente, o può dimostrare ugualmente bene l'opposto. Mussolini non s'è mai indugiato in tali esercitazioni: dichiarando che " la libertà è un mezzo, non un fine" ha risolto la questione perentoriamente. Questo è autoritarismo, dispotismo, ecc., ha esclamato e tentato di dimostrare un filosofo liberale, a cui hanno fatto eco altri filosofi e politici stranieri. Strano! Quel filosofo passa la sua vita nella meditazione della Storia, e non s'è ancora accorto che la Storia la fa non l'individuo isolato con la sua astratta libertà, ma l'individuo in quanto volontà e libertà organizzata in quell'organistmo spirituale che è lo Stato. Sono gli Stati che decidono del mondo storico-sociale, non gl'individui come tali: così come sono gli eserciti che determinano la vittoria, non i soldati singolarmente presi " Stato etico", si dice: e questo, si aggiunge, almeno questo, è pure un concetto di marca schiettamente Hegeliana. Per cui, dall'altra parte, si protesta: eccoci tornati, col Fascismo, alla "morale di Stato", alla "morale governativa": quale aberrazione filosofica e morale! Se non che, anche qui, non si può raccomandare abbastanza di non perdersi in queste discussioni, e di attingere direttamente alla fonte delle parole e del pensiero di Mussolini. Prendiamo un passo: "Né si pensi di negare il carattere morale dello Stato Fascista, perché io mi vergognerei di parlare da questa tribuna se non sentissi di rappresentare la forza morale e spirituale dello Stato. Che cosa sarebbe lo Stato se non avesse un suo spirito, una sua morale, che è quella che dà la forza alle sue leggi, e per la quale esso riesce a farsi ubbidire dai cittadini? Che cosa sarebbe lo Stato? Una cosa miserevole, davanti alla quale i cittadini avrebbero il diritto della rivolta e del disprezzo. Lo Stato Fascista rivendica in pieno il suo carattere di eticità: è Cattolico, ma è Fascista, anzi sopratutto, esclusivamente, essenzialmente Fascista. Il Cattolicismo lo integra, e noi lo dichiariamo apertamente, ma nessuno pensi, sotto la specie filosofica o metafisica, di cambiarci le carte in tavola".
Vediamo di non cambiargli le carte in tavola. Contro una Chiesa che, movendo dal principio di esclusivo monopolio nella direzione delle coscienze, tende a tener per sé, come si dice nel linguaggio scolastico (del tempo in cui si faceva questione fra Papa e Imperatore per il governo del mondo), tutto "lo spirituale", e a lasciare allo Stato la sola cura dei beni materiali: contro tale Chiesa Mussolini adduce, di pieno diritto, la rivolta della sua coscienza, del suo senso di Capo di uno Stato moderno, che sa di governare degli uomini liberi e non già un gregge, di guidare un popolo verso un ideale di civiltà e non già di essere un semplice amministratore di beni, ed afferma il carattere spirituale dello Stato e il fondamento morale che sostiene la sua autorità di Capo. Ma da questo al concetto che risolve il problema morale nel problema dello Stato, c'è un molto rispettabile intervallo, anzi un abisso, che a noi non risulta in alcun modo che Mussolini abbia mai tentato di varcare. Stato unitario, totalitario: tutto nello Stato, per lo Stato, nulla fuori e, sopratutto, nulla contro di esso. E può essere diversamente data la nuova concezione fascista? Come in guerra tutte le forze materiali e spirituali della Nazione vengono organizzate, senza residuo, per la vittoria delle armi; così in pace lo Stato fascista ha bisogno di tutte le forze, fisiche, morali e intellettuali, dei suoi cittadini per vincere quella più grande battaglia che determina il posto di uno Stato nel mondo e il corso della storia stessa Quindi nulla, di quanto l’individuo può dare, sfugge all'interesse dello Stato fascista: la sua cultura, la sua educazione, la sua coscienza morale, la stessa sua coscienza religiosa. Ma questo non implica un "assorbimento" dell'individuo nel senso che lo Stato ne succhi e svuoti la personalità! Tutt'altro: lo Stato fascista ha ogni interesse, anzi, a potenziare la personalità fisica e morale dell'individuo, a sollecitarne la libera iniziativa, a trar profitto dalla sua vocazione e dalle sue inclinazioni, e, ove occorra, anche dalle sue ambizioni e dalle legittime aspirazioni al benessere e agli agi materiali. Non, dunque, che sia erronea la cosiddetta identificazione dell'individuo con lo Stato; ma, presentata in quella dialettica astratta, non dice nulla di positivo, e può condurre, ripetiamo, anche a dire il contrario . Così, per la questione economica. Stato corporativo, sì, certo: è un caposaldo dello Stato fascista, che qui si lascia di nuovo dietro le spalle il socialismo e il liberalismo insieme. Ma se, da questo si vuol dedurre che l'originalità e importanza dello Stato fascista sia tutta in questo punto, nell'aver immessa una "coscienza statale" nel giuoco degli interessi materiali che governano l'economia di un Paese, c'è l’evidente pericolo di fare del Fascismo un'antitesi, sì, del comunismo e bolscevismo, ma sullo stesso piano. Insomma: economia, etica, politica sono, bensì, legate indissolubilmente nello Stato fascista, ma non per questo l'una è la stessa cosa dell’altra. E veniamo, infine, alla tanto dibattuta questione religiosa. Stato confessionale? No, certo: si è detto e ripetuto. Allora, Stato superconfessionale ? Si, certo, nell'ovvio senso in cui, negandosi che sia confessionale, si vuole pure affermare la sua religiosità. La religiosità, si ha una grande premura di aggiungere e ripetere a sazietà, "immanente". Non ha detto il Duce: "tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato"? Ma la conseguenza, al solito, è tratta troppo facilmente, con una argomentazione che, per voler esser troppo profonda, resta alla superficie della questione e del pensiero di Mussolini. Il quale non ha mai sognato di fare della religione una questione meramente politica. Dal dire che lo Stato fascista ha estremo interesse a coltivare la coscienza religiosa della Nazione; a dire che, quindi, è lo Stato stesso che crea quella coscienza e ne è l'arbitro, ci corre quel solito intervallo o abisso che Mussolini non consta abbia tentato di abolire. Ancora una volta! Noi non abbiamo nessuna nostra filosofia da esibire, e non pretendiamo a nessun brevetto di scopritori o interpreti del pensiero mussoliniano. Ci limitiamo a esibire dei "materiali" e dei "punti di vista", quali possono essere rigorosamente documentati da fatti e da scritti. E però domandiamo: quella teoria " immanentistica " è in accordo con ciò che consta del pensiero e dell'azione mussoliniana? Abbiamo addotto sufficienti documenti in precedenza, e però rispondiamo: non consta, anzi consta il contrario. Diciamo meglio e di più: quel che consta è un'impostazione del problema politico-religioso in termini del tutto nuovi e fecondi di sviluppi nell'avvenire della coscienza politico-religiosa, non soltanto degli Italiani, ma dell'uomo semplicemente, in universale. C’è un fatto: che lo Stato ha affermato la sua assoluta sovranità nel mondo dello spirito storicamente considerato; e contemporaneamente la Chiesa ha rinunciato a entrare più nelle questioni interne allo Stato e nelle competizioni, di qualsiasi specie, fra gli Stati. Nelle due sfere si sono, per la prima volta dacché esistono, delineati e definiti esattamente, per lo meno in via di diritto, i rispettivi confini. Con questa reciproca delimitazione hanno posto, insieme, il loro preciso rapporto: quindi né assoggettamento della sovranità dell'uno all'altra, né separazione nel senso che l'uno non voglia saper nulla dell'altra. Lo Stato fascista, proprio perché è uno Stato etico, sa che, per parlare in termini bergsoniani, ci sono due fonti, o si dica due punti di vista, della vita morale e religiosa dell'uomo, a seconda che questa si consideri nella realtà sociale-politica della storia, ovvero in quella interiorità dell'uomo e della personalità che è la sua spiritualità pura. Abbiamo spiegato a sufficienza, dianzi, che questi due punti di vista non si escludono, anzi sono vitalmente e indissolubilmente legati. Lo Stato fascista può, dunque, liberamente riconoscere che, fra tutte le religioni esistenti, quella Cattolica è più delle altre consona alla sua mentalità e ai suoi fini: per la spiritualità ch'è alla base del Cristianesimo, e per il senso della vita morale concepita nel Cattolicismo secondo quegli stessi principii di disciplina, di gerarchia, di obbedienza all'autorità, che sono alla base della concezione politica del Fascismo. Lo Stato ha tutto da guadagnare da questo accordo della coscienza religiosa con la coscienza politica degli Italiani, che pone termine a un dissidio rimasto, secondo l'espressione di Mussolini stesso, come una spina confitta nel profondo dell'anima nazionale. Ma la Chiesa non ha da guadagnare di meno; anzi, ha innanzi un programma da realizzare anche più vasto e profondo: liberata dagl'interessi politici, accostarsi sempre di più alle coscienze nella pura interiorità, parlare ad esse un linguaggio più intelligibile e persuasivo, rinnovare nelle menti e nei cuori i motivi di quella fede che fece la sua grandezza in altri tempi, anzi in ogni tempo. Solo per questa via alla conciliazione fra essa e lo Stato potrà seguire l'altra fra essa e il pensiero moderno.
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