di Giovanni Fantozzi.
I capitolo
Era necessario che crollasse il muro di Berlino per cominciare ad aprire lo scomodo album di famiglia dei comunisti italiani e far riemergere dal dimenticatoio della storia gli effetti che provocò lo stalinismo dove ebbe la forza politica di imporsi.
Tuttora vi è chi afferma la natura legalitaria del Pci del dopoguerra e chi sostiene che non si può confondere la storia con i processi alle intenzioni. La vittoria della Dc nelle elezioni del 18 aprile 1948 ha fortunatamente evitato agli italiani di sperimentare gli effetti della conquista del potere da parte dei comunisti, e non importa se questa mancata verifica consente ancora oggi a qualcuno di sostenere candidamente che all’Italia sarebbe state risparmiata la dolorosa catena di violenze e le sopraffazioni che subirono tutti gli altri paesi europei in cui i comunisti presero il potere. Ma gli effetti perversi del “socialismo reale” non furono solo una spada di Damocle che incombette a lungo sulla nostra democrazia senza mai colpirla: essi furono duramente sperimentati anche da noi, pur se in misura più circoscritta nello spazio e nel tempo.
La verità che lentamente e tra mille reticenze ed ambiguità si sta facendo strada sui “triangoli della morte” emiliano-romagnoli in cui dopo la Liberazione furono barbaramente e sommariamente eliminate da ex partigiani o militanti comunisti migliaia di persone, assume un valore che va oltre la “microstoria” dei paesi e delle province in cui si svolse ed offre la misura esemplare di quali effetti avrebbe prodotto il comunismo italiano se avesse avuto la capacità di imporre la sua legge come riuscì ad imporla in Emilia tra il 1945 ed il 1946. Piuttosto è lecito chiedersi perché solo ora questi fatti vengono alla luce nella loro cruda dimensione e come mai nessuno storico ha avuto la voglia od il coraggio di rompere la ferrea cortina di silenzio imposta dal Pci nel tentativo di rimuovere dalla coscienza storica questi delitti come tanti altri capitoli bui del comunismo. Di fatto, questo periodo è stato tra i meno approfonditi dagli storici e così hanno continuato a prosperare tesi di comodo dirette a minimizzare e a contestualizzare, quando non addirittura a giustificare del tutto, quei drammatici frangenti. La caduta del muro di Berlino, causa ed insieme effetto della crisi globale del comunismo, che ha fatto da traino alla fase di trasformazione politica del Pci sfociata nella fondazione del Pds, hanno rotto, e forse definitivamente, l’incantesimo fatto di versioni di comodo e di mistificazioni ed avviato una più obiettiva riflessione sulle ampie zone d’ombra che circondano la vicenda del comunismo italiano.
È in questo clima da “caduta degli dei” che si colloca l’appello al “chi sa parli” sui delitti del dopoguerra lanciato nel settembre del 1990 dall’ex parlamentare comunista reggiano Otello Montanari. Un dirigente comunista – con una vita intera trascorsa nel partito – che denunciasse le complicità del Pci in quelle violenze era del tutto impensabile solo un decennio fa, non perché quei fatti fossero ignorati o perché non se ne comprendesse la gravità ma piuttosto perché i dubbi, le incertezze venivano risolti dalla fede per il partito che veniva anteposta ad ogni altra ragione sia politica che morale. Altri, del resto, prima di Montanari avevano parlato dall’interno del Pci, ed in modo ancora più esplicito di lui, delle trame rosse del secondo dopoguerra. Ma si trattava di persone coinvolte personalmente in quegli avvenimenti e comunque non di esponenti di primo piano del partito. Qualcuno ha rilevato che l’ex parlamentare del Pci poteva dire prima quello che sapeva, altri malignamente hanno osservato che se lo avesse fatto di certo non sarebbe divenuto un parlamentare ed un dirigente autorevole del partito, come in effetti è stato. Tutto ciò è vero. Ma non si possono comprendere le parole di Montanari senza capire l’effetto sconvolgente che ha provocato la fine del comunismo sulle coscienze di intere generazioni di militanti che a quel sistema e quell’ideologia avevano ciecamente e quasi religiosamente creduto. La fine del comunismo, ha scritto Miriam Mafai, “non è soltanto il fallimento di un sistema politico ed economico: è il crollo di una religione e di una Chiesa, con la sua gerarchia e il suo sistema di valori. Esso determina il sommovimenti e lacerazioni non solo sulle carte geografiche, ma nelle coscienze di quanti in quella Chiesa hanno vissuto, li obbliga a riesaminare i propri comportamenti e persino in qualche caso i propri principi morali”. In questa luce, le dichiarazioni di Montanari sono il sintomo rivelatore di un crollo epocale ma fanno risaltare tutte le ambiguità e le contraddizioni che segnano il passaggio dal Pci alla nujova “cosa rossa”.
In quest’ultimo anno Montanari ha dovuto pagare duramente il suo “per avere chiamato in causa direttamente i due massimi dirigenti del Pci reggiano dell’epoca, Arrigo Nizzoli e Didimo Ferrari, come fiancheggiatori, se non mandanti, di alcuni tra i più gravi delitti commessi a quel tempo, nonché organizzatori di gruppi clandestini pronti alla lotta armata. Emarginato ed isolato dal suo partito, l’uomo dell’”operazione verità”è stato estromesso prima dagli organi dirigenti dell’ANPI e poi dell’Istituto Cervi di cui era Presidente. “M’hanno escluso” ha dichiarato riferendosi al suo partito. “Ho ricevuto solidarietà solo dal Presidente Cossiga e da alcuni dirigenti miglioristi ed occhettiani, per il resto è un calvario, mi trovo crocifisso, deriso. Allora dirò che ho sbagliato tutto, devo alzare la bandiera “chi sa taccia”, se chi parla continua a pagare”.
Ma cosa avvenne realmente in Emilia-Romagna tra il 1945 ed il 1946 e soprattutto perché poté accadere?
Innanzitutto va precisato un elemento importante che distingue peculiarmente l’Emilia-Romagna dal resto delle regioni del Nord Italia, all’indomani del 25 aprile 1945. Violenze ai danni di persone compromesse con la repubblica di Salò si verificarono in tutte le regioni del nord, anche in conseguenza di un conflitto che aveva assunto, almeno in parte, i connotati di una guerra civile. 6
Si registrarono fatti anche molto gravi, come le stragi di Oderzo nel trevigiano, delle carceri di Schio nel vicentino. Sul numero complessivo delle vittime, data la mancanza di dati documentati, c’è notevole discordanza: i fascisti parlarono all’epoca di 300. 000 morti7, Ferruccio Parri, allora presidente del Consiglio, valutò il numero degli uccisi in 30 mila, il ministro degli Interni Mario Scelba in 17 mila, Giorgio Bocca, più recentemente, in 15 mila. 8 Al di là del balletto delle cifre è però possibile affermare che questa ondata di vendette si esaurì generalmente, fatte le dovute eccezioni, in poche settimane e già a metà del maggio 1945 era quasi completamente cessata. Si trattò quindi di un fenomeno certamente doloroso e diffuso, ma che è possibile inserire tra le conseguenze della guerra e del suo strascico di odi e di rancori.
Molto diverso fu il caso dell’Emilia-Romagna. Qui la violenza assunse caratteri e durata inusitati: non si rivolse solo contro i fascisti ma ebbe come obiettivo persone soprattutto persone che rientravano nella vasta categoria politico-sociale dei “nemici di classe”. Furono in particolare possidenti, agrari, piccoli commercianti e coltivatori, preti e democristiani le “vittime dell’odio”. In tutta l’Emilia-Romagna – manca anche in questo caso uno studio organico9- furono circa tremila le persone soppresse da ex partigiani o militanti comunisti. Facendo riferimento ai documenti dell’epoca, si può ricordare che il prefetto della Liberazione Vittorio Pelizzi scrisse che “nella provincia di Reggio Emilia, le persone scomparse per fatti di guerra o di banditismo nel periodo che va dalla Liberazione al dicembre 1945 non furono neppure un migliaio”. 10 Nella provincia di Modena, un rapporto dei carabinieri dell’ottobre del 1946 assommava ad 893 le vittime del post Liberazione11, mentre il prefetto G. B. Laura nel febbraio del 1950 riteneva di poter affermare “che siano state soppresse nella provincia di Modena da partigiani o da comunisti sedicenti partigiani, oltre 1. 010 persone, comprese quelle che, provenienti dal nord, si dirigevano verso l’Italia centrale e meridionale”. 12 Un altro rapporto del 1946 dei carabinieri di Bologna parla di 675 persone soppresse in quella provincia, di cui 180 ancora da ritrovarsi. 13
A confermare il legame politico di quei delitti con il Pci, è interessante constatare la diretta corrispondenza tra il peso politico ed elettorale del Pci ed il numero degli uccisi. Essi si concentrarono infatti in quelle province (Reggio, Modena, Bologna e la Romagna)14 a più forte insediamento comunista, mentre furono assai meno nelle province dell’Emilia del nord, come Parma15 e Piacenza, dove tale presenza politica era inferiore e più consistente era il peso della Dc e degli altri partiti democratici. Occorre inoltre dire che, anche all’interno delle singole province, le zone che registrarono il maggior numero di omicidi furono quelle di pianura dove il Pci totalizzò alle elezioni del dopoguerra dal 60 all’80 per cento dei voti, mentre nei comuni “bianchi” della montagna, ove pure si era svolta in grande prevalenza la lotta partigiana, il fenomeno fu molto più ridotto.
Qui l’ondata di uccisioni non si risolse nelle prime settimane dopo il 25 aprile, ma anzi perdurò intensa per tutto il 1945 e cominciò a defluire nel corso del 1946 fin quasi a scomparire verso la fine dell’anno in concomitanza con l’assunzione del ministero degli Interni prima da parte di De Gasperi e poi di Scelba. 16 Lungi dall’essere circoscritti, questi delitti – che si inserivano in una cornice non meno grave di intimidazioni, pestaggi e minacce nei confronti degli avversari politici – si dilatarono al punto da creare un vero e proprio clima preinsurrezionale, con un ordine pubblico completamente al di fuori del controllo dello stato. 17
Nel contesto emiliano non furono quindi tanto le conseguenze della guerra a provocare il bagno di sangue ma un odio ideologico e di parte che configgevano apertamente con i valori di libertà e di pluralismo politico, condivisi -almeno a parole -da tutti i partiti che componevano al Resistenza al nazifascismo e che saranno poi posti alla base della nostra Costituzione.
La chiara linea di demarcazione che intercorre tra la Resistenza ed i crimini successivi, è stata ribadita con fermezza da Paolo Emilio Taviani, senatore dc e presidente della Federazione Volontari della Libertà: “La Resistenza, secondo Risorgimento nazionale, iniziò l’8 settembre 1943 e si concluse il 25 aprile del 1945 con la resa delle truppe naziste alle forze popolari della liberazione. […] I fatti deplorevolissimi di cui si torna oggi a parlare, che da noi furono subito, già allora deprecati e denunciati, si verificarono dopo la Resistenza e non hanno nulla a che vedere con i suoi ideali di libertà e di indipendenza nazionale”. 18
A provocare questo stato di cose furono due elementi strettamente connessi tra loro. Il primo era rappresentato dalla fortissima tensione rivoluzionaria diffusa nella base del Partito comunista. Gran parte dei militanti comunisti vedevano la conclusione della Resistenza al nazifascismo non il punto terminale della lotta ma solo il suo livello intermedio. Assai estesa era la convinzione che fosse ormai giunta l’ora della “battaglia decisiva” per l’affermazione dell’”ordine socialista”. Anche Norberto Bobbio ha scritto in maniera autorevole che dalla Resistenza scaturirono tre diverse guerre: le prime due, quelle contro i tedeschi e contro i fascisti, furono vinte; la terza, quella rivoluzionaria contro il “nemico di classe”, che era voluta solo dai comunisti, no. 19 Ma quella battaglia per l’”ordine nuovo”, che pure alla fine risultò perdente, in Emilia-Romagna venne ingaggiata. E non da “schegge impazzite”, come qualcuno continua a sostenere, ma da migliaia di persone, anche se non tutte arrivarono a macchiarsi di delitti. 20
D’altra parte, per spiegare la virulenza dell’odio in cui si mescolavano spesso in un groviglio inestricabile motivazioni politiche e risentimenti personali e non di rado fini di rapina, è necessario sottolineare che soprattutto nelle campagne emiliane l’arruolamento nelle file partigiane venne promosso dal Pci con fini dichiaratamente classisti, fino ad identificare la figura del proprietario e dell’agrario con quella del fascista. 21 In questo la violenza del secondo dopoguerra dopoguerra si ricollega a quella che sconvolse le campagne emiliane nel “biennio rosso” del 1919-1921, ed in senso più generale alla tradizione massimalista ed anticlericale del periodo prefascista che aveva nell’Emilia- Romagna una dei suoi punti di massima forza. 22
“In generale è diffusa la convinzione – scriveva nel luglio 1944 da Montefiorino il capo partigiano comunista Bruno Gombi – che dopo la vittoria debba il nostro partito, e possa, fare la rivoluzione comunista per distruggere la borghesia”. 23 E dopo la Liberazione, sottolineava Giorgio Amendola in un’intervista del 1978, “malgrado gli sforzi di Togliatti l’orientamento soprattutto nelle zone di massima forza – Emilia e Toscana – era quello dell’ora X. […] Bisognava difendere la libertà, conquistare comuni, aumentare il numero dei deputati ma per conquistare posizioni utili per il “momento buono”. Quando sarebbe venuto questo momento risolutivo nessuno poteva dirlo ma non esisteva molta fiducia che si potesse arrivare al socialismo attraverso una modificazione democratica del paese”. 24
L’altro elemento che permise l’espandersi incontrollato della violenza politica per quasi un biennio fu l’estrema debolezza dello Stato. Praticamente tutte le leve del potere locale, dai Cln, ai comuni, al sindacato, vennero egemonizzate dal Pci e la tutela dell’ordine pubblico venne assunta da squadre di polizia partigiana, quasi per intero composte da comunisti, che spesso si resero complici – come numerosi processi poi dimostrarono – dei delitti che istituzionalmente erano tenute a reprimere. E quando Mario Scelba divenne ministro degli Interni, il suo primo atto fu proprio quello di procedere all’epurazione della polizia partigiana e di restaurare l’autorità dello Stato in Emilia. Occorreva “far capire a Togliatti che qualcosa era cambiato. La regione in cui il Pci era più forte era l’Emilia-Romagna: era quindi di lì che bisognava cominciare”. 25
D’altronde se le violenze fossero state davvero commesse da un numero esiguo di militanti che non si rassegnavano a consegnare il fucile, esse sarebbero state facilmente isolate ed emarginate da un partito efficiente e capillare come il Pci che era in grado di esercitare sui propri iscritti una ferrea capacità di controllo.
Quando la riorganizzazione delle forze dell’ordine cominciò a consentire il ritorno dell’autorità dello Stato ed insieme ad essa l’accertamento delle responsabilità in numerosi delitti compiuti dopo il 25 aprile, il Pci si schierò con grande decisione a favore di tutti gli imputati arrestati, inaugurando la tesi, dietro la quale continua ancor oggi ad arroccarsi, della “caccia alle streghe” e del “processo alla Resistenza”. 26 Nel 1948 venne costituito un Centro di solidarietà democratica, allo scopo di assistere tutti i processati senza alcuna distinzione circa l’entità e la gravità dei reati commessi, e di coordinare ogni mezzo utile alla loro difesa. 27 Il Centro di Solidarietà democratica fornì assistenza legale a persone responsabili di aver ucciso dopo la Liberazione fascisti, ma allo stesso modo sostenne gli uccisori di preti, di democristiani, di altri partigiani non comunisti. Secondo gli avvocati difensori comunisti, anche le violenze commesse a danno di sacerdoti e di democristiani erano da considerare “azioni di guerra” e pertanto dovevano rientrare nei benefici dell’amnistia Togliatti. 28
La copertura e la solidarietà politica non furono però gli unici legami tra la violenza politica ed il Pci. Nel tentativo di mettere al riparo Togliatti dai sospetti di connivenza con quei delitti, da parte comunista sono stati riesumati i discorsi che il “migliore” pronunciò nel 1946 davanti ai quadri del partito di Modena e Reggio, nei quali tra l’altro si sottolineava la “insufficiente vigilanza del partito nel prevenire i gravi fatti accaduti” e si ammetteva che essi facevano “ricadere sul partito una parte di responsabilità”. 29 Queste ammissioni, seppure velate ed ambigue, stanno comunque a testimoniare che da parte di Togliatti vi era la dichiarata consapevolezza della compromissione dei dirigenti emiliano-romagnoli nell’organizzazione dei delitti.
E comunque non bastano queste parole a dare una patente riformista e legalitaria a Togliatti: egli in realtà sapeva quanto l’ala militarista del Pci andava facendo in Emilia, ma al tempo stesso aveva l’abilità tattica di presentare il partito con un volto legalitario. Criticava gli eccessi ma poi, come ha testimoniato il suo ex segretario Massimo Caprara30, favoriva gli espatri dei condannati nell’est europeo. Nessuno troverebbe d’altronde, per quanto la cercasse, nei discorsi di Togliatti una condanna esplicita della violenza come metodo di lotta politica. Egli si limitava a stigmatizzare le intemperanze dei compagni non perché ne disapprovasse alla radice i metodi ma semplicemente perché era cosciente che in quel momento erano assenti le condizioni nazionali ed internazionali indispensabili al successo di un tentativo rivoluzionario. 31 Lasciava che fossero altri ai vertici del partito a nutrire nella base le speranze di una rivoluzione imminente. È noto, ad esempio, quanto Luigi Longo e Pietro Secchia credessero nella lotta armata. Essi erano i principali ideatori della struttura militare clandestina del Pci, perfettamente organizzata e dotata di propri arsenali, pronta ad agire al momento dell’ora X. Longo, alla prima riunione del Cominform che si svolse in Polonia nel 1947, dirà che “il nostro partito dispone di un apparato clandestino di speciali squadre che sono dotate per il momento in cui sarà necessario, di ottimi comandanti e di un adeguato armamento”. 32 E a tale proposito è necessario osservare che un lungo cordone ombelicale lega, almeno dal punto di vista ideale, questo vero e proprio “partito armato”, all’ombra e con la copertura del quale furono consumati tanti delitti, ed i deliri eversivi delle Brigate rosse, così come del resto è testimoniato dagli stessi protagonisti. 33
Comunque, tornando al Pci del dopoguerra, quello tra Togliatti da una parte e Longo e Secchia dall’altra può essere letto come un abile quanto sottile gioco delle parti in cui in discussione non era il fine, cioè l’instaurazione di un “ordine socialista” simile a quello dei paesi dell’est caduti sotto il giogo staliniano, ma solo i mezzi più idonei per consentire al partito di raggiungerlo.
Questa doppia verità, che obbedisce al principio secondo cui ogni giudizio di valore morale deve essere subordinato necessariamente al vantaggio per il partito, è rimasta una costante nella storia del comunismo italiano.
Nell’ambito della storiografia comunista, o comunque di sinistra, a giustificazione di un così prolungato ed ostinato silenzio, si è affermato che i delitti sul dopoguerra “sono stati sbrigativamente liquidati come prodotto di una sorta di inerzia, una “esasperazione diffusa” conseguente ad ogni guerra e particolarmente a questa tanto aspra e partecipata, Ovvero un fenomeno normale, fisiologico che, pertanto, non merita di essere studiato”. Luca ALESSANDRINI, Angela Maria POLITI, Nuove fonti sui processi contro i partigiani. Contesto politico ed organizzazione della difesa, in Italia Contemporanea, n. 178, marzo 1990, p. 43.
2 L’articolo di Otello Montanari che conteneva l’appello al “chi sa parli” è apparso sull’edizione di Reggio Emilia de “Il Resto del Carlino” del 29 agosto 1990. “Quei dirigenti comunisti – ha scritto Montanari – avevano un atteggiamento di tolleranza, di copertura, o anche un legame stretto con coloro che portavano avanti le azioni di soppressione, dei sequestri, degli espatri, delle sparizioni? Compivano atti concreti. Tutto questo si esprimeva anche in una politica vera e propria, in una particolare tendenza? Io credo di sì”.
3 E’ significativo a questo proposito il caso di Egidio Baraldi, un ex partigiano comunista reggiano condannato per l’omicidio del capitano Ferdinando Mirotti avvenuto nel 1946 – e sempre professatosi innocente. A differenza di Germano Nicolini che non ha mai voluto fare i nomi dei veri responsabili del delitto don Pessina, Baraldi non solo ha fatto nome cognome del mandante dell’omicidio – si tratterebbe di Renato Bolondi ex sindaco di Luzzara – ma ha anche scritto, tra il 1985 ed il 1989, due libri in cui dedica parole molto dure sulle responsabilità del Pci reggiano di quegli anni. “Il Nizzoli (segretario federale del Pci reggiano nel 1945, ndr) ed anche “Eros” (Didimo Ferrari, presidente dell’Anpi provinciale, ndr) erano gli elementi che senza ombra di dubbio portavano avanti la doppia linea; che avevano stretti legami con coloro che portavano avanti la politica delle soppressioni, dei sequestri, degli espatri e peggio ancora delle sparizioni”. Egidio BARALDI, Il delitto Mirotti. Ho pagato innocente, Reggio Emilia, 1989, p. 87. Sulle sue vicende personali e giudiziarie Baraldi ha scritto anche un altro volume: Nulla da rivendicare, Reggio Emilia, 1985.
4 “La Repubblica”, 12 settembre 1991.
5 “La Repubblica”, 13 settembre 1991. Montanari è stato fatto oggetto di un vero e proprio linciaggio morale all’interno del suo partito subito dopo aver scritto il suo articolo sul dopoguerra. L’on. Giancarlo Pajetta lo bollò subito come un “infame” diffidandolo dal “girare per le strade di Reggio”. Nel corso del 1991 è stato estromesso dagli organi dirigenti dell’Anpi e dalla Presidenza dell’Istituto Cervi. Solo dopo un lungo braccio di ferro tra l’Amministrazione provinciale – che sosteneva la sua candidatura – e la maggioranza dei componenti del Cervi è stato riammesso nel Consiglio di Amministrazione dell’Istituto. Ma Montanari si è dimesso polemicamente affermando che “si vuole, nei fatti, mantenere la discriminazione contro di me a causa dell’articolo del 29 agosto 1990″ e che “molte persone e forze diverse mi odiano, ben più che fossi un boss o un criminale nazista, perché non solo ho avviato l’operazione ‘verità per gli innocenti’ ma anche perché stanno esplodendo e saltando contraddizioni ed omertà”. “Il Resto del Carlino”, 19 ottobre 1991.
6 La natura di guerra civile della Resistenza è uno dei nodi storiografici più difficili e complessi. Per un certo periodo a parlare di “guerra civile” col corollario della necessaria “pacificazione nazionale” erano praticamente i soli neofascisti. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le prese di posizione degli storici anche di altre aree culturali a favore di questa tesi, fino a coinvolgere studiosi dell’area ex comunista. Valga per tutti Claudio PAVONE , Una guerra civile, Torino, 1991. E’ necessario però osservare che in questo momento riconoscere i caratteri di “guerra civile” alla lotta di Liberazione serve anche a giustificare più agevolmente quanto accadde dopo, poiché è proprio di una guerra civile l’inevitabile trascinamento di odi e di rancori. Il concetto di “guerra civile” è però ancora rifiutato dalla prevalente storiografia cattolica, che continua a parlare di “lotta di Liberazione nazionale”.
7 Sulle stime alquanto esorbitanti compiute dai neofascisti cfr. Giorgio PISANO’, Sangue chiama sangue, Milano, 1972 e Storia della Guerra civile in Italia (1943-1946), Milano, 1966, III Vol. ; Duilio SUSMEL, I giorni dell’odio. Italia 1945, Roma 1975. La storiografia di destra, ma è più opportuno parlare di pubblicistica, che si è occupata di questo periodo tende inoltre a conteggiare come vittime fasciste anche tutti i morti del post Liberazione. Per quanto riguarda l’Emilia-Romagna, il numero dei morti viene sbrigativamente riassunto nelle seguenti cifre: “In quella che era stata la “fascistissima” Emilia, le vittime furono ben diecimila […]. Tremila persone furono eliminate a Bologna, duemila a Reggio Emilia, altre duemila a Modena, milletrecento a Ferrara, seicento a Piacenza, cinquecento a Ravenna, seicento a Parma, duecento a Forlì”. SUSMEL, op. cit., p. 125.
8 Giorgio BOCCA, La Repubblica di Mussolini, Bari, 1977, p. 339.
9 Alcuni studi complessivi su base regionale sono in gestazione a cura dell’Istituto regionale di Studi politici Alcide De Gasperi e dell’Istituto regionale della Resistenza. Molti degli istituti provinciali della resistenza, sull’onda delle polemiche degli ultimi tempi, stanno mettendo a punto ricerche in questo campo.
10 Vittorio PELLIZZI, Trenta mesi, Reggio Emilia, 1954, p. 20. Sui delitti commessi in provincia di Reggio Emilia, sono da segnalare il periodico neofascista “Nuovo Meridiano” di Milano che nel 1961 pubblicò diversi servizi sull’argomento dando anche l’elenco nominativo di alcune centinaia di persone, ed il più recente Reggio Emilia 1943-1946. Martirologio, a cura dell’Associazione nazionale caduti e dispersi della Repubblica sociale italiana, Rimini, 1991. Questo lavoro contiene i nomi, comune per comune, di circa quattrocento scomparsi prima e dopo la Liberazione. L’elenco è però impreciso e sono riportati anche caduti partigiani, motivo per il quale il volume è stato ritirato. E’ imminente la stampa di un lavoro di Giannetto Magnanini, ex segretario federale del Pci di Reggio, nel quale si menzionano 453 vittime cadute nella provincia dopo la Liberazione. E’ un numero che si discosta molto di poco dalle 442 elencate dal “Nuovo Meridiano” nel 1961.
Sulle vicende del post Liberazione a Reggio Emilia cfr. don Wilson PIGNAGNOLI, Reggio bandiera rossa, Milano, 1961; Corrado RABOTTI, L’ingiustizia è uguale per tutti, Reggio Emilia, 1990; Luciano BELLIS (Eugenio Corezzola), La Balilla del direttore, Reggio Emilia, 1966; la ristampa in volume del periodico ” La Penna” (1945-1947), a cura di Ercole CAMURANI ed Eugenio COREZZOLA, Roma, sd.
11 Il rapporto è citato in Pietro SCOPPOLA, Gli anni della Costituente tra politica e storia, Bologna, 1980, p. 100
12 La lettera del prefetto Laura al ministero degli Interni, datata 20 febbraio 1950, è riprodotta fotostaticamente in Giorgio PISANO’, Storia della guerra civile, cit., pp. 1724-1725. Sul dopoguerra a Modena cfr. Giovanni FANTOZZI, “Vittime dell’odio”. L’ordine pubblico a Modena dopo la Liberazione (1943-1946), Bologna, 1990. In appendice al volume sono descritti circa duecento casi di persone scomparse. Secondo le ricerche di Franco FOCHERINI (cfr. gli articoli “Il maledetto triangolo della morte” e “I “desaparecidos” del secondo dopoguerra”, in “Modena A1″, giugno e luglio-agosto 1983) i morti dopo la Liberazione nel modenese sarebbero circa 500, settecento le persone uccise tra l’8 settembre ed il 22 aprile, a cui vanno aggiunti altri 400 scomparsi, sicuramente morti ma di cui non è stato rintracciato il cadavere, per un totale di 1. 600 vittime. In coda alla sua inchiesta Focherini fornisce i nomi di alcune centinaia di persone uccise. L’Associazione nazionale delle famiglie dei caduti e dei dispersi della Repubblica sociale italiana anche per Modena ha pubblicato il volume Modena 1943-1946. Martirologio, Rimini, 1988, in cui si fornisce il dato complessivo di 1. 349 persone uccise durante e dopo la guerra. Cfr. inoltre i libretti “pro manuscripto” di Alberto FORNACIARI tutti pubblicati a Modena: I dimenticati, aprile 1984; Martiri dell’oblio, settembre 1984; Fiori del paradiso, giugno 1985 ; La “Repubblica di Armando”, agosto 1985; Il triangolo della morte, settembre 1985; Il terribile dramma, settembre 1985.
13 Cfr. La seconda Liberazione dell’Emilia, Roma, 1949, ristampato nel 1991 a cura del Comitato regionale Dc dell’Emilia-Romagna, con premessa di Paolo Siconolfi ed introduzione di Giovanni Fantozzi, p. 20. Su Bologna manca sinora un censimento delle vittime od un lavoro che affronti organicamente questo periodo. Cfr. comunque Irene COLIZZI, “J’accuse”. Quello che non fu detto di terra d’Emilia (fatti di cronaca del dopo armistizio 1943/1946), Roma, 1988.
14 Sulle violenze avvenute nelle provincia di Ravenna cfr. Giordano MARCHIANI, La Bottega del barbiere, Bologna, 1989 e Paolo SCALINI, Fare giustizia in Romagna, Bologna 1991. “Sulla base dei rapporti dei carabinieri e delle questura risultano uccise o scomparse dopo il 25 aprile ’45 circa cinquanta persone nel triangolo della morte, quindici in collina, una ventina a Massalombarda e sedici nel ravennate”. SCALINI, op. cit., p. 14. Relativamente a Ferrara cfr. Alberto BALBONI, Edda BONETTI, Guido MENARINI, Repubblica sociale italiana e Resistenza. Ferrara 1943-1945, Ferrara 1990. Nel volume è diffusamente citato il cosiddetto “Memoriale Sergio” dal nome di battaglia del partigiano comunista Sesto Rizzatti che lo scrisse in carcere nel 1945. In tale memoriale, la cui autenticità è stata però messa in dubbio, Rizzatti ricostruisce numerosi episodi di violenza avvenuti nel ferrarese dopo la Liberazione, attribuendone la responsabilità ad alcuni dirigenti di vertice del Pci locale. Cfr. anche a cura dell’Associazione nazionale famiglie caduti e dispersi dell Repubblica sociale italiana, Ferrara 1943-1945. Martirologio, Rimini, 1985. Nella pubblicazione sono menzionati i nomi di circa 320 scomparsi dopo la Liberazione.
15 Aldo CURTI e Baldassarre MOLOSSI nel libro Parma anno zero, Parma, 1989, citano un rapporto della Questura datato 6 maggio 1946 in cui si riferisce di 206 vittime dopo il 25 aprile; un precedente rapporto dei carabinieri del 6 maggio 1945 parla di soli cinque uccisi a Parma. Si tratta comunque di cifre sia la prima, sia soprattutto la seconda, molto lontane da quelle delle altre province emiliane. “Gli studiosi della Resistenza sono orientati a credere che nella nostra città non ciò sia stato un disegno di lotta finalizzato alla ‘rivoluzione proletaria’. I delitti parmigiani vanno compresi nel clima di illegalità diffusa che si era creato nell’immediato dopoguerra. A Parma il movimento partigiano era ampiamente variegato e la presenza cattolica si faceva sentire. Le frange più estremiste erano sotto controllo e ciò ha impedito eccessi che si sono verificati nelle province vicine. Era sotto controllo anche l’aspetto “militare” delle brigate: i responsabili, infatti, erano spesso militari di carriera e quindi presumibilmente capaci di garantire professionalità e disciplina”. “Gazzetta di Parma”, 8 settembre 1990. E’ da sottolineare che undici delle 21 Brigate partigiane del Nord Emilia 11 erano democristiane o comunque cattoliche, in parte autonome ed in parte raggruppate nelle Divisioni “Val Taro”, “Monte Orsaro”, “Ricci”, “Gruppo Brigate Cento Croci”.
16 I comunisti escono dal Governo nella primavera del 1947, e Scelba assume l’incarico di ministro degli Interni nel febbraio 1947. In precedenza per qualche mese il ministero era stato assunto ad interim dal Presidente del Consiglio De Gasperi.
17 La gravità della situazione dell’ordine pubblico in Emilia è confermata anche dalle relazioni che le autorità di polizia inviavano in quel periodo al ministero degli Interni, e che ora sono state parzialmente pubblicate da Pietro Di LORETO, nel suo volume Togliatti e la “doppiezza”. Il Pci tra democrazia ed insurrezione, Bologna, 1991. “Nella zona modenese – scrive un commissario di polizia nel luglio del 1946 – funzionano in atto due polizie e cioè: 1) la polizia dell’A. N. P. I. che dispone completamente della Questura a mezzo di un personale largo ed invadente; sussiste altresì una rete misteriosa di aderenti all’OZNA (polizia segreta jugoslava, ndr), i quali si appoggiano ai compagni comunisti, rifuggono da soste alberghiere e perciò sono ben difficilmente identificabili; 2) l’Arma dei Carabinieri. Polizia di partito la prima, di Stato la seconda; è agevole intendere quali conseguenze ne derivino sul terreno amministrativo… La polizia dell’ANPI è espressione dell’esecutivo comunista, i cui metodi sono ben noti, ed i in tale formazione ancora confluiscono elementi avvezzi a farsi ragione con le armi. La maggior parte di essi sono stati inseriti nella polizia ausiliaria che domina completamente la questura, e mantengono fra di loro l’organizzazione n cellule, cara al partito comunista, riconoscendo come propri capi i dirigenti di partito e conferendo al Questore solo un’obbedienza formale”. (p. 86) Relazioni altrettanto allarmate provengono nell’estate del 1946 da tutte le province emiliane e danno un quadro esauriente della gravità dell’ordine pubblico. Bologna: “Le uccisioni per motivi politici, per non contare quelle verificatesi nel periodo insurrezionale, sono state commesse in numero notevolmente maggiore che in qualsiasi altra provincia… Ma ciò che più impressiona è che gli omicidi del genere non accennano a cessare e se ne sono avuti anche recentemente… Purtroppo i colpevoli rimangono quasi sempre ignoti, sia perché bene organizzati… sia perché coloro che sarebbero in grado di identificarli se ne astengono… “. (p. 85). Forlì: “L’intolleranza politica è stata ed è tuttora molto viva nella provincia e dà luogo a delitti e disordini. Ultimamente è stato necessario sospendere la presenza degli imputati ai processi innanzi alla Corte d’Assise Straordinaria, non essendo in grado la forza pubblica di contenere le violenze del pubblico tumultuante che assiste ai processi stessi e ha tentato più volte d’impadronirsi dei giudicabili per farne giustizia sommaria”. (Ibidem). Reggio Emilia: “Nella provincia si verificano tuttora dei gravi delitti di vendetta politica, che impressionano l’opinione pubblica e rivelano la persistente tendenza ad uccidere e depredare da parte di elementi che si ritengono al di sopra di qualsiasi freno morale e giuridico”. (Ibidem).
18 “l’Unità”, 11 settembre 1990.
19 “La Stampa”, 9 settembre 1990.
20 “Non furono “schegge impazzite” – ha affermato l’ex comandante partigiano Ermanno Gorrieri -. Si può piuttosto pensare ad un treno messo in moto dalla Resistenza che non si fermò”. “Il Giornale”, 18 settembre 1990.
21 Secondo i comunisti “la linea di separazione nazionale viene più o meno a coincidere con la linea di separazione sociale. Generalmente parlando e fatte le debite eccezioni, il proprietario collabora con i tedeschi, il contadino li combatte”. Paolo ALATRI, I triangoli della morte, Roma, s. d. (ma 1949), p. 13. Olindo Cremaschi, segretario della Federterra di Modena, racconta che durante la Resistenza sentiva “gente che, come veniva accolta nel movimento armato, esclamava: ‘Finalmente ho un’arma in mano! Adesso ammazzo il fascista, il mio padrone’”. Cit. in Mauro FRANCIA, Le campagne modenesi nella ricostruzione, in AA. VV, La ricostruzione in Emilia-Romagna, Parma, 1980, p. 119.
22 Cfr. Valerio EVANGELISTI, Salvatore SECHI, Il galletto rosso. Precariato e conflitto di classe in Emilia Romagna, Venezia, 1982.
23 La lettera inviata al Comando generale delle Brigate “Garibaldi” è citata in Paolo SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano. Togliatti e il partito nuovo, Torino, 1975, vol. III, p. 374.
24 Giorgio AMENDOLA, Il rinnovamento del Pci, intervista di Renato Nicolai, Roma, 1978.
25 Antonio GAMBINO, Storia del dopoguerra. Dalla Liberazione al potere Dc, Bari, 1975, p. 301. “Quando arrivai al ministero dell’Interno – ha testimoniato ancora Scelba – gli effettivi della pubblica sicurezza erano circa 30 mila. La cosa più grave, però, era che di questi, secondo i nostri calcoli, almeno 8 mila erano comunisti, pronti ad agire contro lo stato dall’interno. […] Comunque sia, nel giro di un anno, portai gli effettivi delle pubblica sicurezza ad oltre 50 mila, scegliendo accuratamente i nuovi agenti tra i cittadini che avevano un sicuro senso dello stato. Per eliminare gli 8 mila comunisti adottai il sistema del bastone e della carota: da un lato un provvedimento che assicurava a tutti coloro che volevano lasciare il servizio una serie di benefici finanziari, dall’altro il trasferimento in sedi meno piacevoli, e specialmente meno importanti. [... ] Oltre che in basso agii anche in alto: tutti i questori e i prefetti che nei mesi precedenti si erano dimostrati infidi o incerti furono completamente sostituiti. (Ibidem)
26 A riguardo delle teorie che presentano i processi ai partigiani comunisti come parte di un disegno persecutorio più ampio dello stato e dei partiti di governo nei confronti del Pci, cfr. ALATRI, I triangoli della morte, cit., Stefania CONTI, La repressione antipartigiana. Il “triangolo della morte” 1947-1953, Bologna, 1979, Guido NEPPI MODONA (a cura di), Giustizia penale e guerra di liberazione, Milano, 1984; ed infine ALESSANDRINI, POLITI, Nuove fonti sui processi contro i partigiani, cit. In quest’ultimo saggio tra l’altro si legge: “La grande quantità delle incriminazioni, nel corso di quei cinque anni (1948-1953, ndr), è tale comunque da autorizzare l’uso di espressioni quali ‘repressione diffusa’ o perfino intento persecutorio’. I processi ai partigiani coincidono [... ] con una fase acuta dello scontro sociale in Italia, tanto che le carceri si riempiono di partigiani come di braccianti e di militanti politici e sindacali” (p. 44). La circostanza che molti dei processi si svolsero dopo il 18 aprile 1948, circostanza che porta la storiografia comunista a sostenere l’impiego della magistratura da parte dello stato in funzione politica e repressiva, è confutata da Paolo Scalini, a quell’epoca giovane magistrato a Ravenna: “Non c’entra niente la politica. I motivi di questa coincidenza, perché tale è, vanno cercati negli anni precedenti il 1948, nella situazione in cui venne a trovarsi la nostra provincia nei due anni dopo la fine della guerra. Due anni in cui la quasi totalità delle denunce si riferiva a delitti o altri reati commessi dalle brigate nere. Si deve inoltre tenere conto che nelle zone rurali le caserme dei carabinieri restarono per qualche tempo sguarnite e che l’ordine pubblico era in mano alla polizia partigiana. [... ] Inoltre, temendo ritorsioni, quasi mai i testimoni e gli stessi famigliari di coloro che furono prelevati e sparirono o furono ritrovati uccisi, fecero subito i nomi dei responsabili o fornirono notizie utili alla loro identificazione. [... ] In questo clima le indagini erano pressoché impossibili tanto che quasi tutti i rapporti si concludevano con un non doversi procedere essendo rimasti ignoti gli autori del reato. E’ stato solo più tardi, dalla fine del 1947 in poi, che qualcuno ha cominciato a parlare, qualche inquisito ha confessato e soprattutto i testimoni e i famigliari delle vittime hanno fatto i nomi dei presunti colpevoli. SCALINI, op. cit., pp. 25-26.
27 Il Centro di solidarietà democratica, che dipendeva completamente dal Pci da un punto di vista economico e finanziario, cominciò ad operare nel 1948 per sostenere i partigiani coinvolti nei processi, e fu riesumato fra il 1969 ed il 1980 “per assistere gli ultimi partigiani che ancora avevano carichi pendenti, ottenere grazie e riabilitazioni, aiutare il rientro degli espatriati, fare in modo che fossero riconosciuti gli anni di lavoro all’estero. E’interessante notare che tale comitato svolge tuttora un’attività, benché molto ridotta rispetto al passato”. ALESSANDRINI, POLITI, op. cit., p. 45. Tale Comitato, che si avvaleva di un gruppo di avvocati coordinati da Leonida Casali, fornì difesa legale a tutti i partigiani comunisti processati, salvo tre casi particolarmente gravi relativi all’uccisione del sindacalista cattolico Fanin (novembre 1948), all’eccidio di Gaggio Montano (cinque morti, nel novembre 1945) e alla soppressione del partigiano Renato Seghedoni di Castelfranco Emilia (marzo 1946). La difesa degli imputati per questi fatti – seppure formalmente a titolo personale – fu comunque assunta dallo stesso avvocato Casali. Da qualche tempo l’archivio dell’avvocato Casali e quello del Centro di Solidarietà democratica di Bologna sono parzialmente disponibili per la consultazione presso l’Istituto storico della Resistenza regionale. Di un certo interesse è la raccolta degli atti giudiziari relativi a numerosi procedimenti penali per i fatti del dopoguerra.
28 L’amnistia Togliatti è del 22 giugno 1946. Essa si applicava ai colpevoli di omicidi commessi fino al 31 luglio 1945, salvo che non si fossero resi autori anche di “sevizie particolarmente efferate”. Un secondo decreto, promulgato il 6 settembre 1946, prescriveva che “non può essere emesso mandato di cattura o di arresto nei confronti dei partigiani, dei patrioti o delle altre persone indicate nel comma secondo dell’articolo unico del dec. 1 lgt., 12 aprile 1945, n. 194, per i fatti da costoro commessi durante l’occupazione nazifascista e successivamente, salvo che, in base a prove certe, risulti che i fatti anzidetti costituiscano reati comuni”. Nei processi i giudici si trovarono quindi sempre di fronte alla difficoltà delle distinzione tra “reati politici” e “reati comuni”, anche perché all’omicidio spesso veniva unita la rapina. In ogni caso l’applicazione dell’amnistia aveva come presupposto che l’azione fosse stata compiuta “in lotta contro il fascismo”. E non era certo questo il movente che aveva ispirato l’uccisione di una buona parte delle vittime, cadute ben oltre il 25 aprile.
29 “l’Unità”, 1 settembre 1990.
30 “Lo sa – ha sostenuto Caprara in un’intervista – che dai verbali di quegli anni (della Direzione del partito, ndr) non risulta mai una riserva apprezzabile da parte di Togliatti riguarda ai fatti del “triangolo emiliano”?. Me li sono riletti da cima a fondo: non una parola di condanna, silenzio assoluto. E questo non le sembra una prova? In pubblico il segretario non risparmiava critiche ai dirigenti locali, qualcuno magari lo rimuoveva o lo spostava altrove, ma sempre per ragioni organizzative. Nessuno di loro fu mai espulso dal partito. Neppure i più notoriamente invischiati nelle imprese criminali. Togliatti sapeva, ma li copriva. Perfino quando era ministro della Giustizia, e come tale a maggior ragione avrebbe avuto il dovere di perseguire quei reati”. “Corriere della sera”, 6 settembre 1990.
31 “La verità è che la “doppiezza” non fu solo di coloro che volevano proseguire la Resistenza fino all’abbattimento del capitalismo e della borghesia, così da approdare subito alle sponde del comunismo sovietico; ma fu di tutto il partito. Una differenza, è vero, ci fu e, certo, risultò importante. Ma era e rimase per anni solo una differenza tattica, concernente cioè i tempi. Togliatti, che sapeva ben valutare i rapporti di forza e la situazione reale, si mantenne con grande abilità nei limiti che aveva concordato con Stalin, prima del suo rientro in Italia nel ’44. Il nostro Paese era nella sfera d’influenza occidentale. Non c’era spazio per colpi di testa, ma solo per una politica moderata. Conveniva, quindi, coprirsi con le garanzie della Costituzione “borghese” evitando a qualsiasi costo avventure di tipo greco. Fu questo che una parte della base e anche alcuni dei dirigenti (tanto inferiori a lui) non capirono: la questione dei tempi, cioè dell’occasione storica. Quanto ai principi, invece, tutto restava in piedi anche per Togliatti: il fine ultimo, cioè l’approdo al “socialismo reale”, era valido anche per lui, solo oche sarebbe stato differito a quando le circostanze lo avrebbero permesso”. Lucio COLLETTI, in “Corriere della sera”, 6 settembre 1990.
32 Miriam MAFAI, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia, Milano, 1984, p. 53. GAMBINO, nel suo citato Storia del dopoguerra, riporta una relazione (p. 384) dell’ambasciatore americano Dunn in cui l’esercito clandestino comunista formato da ex partigiani ed organizzato in “squadre di vigilanza” alle dipendenze di “brigate garibaldine” viene fatto ammontare a “50 mila addestrati ed equipaggiati con armi leggere” Su l’”Europeo” del 17 marzo 1990 Salvatore SECHI ha pubblicato un dossier reperito negli archivi di Washington relativo alla struttura militare clandestina del Pci tra il 1945 ed il 1948. In esso sono contenute relazioni stilate dall’Office of Strategic Service (OSS) e da agenti infiltrati che descrivono in modo piuttosto minuzioso l’articolazione delle formazioni paramilitari comuniste. In un rapporto, datato 2 giugno 1945, dell’ agente “Z”, si legge: “La struttura armata all’interno del Pci è formata da 50. 000 uomini equipaggiati con armi moderne e da 10. 000 muniti di fucili e bombe a mano. Per la fine dell’estate si prevede che altri 40. 000 saranno riforniti di materiale bellico proveniente dalla Russia e dalla Jugoslavia. A dirigerla è un quadrunvirato: Luigi Longo, Ilio Barontini, Francesco Roasio e Giorgio Amendola. Questa struttura si articola per squadre che operano per zone e settori e per brigate (4 per ogni regione). Esse dispongono di 100. 000 armi con adeguate munizioni, di 20. 000 mitra e di 10. 000 mitragliatrici (machine guns), di carri armati tedeschi del tipo Tiger e Panzer nascosti in poderi e fabbriche”. L’esistenza di questo apparato clandestino – il cui nome era “Vigilanza rivoluzionaria” – è stata confermata, con corredo di varie testimonianze, su l’”Europeo” del 31 maggio 1991.
33 Il legame ideologico, ma anche quello politico, tra le spinte rivoluzionarie dei comunisti emiliani del dopoguerra ed il nucleo storico delle Brigate rosse è tuttora uno dei punti di maggiore discussione e certo merita un adeguato approfondimento. E’ comunque un dato di fatto che proprio in provincia di Reggio, e precisamente a Pecorile di Vezzano, nell’agosto del 1970 un gruppo di giovani fuoriusciti dal Pci (Franceschini, Pelli, Ognibene, Bonisoli, Gallinari), suggestionato dai racconti degli anziani ex partigiani comunisti, fonda il primo nucleo delle Br. All’intervistatore che gli chiede se “le Brigate rosse sono anche figlie del Pci e di una certa cultura rivoluzionaria”, Alberto Franceschini, uno dei leader storici del terrorismo rosso, risponde: “Certamente, almeno quel pezzo di Br proveniente come me dalla tradizione dei partiti storici della classe operaia: noi a Reggio Emilia, altri a Milano, altri ancora a Torino. La discendenza e la continuità storica sono evidenti. Siamo figli di quella parte del Pci che a Reggio perse la sua battaglia, di quelli che credevano che la Resistenza non fosse finita con la sconfitta dei nazifascisti, di chi pensava che bisognasse continuare per prendere il potere e portare il socialismo anche in Italia”. Significativo è poi quanto dice Franceschini a proposito dell’ing. Arnaldo Vischi, dirigente delle “Officine Reggiane”, ucciso da alcuni comunisti nell’estate del 1945: “Le Reggiane erano diventate un’industria bellica, intorno a cui ruotava l’economia di Reggio. Dopo la guerra volevano ristrutturare la fabbrica, licenziando migliaia di operai. Vischi non era un fascista, né un collaborazionista, ma colui che doveva procedere a questa ristrutturazione. E’ per questo che fu ammazzato, averlo attaccato significava colpire quel progetto di ristrutturazione. E’ la stessa logica con la quale decidemmo di attaccare i dirigenti di fabbrica negli anni settanta. “La stampa”, 5 settembre 1990.
II capitolo – Cattolici e democratici cristiani
All’indomani della Liberazione, i democristiani sono in prima linea nell’opporsi alle violenze e ai miti della rivoluzione “rossa”.
Cercano, all’interno dei Cln, nei consigli comunali che si sono insediati subito dopo la Liberazione di portare ordine, moderazione, equilibrio. In diversi casi non tacciono di fronte ai prevaricatori e agli esagitati che sono presenti in quegli organismi e soprattutto in seno alla polizia partigiana. Non chiudono gli occhi di fronte alla sparizione e alla soppressione di persone, alle irregolarità amministrative, ai furti e alle rapine che sono all’ordine del giorno. E ad alcuni costerà molto caro l’opposizione a qualche “ras” locale che freme per la rivoluzione e non compie molti distinguo tra fascisti, democristiani o possidenti.
In provincia di Modena, tra il maggio ed il luglio 1945, vengono uccisi quattro dirigenti dc: il 10 maggio Carlo Testa; il 2 giugno Ettore Rizzi, assassinato insieme al padre Antonio; il 13 giugno Emilio Missere; il 27 luglio Bruno Lazzari, che cade insieme all’azionista Giovanni Zoboli. In provincia di Bologna, il 7 febbraio 1946, viene ucciso il segretario della sezione di Anzola Emilia Luigi Zavattaro).
Solo nel caso di Missere si arriverà ad individuare e condannare i responsabili. 34
a) Emilio Missere
L’omicidio del ventitreenne Emilio Missere è, tra i delitti a sfondo prettamente politico consumati nei mesi successivi alla Liberazione quello che in provincia di Modena desta più viva impressione e più forte indignazione. Innanzitutto per la personalità cristallina della vittima; poi per le cariche politiche ricoperte sia come membro del Cln di Medolla sia come segretario della locale sezione della Dc; ed infine per le circostanze della sua soppressione che risultano tali da essere inequivocabilmente collegate alla sua attività politica e da far pensare ad un omicidio premeditato ed organizzato con cura.
Emilio Missere è figlio del giudice del Tribunale di Modena Ermanno e di Gina Tosatti. Esonerato dal servizio militare, durante il periodo bellico può dedicarsi agli studi di giurisprudenza fino alla laurea che consegue presso l’Università di Modena nel dicembre 1944. Non partecipa attivamente alla Resistenza per un’istintiva repulsione alla violenza ma, all’indomani della Liberazione, si iscrive alla Democrazia cristiana di Medolla di cui diviene quasi subito segretario. Possedendo una “topolino” è in grado di tenere contatti frequenti con la segreteria provinciale di Modena e curare i collegamenti con le vicine sezioni di Modena e Cavezzo. Nei giorni successivi alla liberazione è stato designato dalla Dc in seno al Cln comunale “come l’uomo più rappresentativo e più dotato per svolgere il compito di moderatore e per agire da freno a quelli che possono essere gli eccessi degli altri rappresentanti quasi tutti partigiani comunisti”. 35
Missere svolge i suoi nuovi compiti con entusiasmo. Il suo zelo lo porta a chiedere continuamente resoconti sull’attività degli uffici contabili del Cln comunale in cui sospetta la commissione di illeciti; al tempo stesso cerca di vedere chiaro in alcuni episodi di violenza consumati dalla polizia partigiana del luogo. Questa sua attività lo mette in cattiva luce presso il gruppo di estremisti che governa il Cln di Medolla. “Il Missere – scrive la “Gazzetta di Modena” nel 1952 – aveva posto in atto suggerimenti dati dal suo partito, perchè si facesse opera di vigilanza e si coadiuvasse coll’Autorità giudiziaria allo scopo di frenare l’ondata di delitti per vendetta scatenati dagli estremisti. Ciò aveva provocato il risentimento di alcuni elementi del luogo, facenti parte del Cln, i quali non tolleravano che si facesse luce sul loro operato. Il Missere, la cui condotta morale e politica era irreprensibile, era ritenuto un testimonio inopportuno e pericoloso per le loro molteplici illegalità compiute mediante perquisizioni, sottrazioni di beni mobili, ed imposizioni di offerte ed estorsioni che alimentavano la bramosia di sfruttare la situazione ad esclusivo vantaggio personale”.
I moventi esatti dell’omicidio però non si conobbero mai. Al processo contro gli assassini di Missere, l’ex presidente del Cln di Medolla ammise che “in seno al Cln c’erano ragioni di contrasto a causa della contabilità che il Bertoli (accusato di essere il mandante, ndr) trascurava molto”. Nello stesso dibattimento si parla anche degli accesi contrasti tra Missere ed esponenti della locale polizia partigiana circa la soppressione, avvenuta poco dopo il 25 aprile senza alcun processo, dei cinque fascisti Eva, Angelo e Santina Greco, Renato Neri e Pasquale Genni. 36
Quello che risulta con certezza è che Emilio Missere, nel pomeriggio del 13 giugno 1946, viene avvicinato da un certo Alfio Calzolari e da un altro partigiano, poi non identificato, che gli chiedono di condurli a Modena su ordine scritto del Cln di Medolla firmato dal vicepresidente Ennio Bertoli. In caso contrario hanno l’ordine di requisire la “topolino” di proprietà del Missere. Il giovane è costretto ad accettare e deve lasciare anche la guida ad uno dei tre. Prima di partire Emilio vede una conoscente e l’incarica di avvertire la famiglia della sua assenza e di rassicurarla che tornerà al più presto. La macchina viene vista transitare da un altro componente del Cln e da una donna, che nota anche che la macchina è seguita da un terzo individuo in motocicletta. Da quel momento di Missere e della sua vettura non si saprà più nulla. Qualche settimana dopo, trascorsa un’attesa inutile quanto snervante, e dopo concitate ricerche condotte dal padre a Modena, la famiglia denuncia la scomparsa di Emilio.
Le indagini dei carabinieri riescono lentamente a penetrare nel muro di omertà e di paura che incombe su Medolla e nel giro di un anno sono in grado di individuare i responsabili: oltre all’esecutore materiale Alfio Calzolari, gli organizzatori dell’omicidio risultano essere Jaures Cavalieri e Marino Malvezzi, ed i mandanti Ennio Bertoli e Alfredo Barbieri, anch’esso componente del Cln di Medolla.
Alla cattura sfuggono il Calzolari ed il Cavalieri. Del primo, ricercato anche per l’omicidio dell’ingegnere Gino Falzoni di Finale Emilia consumato il 17 giugno 1945, non si ritrova traccia e solo dopo qualche tempo le indagini riescono a stabilire che il Calzolari era stato soppresso poco dopo il fatto dai suoi stessi complici nel timore che rivelasse i particolari dell’omicidio; il secondo, sul quale il ministero degli Interni mette una taglia di cento mila lire, riesce a riparare in Jugoslavia e poi a Vienna dove, nel 1949, viene infine catturato.
Al processo, che si svolge alla Corte d’Assise dell’Aquila nel febbraio del 1952, gli imputati si trovano dunque a rispondere di due omicidi, quello di Missere e quello di Calzolari. 37
Durante il dibattimento una testimonianza inchioda i responsabili: certo Canzio Costantini dichiara di aver trovato rifugio, dopo una sua fuga dal carcere, presso l’abitazione di Jaures Cavalieri e di avere appreso da costui che “Missere era stato ucciso con un colpo di rivoltella sulle rive del fiume Secchia”; e che, successivamente, “Alfio Calzolari era stato attirato dagli altri compagni nello stesso punto ove era stato soppresso il Missere, ed era stato pure esso ucciso nel timore che andasse a riferire i nomi degli autori dell’omicidio consumato ai danni del democristiano”. 38
Un altro particolare che aggrava la posizione degli imputati è il ritrovamento degli abiti del Missere nel podere di proprietà del Cavalieri: due donne che cercavano tracce di congiunti scomparsi, rinvengono in una buca, a poche settimane dalla scomparsa del giovane, un sacco contenente un paio di scarpe, un vestito grigio a righe ed un impermeabile chiaro. Accertato che non si tratta dei vestiti dei propri parenti, li ripongono nella buca. Quando i carabinieri, su loro indicazione, si recano a cercarli di quegli indumenti non v’è più traccia. Su richiesta del presidente della Corte, le donne riconoscono però con sicurezza un pezzo della stoffa dell’impermeabile che Missere indossava al momento della sua scomparsa.
Anche in questo procedimento, l’avvocato di parte civile Marinucci cerca nella sua arringa di escludere il movente politico del delitto per non consentire agli imputati di rientrare nei benefici della legge di amnistia: “Non si tratta di un delitto politico, ma di un delitto personale per causa privata. Bertoli ordinò ad Alfio Calzolari di uccidere il Missere e gli dette per compenso 34 mila lire; successivamente fece uccidere lo stesso Calzolari da Jaures Cavalieri”. Da parte loro, gli accusati negano ogni addebito, mentre la difesa cerca in ogni modo di invalidare la credibilità dei testi.
La Corte accoglie sostanzialmente la tesi accusatoria e condanna a trent’anni Bertoli e Jaures Cavalieri, a ventuno anni Malvezzi, a quattordici Dotti ed il fratello di Cavalieri Moris, limitatamente all’omicidio del Calzolari. 39
b) Giorgio Morelli (“Il solitario”)
Il 9 di agosto del 1947 muore ad Arco di Trento il partigiano cattolico reggiano Giorgio Morelli. È la tubercolosi a stroncare la vita di questo giovane di soli 21 anni, ma a quella malattia non è estranea una pallottola sparatagli da ignoti attentatori l’anno prima e che gli ha trapassato un polmone. A procurargli quella ferita sono stati i suoi articoli, a firma “Il solitario”, pubblicati sul settimanale “La Nuova Penna”. 40 Articoli duri e scomodi che denunciano i numerosi delitti rossi compiuti nel reggiano durante e dopo la Resistenza, indicano i responsabili, chiedono giustizia alla magistratura. Morelli e gli altri redattori de “La Penna”, tutti giovani come lui, sono coscienti del pericolo e del fastidio che provocano nel rendere pubblica la verità, ma non si tirano indietro. E i comunisti tentano in ogni modo di fermarli. Tra il 1945 ed il 1946, “La Nuova Penna” è costretta a cambiare per 11 volte tipografia, una di esse l’Age di Reggio viene devastata, numerose edizioni vengono prese dalle edicole e bruciate in piazza. Morelli, partigiano della prima ora, viene definito dai comunisti un “fascista repubblichino”, lo si espelle dall’Anpi, gli si nega la qualifica di partigiano. Ed infine, il 27 gennaio 1946, due sconosciuti gli sparano contro sei colpi di pistola mentre rincasa di notte nella sua casa di Borzano. Ma neppure l’attentato attenua la prosa intransigente de “Il solitario”, che fino alle ultime settimane di vita prosegue imperterrito nelle sue “Inchieste sui delitti” e gira per le strade di Reggio, a mò di sfida, con indosso l’impermeabile bucato dai proiettili. Solo la morte fa tacere Morelli e mette fine all’ esperienza de “La Penna”. Per sua espressa volontà, “Il solitario” viene sepolto a Cà Marastoni di Toano, nell’Appennino reggiano, in una cappella dedicata ai partigiani cattolici delle “Fiamme Verdi” caduti in uno scontro a fuoco con i tedeschi nella “Pasqua di sangue” del 1945, a poche settimane dalla Liberazione.
Giorgio Morelli ha appena diciassette anni quando, sul finire del 1943, comincia a collaborare con la Resistenza pubblicando articoli sui “Fogli Tricolore”, ciclostilati diffusi a Reggio Emilia che mettono “in allarme le autorità della Rsi e che incoraggiano alla Resistenza passiva e a quella armata”. In questi frangenti stringe amicizia con un altro partigiano cattolico Eugenio Corezzola (“Luciano Bellis”), di tendenze liberali, inaugurando il sodalizio da cui successivamente nascerà “La Penna”. I due si ritrovano in montagna, partigiani delle Brigate Garibaldi e rimangono sfavorevolmente impressionati dal settarismo politico dei comunisti e dagli eccessi di violenza con cui conducono la lotta armata. Sfuggito miracolosamente alla cattura, “Il solitario” entra nella 284esima Brigata “Italo” delle “Fiamme Verdi”, una formazione, comandata dal sacerdote don Domenico Orlandini (“Carlo”), in gran parte composta da partigiani democristiani o comunque cattolici. 41 Nel marzo del 1945, su proposta di Morelli e di Corezzola, e d’accordo con Giuseppe Dossetti, le “Fiamme Verdi” danno vita ad un loro foglio clandestino che si chiamerà “La Penna”. Questo settimanale, che uscirà in soli quattro numeri prima della Liberazione, è quasi per intero redatto da Morelli e Corezzola. Negli articoli ricorre un tema caro alla Resistenza cattolica: la lotta di Liberazione come strumento ed esempio del riscatto morale e civile del paese precipitato nella tragedia del fascismo, prima ancora che come lotta armata, come fatto puramente politico o militare. “Voi sapete – scrivono nel primo numero uscito il 1 aprile del 1945 – con quale intento è sorta nell’estate scorsa la nostra Brigata: appunto quello di dare vita ad un blocco di energie giovanili, non solo fermamente decisa a portare per la lotta comune per la liberazione dell’Italia, un contributo d’azione e d’entusiasmo, ma anche ben convinta che tale contributo sarebbe sempre di scarso valore, se non fosse accompagnato da un deciso sforzo di resurrezione morale, individuale e collettiva. Questo era il nostro proposito; quello di combattere con la medesima fermezza l’oppressore della nostra terra, il distruttore delle nostre case, il torturatore dei nostri fratelli, il violatore delle nostre libertà ed insieme combattere in noi stessi ogni deviazione, ogni debolezza, ogni germe di male morale, si da far distinguere la nostra Brigata per la sua disciplina, il suo tono”.
Il giorno della Liberazione di Reggio, il 24 aprile 1945, Giorgio Morelli, è il primo partigiano della montagna ad entrare in città su di una bicicletta avuta in prestito da Ermanno Dossetti. La guerra contro i nazifascisti è finita ma non è conclusa la battaglia per la libertà. Cominciano anche nella provincia di Reggio Emilia le esecuzioni sommarie, il dilagare dei delitti a sfondo politico, le prepotenze e le intimidazioni dei comunisti. Morelli, ed insieme a lui Corezzola ed altri, sentono compromessi gli ideali di libertà e di giustizia per i quali si sono battuti, avvertono la necessità di reagire, di fare qualcosa. Nasce così, a partire dall’ottobre 1945, il “settimanale indipendente” “La Nuova Penna”, che anche nel nome vuole dare continuità con la precedente esperienza partigiana dei redattori. Caratteristica peculiare del giornale è la sua indipendenza politica, anch’essa orgogliosamente rivendicata in continuità con la loro precedente militanza partigiana in cui avevano rifiutato ogni coloritura partitica in contrapposizione all’esasperata politicizzazione delle formazioni comuniste.
Morelli è democristiano, come la gran parte dei collaboratori, Corezzola è liberale, ma non vi è alcun ossequio a direttive di partito, fatto questo che provocherà a “La Nuova Penna” una certa presa di distanze – almeno a livello ufficiale – anche da parte della Dc, impegnata in quel momento nella difficile gestione unitaria dei Cln. 42 Sarà però sempre loro accanto il comandante delle “Fiamme Verdi” don Domenico Orlandini, che sovvenzionerà con offerte il settimanale e pubblicherà anche qualche articolo. Successivamente Corezzola ha definito “La Nuova Penna” “un autonomo ed interessante fenomeno cattolico-liberale che, seppure ignorato, confutato, avversato dalle organizzazioni partitiche ufficiali, fu l’unica forza effettivamente in grado di contrastare l’ipoteca comunista sulla Resistenza armata”. 43 E in effetti, nonostante tutte le accuse mosse dai comunisti, “La Nuova Penna” non rinnega nulla dei valori autentici della Resistenza, ma anzi afferma esplicitamente di condurre la propria battaglia in nome di essi per impedire che vengano confusi o deturpati dagli atti di delinquenza e di banditismo compiuti dai comunisti.
Gli articoli de “Il solitario” sono duri, precisi, documentati e partono dall’inchiesta sulla misteriosa morte, avvenuta nella Pasqua del 1945, di un suo intimo amico della lotta partigiana, il vicecomandante della 76esima Brigata Sap, Mario Simonazzi (“Azor”), il cui corpo viene ritrovato nell’agosto 1945 con un foro di pallottola alla nuca. L’inchiesta su “Chi ha ucciso Azor?” prosegue per tre numeri del giornale e suscita un vespaio di polemiche. 44
Senza fare in nomi, “Il solitario” addita i comunisti come mandanti dell’uccisione. Essi avversavano il cattolico “Azor” perchè era politicamente indipendente e non condivideva i loro metodi violenti e settari. Di seguito Morelli, si occupa di un’altra “vittima dell’odio”: don Giuseppe Iemmi, parroco di Felina, trucidato il 19 aprile 1945, a pochi giorni dalla Liberazione. Rievoca il suo calvario e fa i nomi dei “garibaldini” uccisori: “Briano”, “Aspro”, “Vulcano”… 45 In un altro articolo riferisce dell’uccisione di don Luigi Ilariucci, parroco di Garfagnolo, ucciso il 18 agosto del 1944, anche questa volta da partigiani comunisti. 46 Per questo delitto “Il solitario” chiama direttamente in causa come mandante l’incontrastato capo del Pci reggiano del tempo, “Eros”, ovvero Didimo Ferrari.
E la reazione di “Eros” non si fa attendere: i partigiani de “La Nuova Penna” vengono espulsi dall’Anpi. Per tutta risposta “Il solitario” risponde al dirigente comunista sulla colonne del giornale con un editoriale fiero e provocatorio dal titolo: “Eros per chi suonerà la campana?”. “La nostra espulsione dall’Anpi, da te ideata, è per noi un profondo motivo d’onore”, scrive Morelli. “Ad ogni modo, permetti, Eros, che l’opinione pubblica sappia quali sono i veri motivi della tua decisione. Il lavoro che stiamo svolgendo dalla Liberazione ad oggi è per te e i tuoi compagni un grave intralcio all’attuazione dei tuoi propositi. La nostra voce che chiede libertà ed invoca giustizia è una voce che ti fa male e ti è nemica. (…) Noi abbiamo semplicemente chiesto che tra i patrioti veri della resistenza più non avessero a rimanere i delinquenti comuni, i ladri di professione, gli uomini dalle mani sporche di sangue innocente. Abbiamo chiesto giustizia per le vittime ed abbiamo voluto, come vogliamo ancora, che sia ridato intero l’onore all’ideale della nostra lotta. Comprendiamo bene che l’atto da te compiuto – continua “Il solitario” nell’articolo – ha il segreto scopo di additarci all’odio dei tuoi fedeli per incitarli a compiere il fatto di sangue. (…) Eros, puoi attuare il tuo piano come e quando ti fa comodo. Ricordati però che quello che noi sappiamo di te e del tuo passato, rimarrà; anche quando non ci saremo. E rimarranno gli amici che come noi, chiederanno giustizia e parleranno”. 47
Poche settimane prima di scrivere questo articolo Morelli aveva subito l’attentato che lo porterà a morire. Ma non per questo rinuncia a scrivere con un coraggio temerario, e sfidando apertamente i suoi avversari, con la stessa prosa tagliente e precisa. Nel corso del 1946, denuncia l’uccisione dell’industriale di S. Ilario d’Enza Giuseppe Verderi, di don Giuseppe Pessina48, delle fosse comuni di Campagnola, del capitano Ferdinando Mirotti, del sindaco socialista di Casagrande Umberto Farri. 49 Sono gli stessi delitti che sono tornati agli onori della cronaca dopo il “Chi sa parli” di Otello Montanari.
Due giorni prima di morire annota nel suo diario queste parole che hanno il valore di un testamento spirituale: “Ho una tristezza infinita nell’anima (..) Quasi un presentimento che debba avvenire qualcosa di inatteso, di acerbo. Forse questa mia giornata terrena potrebbe non vedere l’alba di domani. Non mi spaventa la morte. Mi è amica, poiché da tempo l’ho sentita vicina, in ore diverse: sempre bella. Nell’istante prima del mio tramonto, mi prenderebbe una sola nostalgia: quella di aver poco donato (…) Oggi, la mia confessione ultima sarebbe questa: l’odio non è mai stato ospite della mia casa. Ho creduto in Dio, perché la sua fede è stata la sola ed unica forza che mi ha sorretto”. 50
c) Giuseppe Fanin
È la sera del 4 novembre 1948 a San Giovanni in Persiceto, un comune della pianura bolognese ai confini con la provincia di Modena. Giuseppe Fanin sta rientrando in bicicletta alla sua abitazione dopo aver fatto visita alla fidanzata. Il matrimonio è già programmato per la primavera successiva, ma i progetti del giovane non avranno futuro. C’è nebbia sulla via Biancolina, non c’è illuminazione e a quell’ora – sono all’incirca le 22 – passano pochi pedoni e biciclette. Il luogo ideale per un agguato. Fanin vede solo all’ultimo momento i tre individui che gli sbarrano la strada e lo fanno cadere. Tenta disperatamente di difendersi ma non può fare nulla contro la gragnola di colpi inferti con una spranga di ferro che lo colpiscono ripetutamente alla testa. Per uccidere. Si accascia al suolo privo di conoscenza. Gli assalitori, compiuta la “missione”, tornano a scomparire nella notte. Passano venti minuti prima che un passante ritrovi il corpo di Fanin agonizzante e dia l’allarme. I soccorsi sono inutili: le ferite alla testa sono troppo gravi perché i medici possano fare qualcosa. Il giovane muore dopo poco all’ospedale. 51
Ma chi è Giuseppe Fanin per essere oggetto di tanto odio? È un giovane ventiquattrenne, laureato in agraria, attivo militante della Fuci, pieno di energia e vita, come tanti. Ma è anche e soprattutto un sindacalista, un mestiere che ha scelto per essere più vicino alla terra che ama. La sua è una famiglia numerosa – è il terzo di otto figli – di origine veneta e profondamente cattolica, che si è trasferita a San Giovanni nel 1910 dopo aver acquistato un podere in località Tassinara di circa 40 ettari. Fanin è segretario provinciale delle Acli-terra e come tale si occupa delle vertenze agrarie, una materia incandescente in quei tempi in cui si scontrano frontalmente due concezioni opposte: da un lato i comunisti che spingono per la collettivizzazione delle terre – “la terra non si compra, si conquista” è il loro slogan – dall’altro i democristiani che si battono per l’estensione delle proprietà coltivatrice e per la compartecipazione. Una situazione resa ancor più tesa dalla scissione della Cgil e dalla costituzione dei sindacati liberi che rompono l’egemonia comunista sul fronte sindacale. 52
E Fanin è tra i sindacalisti bianchi uno dei più attivi e quindi pericolosi agli occhi dei comunisti. Sa stare tra la gente, ascoltarne i problemi, attira consenso ai sindacati liberi. Ha messo a punto proprio in quelle settimane un progetto di patto agrario basato sulla compartecipazione dei braccianti ai frutti del loro lavoro, “per strappare questi dalla loro condizione di salariati e insieme da quella di organizzati nel chiuso sistema di “collettivi” di tipo sovietico”. Il 7 novembre dovrebbe tenere al convegno dei sindacalisti cattolici di Molinella proprio una relazione sul nuovo patto agrario.
Fanin è dunque un bersaglio scelto non a caso: attraverso di lui si colpisce tutto il coerente impegno dei cattolici in campo sociale diretto a promuovere l’emancipazione dei lavoratori al di fuori delle scontro sociale e all’interno delle regole democratiche. Va osservato che alla fine 1948 gli eccidi indiscriminati del post Liberazione sono ormai un ravvicinato quanto terribile ricordo (solo nella zona di San Giovanni in Persiceto nel 1945 vengono uccisi due sacerdoti: don Enrico Donati, arciprete di Lorenzatico, e don Alfonso Reggiani, parroco di Amola di Piano). Da quasi due anni ormai lo stato e la polizia di Scelba hanno ripreso il controllo della situazione. L’ordine pubblico è stato rafforzato, gli organi di polizia riorganizzati ed aumentati, gli assassini del “biennio di sangue” cominciano ad essere arrestati e processati. Ma ciononostante il clima politico-sociale continua a rimanere pesante, soprattutto nelle campagne, e si inasprisce con la vittoria della Dc nelle elezioni del 18 aprile. Essa infatti provoca “una rabbiosa volontà di recupero da parte dei socialcomunisti per riaffermare la loro supremazia in tutta l’area provinciale”, che porta breve all’instaurazione di un stato di “terrorismo ideologico” nei confronti dei partiti democratici, attraverso il ripetersi di “scioperi, di agitazioni, di interminabili cortei di lavoratori e di lavoratrici della terra da un paese all’altro, di tumulti e minacce senza fine”. 53 Il 18 ottobre alla Camera dei deputati viene discussa un’interpellanza presentata dagli onorevoli Bersani, Casoni, Manzini e Salizzoni al ministro degli Interni “per denunciare la grave situazione determinatasi in provincia di Bologna per la violenta azione persecutoria esercitata dai social-comunisti e delle Camere del lavoro, per impedire la libera costituzione di nuovi organismi sindacali democratici, azione che ha condotto a numerosi episodi di violenza fisica e morale, come nei comuni di Castel San Pietro, Ozzano e Santa Agata ed ha
determinato, in larga parte della provincia, una situazione che impedisce l’esercizio degli elementari diritti dei cittadini e crea un clima intollerabile di intimidazione e di minaccia”. 54
I sindacalisti bianchi sono particolarmente nel mirino, additati per nome al pubblico disprezzo. Fanin è tra essi. Solo due settimane prima della sua uccisione, la Camera del Lavoro-Lega braccianti di San Giovanni in Persiceto diffonde un volantino del seguente tenore: “Lavoratori dei campi e delle officine! La mano ossuta degli agrari appoggiata dagli organi di Governo, stretta a quella dei servi sciocchi tipo Fanin, Bertuzzi e Ottani (gli ultimi due sono i segretari delle sezioni dc rispettivamente di S. Giovanni e di Decima ndr), tenta di stendersi di nuovo rapace nelle nostre campagne per dividere i lavoratori e instaurare un regime di sfruttamento e di oppressione poliziesca di tipo fascista”. 55
Il delitto suscita scalpore ed emozione in tutto il paese:56 al funerale partecipano migliaia di persone provenienti da molte regioni. La matrice politica è più che evidente, così come l’ambiente politico nel quale è maturato. La Democrazia cristiana di Bologna prende una posizione durissima in cui, dopo aver sottolineato che Fanin è stato vittima “della violenta campagna di odio e di manifesta istigazione al delitto provocata e voluta dai dirigenti sindacali social-comunisti”, reclama che le autorità competenti infrangano “il giogo di terrore che i social-comunisti tentano di imporre fra le nostre case”, ed auspica che tutti gli onesti insorgano “a far da barriera perchè la sanguinosa catena di violenze e delitti sia senz’altro spezzata”. 57 La Federazione comunista bolognese respinge però ogni addebito affermando che la barbara uccisione “contrasta con i costumi civili che sempre, nella nostra provincia, hanno improntato le lotte dei lavoratori”. 58 I comunisti hanno anzi l’impudenza di arrivare ad insinuare che il delitto è stato ordito all’interno delle Acli di S. Giovanni: “Mercoledì scorso, alle Acli, vi fu una riunione tempestosa. Era presente il dottor Fanin? Non sappiamo. Sappiamo solo che ventiquattro ore dopo il dottor Fanin veniva assassinato”. 59 Ma la campagna di menzogne dietro la quale i comunisti tentano di celare la vera natura del delitto, si spinge oltre. Prendendo spunto da una frase attribuita, ma subito smentita, all’on. Giulio Pastore fondatore dei sindacati liberi – secondo cui vi erano persone pronte a recarsi a San Giovanni per vendicare l’omicidio di Fanin – la stampa comunista scrive a tutta pagina che “con l’appoggio dei dirigenti democristiani si organizzano squadre di terroristi” e afferma l’esistenza di “squadracce nella nostra provincia, bene armate e pronte a seminare violenza e morte tra i lavoratori”. 60
Passano pochi giorni e la verità viene a galla. In un primo tempo i carabinieri, indagando negli ambienti del Pci e della Camera del Lavoro di S. Giovanni, fermano 17 persone su cui gravano i maggiori sospetti; tra esse vi è il segretario del Pci del luogo Gino Bonfiglioli, operaio canapino. Gli indiziati vengono però messi in libertà per mancanza di prove. Pochi giorni dopo, in seguito a nuove ed accurate indagini, il Bonfiglioli viene nuovamente fermato e nel giro di poche giorni crolla di fronte agli interrogatori e confessa di essere l’organizzatore del delitto. Agli inquirenti fa i nomi dei tre esecutori: Gian Enrico Lanzarini, Indro Morisi e Renato Evangelisti, tre giovani braccianti. L’arresto degli assassini scatta la notte del 24 novembre. Nello stesso momento l’on. Giancarlo Pajetta sta tenendo un comizio nel Teatro comunale di San Giovanni in cui lancia invettive contro il prefetto che “si sente in dovere di smentire le parole d’un certo Pastore e di smentire l’esistenza dei dinamitardi e permette invece che degli innocenti vengano maltrattati senza colpa”. 61 “Gli assassini non bisogna certo cercarli in mezzo a voi; ben sappiamo dov’è che si educa all’odio”. Ma Pajetta non sa che Lanzarini ha già vuotato il sacco, come non lo sanno Lanzarini e Morisi che sono presenti e si spellano le mani nell’applaudire l’onorevole comunista. Nel giro di un paio d’ore sono anch’essi in galera, rei confessi. 62
Sulla via Biancolina, nel punto in cui Fanin cadde è stato eretto un cippo che porta scolpite queste parole: “La strada bagnata dal sangue porta sicura alla meta”.
Antonio ed Ettore Rizzi vengono prelevati di notte dalla loro abitazione di Redù di Nonantola ed uccisi in un campo a pochi chilometri di distanza. Ettore Rizzi durante la Resistenza ha militato nel servizio informazioni (Sim) delle Brigate partigiane cattoliche “Italia”, e successivamente viene nominato dalla Dc quale proprio rappresentante in seno alla Commissione provinciale per l’alimentazione (Sepral). Il fatto suscita grande emozione in tutta la provincia. Il Cln provinciale di Modena scrive immediatamente una lettera di cordoglio alla vedova di Ettore Rizzi: “Un delitto atroce ed orribile ha spento una generosa vita che tanto aveva dato con entusiasmo, disinteresse e decisione alla causa di liberazione e con quella generosa vita è pure stata stroncata quella del padre”. “L’Unità Democratica”, 7 luglio 1945. Nel 1947 si svolge un processo, a carico di certo Raul Dal Vacchio, che finisce con un’assoluzione per insufficienza di prove. Cfr. “Gazzetta di Modena”, 15 luglio 1947.
Chiaro è il movente dell’assassinio di Bruno Lazzari e di Giovanni Zoboli, consumato in pieno giorno a Ponte Fosco, sulla strada che da Nonantola porta a Bologna. Lazzari e Zoboli stanno infatti recandosi a Bologna in bicicletta per consegnare una denuncia sulle gravi irregolarità compiute da esponenti comunisti in seno all’ufficio materiali abbandonati dai tedeschi di Nonantola. La cartella che contiene la relazione, stesa dallo Zoboli, viene sottratta dagli assassini prima della fuga. Nel 1952 si arriva al processo contro i presunti responsabili, ma anch’esso si conclude con un’assoluzione generalizzata per insufficienza di prove. Nel corso del dibattimento si assiste ad una sequela di ritrattazioni, false deposizioni, alibi artefatti, testimoni reticenti ed impauriti. La pubblica accusa osserva che “a Nonantola si sa quali siano stati gli autori di questo duplice delitto ma si tace perché c’è una cortina di omertà”. Cfr. “Gazzetta di Modena”, settembre-ottobre 1952.
35 Sulla figura di Missere cfr. Germano CHIOSSI, Emilio Missere nel quarantesimo anniversario della scomparsa, a cura della sezione “E. Missere” della Democrazia cristiana di Modena, Modena, 1985.
36 L’ipotesi di un collegamento tra la soppressione dei cinque fascisti e l’assassinio di Missere è ventilata in “Gazzetta di Modena”, 2 luglio 1947.
37 “Gazzetta di Modena”, 14 febbraio 1952
38 Sui particolari della scomparsa di Missere citati nel testo cfr. i resoconti processuali in “Gazzetta di Modena”, febbraio-marzo 1952. “Alla vigilia del processo – scrive la Dc provinciale in una nota – che, rievocando il nome e la memoria di Emilio Misere, fa rivivere le ore di dolore e di martirio dei primi che si batterono per l’Idea e per il ritorno della legalità contro l’odio e la violenza, sostituiti all’arbitrio criminoso di singoli all’autorità della Legge, la Dc modenese sentendosi moralmente parte civile nel processo stesso, attende il sereno responso della Giustizia non per brama di vendetta, ma quale monito severo a chi tale Giustizia agognasse ancora lo scempio”. “Gazzetta di Modena”, 14 febbraio 1952.
39 Il sacrificio di Emilio Missere, a cui è stata intitolata una sezione cittadina, è stato ricordato in numerose circostanze dalla Democrazia cristiana modenese. Cfr. CHIOSSI, op. cit., pp 22-23.
40 Per tutta la vicenda de “La Penna” e “La Nuova Penna” cfr. Ercole CAMURANI, Eugenio COREZZOLA (a cura di), La Penna, Roma, s. d. (ma 1966). Il volume contiene la ristampa anastatica di tutte i numeri del periodico ed un’introduzione (pp. VII-XXVIII) di Corezzola.
41 Sulle “Fiamme Verdi” reggiane cfr. don Luca PALLAJ, Le Fiamme Verdi delle Brigata Italo, Reggio Emilia, 1970 (in cui è contenuta – pp. 223-227 – anche una rievocazione di Morelli) e Associazione Liberi Partigiani Italiani (a cura della) , Memoriale di “Carlo”, Reggio Emilia, 1983.
42 Su “La Nuova Penna” del 24 maggio 1946 interviene Pasquale Marconi, nel periodo clandestino Vice Commissario generale del Comando Unico delle forze partigiane reggiane in rappresentanza della Democrazia cristiana. Marconi, che sarà a lungo deputato, durante la Resistenza aveva duramente polemizzato con “Eros” circa il funzionamento del Tribunale partigiano e sulle esecuzioni sommarie dei prigionieri praticate dai comunisti. Chiamato indirettamente in causa dalla redazione de “La Nuova Penna” sulla responsabilità delle uccisioni avvenute durante il periodo clandestino, l’esponente democristiano descrive i suoi interventi per mitigare i metodi violenti dei comunisti e le minacce ricevute da “Eros” che “in un eccesso d’ira insorse, minacciandomi di fare la stessa fine dei fascisti, che secondo lui difendevo”. Al tempo stesso però rivolge ai giovani del giornale un invito alla moderazione nelle loro inchieste sui delitti: “E’ fuor di dubbio che la bellezza della causa partigiana, se è stata illustrata da tanti eroismi e da tanti sacrifici, è stata anche macchiata da delitti e da speculazioni, che per il buon nome di tutti non devono essere nascosti bensì deplorati. Ma, se è giusto che, dove è necessario, si faccia luce e giustizia, non è bene rimescolare continuamente tutto quello che vi può essere stato di marcio: rischieremmo di essere ingiusti verso quello che vi è stato di bello e rischieremmo soprattutto di perdere di vista l’avvenire, che deve sorgere dalle rovine materiali e morali del passato, fascista e non fascista”.
43 CAMURANI, COREZZOLA, op. cit., p. IX.
44 L’inchiesta “Chi ha ucciso “Azor”? viene pubblicata a puntate su “La Nuova Penna” il 10 novembre 1945, il 14 dicembre 1945 ed il 31 gennaio 1946.
45 “La Nuova Penna”, 21 febbraio 1946. Come testimonia Morelli, don Jemmi simpatizzava e collaborava con il movimento partigiano. La causa della sua morte fu dovuta alla disapprovazione fatta pubblicamente in Chiesa per l’uccisione immotivata di due innocui fascisti.
46 “La Nuova Penna”, 24 maggio 1946. Don “Carlo” chiese ripetutamente ad “Eros” che venissero individuati e puniti gli assassini del sacerdote senza peraltro ottenere alcun risultato. “Il Solitario” respinge decisamente le voci che tratteggiano don Ilariucci come una spia e lo definisce “una figura di eroe della nostre resistenza, caduto per vili mani comuniste”.
47 “La Nuova Penna”, 20 aprile 1946.
48 “La Nuova Penna”, 28 giugno 1946. Per il delitto don Pessina “Il Solitario” denuncia apertamente l’esistenza di un’unica organizzazione politica responsabile di questi crimini. E’ stato necessario quasi mezzo secolo per appurare come Morelli avesse visto giusto quando scriveva: “Chi ha dato l’ordine di ucciderlo? Lo si sarebbe potuto sapere all’indomani stesso, ma troppi hanno paura. Sì, paura. Perché con le prove che l’autorità ha in mano si può scoprire tutto. Tutto. Non soli delitto di S. Martino di Correggio, ma anche gli altri; i precedenti. Perché l’ordine di soppressione parte sempre dallo stesso punto. Perché l’organizzazione è sempre la stessa. Perché oltre agli autori materiali dell’omicidio ci sono gli indicatori, i pali, i ricettatori, i mandanti. Ed è un’organizzazione politica”.
49 “La Nuova Penna”, 18 maggio 1947.
50 PALLAJ, op. cit., pp. 226-227.
51 Sulla figura di Giuseppe Fanin cfr. Alessandro ALBERTAZZI (a cura di), Per Giuseppe Fanin 1924-1948. Documenti, Bologna, 1987 e s. a, Giuseppe Fanin, Bologna, 1949.
52 Sulla situazione economico-sociale nelle campagne negli anni del dopoguerra cfr. AA. VV., La ricostruzione in Emilia-Romagna, Parma, 1980, e le note di ALBERTAZZI in Per Giuseppe Fanin, cit., pp. 123-153.
53 Giovanni ELKAN, Giuseppe Fanin nel clima del ’48 bolognese, cit. in Per Giuseppe Fanin, cit., pp. 53-54.
54 Per il dibattito relativo all’interpellanza, cfr. Per Giuseppe Fanin, cit., pp. 51 e ss.
55 “Giornale dell’Emilia”, 6 novembre 1948.
56 L’omicidio di Fanin dà luogo ad un intenso dibattito parlamentare che si svolge alla Camera tra il novembre ed il dicembre 1948. Cfr. Per Giuseppe Fanin, cit. pp. 65-123.
57 “Giornale dell’Emilia”, 6 novembre 1948
58 “Il Progresso d’Italia”, 6 novembre 1948.
59 “Giornale dell’Emilia”, 26 novembre 1948.
60 Cfr. “La Lotta”, 15 novembre 1948 e “Giornale dell’Emilia”, 16 novembre 1948. La Democrazia cristiana bolognese replica a queste accuse con un comunicato in cui dichiara che la “speculazione comunista è destinata ad esaurirsi nel compatimento della cittadinanza” in quanto “è chiaro come si tenta di rovesciare le posizioni e di capovolgere la verità: allontanare da sè la condanna morale che la coscienza pubblica ha già pronunciato per la propaganda che il partito comunista ha fatto e fa quotidianamente”.
61 “Il Progresso d’Italia”, 25 novembre 1948.
62 Bonfiglioli verrà condannato a venti anni di reclusione come Lanzarini. Quindici anni saranno irrogati a Morisi ed Evangelisti. La pena sarà scontata solo parzialmente grazie ad un indulto facilitato dal perdono della famiglia Fanin.
Bologna 1991
III capitolo – Sacerdoti
Nell’arco di poco più di un anno, dalla Liberazione al 18 giugno 1946, cadono in Emila-Romagna, uccisi dall’estremismo rosso, sedici sacerdoti.
Un sacrificio che si va aggiungere a quello altissimo già sopportato dal clero nel corso del conflitto, in cui perirono altri trentacinque religiosi in gran parte per mano nazifascista. 3
Nel caso dei sacerdoti, le uccisioni si concentrano esclusivamente nelle province a più forte radicamento comunista: Bologna, Modena, Reggio Emilia e Ravenna.
Ad essere colpiti sono semplici parroci di campagna che abitano per lo più in canoniche isolate. Nella quasi totalità è difficile individuare una movente plausibile alla loro soppressione se non il feroce odio religioso che fa del sacerdote un naturale, anzi un privilegiato, bersaglio politico da colpire. Nella figura del sacerdote come rappresentante della Chiesa gli estremisti vedono il compendio simbolico dell’ordine politico e sociale d abbattere. Non importa che il clero abbia nella stragrande maggioranza simpatizzato per la Resistenza, offrendo appoggi e rifugio sicuro alle formazioni partigiane. Non importa che molti sacerdoti abbiano direttamente militato tra le file dalle Resistenza e che decine di loro siano stati uccisi nelle rappresaglie. Non importa neppure che anche molte delle vittime abbiano dato un contributo in viveri e denaro alla causa della Resistenza o svolto assistenza ai perseguitati dai tedeschi e dai fascisti in campo di concentramento. Il prete è un nemico, e come tale viene visto con sospetto e con diffidenza, quando non con vero e proprio odio. Basta il ricordo di qualche lontana simpatia fascista od una semplice voce, magari propalata ad arte, di aver intrattenuto rapporti con i tedeschi, od una predica in Chiesa di tono anticomunista, e scatta la condanna a morte. Nella determinazione a colpire i sacerdoti rivive poi l’antico e fortissimo sentimento anticlericale diffuso nelle campagne emiliane e già sperimentato nella violenza iconoclasta della “settimana rossa” del primo anteguerra; ed inoltre, almeno in alcuni casi, nella spinta ad uccidere si intrecciano motivi più o meno sordidi d’interesse personale di qualche bracciante od affittuario dei benefici parrocchiali, essendo la figura del prete non di rado collegata a quella del padrone “sfruttatore”.
È bene comunque ripercorrere in successione temporale le singole tappe della via crucis affrontata dal clero emilianoromagnolo nel dopoguerra.
Don Domenico Gianni, parroco a San Vitale in Reno (Bologna), è la prima vittima. Lo fucila un gruppo di partigiani nei pressi del cimitero di Calderara, dopo averlo prelevato in Canonica, il 24 aprile 1945, a due giorni appena dalla Liberazione. È accusato di aver indicato, sul finire del 1944, ai tedeschi impegnati in un’operazione di rastrellamento, l’identità delle persone da catturare. In realtà si trattò di un tragico equivoco, poichè don Gianni era stato costretto da un ufficiale delle SS a salire sulla vettura e a girare per le strade del paese nel corso del rastrellamento. Alcuni dei parrocchiani che lo videro ritennero che fosse una spia e per tale ragione fu costretto a lasciare il paese, anche dietro consiglio del cardinale di Bologna Nasalli Rocca. Pensando di non aver fatto nulla di male e di potere agevolmente chiarire il suo comportamento in quella circostanza, commise l’errore di ripresentarsi in paese il giorno stesso della Liberazione. 64
Anche a don Carlo Terenzani, parroco a Ventosa (Reggio Emilia), un’ imprudenza costò la vita. Era stato semplice cappellano della Milizia fascista, ma dopo aver subito due tentativi di rapimento pensò bene di ritirarsi nel rifugio sicuro dell’Arcivescovado di Reggio. Il giorno 29 aprile il Vescovo celebrò solennemente la Festa della Madonna della Ghiara e don Terenzani volle parteciparvi. Uscì mischiandosi alla numerosa folla. Ciononostante venne riconosciuto e caricato a forza su di un camion nel pieno centro di Reggio. È portato a Ventosa dove viene fatto girare per le strade tra scherni e dileggi. Poi alla sera la fucilazione nei pressi della chiesa di San Ruffino. 65
Raccapricciante è invece la sorte toccata al canonico della Collegiata di San Giovanni in Persiceto don Enrico Donati. Verso le 22 del 13 maggio si presentano in Canonica due individui per invitarlo in paese con la scusa di apporre una firma ad un documento. Don Donati è costretto a seguirli in bicicletta. Lungo la strada si aggiungono al gruppo altri quattro sconosciuti. Il sacerdote capisce il tranello e scende dalla bicicletta rifiutandosi di proseguire. Viene trucidato all’istante a raffiche di mitra. Gli assassini tentano poi di occultare il cadavere in un macero poco distante: infilano il corpo esanime di don Donati in un sacco e lo legano a due grandi sassi e lo buttano in acqua. Poi tornano in canonica a fare razzia dei beni del prete. 66
Don Tiso Galletti, parroco di Spazzate Sassatelli (Imola), viene invece freddato davanti alla porta della sua canonica, il 18 maggio 1945. Dalla motocicletta Guzzi che si ferma davanti alla porta della sua canonica scende un individuo e gli si avvicina, mentre un altro aspetta con il motore acceso. Avuta conferma dell’identità del prete gli spara a bruciapelo alcuni colpi di rivoltella. Poi la moto risale per compiere nella stessa sera altre missioni di morte nella zona. Il movente di questa uccisione, come di altre, viene fatto risalire ad alcune prediche “anticomuniste” fate dal sacerdote in Chiesa. 67
Pochi giorni dopo, il 21 maggio festa del Corpus Domini, a Campanile in Selva in comune di Lugo viene soppresso il parroco don Giuseppe Galassi. Chiamato da due persone ad accorrere sul luogo di un incidente automobilistico per prestare assistenza a dei feriti, don Galassi esce dalla Canonica e si inoltra con gli sconosciuti per i campi. Il giorno dopo i famigliari lo rinvengono cadavere lungo un fosso. Nella zona grava una un clima di terrore, al punto che nessuno si presenta a rimuovere il cadavere. Don Gianstefani, parroco in una località vicina, è costretto ad andare di persona con un carretto per raccogliere i resti dell’ucciso. “Durante l’occupazione si era recato qualche volta al comando tedesco per pattuire e placare l’esosità delle richieste. Sufficiente, in questa zona, per decretare la morte ad un prete”. 68
Nella notte del 23 maggio 1945 due individui si presentano presso la Canonica di don Giuseppe Preci, parroco di Montalto di Zocca (Modena). Quando la domestica Teresa Tamburini va ad aprire, essi invitano il sacerdote a seguirli. La donna, che ha riconosciuto i due nelle persone di Giuseppe Galluzzi ed Ivo Zanni, si unisce al sacerdote. A poche centinaia di metri dalla canonica, Zanni estrae una pistola e fa fuoco sul prete. Poi gli assassini tornano in canonica e fanno razzia dei beni di don Preci. Alla Tamburini viene dato del denaro per comprarne il silenzio. E così per alcuni anni l’uccisione del parroco di Montalto resta un mistero. Poi, nel 1949, le indagini subiscono una svolta: la Tamburini confessa ed i responsabili vengono assicurati alla giustizia. Il movente accertato è quello dell’”odio antireligioso” e della rapina: gli assassini cercavano infatti “una forte somma di denaro incassata dal parroco per la vendita di alcuni capi di bestiame”. 69
Di lì a poco nel modenese cade vittima un altro sacerdote, questa volta ad opera della banda del “triangolo della morte” di Castelfranco. Si tratta di don Giuseppe Tarozzi, parroco di Riolo di Castelfranco. Nella notte tra il 25 ed il 26 maggio, due vetture si fermano davanti alla porta della canonica di don Tarozzi. Alcuni sconosciuti, che si qualificano per “polizia partigiana”, chiedono di entrare e di parlare con il parroco. Don Tarozzi comprende il pericolo e si barrica in casa insieme alla domestica e alla figlia di lei. Dall’esterno, visto che il prete non si decide ad aprire, con un’ascia abbattono la porta ed entrano in casa, mettono le mani su quanto capita loro a tiro, fanno salire don Tarozzi su di un camioncino e si dileguano nella notte. Il cadavere di don Tarozzi non sarà più ritrovato. I responsabili dell’omicidio del sacerdote e di altri numerosi delitti avvenuti nella zona di Castelfranco tra il 1945 ed il 1946 sono giudicati in un processo-fiume che si svolge nel 1951 alla Corte di Assise di Bologna. 70
Ancora nel modenese, nella parrocchia appenninica di Mocogno, si consuma un altro delitto. Nella notte tra il 9 e 10 giugno, Garibaldino Biagioli (“Tarzan”) e Giacomo Rossi (“Bega”) due ex partigiani dal passato poco raccomandabile, che si sono già resi responsabili di furti e di rapine, bussano alla canonica di Mocogno. Quando il parroco don Giovanni Guicciardi si reca ad aprire, gli intimano di consegnare cento mila lire. Il parroco protesta di non essere ricco, di non avere tanto denaro. I due allora salgono in canonica e rubano i soldi che trovano, oggetti ed indumenti. Poi ridiscendono e chiedono al prete di consegnare loro un grammofono. Il sacerdote si arrende e si avvia per andare a prendere l’apparecchio. Ma mentre don Guicciardi volta le spalle, improvvisamente “Tarzan” gli spara a bruciapelo un colpo alla testa. Qualche giorno dopo, nei pressi di Lama Mocogno, “Tarzan” resta ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri. Gli trovano addosso la maglia di lana di don Guicciardi. 71
L’omicidio di don Raffaele Bortolini, parroco a Dosso (Bologna), è consumato verso le 22, 30 del 20 giugno 1945, per le strade del paese. Il parroco si è appena recato a chiedere un mezzo di trasporto con cui recarsi il giorno successivo a Bologna, e sta rincasando in Canonica. Due individui nel frattempo sono entrati in paese ed ordinano il coprifuoco. Poi fermano don Bortolini, il quale tenta di divincolarsi e di fuggire. Fa in tempo a percorrere pochi passi ed una raffica di mitra lo raggiunge mortalmente. 72
Nell’afoso pomeriggio del 2 luglio 1945, don Giuseppe Rasori, parroco di San Martino in Casola (Bologna) è seduto tranquillamente nel suo studio. Sente una scampanellata e si reca ad aprire: sono due giovani che dicono di volere della legna, poi uno chiede di una rivoltella che dovrebbe, a suo dire, essere in possesso del parroco. Compreso il pericolo, don Rasori tenta di chiudere la porta, ma prima di riuscirvi è raggiunto mortalmente da un colpo di rivoltella al petto. Il cardinale Nasalli Rocca nella omelia funebre, di fronte alla bara di don Rasori, dice: “Ci chiudiamo sgomenti nel triste pensiero che i castighi di Dio non debbano cadere terribili su tutti, se la sete di sangue di menti sconvolte e traviate dovesse continuare a seminare vittime e se non ci levassimo concordi a farla cessare”. 73
Crocette di Pavullo è una località isolata dell’appennino modenese in cui è anziano parroco don Giuseppe Lenzini, dal “carattere battagliero”. Nelle sue prediche condanna apertamente i “metodi estremisti di far fuori la gente”. Sono parole di troppo che gli costano la vita. Nel cuore della notte del 21 luglio 1945 il parroco viene svegliato dallo squillo del campanello della canonica. La domestica si affaccia ed il gruppo di persone che sta sotto chiede l’assistenza del parroco per un ammalato. Don Lenzini risponde che, avendo visitato l’ammalato la sera innanzi, sarebbe tornato soltanto la mattina dopo. A questo punto gli sconosciuti si avvicinano alla canonica con una scala iniziando nel contempo una sparatoria. Quindi i malviventi penetrano nella casa ed inseguono don Lenzini, che frattanto ha cercato rifugio nel campanile, lo raggiungono e lo trascinano fuori. Ad un chilometro dalla canonica, anche in seguito alle torture subite, don Lenzini sviene: ripresosi viene obbligato a continuare. Poi uno dei malviventi gli sferra un colpo con il calcio della rivoltella fracassandogli la fronte. Don Lenzini è finito con una scarica di mitra. Il cadavere è gettato in una piccola fossa e coperto malamente di terriccio. 74
Più volte la canonica di don Achille Filippi, parroco di Maiola (Bologna) era stata razziata, tanto da indurre il sacerdote a scrivere al cardinale una lettera in cui tra l’altro diceva: “Sono state ben cinque le visite che ho avuto e sono state inesorabili; lascio immaginare come mi sono potuto trovare. L’ultima volta, andato in chiesa per trovarvi conforto, alle sparatorie che udivo svenni e mi ritrovai a letto portato da loro e… lasciamola lì per non rinnovare “l’infandum dolorem”. Coraggio ancora e speranza nel buon Dio”. Prima della lettera giunge però la notizia della morte del prete. Evidentemente non soddisfatti di aver razziato tutti i suoi averi, i malviventi decidono di farla finita con don Filippi. La notte del 25 luglio 1945 irrompono in canonica, trascinano fuori il sacerdote e lo uccidono con due colpi di pistola. 75
Il parroco di Castelfiumanese (Bologna), don Teobaldo Daporto, viene invece ucciso con il forcale da un suo contadino nel pomeriggio del 14 settembre 1945. Mentre sull’aia sono a discutere circa la ripartizione di una castellata di mosto, ad un certo punto il contadino inferocito gli si scaglia addosso e gli spacca la testa con il manico dell’attrezzo. Constatata la morte di don Daporto, lo trascina per la tonaca fino ad un letamaio ove nasconde sommariamente il cadavere. Quindi si reca alla Camera del Lavoro per vantarsi di aver eliminato il proprio “pretepadrone”. Viene subito fatto arrestare dai carabinieri e tradotto in carcere. E qui, approfittando di un momento di scarsa sorveglianza, l’assassino del prete, sconvolto da quanto ha appena compiuto, si lancia dentro ad un pozzo suicidandosi. 76
Nel pomeriggio del 5 dicembre don Alfonso Reggiani, parroco di Amola di Piano (Bologna), sta tornando a casa in bicicletta dopo aver visitato gli ammalati dell’ospedale di San Giovanni in Persiceto. Giunto a poche decine di metri dalla sua chiesa, due individui gli tagliano la strada. Un breve dialogo repentinamente e tragicamente concluso da una raffica di mitra. Sono le due nipoti, avvertite dagli spari, a trasportare il cadavere in canonica. Al funerale di don Reggiani intervengono pochissime persone: cinque bimbi della scuola e qualche donna. Su don Reggiani grava il falso sospetto che già era costato la vita a don Gianni, e cioè di aver fatto la spia per i tedeschi in rastrellamento nel dicembre del 1944 quando trecento uomini del paese erano stati ammassati in chiesa ed il parroco piantonato in canonica. Qualcuno pensa che sia stato lui ad indicare i nomi dei trenta partigiani che, dopo essere stati sommariamente processati, erano stati passati per le armi ai calanchi di Paderno. In realtà erano stati due disertori tedeschi ad indicare le persone da eliminare. 77
Anche il 1946 vede proseguire il martirio dei sacerdoti. Il 14 gennaio é la volta di don Francesco Venturelli, parroco di Fossoli di Carpi (Modena), ad essere barbaramente soppresso. Don Francesco é stato assistente spirituale degli internati nel campo di concentramento di Fossoli durante la guerra. Ha portato conforto spirituale e materiale ad ebrei, antifascisti, prigionieri alleati. Dopo la guerra continua a prestare la sua assistenza religiosa ai fascisti che vengono rinchiusi a Fossoli. “La Voce del Partigiano”, organo dell’ANPI di Modena, lo accusa di simpatizzare per i fascisti. A pochi giorni dalla pubblicazione di quell’articolo don Venturelli viene trovato morto sul ciglio di una strada non lontano dalla sua abitazione. Aveva seguito nella notte uno sconosciuto che lo invitava a prestare soccorso ad un moribondo ferito in un incidente stradale. Un espediente già usato in altre occasioni ma che ha quasi sempre effetto su un sacerdote. Il fatto suscita violente polemiche. La Dc di Modena addita “La Voce del Partigiano” come mandante di quel crimine: “È l’articolo di quel foglio che ha armato la mano dell’assassino”. 78
a) Il caso Don Pessina
A quasi mezzo secolo di distanza, l’omicidio di don Umberto Pessina, parroco di San Martino Piccolo di Correggio, continua a riservare sorprese e colpi di scena, quasi fosse un dramma diviso in atti in ciascuno dei quali il cerchio delle responsabilità si confonde e si allarga senza però arrivare ad una verità inoppugnabile e definitiva. I clamorosi sviluppi del caso, che si sono registrati recentemente sull’onda delle polemiche sul “chi sa parli”, offrono comunque uno spaccato fedele del clima di violenza che avvolgeva le campagne emiliane di quel tempo e degli stretti legami che esistevano tra i vertici del Pci di allora e gli autori dei delitti.
Il primo atto del dramma si apre con l’uccisione del sacerdote la notte del 18 giugno 1946. Verso le 22 Don Umberto Pessina esce dalla canonica per recarsi in una casa vicina dove deve provare delle tonache per chierichetti. Non fa in tempo che a percorrere pochi passi: un colpo di pistola sparato da distanza ravvicinata lo raggiunge mortalmente. 79
È l’ennesimo omicidio di un sacerdote nella diocesi di Reggio, ed anche in questo caso è evidente il movente politico. Il vescovo di Reggio Emilia Beniamino Socche, che da appena quaranta giorni è entrato in diocesi proveniente da Cesena, reagisce con forza, ed esponendosi in prima persona, a differenza degli altri presuli emiliano-romagnoli che di fronte agli assassini dei propri sacerdoti preferiscono evitare prese di posizione troppo nette, forse per non inasprire ulteriormente gli animi. 80 Quattro giorni dopo l’assassinio di don Pessina, ultimo degli otto sacerdoti reggiani uccisi dai comunisti prima e dopo la Liberazione, in occasione della festa del Corpus Domini, nella cattedrale di Reggio dice solennemente: “Abbiamo fulminata la scomunica agli assassini (di don Pessina ndr), riservandone a noi personalmente l’assoluzione eventuale; e gli assassini sono tanto i mandanti quanto gli esecutori materiali. Abbiamo inflitto l’interdetto alla parrocchia di S. Martino di Correggio ed abbiamo proibite tutte le processioni nei tre vicariati di Correggio, San Martino in Rio e di Canolo. Domandiamo pronta e piena giustizia di questo delitto orrendo e sacrilego. Abbiamo fiducia nelle autorità della provincia. Ma si sappia da tutti che non ci fermeremo ma andremo fino in fondo per fare luce su questi delitti che tengono in un incubo di terrore le nostre popolazioni. Aspettiamo quanti giorni ci vorranno perchè sia scoperto il bandolo di questo esecrando delitto, poi, se eventualmente non ci si riuscisse, faremo palese all’Episcopato cattolico del mondo le condizioni di terrore in cui si trovano i nostri paesi. Se poi si pensasse di uccidere anche il Vescovo, sappiate che il Vescovo sarà ucciso perchè voleva, a qualunque costo, andare fino in fondo a questo orribile delitto, affinché cessino per sempre le condizioni terroristiche di questa nostra povera vita per causa di pochi facinorosi”. 81
È una denuncia aperta ed insieme una dichiarazione di volontà di andare fino in fondo sull’omicidio di don Pessina. Ed il Vescovo Socche manterrà, per tutta la vicenda, un atteggiamento fermo e deciso. 82
Dopo alcuni mesi di indagini inconcludenti, proprio per sollecitazione del vescovo, nel dicembre 1946 viene inviato a Reggio Emilia il capitano dei carabinieri Pasquale Vesce con l’espresso incarico di fare luce sul delitto. 83 “Per prima cosa – si sente dire Vesce dal proprio comandante – vai dal Vescovo e fatti dire tutto quello che sa”. E nell’incontro tra Vesce e Socche che si svolge di lì a poco viene fatto per la prima volta il nome del mandante del delitto. Socche riferisce il nome di una donna che “qualche giorno prima del delitto, trovandosi nell’anticamera del Sindaco di Correggio Nicolini, aveva avuto distintamente la voce alterata di costui dire a qualcuno presente nell’ufficio ‘quel prete va fatto fuori’”. Un indizio labile, e comunque nullo sotto il profilo processuale, anche perchè la donna si era confidata con il presule premettendo che, nel timore di rappresaglie, non avrebbe confermato le sue parole nel corso di un interrogatorio. Da questo colloquio è stata fatta principalmente derivare la tesi del complotto ai danni di Nicolini, ma vale ed a maggior ragione anche il contrario: se Socche e Vesce avessero organizzato davvero una combine, non avrebbero certo rivelato, come hanno fatto ed in modo così esplicito, il contenuto del loro incontro.
I primi tempi delle indagini di Vesce sono comunque estremamente difficili in mancanza di testimoni disponibili a collaborare con la giustizia oltre che per il clima di timore ed omertà diffuso in quella zona, non meno che nelle altre campagne emiliane.
Per mesi Vesce cerca indagando su altri delitti commessi in quei luoghi e nello stesso periodo, un “rampino” che gli consenta di risalire ai responsabili dell’uccisione del sacerdote. Ed infine lo trova seguendo le tracce del delitto del capitano di artiglieria Ferdinando Mirotti, ucciso a Campagnola il 20 agosto 1946. Uno dei presunti responsabili dell’omicidio di Mirotti, certo Antenore Valla, fa capire al capitano dei carabinieri di sapere qualcosa anche sul delitto di don Pessina ed infine rivela di aver ricevuto in casa di Antonio Prodi la confidenza che lui, insieme ad Elio Ferretti, avevano eliminato il parroco di San Martino Piccolo dietro ordine di Germano Nicolini, sindaco di Correggio, soprannominato “Il Diavolo”. Nicolini ha fatto la Resistenza come ufficiale dell’esercito meritandosi una medaglia d’argento al valore. È giovane e gode di ascendente presso i suoi anche se in realtà è un comunista abbastanza anomalo. Appartiene infatti ad una famiglia benestante, ha studiato, è cattolico praticante. Si iscrive al Pci solo dopo la Liberazione e l’anno successivo sarà eletto sindaco. Quando Antonio Prodi confermerà la testimonianza resa da Valla – anche se in seguito darà versioni abbastanza contrastanti con la prima -, Nicolini respingerà ogni accusa sdegnosamente e da allora fino ad oggi continuerà a protestare la propria innocenza gridando alla congiura ordita ai suoi danni da monsignor Socche e dal capitano Vesce, a cui ha aggiunto più di recente anche il suo ex partito.
Il possibile movente diretto è in effetti abbastanza oscuro: tra i tanti che vengono presi in considerazione, due paiono trovare maggiore credito. Il primo riguarda una partita di cavalli abbandonati dai tedeschi in ritirata prima di attraversare il Po. Quei cavalli vengono presi in consegna da Nicolini che provvede a venderli – avendone però a suo dire ricevuta l’autorizzazione – a 19 persone tutte di San Martino Piccolo due giorni prima dell’uccisione del parroco. L’altra vicenda è relativa all’assunzione di una sessantina di mondariso di Correggio promossa da don Pessina insieme ad un altro sacerdote don Ezio Neviani, in sfida alla Camera del Lavoro che pretendeva di avere il monopolio del collocamento. 84 Di fatto la grave pena che verrà inflitta a Nicolini terrà conto, oltre che del suo ruolo di mandante, anche dei moventi comuni che lo avrebbero spinto ad uccidere don Pessina.
Prima del processo, agli inizi del 1948, avviene il primo colpo di scena: due ex partigiani comunisti Ero Righi e Cesarino Catellani, prima di espatriare in Jugoslavia, si autoaccusano del delitto depositando presso un notaio di Milano il testo della confessione. Indicano anche il luogo ove hanno sepolto la pistola con cui era stato ucciso don Pessina. L’arma, dello stesso calibro di quella del delitto, in effetti viene rinvenuta ma una perizia accerta che era stata sepolta da poco tempo e non certo dal 1946. In conseguenza di ciò, Righi e Catellani verranno in seguito condannati a due anni e mezzo di reclusione per autocalunnia.
Ed ecco il secondo atto del dramma – che si svolge presso la Corte d’Assise di Perugia nel febbraio del 1949 – aprirsi con un altro coup de theatre. Antenore Valla, testimone chiave del processo, ritrattando le proprie precedenti dichiarazioni, afferma che al tempo del delitto si trovava nella prigione di Grenoble in Francia per scontare una lieve condanna per espatrio clandestino. Anche questo alibi viene smontato dal capitano Vesce che riesce a dimostrare la manipolazione dei documenti che comprovano la presenza di Valla in carcere in quel periodo.
La difesa degli imputati si manifesta quindi abbastanza maldestra: le prove e gli alibi più o meno contraffatti, invece di contribuire a respingere le accuse aiutano a confermarle. Così come appare singolare il comportamento di Nicolini che si mantiene nella negativa più assoluta: non dice nulla, dichiara di essere all’oscuro di tutto. Eppure Nicolini, ammesso che sia davvero completamente estraneo al fatto, non può non sapere che il Pci sta coprendo qualcuno e non dice la verità. Ma ugualmente tace, accetta che la verità di partito prevalga. Il suo partito per la verità mostra di fare di tutto per aiutarlo: oltre che al processo lo difende strenuamente sulla stampa, spinge all’autoaccusa Righi e Catellani, quando, tra un processo e l’altro, viene liberato lo accoglie trionfalmente come un eroe nella sua Correggio, tanto da far scrivere a mons. Socche una lettera veemente dal titolo “Apologia dell’assassinio”. 85 Ma è una difesa di facciata, quella del Pci, intesa più che a salvare Nicolini a tenere celati i veri responsabili e soprattutto la trama politica che sta dietro al delitto. E non può essere altro che la fede nel partito a sorreggere il giovane ex sindaco di Correggio e ad accettare il suo sacrificio. Anche perchè occorre dire, come ha ricordato Enzo Biagi che seguì il processo come giornalista, che il processo non si svolse nello stile stalinista della Lubianka, ma fu un procedimento regolare da cui scaturì una condanna basata sugli elementi di fatto e sulle testimonianze che in quel momento erano disponibili. Anche se ora Nicolini – senza portare un solo elemento a suffragio – parla di manipolazione degli atti processuali, sottrazione di prove, ecc… 86
Il processo si chiude con la condanna di Germano Nicolini, Elio Ferretti ed Antonio Prodi, rispettivamente a 22, 21 e 20 anni di carcere. Tale sentenza sarà confermata senza modifiche in quattro ulteriori gradi di giudizio. Nicolini sconterà dieci anni effettivi di carcere, gli altri condannati sette.
Una volta uscito dal carcere, Nicolini, a cui la condanna toglie anche i diritti civili, riprende la battaglia nel Pci per vedere riconosciuta la propria innocenza e per avviare la revisione del processo. Ma il Pci non ne vuole sapere di riaprire un caso che, se ripreso, riserverebbe verità assai imbarazzanti. Fino a quando, nel 1972, di fronte ad un ulteriore diniego del suo partito a seguirlo sulla strada della riapertura del processo e di fronte alla sua esclusione dal Comitato federale, decide di stracciare la tessera del Pci. Finalmente, accorgendosi di essersi prestato a fungere semplicemente da capro espiatorio per le colpe di qualcun altro, ripudia definitivamente la “morale comunista” che lo ha sorretto fino allora e che richiede “la subordinazione dei propri interessi e delle proprie volontà, il sacrificio costante di sè e delle proprie famiglie in attesa di una ricompensa che sarebbe venuta un giorno quando la ‘profezia’ si sarebbe avverata”. 87
Occorre arrivare al 1991 per aprire il terzo atto del dramma e fare in modo che la verità, se di verità si tratta, cominci a fare capolino. Ai primi giorni di settembre William Gaiti, ex partigiano della 77esima Sap, confessa al procuratore della Repubblica di Reggio Elio Bevilacqua, che ha riaperto le indagini sul caso, di essere l’esecutore materiale del delitto: “Eravamo in tre – dichiara a quasi mezzo secolo di distanza dai fatti e spinto, pare, dal figlio – tutti armati, io ero il più giovane, il capo mi aveva detto solo che dovevamo fare un lavoretto. Don Pessina mi aggredì schiacciandomi contro il muro. Mi voltai di scatto, feci fuoco d’istinto”. 88 Una versione che deve essere attentamente valutata poichè nella sommaria deposizione di Gaiti vi sono punti ancora oscuri. Certo è che se la dinamica dei fatti fosse davvero quella cadrebbe l’impalcatura dell’accusa e si potrebbe arrivare ad un nuovo processo per rendere giustizia alle persone ingiustamente condannate. Anche in questo caso resterebbe però intatta la sostanza e la natura politica del delitto: autori dell’omicidio – a dire di Gaiti con lui quella notte c’erano anche Righi e Ferretti i due che non vennero creduti al processo di Perugia – sarebbero comunisti. La trama politica che fece da sfondo al “lavoretto” non cambierebbe di un millimetro.
Eppure tanto è bastato al Pds per buttarsi lancia in resta contro il “processo alle streghe” e la “macchinazione” di monsignor Socche e di Vesce contro Nicolini, colpevole soltanto di essere “un giovane e determinato sindaco comunista”. 89 Da parte sua Pasquale Vesce, oggi generale in pensione, interpellato, ha ribadito la correttezza delle indagini e la sua convinzione della colpevolezza di Nicolini90; mentre la Curia di Reggio ha difeso con vigore la memoria del vescovo Socche definendo “intollerabili calunnie” le insinuazioni su una sua presunta orchestrazione di tutta la vicenda: “Appare incredibile e paradossale che si tenti di trasformare in persecutrice proprio quella Chiesa che ha subito l’uccisione dei suoi preti, attribuendole addirittura la ‘filosofia dell’inquisizione’. La vera macchinazione è l’odierno tentativo di imputare al vescovo monsignor Beniamino Socche la deliberata condanna di un innocente sindaco comunista”. 91
D’altra parte, se fosse vera la teoria della congiura ai danni di Nicolini, il vescovo Socche si sarebbe in realtà prestato ad una manovra di depistaggio del Pci per allontanare il pericolo di vedere scoperta la propria responsabilità nell’organizzazione delle squadre di azione che preparavano la rivoluzione e che intanto toglievano di mezzo gli avversari scomodi. Come don Pessina, appunto. “Se fosse emersa subito la verità – ha detto Nicolini – avrebbero finito per essere coinvolti anche alcuni dirigenti provinciali del Pci”, quelli che utilizzavano come “strumenti” Gaiti ed altri “per tenere in piedi una vera e propria organizzazione paramilitare che non operava certamente solo a San Martino Piccolo”. 92 A poco a poco è anche emerso anche il nome di questa struttura paramilitare direttamente od indirettamente responsabile di questo come di tanti altri delitti di matrice politica nel reggiano: si tratta della Cars (Commissione di assistenza ai reduci e ai soldati). Una vera e propria “Gladio rossa” nel cui culto sono cresciuti tanti extraparlamentari reggiani poi approdati al brigatismo rosso da Alberto Franceschini a Prospero Gallinari. 93
E che il partito fosse direttamente coinvolto in quelle torbide vicende di violenza politica e dello stesso assassinio di don Pessina, stanno a testimoniarlo le dichiarazioni dell’ottantottenne fondatore del Pci reggiano, Aldo Magnani, che ha ammesso di aver mandato in diverse occasioni delle “ronde” per sorvegliare la canonica del sacerdote sospettato di fare “traffico d’armi” (sic!). Inoltre Magnani ha confermato che il giorno seguente il delitto tutto il vertice del Pci reggiano era perfettamente a conoscenza del fatto e dei responsabili e decise la strada del silenzio, con il conseguente sacrificio di Nicolini che in quanto all’oscuro di tutto non era in grado di fare i nomi dei mandanti. Di tutto questo era stato informato anche Togliatti, che alla fine del 1946, compresa la gravità della situazione, decise di trasferire alcuni dirigenti in altre province. 94
Siamo all’ultimo atto della tragedia? Probabilmente no. E non è escluso che si arrivi ad un nuovo processo per fare luce una volta per tutte su chi armò la mano agli assassini di don Pessina e sulle trame di odio e di violenza che fecero da sfondo a quello come ad altri delitti.
b) Martirologio
. Gianni don Domenico, San Vitale in Reno, Bologna, 24 aprile 1945
2. Terenzani don Carlo, Ventosa, Reggio Emilia 29 aprile 1945
3. Donati don Enrico, Lorenzatico, Bologna, 13 maggio 1945
4. Galletti don Tiso, Spezzate Sassatelli, Bologna, 18 maggio 1945
5. Galassi don Giuseppe, Campanile in Selva, Ravenna, 21 maggio 1945
6. Preci don Giuseppe, Montalto di Zocca, Modena, 24 maggio 1945
7. Tarozzi don Giuseppe, Riolo, Modena, 26 maggio 1945
8. Guicciardi don Giovanni, Mocogno, Modena, 10 giugno 1945
9. Bortolini don Raffaele, Dosso, Bologna, 20 giugno 1945
10. Rasori don Giuseppe, San Martino di Casola, Bologna, 2 luglio 1945
11. Lenzini don Luigi, Crocette, Modena, 21 luglio 1945
12. Filippi don Achille, Maiola, Bologna, 25 luglio 1945
13. Dapporto don Teobaldo, Castelfiumanese, Bologna, 14 settembre 1945
14. Reggiani don Alfonso, Amola di Piano, Bologna, 5 dicembre 1945
15. Venturelli don Francesco, Fossoli, Carpi, 16 gennaio 1946
16. Pessina don Umberto, San Martino Piccolo, Reggio Emilia, 18 giugno 1946
64 BEDESCHI, op. cit., p. 17-18; BERGONZONI, Preti nella tormenta, cit. pp. 201-210; MARTELLI, op. cit., p. 250.
65 BEDESCHI, op. cit., p. 41; MARTELLI, op. cit., p. 278.
66 BEDESCHI, op. cit., p. 20; BERGONZONI, Preti nella tormenta, cit. p. 217-222.
67 Nell’arco di un’ora di quella stessa sera la “motocicletta della morte” si rende responsabile di altri tre omicidi tra Conselice e Spazzate Sassatelli. Oltre a don Tiso vengono soppressi Anello Volta, Aldo Negrini e Aristide Olivieri. Al processo presso la Corte d’Assise di Ravenna nell’ottobre 1954, il figlio di una delle vittime, Tullo Negrini, nega decisamente che il sacerdote fosse fascista: “Io ero fascista, uno dei due soli fascisti di Spazzate Sassatelli; l’altro, Tellarini, è stato ucciso e mio padre è stato assassinato perché ero fascista io. Sapevo tutto dei partigiani perché, pur essendo a Bologna, tornavo a casa ogni sabato; ma non li denunciai, né li disturbai. Don Tiso era un nostro avversario, tanto che ebbi con lui alcune vivaci discussioni”. Don Francesco Gianstefani, parroco del vicino paese di Conselice, racconta che quando si recò a Spazzate Sassatelli “per il funerale non c’era nessuno, tranne i famigliari ed il campanaro. In fondo al viale c’era un giovane in bicicletta con il fazzoletto rosso al collo per controllare i presenti”. E aggiunge: “Sono convinto che ancor oggi i sacerdoti sono considerati carne da macello e noi preti e gli altri che vengono qui a testimoniare saranno uccisi se solo per cinque minuti quelli prendessero il sopravvento”. Il processo si conclude con la condanna a dieci anni di reclusione, interamente condonati, ad Efrem Fontana ed Astore Felicetti, ex partigiani comunisti. Cfr. “Il Resto del Carlino”, 21-22 ottobre 1954 e Archivio del Centro di solidarietà democratica di Bologna (d’ora in poi ACSDBO), sez. II, sett. 3, f. 65. BEDESCHI, op. cit., pp. 27-28; MARTELLI, op. cit., pp. 227-228.
68 BEDESCHI, op. cit., p. 28-29. “Al funerale intervennero circa venti sacerdoti, ma solo tre parrocchiani osarono rompere il cerchio del terrore che attanagliava quella pur religiosa ed ottima popolazione. La rivincita del coraggio si fece attendere dieci anni, ma venne. Nel decennale del martirio, migliaia di persone da ogni parte e decine e decine di bandiere”.
69 FANTOZZI, op. cit., p. 59. Per questo delitto Giuseppe Galluzzi ed Ivo Zanni vengono condannati a 18 anni di reclusione. “Gazzettadi Modena”, 5 aprile 1952. BEDESCHI, op. cit., pp. 265-266.
70 FANTOZZI, op. cit., p. 59. Nella sentenza di condanna i giudici scrivono: “Anche questo grave delitto va inquadrato nel tempo in cui venne commesso, quando l’uccisione di capitalisti e di preti da parte di estremisti sostenitori del proletariato non può non riportarsi anche a motivi di natura sociale-politica, sul piano di una realizzazione ritenuta possibile da alcuni esaltati sprovveduti di cultura e di scarsa sensibilità morale e politica, deviati da un’accesa propaganda di idee contrastanti col capitalismo e investente anche i preti, fino al punto da determinarli a commettere simili gravi delitti”. ACSDBO, sez. II, sett. 3, f. 75. Ventidue anni di reclusione vengono irrogati a Rino Govoni, Ermes Vanzini e Riccardo Cotti; diciotto anni e sei mesi a Guido e Dante Bottazzi e Renato Melotti. “L’Avvenire d’Italia”, 1 aprile 1951. Nel corso del 1991 la Procura della Repubblica di Modena, dietro a nuove segnalazioni, ha ripreso le indagini per individuare il luogo di sepoltura del sacerdote. E’ opportuno ricordare che nel “triangolo della morte” di Castelfranco-Manzolino-Piumazzo, tra il 25 aprile del 1945 ed il maggio 1946 vengono eliminate quarantaquattro persone. BEDESCHI, op. cit., p. 18; MARTELLI , op. cit., p. 250.
71 FANTOZZI, op. cit., pp. 59-60. Dieci anni di prigione vengono inflitti per l’omicidio di don Guicciardi a Giacomo Rossi. “Gazzetta di Modena”, 19 luglio 1949. BEDESCHI, op. cit., p. 32. MARTELLI, op. cit., p. 266.
72 BEDESCHI, op. ci t., pp. 20-21; MARTELLI, op. cit., p. 251
73 BERGONZONI, Preti nella tormenta, cit., pp. 241-253; BEDESCHI, op. cit., pp. 18-19; MARTELLI, op. cit., p. 251.
74 FANTOZZI, op. cit., p. 60. Nel 1949 cinque imputati per il delitto vengono assolti per insufficienza di prove. “Gazzetta di Modena”, 20 maggio 1949.
75 Bruno Grandi, reo confesso dell’omicidio di don Filippi, afferma che la soppressione del prete venne decisa “perché durante il periodo della Repubblica sociale il parroco aveva collaborato con i fascisti ed i repubblichini ed era fra l’altro responsabile del rastrellamento di Monte San Pietro del 27 agosto 1944 e aveva fatto la spia ai danni dei partigiani”. Nel marzo del 1952 Grandi, insieme a Miro Lionelli e a Raffaele Collina, vengono condannati a 20 anni di reclusione interamente condonati per movente politico. ACSDBO, sez. II, sett. 3, f. 22. BERGONZONI, Preti nella tormenta, cit., pp. 223-227; BEDESCHI, op. cit., p. 21; MARTELLI, op. cit. p. 36.
76 “Don Teobaldo Daporto fu l’unico dei sette preti assassinati (della Diocesi di Imola, ndr) ad avere funerali da cristiano. Tutto il popolo e tutti i confratelli della zona erano presenti in chiesa. Molta gente piangeva. Al cimitero, don Gaspare Bianconcini condannò con parole di fuoco la “criminale seminagione di odio”, che bisognava finalmente arrestare. Gli effetti estremi di quella seminagione nei riguardi del clero vennero bloccati”. MARTELLI, op. cit., p. 233-235. BEDESCHI, op. cit., p. 27.
77 BERGONZONI, Preti nella tormenta, cit., pp. 229-239; BEDESCHI, op. cit., p. 19; MARTELLI, op. cit., pp. 251-252.
78 FANTOZZI, op. cit., p. 61. La Dc carpigiana nei giorni seguenti l’assassinio di don Venturelli affigge un manifesto per condannare il misfatto: “Cittadini di Carpi! Un nuovo assassinio, un vergognoso delitto ha insanguinato la nostra terra, che dopo i duri anni sofferti deve essere libera da tradimenti, violenze e minacce. La delinquenza ha voluto ancora una vittima nella persona di un retto ed amato sacerdote, noto Patriota della guerra clandestina, Don Francesco Venturelli. Vi invitiamo a rendere omaggio alla vittima innocente di un perverso odio di parte che tutto abbrutisce e di tutti macchia il nome di civili cittadini”. “L’Unità Democratica”, 19 febbraio 1946. Nel 1991, Carpi ha deciso di rendere omaggio alla memoria di don Venturelli intitolandogli una via cittadina. MARTELLI, op. cit., pp. 272-273.
79 Mons. Wilson PIGNAGNOLI si è occupato ripetutamente della figura e del delitto di don Pessina. Si vedano i suoi: Ho ucciso don Pessina, Roma, 1949 e Reggio: bandiera rossa, Milano, 1961.
80 Sulla vita e l’operato di Mons. Socche cfr. Wilson PIGNAGNOLI, L’ultimo Vescovo-Principe di Reggio Emilia, Roma, 1975; Dino TORREGGIANI, Mons. Beniamino Socche. Profilo di un Vescovo eroico, Vicenza, 1966; Paolo CAMELLINI, Testamento di un Vescovo, Reggio Emilia, 1968.
81 PIGNAGNOLI, Reggio: bandiera rossa, cit., pp. 87-88.
82 L’atteggiamento duro ed intransigente sul caso don Pessina procurò a Mons. Socche qualche disapprovazione nella Dc ed anche all’interno della gerarchia ecclesiastica. Nelle sue memorie il Vescovo infatti scrisse che “un’alta personalità politica, che poi diventò sacerdote (Giuseppe Dossetti ndr), cambiò diocesi e fu incardinato in una diocesi della Romagna-Emilia. Un ragioniere ed una professoressa, modello di vita cristiana, non nascondevano la loro ripugnanza quando il Vescovo parlava, ed uscivano dalla chiesa dicendo, “ma non si fa così: non si conquistano così i comunisti: sono tutti nostri cari fratelli”. PIGNAGNOLI , L’ultimo Vescovo-Principe, cit., p. 69. Mons. Socche rilevò inoltre che “uno era riuscito a creare in Vaticano un’atmosfera di accusa al Vescovo di Reggio Emilia dicendo che egli era il provocatore di tutto… Io stesso me ne accorsi sul serio quando il 7 marzo 1947 ebbi l’Udienza del Papa Pio XII di santa memoria”. Ibidem, p. 72. Anche la successiva idea di Mons. Socche di costruire a Correggio una “Via Crucis sacerdotale ed Arca dell’Insepolto”, per ricordare il sacrificio di don Pessina e di tutti i trecento sacerdoti italiani periti durante e dopo la guerra, fu accolta in Vaticano con molta freddezza e quindi non realizzata.
83 La ricostruzione delle indagini condotte da Vesce è contenuta in Massimo STORCHI, (a cura di), Gli omicidi don Pessina, Mirotti e Vischi nei ricordi del generale Pasquale Vesce, in “Ricerche storiche”, Rivista di Storia della Resistenza e della società contemporanea dell’Istituto per la storia della Resistenza e della Guerra di Liberazione di Reggio Emilia, n. 64/66, dicembre 1990, pp. 41-59.
84 La vendita dei cavalli ed il collocamento delle mondariso quale moventi del delitto sono state ribadite da Mons. Wilson Pignagnoli su “Gazzetta di Reggio”, 3 settembre 1991 e don Giorgio Neviani su “Gazzetta di Reggio”, 13 settembre 1991. Giorgio Morelli (“Il solitario”) in un articolo su “La Nuova Penna” del 28 giugno 1946 parla di un altro movente fatto circolare dai comunisti per infangare la memoria di don Pessina: “E questi vili, come sempre, non sono soddisfatti d’averlo finito, ma gettano sulla sua memoria la solita, infamante classica calunnia: “Don Pessina corteggiava le ragazze”. “Don Pessina aveva delle amanti”. “Don Pessina è stato ucciso per un movente passionale”. [... ] Ecco perché Eros ha detto: “Non capisco perché si faccia tanto rumore politico intorno ad un delitto passionale. Tutti sanno che don Pessina aveva due amanti”. Perché non si è ancora chiesto a quest’uomo chi sono le due amanti? se le sa le denunci. Esse sapranno chi ha ucciso il prete, se il prete è stato ucciso per loro. Ma le due amanti non ci sono. Questo Eros lo sa”.
85 La lettera di Mons. Socche, scritta nel marzo 1955 ed apparsa su “L’Osservatore Romano”, diceva testualmente: “E’ ritornato a casa dalla prigione un capo comunista, che ben quattro processi d’accordo hanno autenticato, proclamato e condannato come assassino di don Pessina. E su ciò nulla abbiamo da dire: gli auguriamo in Domino che se ne penta e che possa vivere da cristiano con la sua diletta famiglia, benchè l’Unità comunista di ieri abbia scritto che egli ha dovuto scontare la pena di otto anni di reclusione sebbene “innocente”, dando così una sfida di incompetenza e di ingiustizia a quattro Corti giudicanti: Assise di Perugia, prima sezione dell’Assise di Appello di Roma, Cassazione e seconda sezione dell’Assise di Appello di Roma, la quali tutte univocamente hanno sentenziato per la colpevolezza dell’interessato. Ma quello che a noi preme di rilevare qui e che assolutamente non è lecito, è quanto è accaduto domenica scorsa. A riceverlo alla stazione ferroviaria erano pronti i compagni con la macchina infiorata di garofani rossi. Con quattro staffette motorizzate davanti, ed una colonna di macchine di seguito, è entrato trionfalmente nel suo paese. Ora tutto questo non è che l’applauso al delitto, apologia dell’assassinio”. PIGNAGNOLI, Reggio: bandiera rossa, cit., pp. 110-111.
86 “Ritengo corretto ricordare che Germano Nicolini non fu giudicato alla Lubianka, ma in Corte d’Assise, a Perugia: aveva dei difensori, poteva parlare. Sono passati più di quarant’anni da quella vicenda, ma non ho memoria di particolari che svelassero intrighi o subdole congiure. La sorte di Nicolini non è state segnata dalla malafede dei magistrati, o dalla malvagità del capitano Vesce, che condusse l’inchiesta: ma dal silenzio dei suoi compagni. Ecco un’altra prova: tacere, talvolta, diventa menzogna. [... ] Adesso qualcuno lancia l’ipotesi che monsignor Socche, il vescovo di Reggio Emilia, avesse in qualche modo manovrato per far punirei “rossi”: di certo li considerava pericolosi avversari, ma non posso pensare ad un’alterazione di prove. Ho conosciuto, e anche ammirato, il coraggio del capitano Vesce: raccontavano che Scelba aveva dimostrato disprezzo del pericolo perché era andato a Modena solo, guidando la sua automobile. Mostruosa è questa vicenda, nata da una dedizione cieca alla causa del partito che “ha sempre ragione”, una omertà che ha resistito a ogni richiamo della coscienza. Che ha lasciato dilagare prima il sospetto poi pronunciare le sentenza. C’è voluto l’ex onorevole del Pci Montanari a lanciare l’appello: “Chi sa parli”. Il guaio è che, più o meno, sapevano in tanti. Ha taciuto anche Nicolini: e allora perché stupirsi se nei lager sovietici c’era gente che andava a morire gridando: ‘Viva Stalin’?”. Enzo BIAGI, in “Panorama”, 29 settembre 1991.
87 “La Repubblica”, 12 settembre 1991.
88 “Il Resto del Carlino”, 11 settembre 1991. Le dichiarazioni di Gaiti, per la verità, sono troppo generiche e soprattutto troppo scopertamente autoassolutorie – gli spari quasi accidentali nel corso di una colluttazione, guarda caso, ingaggiata dal prete – per non essere assunte con la necessaria prudenza. Senza dimenticare che Gaiti non ha fatto il minimo cenno sui motivi e gli scopi della missione affidata a lui ed agli altri quella sera.
89 “La Repubblica”, 12 settembre 1991.
90 “Gli assassini di don Pessina – ha affermato Vesce – sono quelli che sono stati denunciati da me e sono quelli che sono stati processati a Perugia, in Appello a Roma con sentenza confermata in Cassazione. Per me sono quelli che ho denunciato io: non ci sono altri”. “Gazzetta di Reggio”, 4 settembre 1991. Occorre peraltro osservare che il magistrato che conduce le indagini, Elio Bevilacqua, si è subito convinto dell’innocenza di Nicolini, al punto da dichiarare che se fosse stato processato oggi “Il Diavolo” “sarebbe stato assolto in cinque minuti”.
91 “Gazzetta di Reggio”, 17 settembre 1991.
92 Sulla natura e sui comandanti di questa struttura armata a cui fa cenno Nicolini le testimonianze per ora divergono. Ne risulta però accertata l’esistenza e la circostanza che quasi tutti i delitti commessi tra il giugno ed il settembre del 1946 in provincia di Reggio Emilia – Verderi, Pessina, Mirotti, Ferioli, Farri – portano direttamente od indirettamente a questa organizzazione, in gran parte composta da ex partigiani della 77esima Brigata Sap. I responsabili della formazione pare siano stati: Ottavio Morgotti, il cui nome è stato fatto in relazione al delitto di don Pessina, Renato Bolondi, implicato nell’omicidio Mirotti, e l’allora sindaco di Casalgrande Domenico Braglia (“Piccolo Padre”), quest’ultimo sospettato per l’uccisione di Umberto Farri e di Ferdinando Ferioli. Lo stesso Procuratore Bevilacqua si è detto convinto dell’”esistenza di una struttura militare parallela al Pci” che operava in provincia di Reggio in quegli anni.
93 Sui rapporti tra i giovani futuri brigatisti ed i vecchi ex partigiani reggiani cfr. Alberto FRANCESCHINI, Mara, Renato ed io, Milano, 1988.
94 Aldo Magnani, aveva già in precedenza pubblicamente affermato di aver saputo direttamente dal capo del Pci di Correggio Ottavio Morgotti dell’uccisione del prete, ma di non avere appreso da lui i nomi degli esecutori. In realtà Magnani sapeva tutto al pari del vertice comunista reggiano, come è risultato da un’intervista registrata nel 1984 da Antonio Rangoni, archivista del Pci. “Venne da me il Morgotti – disse Magnani nell’intervista – per informarmi che la parrocchia di San Martino Piccolo costituirebbe un centro per traffico d’armi pilotato dal Parroco, il quale sarebbe in contatto con elementi fascisti. Ho chiesto al Morgotti di istituire una ronda e qualora i fatti supposti risultassero veri di avvertire i carabinieri. Alcuni giorni dopo, un mattino, il Morgotti venne da me in Federazione per dirmi che la notte prima, durante la ronda, si era verificato l’episodio tragico della morte di don Pessina, avvenuta dopo una colluttazione. Decisi di parlarne immediatamente col segretario provinciale Arrigo Nizzoli il quale, appreso che a sparare era stato William Gaiti si oppose a qualsiasi denuncia ai carabinieri. Denunciare il figlio del povero Gaiti (il padre di William era stato ucciso dai fascisti, ndr) – disse Nizzoli – Siete matti? Ci pensino i carabinieri che, naturalmente non sanno niente di come sono andate veramente le cose”. “Gazzetta di Reggio”, 5 ottobre 1991.
Bologna 1991
I capitolo
Era necessario che crollasse il muro di Berlino per cominciare ad aprire lo scomodo album di famiglia dei comunisti italiani e far riemergere dal dimenticatoio della storia gli effetti che provocò lo stalinismo dove ebbe la forza politica di imporsi.
Tuttora vi è chi afferma la natura legalitaria del Pci del dopoguerra e chi sostiene che non si può confondere la storia con i processi alle intenzioni. La vittoria della Dc nelle elezioni del 18 aprile 1948 ha fortunatamente evitato agli italiani di sperimentare gli effetti della conquista del potere da parte dei comunisti, e non importa se questa mancata verifica consente ancora oggi a qualcuno di sostenere candidamente che all’Italia sarebbe state risparmiata la dolorosa catena di violenze e le sopraffazioni che subirono tutti gli altri paesi europei in cui i comunisti presero il potere. Ma gli effetti perversi del “socialismo reale” non furono solo una spada di Damocle che incombette a lungo sulla nostra democrazia senza mai colpirla: essi furono duramente sperimentati anche da noi, pur se in misura più circoscritta nello spazio e nel tempo.
La verità che lentamente e tra mille reticenze ed ambiguità si sta facendo strada sui “triangoli della morte” emiliano-romagnoli in cui dopo la Liberazione furono barbaramente e sommariamente eliminate da ex partigiani o militanti comunisti migliaia di persone, assume un valore che va oltre la “microstoria” dei paesi e delle province in cui si svolse ed offre la misura esemplare di quali effetti avrebbe prodotto il comunismo italiano se avesse avuto la capacità di imporre la sua legge come riuscì ad imporla in Emilia tra il 1945 ed il 1946. Piuttosto è lecito chiedersi perché solo ora questi fatti vengono alla luce nella loro cruda dimensione e come mai nessuno storico ha avuto la voglia od il coraggio di rompere la ferrea cortina di silenzio imposta dal Pci nel tentativo di rimuovere dalla coscienza storica questi delitti come tanti altri capitoli bui del comunismo. Di fatto, questo periodo è stato tra i meno approfonditi dagli storici e così hanno continuato a prosperare tesi di comodo dirette a minimizzare e a contestualizzare, quando non addirittura a giustificare del tutto, quei drammatici frangenti. La caduta del muro di Berlino, causa ed insieme effetto della crisi globale del comunismo, che ha fatto da traino alla fase di trasformazione politica del Pci sfociata nella fondazione del Pds, hanno rotto, e forse definitivamente, l’incantesimo fatto di versioni di comodo e di mistificazioni ed avviato una più obiettiva riflessione sulle ampie zone d’ombra che circondano la vicenda del comunismo italiano.
È in questo clima da “caduta degli dei” che si colloca l’appello al “chi sa parli” sui delitti del dopoguerra lanciato nel settembre del 1990 dall’ex parlamentare comunista reggiano Otello Montanari. Un dirigente comunista – con una vita intera trascorsa nel partito – che denunciasse le complicità del Pci in quelle violenze era del tutto impensabile solo un decennio fa, non perché quei fatti fossero ignorati o perché non se ne comprendesse la gravità ma piuttosto perché i dubbi, le incertezze venivano risolti dalla fede per il partito che veniva anteposta ad ogni altra ragione sia politica che morale. Altri, del resto, prima di Montanari avevano parlato dall’interno del Pci, ed in modo ancora più esplicito di lui, delle trame rosse del secondo dopoguerra. Ma si trattava di persone coinvolte personalmente in quegli avvenimenti e comunque non di esponenti di primo piano del partito. Qualcuno ha rilevato che l’ex parlamentare del Pci poteva dire prima quello che sapeva, altri malignamente hanno osservato che se lo avesse fatto di certo non sarebbe divenuto un parlamentare ed un dirigente autorevole del partito, come in effetti è stato. Tutto ciò è vero. Ma non si possono comprendere le parole di Montanari senza capire l’effetto sconvolgente che ha provocato la fine del comunismo sulle coscienze di intere generazioni di militanti che a quel sistema e quell’ideologia avevano ciecamente e quasi religiosamente creduto. La fine del comunismo, ha scritto Miriam Mafai, “non è soltanto il fallimento di un sistema politico ed economico: è il crollo di una religione e di una Chiesa, con la sua gerarchia e il suo sistema di valori. Esso determina il sommovimenti e lacerazioni non solo sulle carte geografiche, ma nelle coscienze di quanti in quella Chiesa hanno vissuto, li obbliga a riesaminare i propri comportamenti e persino in qualche caso i propri principi morali”. In questa luce, le dichiarazioni di Montanari sono il sintomo rivelatore di un crollo epocale ma fanno risaltare tutte le ambiguità e le contraddizioni che segnano il passaggio dal Pci alla nujova “cosa rossa”.
In quest’ultimo anno Montanari ha dovuto pagare duramente il suo “per avere chiamato in causa direttamente i due massimi dirigenti del Pci reggiano dell’epoca, Arrigo Nizzoli e Didimo Ferrari, come fiancheggiatori, se non mandanti, di alcuni tra i più gravi delitti commessi a quel tempo, nonché organizzatori di gruppi clandestini pronti alla lotta armata. Emarginato ed isolato dal suo partito, l’uomo dell’”operazione verità”è stato estromesso prima dagli organi dirigenti dell’ANPI e poi dell’Istituto Cervi di cui era Presidente. “M’hanno escluso” ha dichiarato riferendosi al suo partito. “Ho ricevuto solidarietà solo dal Presidente Cossiga e da alcuni dirigenti miglioristi ed occhettiani, per il resto è un calvario, mi trovo crocifisso, deriso. Allora dirò che ho sbagliato tutto, devo alzare la bandiera “chi sa taccia”, se chi parla continua a pagare”.
Ma cosa avvenne realmente in Emilia-Romagna tra il 1945 ed il 1946 e soprattutto perché poté accadere?
Innanzitutto va precisato un elemento importante che distingue peculiarmente l’Emilia-Romagna dal resto delle regioni del Nord Italia, all’indomani del 25 aprile 1945. Violenze ai danni di persone compromesse con la repubblica di Salò si verificarono in tutte le regioni del nord, anche in conseguenza di un conflitto che aveva assunto, almeno in parte, i connotati di una guerra civile. 6
Si registrarono fatti anche molto gravi, come le stragi di Oderzo nel trevigiano, delle carceri di Schio nel vicentino. Sul numero complessivo delle vittime, data la mancanza di dati documentati, c’è notevole discordanza: i fascisti parlarono all’epoca di 300. 000 morti7, Ferruccio Parri, allora presidente del Consiglio, valutò il numero degli uccisi in 30 mila, il ministro degli Interni Mario Scelba in 17 mila, Giorgio Bocca, più recentemente, in 15 mila. 8 Al di là del balletto delle cifre è però possibile affermare che questa ondata di vendette si esaurì generalmente, fatte le dovute eccezioni, in poche settimane e già a metà del maggio 1945 era quasi completamente cessata. Si trattò quindi di un fenomeno certamente doloroso e diffuso, ma che è possibile inserire tra le conseguenze della guerra e del suo strascico di odi e di rancori.
Molto diverso fu il caso dell’Emilia-Romagna. Qui la violenza assunse caratteri e durata inusitati: non si rivolse solo contro i fascisti ma ebbe come obiettivo persone soprattutto persone che rientravano nella vasta categoria politico-sociale dei “nemici di classe”. Furono in particolare possidenti, agrari, piccoli commercianti e coltivatori, preti e democristiani le “vittime dell’odio”. In tutta l’Emilia-Romagna – manca anche in questo caso uno studio organico9- furono circa tremila le persone soppresse da ex partigiani o militanti comunisti. Facendo riferimento ai documenti dell’epoca, si può ricordare che il prefetto della Liberazione Vittorio Pelizzi scrisse che “nella provincia di Reggio Emilia, le persone scomparse per fatti di guerra o di banditismo nel periodo che va dalla Liberazione al dicembre 1945 non furono neppure un migliaio”. 10 Nella provincia di Modena, un rapporto dei carabinieri dell’ottobre del 1946 assommava ad 893 le vittime del post Liberazione11, mentre il prefetto G. B. Laura nel febbraio del 1950 riteneva di poter affermare “che siano state soppresse nella provincia di Modena da partigiani o da comunisti sedicenti partigiani, oltre 1. 010 persone, comprese quelle che, provenienti dal nord, si dirigevano verso l’Italia centrale e meridionale”. 12 Un altro rapporto del 1946 dei carabinieri di Bologna parla di 675 persone soppresse in quella provincia, di cui 180 ancora da ritrovarsi. 13
A confermare il legame politico di quei delitti con il Pci, è interessante constatare la diretta corrispondenza tra il peso politico ed elettorale del Pci ed il numero degli uccisi. Essi si concentrarono infatti in quelle province (Reggio, Modena, Bologna e la Romagna)14 a più forte insediamento comunista, mentre furono assai meno nelle province dell’Emilia del nord, come Parma15 e Piacenza, dove tale presenza politica era inferiore e più consistente era il peso della Dc e degli altri partiti democratici. Occorre inoltre dire che, anche all’interno delle singole province, le zone che registrarono il maggior numero di omicidi furono quelle di pianura dove il Pci totalizzò alle elezioni del dopoguerra dal 60 all’80 per cento dei voti, mentre nei comuni “bianchi” della montagna, ove pure si era svolta in grande prevalenza la lotta partigiana, il fenomeno fu molto più ridotto.
Qui l’ondata di uccisioni non si risolse nelle prime settimane dopo il 25 aprile, ma anzi perdurò intensa per tutto il 1945 e cominciò a defluire nel corso del 1946 fin quasi a scomparire verso la fine dell’anno in concomitanza con l’assunzione del ministero degli Interni prima da parte di De Gasperi e poi di Scelba. 16 Lungi dall’essere circoscritti, questi delitti – che si inserivano in una cornice non meno grave di intimidazioni, pestaggi e minacce nei confronti degli avversari politici – si dilatarono al punto da creare un vero e proprio clima preinsurrezionale, con un ordine pubblico completamente al di fuori del controllo dello stato. 17
Nel contesto emiliano non furono quindi tanto le conseguenze della guerra a provocare il bagno di sangue ma un odio ideologico e di parte che configgevano apertamente con i valori di libertà e di pluralismo politico, condivisi -almeno a parole -da tutti i partiti che componevano al Resistenza al nazifascismo e che saranno poi posti alla base della nostra Costituzione.
La chiara linea di demarcazione che intercorre tra la Resistenza ed i crimini successivi, è stata ribadita con fermezza da Paolo Emilio Taviani, senatore dc e presidente della Federazione Volontari della Libertà: “La Resistenza, secondo Risorgimento nazionale, iniziò l’8 settembre 1943 e si concluse il 25 aprile del 1945 con la resa delle truppe naziste alle forze popolari della liberazione. […] I fatti deplorevolissimi di cui si torna oggi a parlare, che da noi furono subito, già allora deprecati e denunciati, si verificarono dopo la Resistenza e non hanno nulla a che vedere con i suoi ideali di libertà e di indipendenza nazionale”. 18
A provocare questo stato di cose furono due elementi strettamente connessi tra loro. Il primo era rappresentato dalla fortissima tensione rivoluzionaria diffusa nella base del Partito comunista. Gran parte dei militanti comunisti vedevano la conclusione della Resistenza al nazifascismo non il punto terminale della lotta ma solo il suo livello intermedio. Assai estesa era la convinzione che fosse ormai giunta l’ora della “battaglia decisiva” per l’affermazione dell’”ordine socialista”. Anche Norberto Bobbio ha scritto in maniera autorevole che dalla Resistenza scaturirono tre diverse guerre: le prime due, quelle contro i tedeschi e contro i fascisti, furono vinte; la terza, quella rivoluzionaria contro il “nemico di classe”, che era voluta solo dai comunisti, no. 19 Ma quella battaglia per l’”ordine nuovo”, che pure alla fine risultò perdente, in Emilia-Romagna venne ingaggiata. E non da “schegge impazzite”, come qualcuno continua a sostenere, ma da migliaia di persone, anche se non tutte arrivarono a macchiarsi di delitti. 20
D’altra parte, per spiegare la virulenza dell’odio in cui si mescolavano spesso in un groviglio inestricabile motivazioni politiche e risentimenti personali e non di rado fini di rapina, è necessario sottolineare che soprattutto nelle campagne emiliane l’arruolamento nelle file partigiane venne promosso dal Pci con fini dichiaratamente classisti, fino ad identificare la figura del proprietario e dell’agrario con quella del fascista. 21 In questo la violenza del secondo dopoguerra dopoguerra si ricollega a quella che sconvolse le campagne emiliane nel “biennio rosso” del 1919-1921, ed in senso più generale alla tradizione massimalista ed anticlericale del periodo prefascista che aveva nell’Emilia- Romagna una dei suoi punti di massima forza. 22
“In generale è diffusa la convinzione – scriveva nel luglio 1944 da Montefiorino il capo partigiano comunista Bruno Gombi – che dopo la vittoria debba il nostro partito, e possa, fare la rivoluzione comunista per distruggere la borghesia”. 23 E dopo la Liberazione, sottolineava Giorgio Amendola in un’intervista del 1978, “malgrado gli sforzi di Togliatti l’orientamento soprattutto nelle zone di massima forza – Emilia e Toscana – era quello dell’ora X. […] Bisognava difendere la libertà, conquistare comuni, aumentare il numero dei deputati ma per conquistare posizioni utili per il “momento buono”. Quando sarebbe venuto questo momento risolutivo nessuno poteva dirlo ma non esisteva molta fiducia che si potesse arrivare al socialismo attraverso una modificazione democratica del paese”. 24
L’altro elemento che permise l’espandersi incontrollato della violenza politica per quasi un biennio fu l’estrema debolezza dello Stato. Praticamente tutte le leve del potere locale, dai Cln, ai comuni, al sindacato, vennero egemonizzate dal Pci e la tutela dell’ordine pubblico venne assunta da squadre di polizia partigiana, quasi per intero composte da comunisti, che spesso si resero complici – come numerosi processi poi dimostrarono – dei delitti che istituzionalmente erano tenute a reprimere. E quando Mario Scelba divenne ministro degli Interni, il suo primo atto fu proprio quello di procedere all’epurazione della polizia partigiana e di restaurare l’autorità dello Stato in Emilia. Occorreva “far capire a Togliatti che qualcosa era cambiato. La regione in cui il Pci era più forte era l’Emilia-Romagna: era quindi di lì che bisognava cominciare”. 25
D’altronde se le violenze fossero state davvero commesse da un numero esiguo di militanti che non si rassegnavano a consegnare il fucile, esse sarebbero state facilmente isolate ed emarginate da un partito efficiente e capillare come il Pci che era in grado di esercitare sui propri iscritti una ferrea capacità di controllo.
Quando la riorganizzazione delle forze dell’ordine cominciò a consentire il ritorno dell’autorità dello Stato ed insieme ad essa l’accertamento delle responsabilità in numerosi delitti compiuti dopo il 25 aprile, il Pci si schierò con grande decisione a favore di tutti gli imputati arrestati, inaugurando la tesi, dietro la quale continua ancor oggi ad arroccarsi, della “caccia alle streghe” e del “processo alla Resistenza”. 26 Nel 1948 venne costituito un Centro di solidarietà democratica, allo scopo di assistere tutti i processati senza alcuna distinzione circa l’entità e la gravità dei reati commessi, e di coordinare ogni mezzo utile alla loro difesa. 27 Il Centro di Solidarietà democratica fornì assistenza legale a persone responsabili di aver ucciso dopo la Liberazione fascisti, ma allo stesso modo sostenne gli uccisori di preti, di democristiani, di altri partigiani non comunisti. Secondo gli avvocati difensori comunisti, anche le violenze commesse a danno di sacerdoti e di democristiani erano da considerare “azioni di guerra” e pertanto dovevano rientrare nei benefici dell’amnistia Togliatti. 28
La copertura e la solidarietà politica non furono però gli unici legami tra la violenza politica ed il Pci. Nel tentativo di mettere al riparo Togliatti dai sospetti di connivenza con quei delitti, da parte comunista sono stati riesumati i discorsi che il “migliore” pronunciò nel 1946 davanti ai quadri del partito di Modena e Reggio, nei quali tra l’altro si sottolineava la “insufficiente vigilanza del partito nel prevenire i gravi fatti accaduti” e si ammetteva che essi facevano “ricadere sul partito una parte di responsabilità”. 29 Queste ammissioni, seppure velate ed ambigue, stanno comunque a testimoniare che da parte di Togliatti vi era la dichiarata consapevolezza della compromissione dei dirigenti emiliano-romagnoli nell’organizzazione dei delitti.
E comunque non bastano queste parole a dare una patente riformista e legalitaria a Togliatti: egli in realtà sapeva quanto l’ala militarista del Pci andava facendo in Emilia, ma al tempo stesso aveva l’abilità tattica di presentare il partito con un volto legalitario. Criticava gli eccessi ma poi, come ha testimoniato il suo ex segretario Massimo Caprara30, favoriva gli espatri dei condannati nell’est europeo. Nessuno troverebbe d’altronde, per quanto la cercasse, nei discorsi di Togliatti una condanna esplicita della violenza come metodo di lotta politica. Egli si limitava a stigmatizzare le intemperanze dei compagni non perché ne disapprovasse alla radice i metodi ma semplicemente perché era cosciente che in quel momento erano assenti le condizioni nazionali ed internazionali indispensabili al successo di un tentativo rivoluzionario. 31 Lasciava che fossero altri ai vertici del partito a nutrire nella base le speranze di una rivoluzione imminente. È noto, ad esempio, quanto Luigi Longo e Pietro Secchia credessero nella lotta armata. Essi erano i principali ideatori della struttura militare clandestina del Pci, perfettamente organizzata e dotata di propri arsenali, pronta ad agire al momento dell’ora X. Longo, alla prima riunione del Cominform che si svolse in Polonia nel 1947, dirà che “il nostro partito dispone di un apparato clandestino di speciali squadre che sono dotate per il momento in cui sarà necessario, di ottimi comandanti e di un adeguato armamento”. 32 E a tale proposito è necessario osservare che un lungo cordone ombelicale lega, almeno dal punto di vista ideale, questo vero e proprio “partito armato”, all’ombra e con la copertura del quale furono consumati tanti delitti, ed i deliri eversivi delle Brigate rosse, così come del resto è testimoniato dagli stessi protagonisti. 33
Comunque, tornando al Pci del dopoguerra, quello tra Togliatti da una parte e Longo e Secchia dall’altra può essere letto come un abile quanto sottile gioco delle parti in cui in discussione non era il fine, cioè l’instaurazione di un “ordine socialista” simile a quello dei paesi dell’est caduti sotto il giogo staliniano, ma solo i mezzi più idonei per consentire al partito di raggiungerlo.
Questa doppia verità, che obbedisce al principio secondo cui ogni giudizio di valore morale deve essere subordinato necessariamente al vantaggio per il partito, è rimasta una costante nella storia del comunismo italiano.
NOTE
1 Il giudizio di Renzo De Felice a questo proposito è indicativo: “Sulla contemporaneistica italiana ha gravato, e grava ancora, il peso della difficoltà di accedere a tutte le fonti pubbliche e ancor più a quelle private (numerose ed in alcuni casi assai importanti), dell’egemonia stabilita nel primo trentennio postliberazione dal partito comunista sulla cultura italiana e dei condizionamenti che essa ha esercitato sulla forma mentis di larghi settori di italiani non comunisti […]; una egemonia che al contrario di quanto è accaduto in altri paesi (soprattutto in Francia) e sta avvenendo nell’Unione Sovietica, non solo è passata pressoché indenne attraverso le vicende che hanno travolto il “socialismo realizzato” e la sua ideologia e, dunque, la sua “vulgata” storiografica ma – essendo rimasto l’unico strumento su cui una “nuova” sinistra può ormai far leva per cercare di giustificare la propria ragione di essere politica – si è addirittura fatta più aggressiva”. Renzo DE FELICE , Mussolini l’alleato, Torino, 1991, pp. X-XI.Nell’ambito della storiografia comunista, o comunque di sinistra, a giustificazione di un così prolungato ed ostinato silenzio, si è affermato che i delitti sul dopoguerra “sono stati sbrigativamente liquidati come prodotto di una sorta di inerzia, una “esasperazione diffusa” conseguente ad ogni guerra e particolarmente a questa tanto aspra e partecipata, Ovvero un fenomeno normale, fisiologico che, pertanto, non merita di essere studiato”. Luca ALESSANDRINI, Angela Maria POLITI, Nuove fonti sui processi contro i partigiani. Contesto politico ed organizzazione della difesa, in Italia Contemporanea, n. 178, marzo 1990, p. 43.
2 L’articolo di Otello Montanari che conteneva l’appello al “chi sa parli” è apparso sull’edizione di Reggio Emilia de “Il Resto del Carlino” del 29 agosto 1990. “Quei dirigenti comunisti – ha scritto Montanari – avevano un atteggiamento di tolleranza, di copertura, o anche un legame stretto con coloro che portavano avanti le azioni di soppressione, dei sequestri, degli espatri, delle sparizioni? Compivano atti concreti. Tutto questo si esprimeva anche in una politica vera e propria, in una particolare tendenza? Io credo di sì”.
3 E’ significativo a questo proposito il caso di Egidio Baraldi, un ex partigiano comunista reggiano condannato per l’omicidio del capitano Ferdinando Mirotti avvenuto nel 1946 – e sempre professatosi innocente. A differenza di Germano Nicolini che non ha mai voluto fare i nomi dei veri responsabili del delitto don Pessina, Baraldi non solo ha fatto nome cognome del mandante dell’omicidio – si tratterebbe di Renato Bolondi ex sindaco di Luzzara – ma ha anche scritto, tra il 1985 ed il 1989, due libri in cui dedica parole molto dure sulle responsabilità del Pci reggiano di quegli anni. “Il Nizzoli (segretario federale del Pci reggiano nel 1945, ndr) ed anche “Eros” (Didimo Ferrari, presidente dell’Anpi provinciale, ndr) erano gli elementi che senza ombra di dubbio portavano avanti la doppia linea; che avevano stretti legami con coloro che portavano avanti la politica delle soppressioni, dei sequestri, degli espatri e peggio ancora delle sparizioni”. Egidio BARALDI, Il delitto Mirotti. Ho pagato innocente, Reggio Emilia, 1989, p. 87. Sulle sue vicende personali e giudiziarie Baraldi ha scritto anche un altro volume: Nulla da rivendicare, Reggio Emilia, 1985.
4 “La Repubblica”, 12 settembre 1991.
5 “La Repubblica”, 13 settembre 1991. Montanari è stato fatto oggetto di un vero e proprio linciaggio morale all’interno del suo partito subito dopo aver scritto il suo articolo sul dopoguerra. L’on. Giancarlo Pajetta lo bollò subito come un “infame” diffidandolo dal “girare per le strade di Reggio”. Nel corso del 1991 è stato estromesso dagli organi dirigenti dell’Anpi e dalla Presidenza dell’Istituto Cervi. Solo dopo un lungo braccio di ferro tra l’Amministrazione provinciale – che sosteneva la sua candidatura – e la maggioranza dei componenti del Cervi è stato riammesso nel Consiglio di Amministrazione dell’Istituto. Ma Montanari si è dimesso polemicamente affermando che “si vuole, nei fatti, mantenere la discriminazione contro di me a causa dell’articolo del 29 agosto 1990″ e che “molte persone e forze diverse mi odiano, ben più che fossi un boss o un criminale nazista, perché non solo ho avviato l’operazione ‘verità per gli innocenti’ ma anche perché stanno esplodendo e saltando contraddizioni ed omertà”. “Il Resto del Carlino”, 19 ottobre 1991.
6 La natura di guerra civile della Resistenza è uno dei nodi storiografici più difficili e complessi. Per un certo periodo a parlare di “guerra civile” col corollario della necessaria “pacificazione nazionale” erano praticamente i soli neofascisti. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le prese di posizione degli storici anche di altre aree culturali a favore di questa tesi, fino a coinvolgere studiosi dell’area ex comunista. Valga per tutti Claudio PAVONE , Una guerra civile, Torino, 1991. E’ necessario però osservare che in questo momento riconoscere i caratteri di “guerra civile” alla lotta di Liberazione serve anche a giustificare più agevolmente quanto accadde dopo, poiché è proprio di una guerra civile l’inevitabile trascinamento di odi e di rancori. Il concetto di “guerra civile” è però ancora rifiutato dalla prevalente storiografia cattolica, che continua a parlare di “lotta di Liberazione nazionale”.
7 Sulle stime alquanto esorbitanti compiute dai neofascisti cfr. Giorgio PISANO’, Sangue chiama sangue, Milano, 1972 e Storia della Guerra civile in Italia (1943-1946), Milano, 1966, III Vol. ; Duilio SUSMEL, I giorni dell’odio. Italia 1945, Roma 1975. La storiografia di destra, ma è più opportuno parlare di pubblicistica, che si è occupata di questo periodo tende inoltre a conteggiare come vittime fasciste anche tutti i morti del post Liberazione. Per quanto riguarda l’Emilia-Romagna, il numero dei morti viene sbrigativamente riassunto nelle seguenti cifre: “In quella che era stata la “fascistissima” Emilia, le vittime furono ben diecimila […]. Tremila persone furono eliminate a Bologna, duemila a Reggio Emilia, altre duemila a Modena, milletrecento a Ferrara, seicento a Piacenza, cinquecento a Ravenna, seicento a Parma, duecento a Forlì”. SUSMEL, op. cit., p. 125.
8 Giorgio BOCCA, La Repubblica di Mussolini, Bari, 1977, p. 339.
9 Alcuni studi complessivi su base regionale sono in gestazione a cura dell’Istituto regionale di Studi politici Alcide De Gasperi e dell’Istituto regionale della Resistenza. Molti degli istituti provinciali della resistenza, sull’onda delle polemiche degli ultimi tempi, stanno mettendo a punto ricerche in questo campo.
10 Vittorio PELLIZZI, Trenta mesi, Reggio Emilia, 1954, p. 20. Sui delitti commessi in provincia di Reggio Emilia, sono da segnalare il periodico neofascista “Nuovo Meridiano” di Milano che nel 1961 pubblicò diversi servizi sull’argomento dando anche l’elenco nominativo di alcune centinaia di persone, ed il più recente Reggio Emilia 1943-1946. Martirologio, a cura dell’Associazione nazionale caduti e dispersi della Repubblica sociale italiana, Rimini, 1991. Questo lavoro contiene i nomi, comune per comune, di circa quattrocento scomparsi prima e dopo la Liberazione. L’elenco è però impreciso e sono riportati anche caduti partigiani, motivo per il quale il volume è stato ritirato. E’ imminente la stampa di un lavoro di Giannetto Magnanini, ex segretario federale del Pci di Reggio, nel quale si menzionano 453 vittime cadute nella provincia dopo la Liberazione. E’ un numero che si discosta molto di poco dalle 442 elencate dal “Nuovo Meridiano” nel 1961.
Sulle vicende del post Liberazione a Reggio Emilia cfr. don Wilson PIGNAGNOLI, Reggio bandiera rossa, Milano, 1961; Corrado RABOTTI, L’ingiustizia è uguale per tutti, Reggio Emilia, 1990; Luciano BELLIS (Eugenio Corezzola), La Balilla del direttore, Reggio Emilia, 1966; la ristampa in volume del periodico ” La Penna” (1945-1947), a cura di Ercole CAMURANI ed Eugenio COREZZOLA, Roma, sd.
11 Il rapporto è citato in Pietro SCOPPOLA, Gli anni della Costituente tra politica e storia, Bologna, 1980, p. 100
12 La lettera del prefetto Laura al ministero degli Interni, datata 20 febbraio 1950, è riprodotta fotostaticamente in Giorgio PISANO’, Storia della guerra civile, cit., pp. 1724-1725. Sul dopoguerra a Modena cfr. Giovanni FANTOZZI, “Vittime dell’odio”. L’ordine pubblico a Modena dopo la Liberazione (1943-1946), Bologna, 1990. In appendice al volume sono descritti circa duecento casi di persone scomparse. Secondo le ricerche di Franco FOCHERINI (cfr. gli articoli “Il maledetto triangolo della morte” e “I “desaparecidos” del secondo dopoguerra”, in “Modena A1″, giugno e luglio-agosto 1983) i morti dopo la Liberazione nel modenese sarebbero circa 500, settecento le persone uccise tra l’8 settembre ed il 22 aprile, a cui vanno aggiunti altri 400 scomparsi, sicuramente morti ma di cui non è stato rintracciato il cadavere, per un totale di 1. 600 vittime. In coda alla sua inchiesta Focherini fornisce i nomi di alcune centinaia di persone uccise. L’Associazione nazionale delle famiglie dei caduti e dei dispersi della Repubblica sociale italiana anche per Modena ha pubblicato il volume Modena 1943-1946. Martirologio, Rimini, 1988, in cui si fornisce il dato complessivo di 1. 349 persone uccise durante e dopo la guerra. Cfr. inoltre i libretti “pro manuscripto” di Alberto FORNACIARI tutti pubblicati a Modena: I dimenticati, aprile 1984; Martiri dell’oblio, settembre 1984; Fiori del paradiso, giugno 1985 ; La “Repubblica di Armando”, agosto 1985; Il triangolo della morte, settembre 1985; Il terribile dramma, settembre 1985.
13 Cfr. La seconda Liberazione dell’Emilia, Roma, 1949, ristampato nel 1991 a cura del Comitato regionale Dc dell’Emilia-Romagna, con premessa di Paolo Siconolfi ed introduzione di Giovanni Fantozzi, p. 20. Su Bologna manca sinora un censimento delle vittime od un lavoro che affronti organicamente questo periodo. Cfr. comunque Irene COLIZZI, “J’accuse”. Quello che non fu detto di terra d’Emilia (fatti di cronaca del dopo armistizio 1943/1946), Roma, 1988.
14 Sulle violenze avvenute nelle provincia di Ravenna cfr. Giordano MARCHIANI, La Bottega del barbiere, Bologna, 1989 e Paolo SCALINI, Fare giustizia in Romagna, Bologna 1991. “Sulla base dei rapporti dei carabinieri e delle questura risultano uccise o scomparse dopo il 25 aprile ’45 circa cinquanta persone nel triangolo della morte, quindici in collina, una ventina a Massalombarda e sedici nel ravennate”. SCALINI, op. cit., p. 14. Relativamente a Ferrara cfr. Alberto BALBONI, Edda BONETTI, Guido MENARINI, Repubblica sociale italiana e Resistenza. Ferrara 1943-1945, Ferrara 1990. Nel volume è diffusamente citato il cosiddetto “Memoriale Sergio” dal nome di battaglia del partigiano comunista Sesto Rizzatti che lo scrisse in carcere nel 1945. In tale memoriale, la cui autenticità è stata però messa in dubbio, Rizzatti ricostruisce numerosi episodi di violenza avvenuti nel ferrarese dopo la Liberazione, attribuendone la responsabilità ad alcuni dirigenti di vertice del Pci locale. Cfr. anche a cura dell’Associazione nazionale famiglie caduti e dispersi dell Repubblica sociale italiana, Ferrara 1943-1945. Martirologio, Rimini, 1985. Nella pubblicazione sono menzionati i nomi di circa 320 scomparsi dopo la Liberazione.
15 Aldo CURTI e Baldassarre MOLOSSI nel libro Parma anno zero, Parma, 1989, citano un rapporto della Questura datato 6 maggio 1946 in cui si riferisce di 206 vittime dopo il 25 aprile; un precedente rapporto dei carabinieri del 6 maggio 1945 parla di soli cinque uccisi a Parma. Si tratta comunque di cifre sia la prima, sia soprattutto la seconda, molto lontane da quelle delle altre province emiliane. “Gli studiosi della Resistenza sono orientati a credere che nella nostra città non ciò sia stato un disegno di lotta finalizzato alla ‘rivoluzione proletaria’. I delitti parmigiani vanno compresi nel clima di illegalità diffusa che si era creato nell’immediato dopoguerra. A Parma il movimento partigiano era ampiamente variegato e la presenza cattolica si faceva sentire. Le frange più estremiste erano sotto controllo e ciò ha impedito eccessi che si sono verificati nelle province vicine. Era sotto controllo anche l’aspetto “militare” delle brigate: i responsabili, infatti, erano spesso militari di carriera e quindi presumibilmente capaci di garantire professionalità e disciplina”. “Gazzetta di Parma”, 8 settembre 1990. E’ da sottolineare che undici delle 21 Brigate partigiane del Nord Emilia 11 erano democristiane o comunque cattoliche, in parte autonome ed in parte raggruppate nelle Divisioni “Val Taro”, “Monte Orsaro”, “Ricci”, “Gruppo Brigate Cento Croci”.
16 I comunisti escono dal Governo nella primavera del 1947, e Scelba assume l’incarico di ministro degli Interni nel febbraio 1947. In precedenza per qualche mese il ministero era stato assunto ad interim dal Presidente del Consiglio De Gasperi.
17 La gravità della situazione dell’ordine pubblico in Emilia è confermata anche dalle relazioni che le autorità di polizia inviavano in quel periodo al ministero degli Interni, e che ora sono state parzialmente pubblicate da Pietro Di LORETO, nel suo volume Togliatti e la “doppiezza”. Il Pci tra democrazia ed insurrezione, Bologna, 1991. “Nella zona modenese – scrive un commissario di polizia nel luglio del 1946 – funzionano in atto due polizie e cioè: 1) la polizia dell’A. N. P. I. che dispone completamente della Questura a mezzo di un personale largo ed invadente; sussiste altresì una rete misteriosa di aderenti all’OZNA (polizia segreta jugoslava, ndr), i quali si appoggiano ai compagni comunisti, rifuggono da soste alberghiere e perciò sono ben difficilmente identificabili; 2) l’Arma dei Carabinieri. Polizia di partito la prima, di Stato la seconda; è agevole intendere quali conseguenze ne derivino sul terreno amministrativo… La polizia dell’ANPI è espressione dell’esecutivo comunista, i cui metodi sono ben noti, ed i in tale formazione ancora confluiscono elementi avvezzi a farsi ragione con le armi. La maggior parte di essi sono stati inseriti nella polizia ausiliaria che domina completamente la questura, e mantengono fra di loro l’organizzazione n cellule, cara al partito comunista, riconoscendo come propri capi i dirigenti di partito e conferendo al Questore solo un’obbedienza formale”. (p. 86) Relazioni altrettanto allarmate provengono nell’estate del 1946 da tutte le province emiliane e danno un quadro esauriente della gravità dell’ordine pubblico. Bologna: “Le uccisioni per motivi politici, per non contare quelle verificatesi nel periodo insurrezionale, sono state commesse in numero notevolmente maggiore che in qualsiasi altra provincia… Ma ciò che più impressiona è che gli omicidi del genere non accennano a cessare e se ne sono avuti anche recentemente… Purtroppo i colpevoli rimangono quasi sempre ignoti, sia perché bene organizzati… sia perché coloro che sarebbero in grado di identificarli se ne astengono… “. (p. 85). Forlì: “L’intolleranza politica è stata ed è tuttora molto viva nella provincia e dà luogo a delitti e disordini. Ultimamente è stato necessario sospendere la presenza degli imputati ai processi innanzi alla Corte d’Assise Straordinaria, non essendo in grado la forza pubblica di contenere le violenze del pubblico tumultuante che assiste ai processi stessi e ha tentato più volte d’impadronirsi dei giudicabili per farne giustizia sommaria”. (Ibidem). Reggio Emilia: “Nella provincia si verificano tuttora dei gravi delitti di vendetta politica, che impressionano l’opinione pubblica e rivelano la persistente tendenza ad uccidere e depredare da parte di elementi che si ritengono al di sopra di qualsiasi freno morale e giuridico”. (Ibidem).
18 “l’Unità”, 11 settembre 1990.
19 “La Stampa”, 9 settembre 1990.
20 “Non furono “schegge impazzite” – ha affermato l’ex comandante partigiano Ermanno Gorrieri -. Si può piuttosto pensare ad un treno messo in moto dalla Resistenza che non si fermò”. “Il Giornale”, 18 settembre 1990.
21 Secondo i comunisti “la linea di separazione nazionale viene più o meno a coincidere con la linea di separazione sociale. Generalmente parlando e fatte le debite eccezioni, il proprietario collabora con i tedeschi, il contadino li combatte”. Paolo ALATRI, I triangoli della morte, Roma, s. d. (ma 1949), p. 13. Olindo Cremaschi, segretario della Federterra di Modena, racconta che durante la Resistenza sentiva “gente che, come veniva accolta nel movimento armato, esclamava: ‘Finalmente ho un’arma in mano! Adesso ammazzo il fascista, il mio padrone’”. Cit. in Mauro FRANCIA, Le campagne modenesi nella ricostruzione, in AA. VV, La ricostruzione in Emilia-Romagna, Parma, 1980, p. 119.
22 Cfr. Valerio EVANGELISTI, Salvatore SECHI, Il galletto rosso. Precariato e conflitto di classe in Emilia Romagna, Venezia, 1982.
23 La lettera inviata al Comando generale delle Brigate “Garibaldi” è citata in Paolo SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano. Togliatti e il partito nuovo, Torino, 1975, vol. III, p. 374.
24 Giorgio AMENDOLA, Il rinnovamento del Pci, intervista di Renato Nicolai, Roma, 1978.
25 Antonio GAMBINO, Storia del dopoguerra. Dalla Liberazione al potere Dc, Bari, 1975, p. 301. “Quando arrivai al ministero dell’Interno – ha testimoniato ancora Scelba – gli effettivi della pubblica sicurezza erano circa 30 mila. La cosa più grave, però, era che di questi, secondo i nostri calcoli, almeno 8 mila erano comunisti, pronti ad agire contro lo stato dall’interno. […] Comunque sia, nel giro di un anno, portai gli effettivi delle pubblica sicurezza ad oltre 50 mila, scegliendo accuratamente i nuovi agenti tra i cittadini che avevano un sicuro senso dello stato. Per eliminare gli 8 mila comunisti adottai il sistema del bastone e della carota: da un lato un provvedimento che assicurava a tutti coloro che volevano lasciare il servizio una serie di benefici finanziari, dall’altro il trasferimento in sedi meno piacevoli, e specialmente meno importanti. [... ] Oltre che in basso agii anche in alto: tutti i questori e i prefetti che nei mesi precedenti si erano dimostrati infidi o incerti furono completamente sostituiti. (Ibidem)
26 A riguardo delle teorie che presentano i processi ai partigiani comunisti come parte di un disegno persecutorio più ampio dello stato e dei partiti di governo nei confronti del Pci, cfr. ALATRI, I triangoli della morte, cit., Stefania CONTI, La repressione antipartigiana. Il “triangolo della morte” 1947-1953, Bologna, 1979, Guido NEPPI MODONA (a cura di), Giustizia penale e guerra di liberazione, Milano, 1984; ed infine ALESSANDRINI, POLITI, Nuove fonti sui processi contro i partigiani, cit. In quest’ultimo saggio tra l’altro si legge: “La grande quantità delle incriminazioni, nel corso di quei cinque anni (1948-1953, ndr), è tale comunque da autorizzare l’uso di espressioni quali ‘repressione diffusa’ o perfino intento persecutorio’. I processi ai partigiani coincidono [... ] con una fase acuta dello scontro sociale in Italia, tanto che le carceri si riempiono di partigiani come di braccianti e di militanti politici e sindacali” (p. 44). La circostanza che molti dei processi si svolsero dopo il 18 aprile 1948, circostanza che porta la storiografia comunista a sostenere l’impiego della magistratura da parte dello stato in funzione politica e repressiva, è confutata da Paolo Scalini, a quell’epoca giovane magistrato a Ravenna: “Non c’entra niente la politica. I motivi di questa coincidenza, perché tale è, vanno cercati negli anni precedenti il 1948, nella situazione in cui venne a trovarsi la nostra provincia nei due anni dopo la fine della guerra. Due anni in cui la quasi totalità delle denunce si riferiva a delitti o altri reati commessi dalle brigate nere. Si deve inoltre tenere conto che nelle zone rurali le caserme dei carabinieri restarono per qualche tempo sguarnite e che l’ordine pubblico era in mano alla polizia partigiana. [... ] Inoltre, temendo ritorsioni, quasi mai i testimoni e gli stessi famigliari di coloro che furono prelevati e sparirono o furono ritrovati uccisi, fecero subito i nomi dei responsabili o fornirono notizie utili alla loro identificazione. [... ] In questo clima le indagini erano pressoché impossibili tanto che quasi tutti i rapporti si concludevano con un non doversi procedere essendo rimasti ignoti gli autori del reato. E’ stato solo più tardi, dalla fine del 1947 in poi, che qualcuno ha cominciato a parlare, qualche inquisito ha confessato e soprattutto i testimoni e i famigliari delle vittime hanno fatto i nomi dei presunti colpevoli. SCALINI, op. cit., pp. 25-26.
27 Il Centro di solidarietà democratica, che dipendeva completamente dal Pci da un punto di vista economico e finanziario, cominciò ad operare nel 1948 per sostenere i partigiani coinvolti nei processi, e fu riesumato fra il 1969 ed il 1980 “per assistere gli ultimi partigiani che ancora avevano carichi pendenti, ottenere grazie e riabilitazioni, aiutare il rientro degli espatriati, fare in modo che fossero riconosciuti gli anni di lavoro all’estero. E’interessante notare che tale comitato svolge tuttora un’attività, benché molto ridotta rispetto al passato”. ALESSANDRINI, POLITI, op. cit., p. 45. Tale Comitato, che si avvaleva di un gruppo di avvocati coordinati da Leonida Casali, fornì difesa legale a tutti i partigiani comunisti processati, salvo tre casi particolarmente gravi relativi all’uccisione del sindacalista cattolico Fanin (novembre 1948), all’eccidio di Gaggio Montano (cinque morti, nel novembre 1945) e alla soppressione del partigiano Renato Seghedoni di Castelfranco Emilia (marzo 1946). La difesa degli imputati per questi fatti – seppure formalmente a titolo personale – fu comunque assunta dallo stesso avvocato Casali. Da qualche tempo l’archivio dell’avvocato Casali e quello del Centro di Solidarietà democratica di Bologna sono parzialmente disponibili per la consultazione presso l’Istituto storico della Resistenza regionale. Di un certo interesse è la raccolta degli atti giudiziari relativi a numerosi procedimenti penali per i fatti del dopoguerra.
28 L’amnistia Togliatti è del 22 giugno 1946. Essa si applicava ai colpevoli di omicidi commessi fino al 31 luglio 1945, salvo che non si fossero resi autori anche di “sevizie particolarmente efferate”. Un secondo decreto, promulgato il 6 settembre 1946, prescriveva che “non può essere emesso mandato di cattura o di arresto nei confronti dei partigiani, dei patrioti o delle altre persone indicate nel comma secondo dell’articolo unico del dec. 1 lgt., 12 aprile 1945, n. 194, per i fatti da costoro commessi durante l’occupazione nazifascista e successivamente, salvo che, in base a prove certe, risulti che i fatti anzidetti costituiscano reati comuni”. Nei processi i giudici si trovarono quindi sempre di fronte alla difficoltà delle distinzione tra “reati politici” e “reati comuni”, anche perché all’omicidio spesso veniva unita la rapina. In ogni caso l’applicazione dell’amnistia aveva come presupposto che l’azione fosse stata compiuta “in lotta contro il fascismo”. E non era certo questo il movente che aveva ispirato l’uccisione di una buona parte delle vittime, cadute ben oltre il 25 aprile.
29 “l’Unità”, 1 settembre 1990.
30 “Lo sa – ha sostenuto Caprara in un’intervista – che dai verbali di quegli anni (della Direzione del partito, ndr) non risulta mai una riserva apprezzabile da parte di Togliatti riguarda ai fatti del “triangolo emiliano”?. Me li sono riletti da cima a fondo: non una parola di condanna, silenzio assoluto. E questo non le sembra una prova? In pubblico il segretario non risparmiava critiche ai dirigenti locali, qualcuno magari lo rimuoveva o lo spostava altrove, ma sempre per ragioni organizzative. Nessuno di loro fu mai espulso dal partito. Neppure i più notoriamente invischiati nelle imprese criminali. Togliatti sapeva, ma li copriva. Perfino quando era ministro della Giustizia, e come tale a maggior ragione avrebbe avuto il dovere di perseguire quei reati”. “Corriere della sera”, 6 settembre 1990.
31 “La verità è che la “doppiezza” non fu solo di coloro che volevano proseguire la Resistenza fino all’abbattimento del capitalismo e della borghesia, così da approdare subito alle sponde del comunismo sovietico; ma fu di tutto il partito. Una differenza, è vero, ci fu e, certo, risultò importante. Ma era e rimase per anni solo una differenza tattica, concernente cioè i tempi. Togliatti, che sapeva ben valutare i rapporti di forza e la situazione reale, si mantenne con grande abilità nei limiti che aveva concordato con Stalin, prima del suo rientro in Italia nel ’44. Il nostro Paese era nella sfera d’influenza occidentale. Non c’era spazio per colpi di testa, ma solo per una politica moderata. Conveniva, quindi, coprirsi con le garanzie della Costituzione “borghese” evitando a qualsiasi costo avventure di tipo greco. Fu questo che una parte della base e anche alcuni dei dirigenti (tanto inferiori a lui) non capirono: la questione dei tempi, cioè dell’occasione storica. Quanto ai principi, invece, tutto restava in piedi anche per Togliatti: il fine ultimo, cioè l’approdo al “socialismo reale”, era valido anche per lui, solo oche sarebbe stato differito a quando le circostanze lo avrebbero permesso”. Lucio COLLETTI, in “Corriere della sera”, 6 settembre 1990.
32 Miriam MAFAI, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia, Milano, 1984, p. 53. GAMBINO, nel suo citato Storia del dopoguerra, riporta una relazione (p. 384) dell’ambasciatore americano Dunn in cui l’esercito clandestino comunista formato da ex partigiani ed organizzato in “squadre di vigilanza” alle dipendenze di “brigate garibaldine” viene fatto ammontare a “50 mila addestrati ed equipaggiati con armi leggere” Su l’”Europeo” del 17 marzo 1990 Salvatore SECHI ha pubblicato un dossier reperito negli archivi di Washington relativo alla struttura militare clandestina del Pci tra il 1945 ed il 1948. In esso sono contenute relazioni stilate dall’Office of Strategic Service (OSS) e da agenti infiltrati che descrivono in modo piuttosto minuzioso l’articolazione delle formazioni paramilitari comuniste. In un rapporto, datato 2 giugno 1945, dell’ agente “Z”, si legge: “La struttura armata all’interno del Pci è formata da 50. 000 uomini equipaggiati con armi moderne e da 10. 000 muniti di fucili e bombe a mano. Per la fine dell’estate si prevede che altri 40. 000 saranno riforniti di materiale bellico proveniente dalla Russia e dalla Jugoslavia. A dirigerla è un quadrunvirato: Luigi Longo, Ilio Barontini, Francesco Roasio e Giorgio Amendola. Questa struttura si articola per squadre che operano per zone e settori e per brigate (4 per ogni regione). Esse dispongono di 100. 000 armi con adeguate munizioni, di 20. 000 mitra e di 10. 000 mitragliatrici (machine guns), di carri armati tedeschi del tipo Tiger e Panzer nascosti in poderi e fabbriche”. L’esistenza di questo apparato clandestino – il cui nome era “Vigilanza rivoluzionaria” – è stata confermata, con corredo di varie testimonianze, su l’”Europeo” del 31 maggio 1991.
33 Il legame ideologico, ma anche quello politico, tra le spinte rivoluzionarie dei comunisti emiliani del dopoguerra ed il nucleo storico delle Brigate rosse è tuttora uno dei punti di maggiore discussione e certo merita un adeguato approfondimento. E’ comunque un dato di fatto che proprio in provincia di Reggio, e precisamente a Pecorile di Vezzano, nell’agosto del 1970 un gruppo di giovani fuoriusciti dal Pci (Franceschini, Pelli, Ognibene, Bonisoli, Gallinari), suggestionato dai racconti degli anziani ex partigiani comunisti, fonda il primo nucleo delle Br. All’intervistatore che gli chiede se “le Brigate rosse sono anche figlie del Pci e di una certa cultura rivoluzionaria”, Alberto Franceschini, uno dei leader storici del terrorismo rosso, risponde: “Certamente, almeno quel pezzo di Br proveniente come me dalla tradizione dei partiti storici della classe operaia: noi a Reggio Emilia, altri a Milano, altri ancora a Torino. La discendenza e la continuità storica sono evidenti. Siamo figli di quella parte del Pci che a Reggio perse la sua battaglia, di quelli che credevano che la Resistenza non fosse finita con la sconfitta dei nazifascisti, di chi pensava che bisognasse continuare per prendere il potere e portare il socialismo anche in Italia”. Significativo è poi quanto dice Franceschini a proposito dell’ing. Arnaldo Vischi, dirigente delle “Officine Reggiane”, ucciso da alcuni comunisti nell’estate del 1945: “Le Reggiane erano diventate un’industria bellica, intorno a cui ruotava l’economia di Reggio. Dopo la guerra volevano ristrutturare la fabbrica, licenziando migliaia di operai. Vischi non era un fascista, né un collaborazionista, ma colui che doveva procedere a questa ristrutturazione. E’ per questo che fu ammazzato, averlo attaccato significava colpire quel progetto di ristrutturazione. E’ la stessa logica con la quale decidemmo di attaccare i dirigenti di fabbrica negli anni settanta. “La stampa”, 5 settembre 1990.
II capitolo – Cattolici e democratici cristiani
All’indomani della Liberazione, i democristiani sono in prima linea nell’opporsi alle violenze e ai miti della rivoluzione “rossa”.
Cercano, all’interno dei Cln, nei consigli comunali che si sono insediati subito dopo la Liberazione di portare ordine, moderazione, equilibrio. In diversi casi non tacciono di fronte ai prevaricatori e agli esagitati che sono presenti in quegli organismi e soprattutto in seno alla polizia partigiana. Non chiudono gli occhi di fronte alla sparizione e alla soppressione di persone, alle irregolarità amministrative, ai furti e alle rapine che sono all’ordine del giorno. E ad alcuni costerà molto caro l’opposizione a qualche “ras” locale che freme per la rivoluzione e non compie molti distinguo tra fascisti, democristiani o possidenti.
In provincia di Modena, tra il maggio ed il luglio 1945, vengono uccisi quattro dirigenti dc: il 10 maggio Carlo Testa; il 2 giugno Ettore Rizzi, assassinato insieme al padre Antonio; il 13 giugno Emilio Missere; il 27 luglio Bruno Lazzari, che cade insieme all’azionista Giovanni Zoboli. In provincia di Bologna, il 7 febbraio 1946, viene ucciso il segretario della sezione di Anzola Emilia Luigi Zavattaro).
Solo nel caso di Missere si arriverà ad individuare e condannare i responsabili. 34
a) Emilio Missere
L’omicidio del ventitreenne Emilio Missere è, tra i delitti a sfondo prettamente politico consumati nei mesi successivi alla Liberazione quello che in provincia di Modena desta più viva impressione e più forte indignazione. Innanzitutto per la personalità cristallina della vittima; poi per le cariche politiche ricoperte sia come membro del Cln di Medolla sia come segretario della locale sezione della Dc; ed infine per le circostanze della sua soppressione che risultano tali da essere inequivocabilmente collegate alla sua attività politica e da far pensare ad un omicidio premeditato ed organizzato con cura.
Emilio Missere è figlio del giudice del Tribunale di Modena Ermanno e di Gina Tosatti. Esonerato dal servizio militare, durante il periodo bellico può dedicarsi agli studi di giurisprudenza fino alla laurea che consegue presso l’Università di Modena nel dicembre 1944. Non partecipa attivamente alla Resistenza per un’istintiva repulsione alla violenza ma, all’indomani della Liberazione, si iscrive alla Democrazia cristiana di Medolla di cui diviene quasi subito segretario. Possedendo una “topolino” è in grado di tenere contatti frequenti con la segreteria provinciale di Modena e curare i collegamenti con le vicine sezioni di Modena e Cavezzo. Nei giorni successivi alla liberazione è stato designato dalla Dc in seno al Cln comunale “come l’uomo più rappresentativo e più dotato per svolgere il compito di moderatore e per agire da freno a quelli che possono essere gli eccessi degli altri rappresentanti quasi tutti partigiani comunisti”. 35
Missere svolge i suoi nuovi compiti con entusiasmo. Il suo zelo lo porta a chiedere continuamente resoconti sull’attività degli uffici contabili del Cln comunale in cui sospetta la commissione di illeciti; al tempo stesso cerca di vedere chiaro in alcuni episodi di violenza consumati dalla polizia partigiana del luogo. Questa sua attività lo mette in cattiva luce presso il gruppo di estremisti che governa il Cln di Medolla. “Il Missere – scrive la “Gazzetta di Modena” nel 1952 – aveva posto in atto suggerimenti dati dal suo partito, perchè si facesse opera di vigilanza e si coadiuvasse coll’Autorità giudiziaria allo scopo di frenare l’ondata di delitti per vendetta scatenati dagli estremisti. Ciò aveva provocato il risentimento di alcuni elementi del luogo, facenti parte del Cln, i quali non tolleravano che si facesse luce sul loro operato. Il Missere, la cui condotta morale e politica era irreprensibile, era ritenuto un testimonio inopportuno e pericoloso per le loro molteplici illegalità compiute mediante perquisizioni, sottrazioni di beni mobili, ed imposizioni di offerte ed estorsioni che alimentavano la bramosia di sfruttare la situazione ad esclusivo vantaggio personale”.
I moventi esatti dell’omicidio però non si conobbero mai. Al processo contro gli assassini di Missere, l’ex presidente del Cln di Medolla ammise che “in seno al Cln c’erano ragioni di contrasto a causa della contabilità che il Bertoli (accusato di essere il mandante, ndr) trascurava molto”. Nello stesso dibattimento si parla anche degli accesi contrasti tra Missere ed esponenti della locale polizia partigiana circa la soppressione, avvenuta poco dopo il 25 aprile senza alcun processo, dei cinque fascisti Eva, Angelo e Santina Greco, Renato Neri e Pasquale Genni. 36
Quello che risulta con certezza è che Emilio Missere, nel pomeriggio del 13 giugno 1946, viene avvicinato da un certo Alfio Calzolari e da un altro partigiano, poi non identificato, che gli chiedono di condurli a Modena su ordine scritto del Cln di Medolla firmato dal vicepresidente Ennio Bertoli. In caso contrario hanno l’ordine di requisire la “topolino” di proprietà del Missere. Il giovane è costretto ad accettare e deve lasciare anche la guida ad uno dei tre. Prima di partire Emilio vede una conoscente e l’incarica di avvertire la famiglia della sua assenza e di rassicurarla che tornerà al più presto. La macchina viene vista transitare da un altro componente del Cln e da una donna, che nota anche che la macchina è seguita da un terzo individuo in motocicletta. Da quel momento di Missere e della sua vettura non si saprà più nulla. Qualche settimana dopo, trascorsa un’attesa inutile quanto snervante, e dopo concitate ricerche condotte dal padre a Modena, la famiglia denuncia la scomparsa di Emilio.
Le indagini dei carabinieri riescono lentamente a penetrare nel muro di omertà e di paura che incombe su Medolla e nel giro di un anno sono in grado di individuare i responsabili: oltre all’esecutore materiale Alfio Calzolari, gli organizzatori dell’omicidio risultano essere Jaures Cavalieri e Marino Malvezzi, ed i mandanti Ennio Bertoli e Alfredo Barbieri, anch’esso componente del Cln di Medolla.
Alla cattura sfuggono il Calzolari ed il Cavalieri. Del primo, ricercato anche per l’omicidio dell’ingegnere Gino Falzoni di Finale Emilia consumato il 17 giugno 1945, non si ritrova traccia e solo dopo qualche tempo le indagini riescono a stabilire che il Calzolari era stato soppresso poco dopo il fatto dai suoi stessi complici nel timore che rivelasse i particolari dell’omicidio; il secondo, sul quale il ministero degli Interni mette una taglia di cento mila lire, riesce a riparare in Jugoslavia e poi a Vienna dove, nel 1949, viene infine catturato.
Al processo, che si svolge alla Corte d’Assise dell’Aquila nel febbraio del 1952, gli imputati si trovano dunque a rispondere di due omicidi, quello di Missere e quello di Calzolari. 37
Durante il dibattimento una testimonianza inchioda i responsabili: certo Canzio Costantini dichiara di aver trovato rifugio, dopo una sua fuga dal carcere, presso l’abitazione di Jaures Cavalieri e di avere appreso da costui che “Missere era stato ucciso con un colpo di rivoltella sulle rive del fiume Secchia”; e che, successivamente, “Alfio Calzolari era stato attirato dagli altri compagni nello stesso punto ove era stato soppresso il Missere, ed era stato pure esso ucciso nel timore che andasse a riferire i nomi degli autori dell’omicidio consumato ai danni del democristiano”. 38
Un altro particolare che aggrava la posizione degli imputati è il ritrovamento degli abiti del Missere nel podere di proprietà del Cavalieri: due donne che cercavano tracce di congiunti scomparsi, rinvengono in una buca, a poche settimane dalla scomparsa del giovane, un sacco contenente un paio di scarpe, un vestito grigio a righe ed un impermeabile chiaro. Accertato che non si tratta dei vestiti dei propri parenti, li ripongono nella buca. Quando i carabinieri, su loro indicazione, si recano a cercarli di quegli indumenti non v’è più traccia. Su richiesta del presidente della Corte, le donne riconoscono però con sicurezza un pezzo della stoffa dell’impermeabile che Missere indossava al momento della sua scomparsa.
Anche in questo procedimento, l’avvocato di parte civile Marinucci cerca nella sua arringa di escludere il movente politico del delitto per non consentire agli imputati di rientrare nei benefici della legge di amnistia: “Non si tratta di un delitto politico, ma di un delitto personale per causa privata. Bertoli ordinò ad Alfio Calzolari di uccidere il Missere e gli dette per compenso 34 mila lire; successivamente fece uccidere lo stesso Calzolari da Jaures Cavalieri”. Da parte loro, gli accusati negano ogni addebito, mentre la difesa cerca in ogni modo di invalidare la credibilità dei testi.
La Corte accoglie sostanzialmente la tesi accusatoria e condanna a trent’anni Bertoli e Jaures Cavalieri, a ventuno anni Malvezzi, a quattordici Dotti ed il fratello di Cavalieri Moris, limitatamente all’omicidio del Calzolari. 39
b) Giorgio Morelli (“Il solitario”)
Il 9 di agosto del 1947 muore ad Arco di Trento il partigiano cattolico reggiano Giorgio Morelli. È la tubercolosi a stroncare la vita di questo giovane di soli 21 anni, ma a quella malattia non è estranea una pallottola sparatagli da ignoti attentatori l’anno prima e che gli ha trapassato un polmone. A procurargli quella ferita sono stati i suoi articoli, a firma “Il solitario”, pubblicati sul settimanale “La Nuova Penna”. 40 Articoli duri e scomodi che denunciano i numerosi delitti rossi compiuti nel reggiano durante e dopo la Resistenza, indicano i responsabili, chiedono giustizia alla magistratura. Morelli e gli altri redattori de “La Penna”, tutti giovani come lui, sono coscienti del pericolo e del fastidio che provocano nel rendere pubblica la verità, ma non si tirano indietro. E i comunisti tentano in ogni modo di fermarli. Tra il 1945 ed il 1946, “La Nuova Penna” è costretta a cambiare per 11 volte tipografia, una di esse l’Age di Reggio viene devastata, numerose edizioni vengono prese dalle edicole e bruciate in piazza. Morelli, partigiano della prima ora, viene definito dai comunisti un “fascista repubblichino”, lo si espelle dall’Anpi, gli si nega la qualifica di partigiano. Ed infine, il 27 gennaio 1946, due sconosciuti gli sparano contro sei colpi di pistola mentre rincasa di notte nella sua casa di Borzano. Ma neppure l’attentato attenua la prosa intransigente de “Il solitario”, che fino alle ultime settimane di vita prosegue imperterrito nelle sue “Inchieste sui delitti” e gira per le strade di Reggio, a mò di sfida, con indosso l’impermeabile bucato dai proiettili. Solo la morte fa tacere Morelli e mette fine all’ esperienza de “La Penna”. Per sua espressa volontà, “Il solitario” viene sepolto a Cà Marastoni di Toano, nell’Appennino reggiano, in una cappella dedicata ai partigiani cattolici delle “Fiamme Verdi” caduti in uno scontro a fuoco con i tedeschi nella “Pasqua di sangue” del 1945, a poche settimane dalla Liberazione.
Giorgio Morelli ha appena diciassette anni quando, sul finire del 1943, comincia a collaborare con la Resistenza pubblicando articoli sui “Fogli Tricolore”, ciclostilati diffusi a Reggio Emilia che mettono “in allarme le autorità della Rsi e che incoraggiano alla Resistenza passiva e a quella armata”. In questi frangenti stringe amicizia con un altro partigiano cattolico Eugenio Corezzola (“Luciano Bellis”), di tendenze liberali, inaugurando il sodalizio da cui successivamente nascerà “La Penna”. I due si ritrovano in montagna, partigiani delle Brigate Garibaldi e rimangono sfavorevolmente impressionati dal settarismo politico dei comunisti e dagli eccessi di violenza con cui conducono la lotta armata. Sfuggito miracolosamente alla cattura, “Il solitario” entra nella 284esima Brigata “Italo” delle “Fiamme Verdi”, una formazione, comandata dal sacerdote don Domenico Orlandini (“Carlo”), in gran parte composta da partigiani democristiani o comunque cattolici. 41 Nel marzo del 1945, su proposta di Morelli e di Corezzola, e d’accordo con Giuseppe Dossetti, le “Fiamme Verdi” danno vita ad un loro foglio clandestino che si chiamerà “La Penna”. Questo settimanale, che uscirà in soli quattro numeri prima della Liberazione, è quasi per intero redatto da Morelli e Corezzola. Negli articoli ricorre un tema caro alla Resistenza cattolica: la lotta di Liberazione come strumento ed esempio del riscatto morale e civile del paese precipitato nella tragedia del fascismo, prima ancora che come lotta armata, come fatto puramente politico o militare. “Voi sapete – scrivono nel primo numero uscito il 1 aprile del 1945 – con quale intento è sorta nell’estate scorsa la nostra Brigata: appunto quello di dare vita ad un blocco di energie giovanili, non solo fermamente decisa a portare per la lotta comune per la liberazione dell’Italia, un contributo d’azione e d’entusiasmo, ma anche ben convinta che tale contributo sarebbe sempre di scarso valore, se non fosse accompagnato da un deciso sforzo di resurrezione morale, individuale e collettiva. Questo era il nostro proposito; quello di combattere con la medesima fermezza l’oppressore della nostra terra, il distruttore delle nostre case, il torturatore dei nostri fratelli, il violatore delle nostre libertà ed insieme combattere in noi stessi ogni deviazione, ogni debolezza, ogni germe di male morale, si da far distinguere la nostra Brigata per la sua disciplina, il suo tono”.
Il giorno della Liberazione di Reggio, il 24 aprile 1945, Giorgio Morelli, è il primo partigiano della montagna ad entrare in città su di una bicicletta avuta in prestito da Ermanno Dossetti. La guerra contro i nazifascisti è finita ma non è conclusa la battaglia per la libertà. Cominciano anche nella provincia di Reggio Emilia le esecuzioni sommarie, il dilagare dei delitti a sfondo politico, le prepotenze e le intimidazioni dei comunisti. Morelli, ed insieme a lui Corezzola ed altri, sentono compromessi gli ideali di libertà e di giustizia per i quali si sono battuti, avvertono la necessità di reagire, di fare qualcosa. Nasce così, a partire dall’ottobre 1945, il “settimanale indipendente” “La Nuova Penna”, che anche nel nome vuole dare continuità con la precedente esperienza partigiana dei redattori. Caratteristica peculiare del giornale è la sua indipendenza politica, anch’essa orgogliosamente rivendicata in continuità con la loro precedente militanza partigiana in cui avevano rifiutato ogni coloritura partitica in contrapposizione all’esasperata politicizzazione delle formazioni comuniste.
Morelli è democristiano, come la gran parte dei collaboratori, Corezzola è liberale, ma non vi è alcun ossequio a direttive di partito, fatto questo che provocherà a “La Nuova Penna” una certa presa di distanze – almeno a livello ufficiale – anche da parte della Dc, impegnata in quel momento nella difficile gestione unitaria dei Cln. 42 Sarà però sempre loro accanto il comandante delle “Fiamme Verdi” don Domenico Orlandini, che sovvenzionerà con offerte il settimanale e pubblicherà anche qualche articolo. Successivamente Corezzola ha definito “La Nuova Penna” “un autonomo ed interessante fenomeno cattolico-liberale che, seppure ignorato, confutato, avversato dalle organizzazioni partitiche ufficiali, fu l’unica forza effettivamente in grado di contrastare l’ipoteca comunista sulla Resistenza armata”. 43 E in effetti, nonostante tutte le accuse mosse dai comunisti, “La Nuova Penna” non rinnega nulla dei valori autentici della Resistenza, ma anzi afferma esplicitamente di condurre la propria battaglia in nome di essi per impedire che vengano confusi o deturpati dagli atti di delinquenza e di banditismo compiuti dai comunisti.
Gli articoli de “Il solitario” sono duri, precisi, documentati e partono dall’inchiesta sulla misteriosa morte, avvenuta nella Pasqua del 1945, di un suo intimo amico della lotta partigiana, il vicecomandante della 76esima Brigata Sap, Mario Simonazzi (“Azor”), il cui corpo viene ritrovato nell’agosto 1945 con un foro di pallottola alla nuca. L’inchiesta su “Chi ha ucciso Azor?” prosegue per tre numeri del giornale e suscita un vespaio di polemiche. 44
Senza fare in nomi, “Il solitario” addita i comunisti come mandanti dell’uccisione. Essi avversavano il cattolico “Azor” perchè era politicamente indipendente e non condivideva i loro metodi violenti e settari. Di seguito Morelli, si occupa di un’altra “vittima dell’odio”: don Giuseppe Iemmi, parroco di Felina, trucidato il 19 aprile 1945, a pochi giorni dalla Liberazione. Rievoca il suo calvario e fa i nomi dei “garibaldini” uccisori: “Briano”, “Aspro”, “Vulcano”… 45 In un altro articolo riferisce dell’uccisione di don Luigi Ilariucci, parroco di Garfagnolo, ucciso il 18 agosto del 1944, anche questa volta da partigiani comunisti. 46 Per questo delitto “Il solitario” chiama direttamente in causa come mandante l’incontrastato capo del Pci reggiano del tempo, “Eros”, ovvero Didimo Ferrari.
E la reazione di “Eros” non si fa attendere: i partigiani de “La Nuova Penna” vengono espulsi dall’Anpi. Per tutta risposta “Il solitario” risponde al dirigente comunista sulla colonne del giornale con un editoriale fiero e provocatorio dal titolo: “Eros per chi suonerà la campana?”. “La nostra espulsione dall’Anpi, da te ideata, è per noi un profondo motivo d’onore”, scrive Morelli. “Ad ogni modo, permetti, Eros, che l’opinione pubblica sappia quali sono i veri motivi della tua decisione. Il lavoro che stiamo svolgendo dalla Liberazione ad oggi è per te e i tuoi compagni un grave intralcio all’attuazione dei tuoi propositi. La nostra voce che chiede libertà ed invoca giustizia è una voce che ti fa male e ti è nemica. (…) Noi abbiamo semplicemente chiesto che tra i patrioti veri della resistenza più non avessero a rimanere i delinquenti comuni, i ladri di professione, gli uomini dalle mani sporche di sangue innocente. Abbiamo chiesto giustizia per le vittime ed abbiamo voluto, come vogliamo ancora, che sia ridato intero l’onore all’ideale della nostra lotta. Comprendiamo bene che l’atto da te compiuto – continua “Il solitario” nell’articolo – ha il segreto scopo di additarci all’odio dei tuoi fedeli per incitarli a compiere il fatto di sangue. (…) Eros, puoi attuare il tuo piano come e quando ti fa comodo. Ricordati però che quello che noi sappiamo di te e del tuo passato, rimarrà; anche quando non ci saremo. E rimarranno gli amici che come noi, chiederanno giustizia e parleranno”. 47
Poche settimane prima di scrivere questo articolo Morelli aveva subito l’attentato che lo porterà a morire. Ma non per questo rinuncia a scrivere con un coraggio temerario, e sfidando apertamente i suoi avversari, con la stessa prosa tagliente e precisa. Nel corso del 1946, denuncia l’uccisione dell’industriale di S. Ilario d’Enza Giuseppe Verderi, di don Giuseppe Pessina48, delle fosse comuni di Campagnola, del capitano Ferdinando Mirotti, del sindaco socialista di Casagrande Umberto Farri. 49 Sono gli stessi delitti che sono tornati agli onori della cronaca dopo il “Chi sa parli” di Otello Montanari.
Due giorni prima di morire annota nel suo diario queste parole che hanno il valore di un testamento spirituale: “Ho una tristezza infinita nell’anima (..) Quasi un presentimento che debba avvenire qualcosa di inatteso, di acerbo. Forse questa mia giornata terrena potrebbe non vedere l’alba di domani. Non mi spaventa la morte. Mi è amica, poiché da tempo l’ho sentita vicina, in ore diverse: sempre bella. Nell’istante prima del mio tramonto, mi prenderebbe una sola nostalgia: quella di aver poco donato (…) Oggi, la mia confessione ultima sarebbe questa: l’odio non è mai stato ospite della mia casa. Ho creduto in Dio, perché la sua fede è stata la sola ed unica forza che mi ha sorretto”. 50
c) Giuseppe Fanin
È la sera del 4 novembre 1948 a San Giovanni in Persiceto, un comune della pianura bolognese ai confini con la provincia di Modena. Giuseppe Fanin sta rientrando in bicicletta alla sua abitazione dopo aver fatto visita alla fidanzata. Il matrimonio è già programmato per la primavera successiva, ma i progetti del giovane non avranno futuro. C’è nebbia sulla via Biancolina, non c’è illuminazione e a quell’ora – sono all’incirca le 22 – passano pochi pedoni e biciclette. Il luogo ideale per un agguato. Fanin vede solo all’ultimo momento i tre individui che gli sbarrano la strada e lo fanno cadere. Tenta disperatamente di difendersi ma non può fare nulla contro la gragnola di colpi inferti con una spranga di ferro che lo colpiscono ripetutamente alla testa. Per uccidere. Si accascia al suolo privo di conoscenza. Gli assalitori, compiuta la “missione”, tornano a scomparire nella notte. Passano venti minuti prima che un passante ritrovi il corpo di Fanin agonizzante e dia l’allarme. I soccorsi sono inutili: le ferite alla testa sono troppo gravi perché i medici possano fare qualcosa. Il giovane muore dopo poco all’ospedale. 51
Ma chi è Giuseppe Fanin per essere oggetto di tanto odio? È un giovane ventiquattrenne, laureato in agraria, attivo militante della Fuci, pieno di energia e vita, come tanti. Ma è anche e soprattutto un sindacalista, un mestiere che ha scelto per essere più vicino alla terra che ama. La sua è una famiglia numerosa – è il terzo di otto figli – di origine veneta e profondamente cattolica, che si è trasferita a San Giovanni nel 1910 dopo aver acquistato un podere in località Tassinara di circa 40 ettari. Fanin è segretario provinciale delle Acli-terra e come tale si occupa delle vertenze agrarie, una materia incandescente in quei tempi in cui si scontrano frontalmente due concezioni opposte: da un lato i comunisti che spingono per la collettivizzazione delle terre – “la terra non si compra, si conquista” è il loro slogan – dall’altro i democristiani che si battono per l’estensione delle proprietà coltivatrice e per la compartecipazione. Una situazione resa ancor più tesa dalla scissione della Cgil e dalla costituzione dei sindacati liberi che rompono l’egemonia comunista sul fronte sindacale. 52
E Fanin è tra i sindacalisti bianchi uno dei più attivi e quindi pericolosi agli occhi dei comunisti. Sa stare tra la gente, ascoltarne i problemi, attira consenso ai sindacati liberi. Ha messo a punto proprio in quelle settimane un progetto di patto agrario basato sulla compartecipazione dei braccianti ai frutti del loro lavoro, “per strappare questi dalla loro condizione di salariati e insieme da quella di organizzati nel chiuso sistema di “collettivi” di tipo sovietico”. Il 7 novembre dovrebbe tenere al convegno dei sindacalisti cattolici di Molinella proprio una relazione sul nuovo patto agrario.
Fanin è dunque un bersaglio scelto non a caso: attraverso di lui si colpisce tutto il coerente impegno dei cattolici in campo sociale diretto a promuovere l’emancipazione dei lavoratori al di fuori delle scontro sociale e all’interno delle regole democratiche. Va osservato che alla fine 1948 gli eccidi indiscriminati del post Liberazione sono ormai un ravvicinato quanto terribile ricordo (solo nella zona di San Giovanni in Persiceto nel 1945 vengono uccisi due sacerdoti: don Enrico Donati, arciprete di Lorenzatico, e don Alfonso Reggiani, parroco di Amola di Piano). Da quasi due anni ormai lo stato e la polizia di Scelba hanno ripreso il controllo della situazione. L’ordine pubblico è stato rafforzato, gli organi di polizia riorganizzati ed aumentati, gli assassini del “biennio di sangue” cominciano ad essere arrestati e processati. Ma ciononostante il clima politico-sociale continua a rimanere pesante, soprattutto nelle campagne, e si inasprisce con la vittoria della Dc nelle elezioni del 18 aprile. Essa infatti provoca “una rabbiosa volontà di recupero da parte dei socialcomunisti per riaffermare la loro supremazia in tutta l’area provinciale”, che porta breve all’instaurazione di un stato di “terrorismo ideologico” nei confronti dei partiti democratici, attraverso il ripetersi di “scioperi, di agitazioni, di interminabili cortei di lavoratori e di lavoratrici della terra da un paese all’altro, di tumulti e minacce senza fine”. 53 Il 18 ottobre alla Camera dei deputati viene discussa un’interpellanza presentata dagli onorevoli Bersani, Casoni, Manzini e Salizzoni al ministro degli Interni “per denunciare la grave situazione determinatasi in provincia di Bologna per la violenta azione persecutoria esercitata dai social-comunisti e delle Camere del lavoro, per impedire la libera costituzione di nuovi organismi sindacali democratici, azione che ha condotto a numerosi episodi di violenza fisica e morale, come nei comuni di Castel San Pietro, Ozzano e Santa Agata ed ha
determinato, in larga parte della provincia, una situazione che impedisce l’esercizio degli elementari diritti dei cittadini e crea un clima intollerabile di intimidazione e di minaccia”. 54
I sindacalisti bianchi sono particolarmente nel mirino, additati per nome al pubblico disprezzo. Fanin è tra essi. Solo due settimane prima della sua uccisione, la Camera del Lavoro-Lega braccianti di San Giovanni in Persiceto diffonde un volantino del seguente tenore: “Lavoratori dei campi e delle officine! La mano ossuta degli agrari appoggiata dagli organi di Governo, stretta a quella dei servi sciocchi tipo Fanin, Bertuzzi e Ottani (gli ultimi due sono i segretari delle sezioni dc rispettivamente di S. Giovanni e di Decima ndr), tenta di stendersi di nuovo rapace nelle nostre campagne per dividere i lavoratori e instaurare un regime di sfruttamento e di oppressione poliziesca di tipo fascista”. 55
Il delitto suscita scalpore ed emozione in tutto il paese:56 al funerale partecipano migliaia di persone provenienti da molte regioni. La matrice politica è più che evidente, così come l’ambiente politico nel quale è maturato. La Democrazia cristiana di Bologna prende una posizione durissima in cui, dopo aver sottolineato che Fanin è stato vittima “della violenta campagna di odio e di manifesta istigazione al delitto provocata e voluta dai dirigenti sindacali social-comunisti”, reclama che le autorità competenti infrangano “il giogo di terrore che i social-comunisti tentano di imporre fra le nostre case”, ed auspica che tutti gli onesti insorgano “a far da barriera perchè la sanguinosa catena di violenze e delitti sia senz’altro spezzata”. 57 La Federazione comunista bolognese respinge però ogni addebito affermando che la barbara uccisione “contrasta con i costumi civili che sempre, nella nostra provincia, hanno improntato le lotte dei lavoratori”. 58 I comunisti hanno anzi l’impudenza di arrivare ad insinuare che il delitto è stato ordito all’interno delle Acli di S. Giovanni: “Mercoledì scorso, alle Acli, vi fu una riunione tempestosa. Era presente il dottor Fanin? Non sappiamo. Sappiamo solo che ventiquattro ore dopo il dottor Fanin veniva assassinato”. 59 Ma la campagna di menzogne dietro la quale i comunisti tentano di celare la vera natura del delitto, si spinge oltre. Prendendo spunto da una frase attribuita, ma subito smentita, all’on. Giulio Pastore fondatore dei sindacati liberi – secondo cui vi erano persone pronte a recarsi a San Giovanni per vendicare l’omicidio di Fanin – la stampa comunista scrive a tutta pagina che “con l’appoggio dei dirigenti democristiani si organizzano squadre di terroristi” e afferma l’esistenza di “squadracce nella nostra provincia, bene armate e pronte a seminare violenza e morte tra i lavoratori”. 60
Passano pochi giorni e la verità viene a galla. In un primo tempo i carabinieri, indagando negli ambienti del Pci e della Camera del Lavoro di S. Giovanni, fermano 17 persone su cui gravano i maggiori sospetti; tra esse vi è il segretario del Pci del luogo Gino Bonfiglioli, operaio canapino. Gli indiziati vengono però messi in libertà per mancanza di prove. Pochi giorni dopo, in seguito a nuove ed accurate indagini, il Bonfiglioli viene nuovamente fermato e nel giro di poche giorni crolla di fronte agli interrogatori e confessa di essere l’organizzatore del delitto. Agli inquirenti fa i nomi dei tre esecutori: Gian Enrico Lanzarini, Indro Morisi e Renato Evangelisti, tre giovani braccianti. L’arresto degli assassini scatta la notte del 24 novembre. Nello stesso momento l’on. Giancarlo Pajetta sta tenendo un comizio nel Teatro comunale di San Giovanni in cui lancia invettive contro il prefetto che “si sente in dovere di smentire le parole d’un certo Pastore e di smentire l’esistenza dei dinamitardi e permette invece che degli innocenti vengano maltrattati senza colpa”. 61 “Gli assassini non bisogna certo cercarli in mezzo a voi; ben sappiamo dov’è che si educa all’odio”. Ma Pajetta non sa che Lanzarini ha già vuotato il sacco, come non lo sanno Lanzarini e Morisi che sono presenti e si spellano le mani nell’applaudire l’onorevole comunista. Nel giro di un paio d’ore sono anch’essi in galera, rei confessi. 62
Sulla via Biancolina, nel punto in cui Fanin cadde è stato eretto un cippo che porta scolpite queste parole: “La strada bagnata dal sangue porta sicura alla meta”.
NOTE
34 Carlo Testa resta mortalmente ferito da una raffica di mitra mentre a bordo della sua “topolino” sta percorrendo un viottolo di campagna. Nelle stessa circostanza rimangono feriti don Giuseppe Boselli, presidente del Cln di Bomporto, ed un maresciallo dei carabinieri che viaggiano con lui. Pur rimanendo sconosciuti gli autori dell’agguato, la scomparsa di Testa viene messa in relazione all’uccisione di sette fascisti mirandolesi (il senatore Enrico Tabacchi ed il figlio Ferdinando, Mario Ceschi, Domenico Paltrinieri, Glauco Spezzani, Gino Malaguti e Giulio Castellini) avvenuta pochi giorni prima nei pressi di Bomporto su di un camion che li sta trasportando a Modena dove devono essere interrogati. Testa, medico di professione, viene chiamato a stilare il referto di morte e probabilmente viene a conoscenza dell’esatta dinamica della strage e della sua natura premeditata che contrasta con quella ufficiale dei partigiani della scorta, i quali asseriscono di aver sparato perché aggrediti dai prigionieri. Cfr. “Gazzetta di Modena, 1 luglio 1949.Antonio ed Ettore Rizzi vengono prelevati di notte dalla loro abitazione di Redù di Nonantola ed uccisi in un campo a pochi chilometri di distanza. Ettore Rizzi durante la Resistenza ha militato nel servizio informazioni (Sim) delle Brigate partigiane cattoliche “Italia”, e successivamente viene nominato dalla Dc quale proprio rappresentante in seno alla Commissione provinciale per l’alimentazione (Sepral). Il fatto suscita grande emozione in tutta la provincia. Il Cln provinciale di Modena scrive immediatamente una lettera di cordoglio alla vedova di Ettore Rizzi: “Un delitto atroce ed orribile ha spento una generosa vita che tanto aveva dato con entusiasmo, disinteresse e decisione alla causa di liberazione e con quella generosa vita è pure stata stroncata quella del padre”. “L’Unità Democratica”, 7 luglio 1945. Nel 1947 si svolge un processo, a carico di certo Raul Dal Vacchio, che finisce con un’assoluzione per insufficienza di prove. Cfr. “Gazzetta di Modena”, 15 luglio 1947.
Chiaro è il movente dell’assassinio di Bruno Lazzari e di Giovanni Zoboli, consumato in pieno giorno a Ponte Fosco, sulla strada che da Nonantola porta a Bologna. Lazzari e Zoboli stanno infatti recandosi a Bologna in bicicletta per consegnare una denuncia sulle gravi irregolarità compiute da esponenti comunisti in seno all’ufficio materiali abbandonati dai tedeschi di Nonantola. La cartella che contiene la relazione, stesa dallo Zoboli, viene sottratta dagli assassini prima della fuga. Nel 1952 si arriva al processo contro i presunti responsabili, ma anch’esso si conclude con un’assoluzione generalizzata per insufficienza di prove. Nel corso del dibattimento si assiste ad una sequela di ritrattazioni, false deposizioni, alibi artefatti, testimoni reticenti ed impauriti. La pubblica accusa osserva che “a Nonantola si sa quali siano stati gli autori di questo duplice delitto ma si tace perché c’è una cortina di omertà”. Cfr. “Gazzetta di Modena”, settembre-ottobre 1952.
35 Sulla figura di Missere cfr. Germano CHIOSSI, Emilio Missere nel quarantesimo anniversario della scomparsa, a cura della sezione “E. Missere” della Democrazia cristiana di Modena, Modena, 1985.
36 L’ipotesi di un collegamento tra la soppressione dei cinque fascisti e l’assassinio di Missere è ventilata in “Gazzetta di Modena”, 2 luglio 1947.
37 “Gazzetta di Modena”, 14 febbraio 1952
38 Sui particolari della scomparsa di Missere citati nel testo cfr. i resoconti processuali in “Gazzetta di Modena”, febbraio-marzo 1952. “Alla vigilia del processo – scrive la Dc provinciale in una nota – che, rievocando il nome e la memoria di Emilio Misere, fa rivivere le ore di dolore e di martirio dei primi che si batterono per l’Idea e per il ritorno della legalità contro l’odio e la violenza, sostituiti all’arbitrio criminoso di singoli all’autorità della Legge, la Dc modenese sentendosi moralmente parte civile nel processo stesso, attende il sereno responso della Giustizia non per brama di vendetta, ma quale monito severo a chi tale Giustizia agognasse ancora lo scempio”. “Gazzetta di Modena”, 14 febbraio 1952.
39 Il sacrificio di Emilio Missere, a cui è stata intitolata una sezione cittadina, è stato ricordato in numerose circostanze dalla Democrazia cristiana modenese. Cfr. CHIOSSI, op. cit., pp 22-23.
40 Per tutta la vicenda de “La Penna” e “La Nuova Penna” cfr. Ercole CAMURANI, Eugenio COREZZOLA (a cura di), La Penna, Roma, s. d. (ma 1966). Il volume contiene la ristampa anastatica di tutte i numeri del periodico ed un’introduzione (pp. VII-XXVIII) di Corezzola.
41 Sulle “Fiamme Verdi” reggiane cfr. don Luca PALLAJ, Le Fiamme Verdi delle Brigata Italo, Reggio Emilia, 1970 (in cui è contenuta – pp. 223-227 – anche una rievocazione di Morelli) e Associazione Liberi Partigiani Italiani (a cura della) , Memoriale di “Carlo”, Reggio Emilia, 1983.
42 Su “La Nuova Penna” del 24 maggio 1946 interviene Pasquale Marconi, nel periodo clandestino Vice Commissario generale del Comando Unico delle forze partigiane reggiane in rappresentanza della Democrazia cristiana. Marconi, che sarà a lungo deputato, durante la Resistenza aveva duramente polemizzato con “Eros” circa il funzionamento del Tribunale partigiano e sulle esecuzioni sommarie dei prigionieri praticate dai comunisti. Chiamato indirettamente in causa dalla redazione de “La Nuova Penna” sulla responsabilità delle uccisioni avvenute durante il periodo clandestino, l’esponente democristiano descrive i suoi interventi per mitigare i metodi violenti dei comunisti e le minacce ricevute da “Eros” che “in un eccesso d’ira insorse, minacciandomi di fare la stessa fine dei fascisti, che secondo lui difendevo”. Al tempo stesso però rivolge ai giovani del giornale un invito alla moderazione nelle loro inchieste sui delitti: “E’ fuor di dubbio che la bellezza della causa partigiana, se è stata illustrata da tanti eroismi e da tanti sacrifici, è stata anche macchiata da delitti e da speculazioni, che per il buon nome di tutti non devono essere nascosti bensì deplorati. Ma, se è giusto che, dove è necessario, si faccia luce e giustizia, non è bene rimescolare continuamente tutto quello che vi può essere stato di marcio: rischieremmo di essere ingiusti verso quello che vi è stato di bello e rischieremmo soprattutto di perdere di vista l’avvenire, che deve sorgere dalle rovine materiali e morali del passato, fascista e non fascista”.
43 CAMURANI, COREZZOLA, op. cit., p. IX.
44 L’inchiesta “Chi ha ucciso “Azor”? viene pubblicata a puntate su “La Nuova Penna” il 10 novembre 1945, il 14 dicembre 1945 ed il 31 gennaio 1946.
45 “La Nuova Penna”, 21 febbraio 1946. Come testimonia Morelli, don Jemmi simpatizzava e collaborava con il movimento partigiano. La causa della sua morte fu dovuta alla disapprovazione fatta pubblicamente in Chiesa per l’uccisione immotivata di due innocui fascisti.
46 “La Nuova Penna”, 24 maggio 1946. Don “Carlo” chiese ripetutamente ad “Eros” che venissero individuati e puniti gli assassini del sacerdote senza peraltro ottenere alcun risultato. “Il Solitario” respinge decisamente le voci che tratteggiano don Ilariucci come una spia e lo definisce “una figura di eroe della nostre resistenza, caduto per vili mani comuniste”.
47 “La Nuova Penna”, 20 aprile 1946.
48 “La Nuova Penna”, 28 giugno 1946. Per il delitto don Pessina “Il Solitario” denuncia apertamente l’esistenza di un’unica organizzazione politica responsabile di questi crimini. E’ stato necessario quasi mezzo secolo per appurare come Morelli avesse visto giusto quando scriveva: “Chi ha dato l’ordine di ucciderlo? Lo si sarebbe potuto sapere all’indomani stesso, ma troppi hanno paura. Sì, paura. Perché con le prove che l’autorità ha in mano si può scoprire tutto. Tutto. Non soli delitto di S. Martino di Correggio, ma anche gli altri; i precedenti. Perché l’ordine di soppressione parte sempre dallo stesso punto. Perché l’organizzazione è sempre la stessa. Perché oltre agli autori materiali dell’omicidio ci sono gli indicatori, i pali, i ricettatori, i mandanti. Ed è un’organizzazione politica”.
49 “La Nuova Penna”, 18 maggio 1947.
50 PALLAJ, op. cit., pp. 226-227.
51 Sulla figura di Giuseppe Fanin cfr. Alessandro ALBERTAZZI (a cura di), Per Giuseppe Fanin 1924-1948. Documenti, Bologna, 1987 e s. a, Giuseppe Fanin, Bologna, 1949.
52 Sulla situazione economico-sociale nelle campagne negli anni del dopoguerra cfr. AA. VV., La ricostruzione in Emilia-Romagna, Parma, 1980, e le note di ALBERTAZZI in Per Giuseppe Fanin, cit., pp. 123-153.
53 Giovanni ELKAN, Giuseppe Fanin nel clima del ’48 bolognese, cit. in Per Giuseppe Fanin, cit., pp. 53-54.
54 Per il dibattito relativo all’interpellanza, cfr. Per Giuseppe Fanin, cit., pp. 51 e ss.
55 “Giornale dell’Emilia”, 6 novembre 1948.
56 L’omicidio di Fanin dà luogo ad un intenso dibattito parlamentare che si svolge alla Camera tra il novembre ed il dicembre 1948. Cfr. Per Giuseppe Fanin, cit. pp. 65-123.
57 “Giornale dell’Emilia”, 6 novembre 1948
58 “Il Progresso d’Italia”, 6 novembre 1948.
59 “Giornale dell’Emilia”, 26 novembre 1948.
60 Cfr. “La Lotta”, 15 novembre 1948 e “Giornale dell’Emilia”, 16 novembre 1948. La Democrazia cristiana bolognese replica a queste accuse con un comunicato in cui dichiara che la “speculazione comunista è destinata ad esaurirsi nel compatimento della cittadinanza” in quanto “è chiaro come si tenta di rovesciare le posizioni e di capovolgere la verità: allontanare da sè la condanna morale che la coscienza pubblica ha già pronunciato per la propaganda che il partito comunista ha fatto e fa quotidianamente”.
61 “Il Progresso d’Italia”, 25 novembre 1948.
62 Bonfiglioli verrà condannato a venti anni di reclusione come Lanzarini. Quindici anni saranno irrogati a Morisi ed Evangelisti. La pena sarà scontata solo parzialmente grazie ad un indulto facilitato dal perdono della famiglia Fanin.
Bologna 1991
III capitolo – Sacerdoti
Nell’arco di poco più di un anno, dalla Liberazione al 18 giugno 1946, cadono in Emila-Romagna, uccisi dall’estremismo rosso, sedici sacerdoti.
Un sacrificio che si va aggiungere a quello altissimo già sopportato dal clero nel corso del conflitto, in cui perirono altri trentacinque religiosi in gran parte per mano nazifascista. 3
Nel caso dei sacerdoti, le uccisioni si concentrano esclusivamente nelle province a più forte radicamento comunista: Bologna, Modena, Reggio Emilia e Ravenna.
Ad essere colpiti sono semplici parroci di campagna che abitano per lo più in canoniche isolate. Nella quasi totalità è difficile individuare una movente plausibile alla loro soppressione se non il feroce odio religioso che fa del sacerdote un naturale, anzi un privilegiato, bersaglio politico da colpire. Nella figura del sacerdote come rappresentante della Chiesa gli estremisti vedono il compendio simbolico dell’ordine politico e sociale d abbattere. Non importa che il clero abbia nella stragrande maggioranza simpatizzato per la Resistenza, offrendo appoggi e rifugio sicuro alle formazioni partigiane. Non importa che molti sacerdoti abbiano direttamente militato tra le file dalle Resistenza e che decine di loro siano stati uccisi nelle rappresaglie. Non importa neppure che anche molte delle vittime abbiano dato un contributo in viveri e denaro alla causa della Resistenza o svolto assistenza ai perseguitati dai tedeschi e dai fascisti in campo di concentramento. Il prete è un nemico, e come tale viene visto con sospetto e con diffidenza, quando non con vero e proprio odio. Basta il ricordo di qualche lontana simpatia fascista od una semplice voce, magari propalata ad arte, di aver intrattenuto rapporti con i tedeschi, od una predica in Chiesa di tono anticomunista, e scatta la condanna a morte. Nella determinazione a colpire i sacerdoti rivive poi l’antico e fortissimo sentimento anticlericale diffuso nelle campagne emiliane e già sperimentato nella violenza iconoclasta della “settimana rossa” del primo anteguerra; ed inoltre, almeno in alcuni casi, nella spinta ad uccidere si intrecciano motivi più o meno sordidi d’interesse personale di qualche bracciante od affittuario dei benefici parrocchiali, essendo la figura del prete non di rado collegata a quella del padrone “sfruttatore”.
È bene comunque ripercorrere in successione temporale le singole tappe della via crucis affrontata dal clero emilianoromagnolo nel dopoguerra.
Don Domenico Gianni, parroco a San Vitale in Reno (Bologna), è la prima vittima. Lo fucila un gruppo di partigiani nei pressi del cimitero di Calderara, dopo averlo prelevato in Canonica, il 24 aprile 1945, a due giorni appena dalla Liberazione. È accusato di aver indicato, sul finire del 1944, ai tedeschi impegnati in un’operazione di rastrellamento, l’identità delle persone da catturare. In realtà si trattò di un tragico equivoco, poichè don Gianni era stato costretto da un ufficiale delle SS a salire sulla vettura e a girare per le strade del paese nel corso del rastrellamento. Alcuni dei parrocchiani che lo videro ritennero che fosse una spia e per tale ragione fu costretto a lasciare il paese, anche dietro consiglio del cardinale di Bologna Nasalli Rocca. Pensando di non aver fatto nulla di male e di potere agevolmente chiarire il suo comportamento in quella circostanza, commise l’errore di ripresentarsi in paese il giorno stesso della Liberazione. 64
Anche a don Carlo Terenzani, parroco a Ventosa (Reggio Emilia), un’ imprudenza costò la vita. Era stato semplice cappellano della Milizia fascista, ma dopo aver subito due tentativi di rapimento pensò bene di ritirarsi nel rifugio sicuro dell’Arcivescovado di Reggio. Il giorno 29 aprile il Vescovo celebrò solennemente la Festa della Madonna della Ghiara e don Terenzani volle parteciparvi. Uscì mischiandosi alla numerosa folla. Ciononostante venne riconosciuto e caricato a forza su di un camion nel pieno centro di Reggio. È portato a Ventosa dove viene fatto girare per le strade tra scherni e dileggi. Poi alla sera la fucilazione nei pressi della chiesa di San Ruffino. 65
Raccapricciante è invece la sorte toccata al canonico della Collegiata di San Giovanni in Persiceto don Enrico Donati. Verso le 22 del 13 maggio si presentano in Canonica due individui per invitarlo in paese con la scusa di apporre una firma ad un documento. Don Donati è costretto a seguirli in bicicletta. Lungo la strada si aggiungono al gruppo altri quattro sconosciuti. Il sacerdote capisce il tranello e scende dalla bicicletta rifiutandosi di proseguire. Viene trucidato all’istante a raffiche di mitra. Gli assassini tentano poi di occultare il cadavere in un macero poco distante: infilano il corpo esanime di don Donati in un sacco e lo legano a due grandi sassi e lo buttano in acqua. Poi tornano in canonica a fare razzia dei beni del prete. 66
Don Tiso Galletti, parroco di Spazzate Sassatelli (Imola), viene invece freddato davanti alla porta della sua canonica, il 18 maggio 1945. Dalla motocicletta Guzzi che si ferma davanti alla porta della sua canonica scende un individuo e gli si avvicina, mentre un altro aspetta con il motore acceso. Avuta conferma dell’identità del prete gli spara a bruciapelo alcuni colpi di rivoltella. Poi la moto risale per compiere nella stessa sera altre missioni di morte nella zona. Il movente di questa uccisione, come di altre, viene fatto risalire ad alcune prediche “anticomuniste” fate dal sacerdote in Chiesa. 67
Pochi giorni dopo, il 21 maggio festa del Corpus Domini, a Campanile in Selva in comune di Lugo viene soppresso il parroco don Giuseppe Galassi. Chiamato da due persone ad accorrere sul luogo di un incidente automobilistico per prestare assistenza a dei feriti, don Galassi esce dalla Canonica e si inoltra con gli sconosciuti per i campi. Il giorno dopo i famigliari lo rinvengono cadavere lungo un fosso. Nella zona grava una un clima di terrore, al punto che nessuno si presenta a rimuovere il cadavere. Don Gianstefani, parroco in una località vicina, è costretto ad andare di persona con un carretto per raccogliere i resti dell’ucciso. “Durante l’occupazione si era recato qualche volta al comando tedesco per pattuire e placare l’esosità delle richieste. Sufficiente, in questa zona, per decretare la morte ad un prete”. 68
Nella notte del 23 maggio 1945 due individui si presentano presso la Canonica di don Giuseppe Preci, parroco di Montalto di Zocca (Modena). Quando la domestica Teresa Tamburini va ad aprire, essi invitano il sacerdote a seguirli. La donna, che ha riconosciuto i due nelle persone di Giuseppe Galluzzi ed Ivo Zanni, si unisce al sacerdote. A poche centinaia di metri dalla canonica, Zanni estrae una pistola e fa fuoco sul prete. Poi gli assassini tornano in canonica e fanno razzia dei beni di don Preci. Alla Tamburini viene dato del denaro per comprarne il silenzio. E così per alcuni anni l’uccisione del parroco di Montalto resta un mistero. Poi, nel 1949, le indagini subiscono una svolta: la Tamburini confessa ed i responsabili vengono assicurati alla giustizia. Il movente accertato è quello dell’”odio antireligioso” e della rapina: gli assassini cercavano infatti “una forte somma di denaro incassata dal parroco per la vendita di alcuni capi di bestiame”. 69
Di lì a poco nel modenese cade vittima un altro sacerdote, questa volta ad opera della banda del “triangolo della morte” di Castelfranco. Si tratta di don Giuseppe Tarozzi, parroco di Riolo di Castelfranco. Nella notte tra il 25 ed il 26 maggio, due vetture si fermano davanti alla porta della canonica di don Tarozzi. Alcuni sconosciuti, che si qualificano per “polizia partigiana”, chiedono di entrare e di parlare con il parroco. Don Tarozzi comprende il pericolo e si barrica in casa insieme alla domestica e alla figlia di lei. Dall’esterno, visto che il prete non si decide ad aprire, con un’ascia abbattono la porta ed entrano in casa, mettono le mani su quanto capita loro a tiro, fanno salire don Tarozzi su di un camioncino e si dileguano nella notte. Il cadavere di don Tarozzi non sarà più ritrovato. I responsabili dell’omicidio del sacerdote e di altri numerosi delitti avvenuti nella zona di Castelfranco tra il 1945 ed il 1946 sono giudicati in un processo-fiume che si svolge nel 1951 alla Corte di Assise di Bologna. 70
Ancora nel modenese, nella parrocchia appenninica di Mocogno, si consuma un altro delitto. Nella notte tra il 9 e 10 giugno, Garibaldino Biagioli (“Tarzan”) e Giacomo Rossi (“Bega”) due ex partigiani dal passato poco raccomandabile, che si sono già resi responsabili di furti e di rapine, bussano alla canonica di Mocogno. Quando il parroco don Giovanni Guicciardi si reca ad aprire, gli intimano di consegnare cento mila lire. Il parroco protesta di non essere ricco, di non avere tanto denaro. I due allora salgono in canonica e rubano i soldi che trovano, oggetti ed indumenti. Poi ridiscendono e chiedono al prete di consegnare loro un grammofono. Il sacerdote si arrende e si avvia per andare a prendere l’apparecchio. Ma mentre don Guicciardi volta le spalle, improvvisamente “Tarzan” gli spara a bruciapelo un colpo alla testa. Qualche giorno dopo, nei pressi di Lama Mocogno, “Tarzan” resta ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri. Gli trovano addosso la maglia di lana di don Guicciardi. 71
L’omicidio di don Raffaele Bortolini, parroco a Dosso (Bologna), è consumato verso le 22, 30 del 20 giugno 1945, per le strade del paese. Il parroco si è appena recato a chiedere un mezzo di trasporto con cui recarsi il giorno successivo a Bologna, e sta rincasando in Canonica. Due individui nel frattempo sono entrati in paese ed ordinano il coprifuoco. Poi fermano don Bortolini, il quale tenta di divincolarsi e di fuggire. Fa in tempo a percorrere pochi passi ed una raffica di mitra lo raggiunge mortalmente. 72
Nell’afoso pomeriggio del 2 luglio 1945, don Giuseppe Rasori, parroco di San Martino in Casola (Bologna) è seduto tranquillamente nel suo studio. Sente una scampanellata e si reca ad aprire: sono due giovani che dicono di volere della legna, poi uno chiede di una rivoltella che dovrebbe, a suo dire, essere in possesso del parroco. Compreso il pericolo, don Rasori tenta di chiudere la porta, ma prima di riuscirvi è raggiunto mortalmente da un colpo di rivoltella al petto. Il cardinale Nasalli Rocca nella omelia funebre, di fronte alla bara di don Rasori, dice: “Ci chiudiamo sgomenti nel triste pensiero che i castighi di Dio non debbano cadere terribili su tutti, se la sete di sangue di menti sconvolte e traviate dovesse continuare a seminare vittime e se non ci levassimo concordi a farla cessare”. 73
Crocette di Pavullo è una località isolata dell’appennino modenese in cui è anziano parroco don Giuseppe Lenzini, dal “carattere battagliero”. Nelle sue prediche condanna apertamente i “metodi estremisti di far fuori la gente”. Sono parole di troppo che gli costano la vita. Nel cuore della notte del 21 luglio 1945 il parroco viene svegliato dallo squillo del campanello della canonica. La domestica si affaccia ed il gruppo di persone che sta sotto chiede l’assistenza del parroco per un ammalato. Don Lenzini risponde che, avendo visitato l’ammalato la sera innanzi, sarebbe tornato soltanto la mattina dopo. A questo punto gli sconosciuti si avvicinano alla canonica con una scala iniziando nel contempo una sparatoria. Quindi i malviventi penetrano nella casa ed inseguono don Lenzini, che frattanto ha cercato rifugio nel campanile, lo raggiungono e lo trascinano fuori. Ad un chilometro dalla canonica, anche in seguito alle torture subite, don Lenzini sviene: ripresosi viene obbligato a continuare. Poi uno dei malviventi gli sferra un colpo con il calcio della rivoltella fracassandogli la fronte. Don Lenzini è finito con una scarica di mitra. Il cadavere è gettato in una piccola fossa e coperto malamente di terriccio. 74
Più volte la canonica di don Achille Filippi, parroco di Maiola (Bologna) era stata razziata, tanto da indurre il sacerdote a scrivere al cardinale una lettera in cui tra l’altro diceva: “Sono state ben cinque le visite che ho avuto e sono state inesorabili; lascio immaginare come mi sono potuto trovare. L’ultima volta, andato in chiesa per trovarvi conforto, alle sparatorie che udivo svenni e mi ritrovai a letto portato da loro e… lasciamola lì per non rinnovare “l’infandum dolorem”. Coraggio ancora e speranza nel buon Dio”. Prima della lettera giunge però la notizia della morte del prete. Evidentemente non soddisfatti di aver razziato tutti i suoi averi, i malviventi decidono di farla finita con don Filippi. La notte del 25 luglio 1945 irrompono in canonica, trascinano fuori il sacerdote e lo uccidono con due colpi di pistola. 75
Il parroco di Castelfiumanese (Bologna), don Teobaldo Daporto, viene invece ucciso con il forcale da un suo contadino nel pomeriggio del 14 settembre 1945. Mentre sull’aia sono a discutere circa la ripartizione di una castellata di mosto, ad un certo punto il contadino inferocito gli si scaglia addosso e gli spacca la testa con il manico dell’attrezzo. Constatata la morte di don Daporto, lo trascina per la tonaca fino ad un letamaio ove nasconde sommariamente il cadavere. Quindi si reca alla Camera del Lavoro per vantarsi di aver eliminato il proprio “pretepadrone”. Viene subito fatto arrestare dai carabinieri e tradotto in carcere. E qui, approfittando di un momento di scarsa sorveglianza, l’assassino del prete, sconvolto da quanto ha appena compiuto, si lancia dentro ad un pozzo suicidandosi. 76
Nel pomeriggio del 5 dicembre don Alfonso Reggiani, parroco di Amola di Piano (Bologna), sta tornando a casa in bicicletta dopo aver visitato gli ammalati dell’ospedale di San Giovanni in Persiceto. Giunto a poche decine di metri dalla sua chiesa, due individui gli tagliano la strada. Un breve dialogo repentinamente e tragicamente concluso da una raffica di mitra. Sono le due nipoti, avvertite dagli spari, a trasportare il cadavere in canonica. Al funerale di don Reggiani intervengono pochissime persone: cinque bimbi della scuola e qualche donna. Su don Reggiani grava il falso sospetto che già era costato la vita a don Gianni, e cioè di aver fatto la spia per i tedeschi in rastrellamento nel dicembre del 1944 quando trecento uomini del paese erano stati ammassati in chiesa ed il parroco piantonato in canonica. Qualcuno pensa che sia stato lui ad indicare i nomi dei trenta partigiani che, dopo essere stati sommariamente processati, erano stati passati per le armi ai calanchi di Paderno. In realtà erano stati due disertori tedeschi ad indicare le persone da eliminare. 77
Anche il 1946 vede proseguire il martirio dei sacerdoti. Il 14 gennaio é la volta di don Francesco Venturelli, parroco di Fossoli di Carpi (Modena), ad essere barbaramente soppresso. Don Francesco é stato assistente spirituale degli internati nel campo di concentramento di Fossoli durante la guerra. Ha portato conforto spirituale e materiale ad ebrei, antifascisti, prigionieri alleati. Dopo la guerra continua a prestare la sua assistenza religiosa ai fascisti che vengono rinchiusi a Fossoli. “La Voce del Partigiano”, organo dell’ANPI di Modena, lo accusa di simpatizzare per i fascisti. A pochi giorni dalla pubblicazione di quell’articolo don Venturelli viene trovato morto sul ciglio di una strada non lontano dalla sua abitazione. Aveva seguito nella notte uno sconosciuto che lo invitava a prestare soccorso ad un moribondo ferito in un incidente stradale. Un espediente già usato in altre occasioni ma che ha quasi sempre effetto su un sacerdote. Il fatto suscita violente polemiche. La Dc di Modena addita “La Voce del Partigiano” come mandante di quel crimine: “È l’articolo di quel foglio che ha armato la mano dell’assassino”. 78
a) Il caso Don Pessina
A quasi mezzo secolo di distanza, l’omicidio di don Umberto Pessina, parroco di San Martino Piccolo di Correggio, continua a riservare sorprese e colpi di scena, quasi fosse un dramma diviso in atti in ciascuno dei quali il cerchio delle responsabilità si confonde e si allarga senza però arrivare ad una verità inoppugnabile e definitiva. I clamorosi sviluppi del caso, che si sono registrati recentemente sull’onda delle polemiche sul “chi sa parli”, offrono comunque uno spaccato fedele del clima di violenza che avvolgeva le campagne emiliane di quel tempo e degli stretti legami che esistevano tra i vertici del Pci di allora e gli autori dei delitti.
Il primo atto del dramma si apre con l’uccisione del sacerdote la notte del 18 giugno 1946. Verso le 22 Don Umberto Pessina esce dalla canonica per recarsi in una casa vicina dove deve provare delle tonache per chierichetti. Non fa in tempo che a percorrere pochi passi: un colpo di pistola sparato da distanza ravvicinata lo raggiunge mortalmente. 79
È l’ennesimo omicidio di un sacerdote nella diocesi di Reggio, ed anche in questo caso è evidente il movente politico. Il vescovo di Reggio Emilia Beniamino Socche, che da appena quaranta giorni è entrato in diocesi proveniente da Cesena, reagisce con forza, ed esponendosi in prima persona, a differenza degli altri presuli emiliano-romagnoli che di fronte agli assassini dei propri sacerdoti preferiscono evitare prese di posizione troppo nette, forse per non inasprire ulteriormente gli animi. 80 Quattro giorni dopo l’assassinio di don Pessina, ultimo degli otto sacerdoti reggiani uccisi dai comunisti prima e dopo la Liberazione, in occasione della festa del Corpus Domini, nella cattedrale di Reggio dice solennemente: “Abbiamo fulminata la scomunica agli assassini (di don Pessina ndr), riservandone a noi personalmente l’assoluzione eventuale; e gli assassini sono tanto i mandanti quanto gli esecutori materiali. Abbiamo inflitto l’interdetto alla parrocchia di S. Martino di Correggio ed abbiamo proibite tutte le processioni nei tre vicariati di Correggio, San Martino in Rio e di Canolo. Domandiamo pronta e piena giustizia di questo delitto orrendo e sacrilego. Abbiamo fiducia nelle autorità della provincia. Ma si sappia da tutti che non ci fermeremo ma andremo fino in fondo per fare luce su questi delitti che tengono in un incubo di terrore le nostre popolazioni. Aspettiamo quanti giorni ci vorranno perchè sia scoperto il bandolo di questo esecrando delitto, poi, se eventualmente non ci si riuscisse, faremo palese all’Episcopato cattolico del mondo le condizioni di terrore in cui si trovano i nostri paesi. Se poi si pensasse di uccidere anche il Vescovo, sappiate che il Vescovo sarà ucciso perchè voleva, a qualunque costo, andare fino in fondo a questo orribile delitto, affinché cessino per sempre le condizioni terroristiche di questa nostra povera vita per causa di pochi facinorosi”. 81
È una denuncia aperta ed insieme una dichiarazione di volontà di andare fino in fondo sull’omicidio di don Pessina. Ed il Vescovo Socche manterrà, per tutta la vicenda, un atteggiamento fermo e deciso. 82
Dopo alcuni mesi di indagini inconcludenti, proprio per sollecitazione del vescovo, nel dicembre 1946 viene inviato a Reggio Emilia il capitano dei carabinieri Pasquale Vesce con l’espresso incarico di fare luce sul delitto. 83 “Per prima cosa – si sente dire Vesce dal proprio comandante – vai dal Vescovo e fatti dire tutto quello che sa”. E nell’incontro tra Vesce e Socche che si svolge di lì a poco viene fatto per la prima volta il nome del mandante del delitto. Socche riferisce il nome di una donna che “qualche giorno prima del delitto, trovandosi nell’anticamera del Sindaco di Correggio Nicolini, aveva avuto distintamente la voce alterata di costui dire a qualcuno presente nell’ufficio ‘quel prete va fatto fuori’”. Un indizio labile, e comunque nullo sotto il profilo processuale, anche perchè la donna si era confidata con il presule premettendo che, nel timore di rappresaglie, non avrebbe confermato le sue parole nel corso di un interrogatorio. Da questo colloquio è stata fatta principalmente derivare la tesi del complotto ai danni di Nicolini, ma vale ed a maggior ragione anche il contrario: se Socche e Vesce avessero organizzato davvero una combine, non avrebbero certo rivelato, come hanno fatto ed in modo così esplicito, il contenuto del loro incontro.
I primi tempi delle indagini di Vesce sono comunque estremamente difficili in mancanza di testimoni disponibili a collaborare con la giustizia oltre che per il clima di timore ed omertà diffuso in quella zona, non meno che nelle altre campagne emiliane.
Per mesi Vesce cerca indagando su altri delitti commessi in quei luoghi e nello stesso periodo, un “rampino” che gli consenta di risalire ai responsabili dell’uccisione del sacerdote. Ed infine lo trova seguendo le tracce del delitto del capitano di artiglieria Ferdinando Mirotti, ucciso a Campagnola il 20 agosto 1946. Uno dei presunti responsabili dell’omicidio di Mirotti, certo Antenore Valla, fa capire al capitano dei carabinieri di sapere qualcosa anche sul delitto di don Pessina ed infine rivela di aver ricevuto in casa di Antonio Prodi la confidenza che lui, insieme ad Elio Ferretti, avevano eliminato il parroco di San Martino Piccolo dietro ordine di Germano Nicolini, sindaco di Correggio, soprannominato “Il Diavolo”. Nicolini ha fatto la Resistenza come ufficiale dell’esercito meritandosi una medaglia d’argento al valore. È giovane e gode di ascendente presso i suoi anche se in realtà è un comunista abbastanza anomalo. Appartiene infatti ad una famiglia benestante, ha studiato, è cattolico praticante. Si iscrive al Pci solo dopo la Liberazione e l’anno successivo sarà eletto sindaco. Quando Antonio Prodi confermerà la testimonianza resa da Valla – anche se in seguito darà versioni abbastanza contrastanti con la prima -, Nicolini respingerà ogni accusa sdegnosamente e da allora fino ad oggi continuerà a protestare la propria innocenza gridando alla congiura ordita ai suoi danni da monsignor Socche e dal capitano Vesce, a cui ha aggiunto più di recente anche il suo ex partito.
Il possibile movente diretto è in effetti abbastanza oscuro: tra i tanti che vengono presi in considerazione, due paiono trovare maggiore credito. Il primo riguarda una partita di cavalli abbandonati dai tedeschi in ritirata prima di attraversare il Po. Quei cavalli vengono presi in consegna da Nicolini che provvede a venderli – avendone però a suo dire ricevuta l’autorizzazione – a 19 persone tutte di San Martino Piccolo due giorni prima dell’uccisione del parroco. L’altra vicenda è relativa all’assunzione di una sessantina di mondariso di Correggio promossa da don Pessina insieme ad un altro sacerdote don Ezio Neviani, in sfida alla Camera del Lavoro che pretendeva di avere il monopolio del collocamento. 84 Di fatto la grave pena che verrà inflitta a Nicolini terrà conto, oltre che del suo ruolo di mandante, anche dei moventi comuni che lo avrebbero spinto ad uccidere don Pessina.
Prima del processo, agli inizi del 1948, avviene il primo colpo di scena: due ex partigiani comunisti Ero Righi e Cesarino Catellani, prima di espatriare in Jugoslavia, si autoaccusano del delitto depositando presso un notaio di Milano il testo della confessione. Indicano anche il luogo ove hanno sepolto la pistola con cui era stato ucciso don Pessina. L’arma, dello stesso calibro di quella del delitto, in effetti viene rinvenuta ma una perizia accerta che era stata sepolta da poco tempo e non certo dal 1946. In conseguenza di ciò, Righi e Catellani verranno in seguito condannati a due anni e mezzo di reclusione per autocalunnia.
Ed ecco il secondo atto del dramma – che si svolge presso la Corte d’Assise di Perugia nel febbraio del 1949 – aprirsi con un altro coup de theatre. Antenore Valla, testimone chiave del processo, ritrattando le proprie precedenti dichiarazioni, afferma che al tempo del delitto si trovava nella prigione di Grenoble in Francia per scontare una lieve condanna per espatrio clandestino. Anche questo alibi viene smontato dal capitano Vesce che riesce a dimostrare la manipolazione dei documenti che comprovano la presenza di Valla in carcere in quel periodo.
La difesa degli imputati si manifesta quindi abbastanza maldestra: le prove e gli alibi più o meno contraffatti, invece di contribuire a respingere le accuse aiutano a confermarle. Così come appare singolare il comportamento di Nicolini che si mantiene nella negativa più assoluta: non dice nulla, dichiara di essere all’oscuro di tutto. Eppure Nicolini, ammesso che sia davvero completamente estraneo al fatto, non può non sapere che il Pci sta coprendo qualcuno e non dice la verità. Ma ugualmente tace, accetta che la verità di partito prevalga. Il suo partito per la verità mostra di fare di tutto per aiutarlo: oltre che al processo lo difende strenuamente sulla stampa, spinge all’autoaccusa Righi e Catellani, quando, tra un processo e l’altro, viene liberato lo accoglie trionfalmente come un eroe nella sua Correggio, tanto da far scrivere a mons. Socche una lettera veemente dal titolo “Apologia dell’assassinio”. 85 Ma è una difesa di facciata, quella del Pci, intesa più che a salvare Nicolini a tenere celati i veri responsabili e soprattutto la trama politica che sta dietro al delitto. E non può essere altro che la fede nel partito a sorreggere il giovane ex sindaco di Correggio e ad accettare il suo sacrificio. Anche perchè occorre dire, come ha ricordato Enzo Biagi che seguì il processo come giornalista, che il processo non si svolse nello stile stalinista della Lubianka, ma fu un procedimento regolare da cui scaturì una condanna basata sugli elementi di fatto e sulle testimonianze che in quel momento erano disponibili. Anche se ora Nicolini – senza portare un solo elemento a suffragio – parla di manipolazione degli atti processuali, sottrazione di prove, ecc… 86
Il processo si chiude con la condanna di Germano Nicolini, Elio Ferretti ed Antonio Prodi, rispettivamente a 22, 21 e 20 anni di carcere. Tale sentenza sarà confermata senza modifiche in quattro ulteriori gradi di giudizio. Nicolini sconterà dieci anni effettivi di carcere, gli altri condannati sette.
Una volta uscito dal carcere, Nicolini, a cui la condanna toglie anche i diritti civili, riprende la battaglia nel Pci per vedere riconosciuta la propria innocenza e per avviare la revisione del processo. Ma il Pci non ne vuole sapere di riaprire un caso che, se ripreso, riserverebbe verità assai imbarazzanti. Fino a quando, nel 1972, di fronte ad un ulteriore diniego del suo partito a seguirlo sulla strada della riapertura del processo e di fronte alla sua esclusione dal Comitato federale, decide di stracciare la tessera del Pci. Finalmente, accorgendosi di essersi prestato a fungere semplicemente da capro espiatorio per le colpe di qualcun altro, ripudia definitivamente la “morale comunista” che lo ha sorretto fino allora e che richiede “la subordinazione dei propri interessi e delle proprie volontà, il sacrificio costante di sè e delle proprie famiglie in attesa di una ricompensa che sarebbe venuta un giorno quando la ‘profezia’ si sarebbe avverata”. 87
Occorre arrivare al 1991 per aprire il terzo atto del dramma e fare in modo che la verità, se di verità si tratta, cominci a fare capolino. Ai primi giorni di settembre William Gaiti, ex partigiano della 77esima Sap, confessa al procuratore della Repubblica di Reggio Elio Bevilacqua, che ha riaperto le indagini sul caso, di essere l’esecutore materiale del delitto: “Eravamo in tre – dichiara a quasi mezzo secolo di distanza dai fatti e spinto, pare, dal figlio – tutti armati, io ero il più giovane, il capo mi aveva detto solo che dovevamo fare un lavoretto. Don Pessina mi aggredì schiacciandomi contro il muro. Mi voltai di scatto, feci fuoco d’istinto”. 88 Una versione che deve essere attentamente valutata poichè nella sommaria deposizione di Gaiti vi sono punti ancora oscuri. Certo è che se la dinamica dei fatti fosse davvero quella cadrebbe l’impalcatura dell’accusa e si potrebbe arrivare ad un nuovo processo per rendere giustizia alle persone ingiustamente condannate. Anche in questo caso resterebbe però intatta la sostanza e la natura politica del delitto: autori dell’omicidio – a dire di Gaiti con lui quella notte c’erano anche Righi e Ferretti i due che non vennero creduti al processo di Perugia – sarebbero comunisti. La trama politica che fece da sfondo al “lavoretto” non cambierebbe di un millimetro.
Eppure tanto è bastato al Pds per buttarsi lancia in resta contro il “processo alle streghe” e la “macchinazione” di monsignor Socche e di Vesce contro Nicolini, colpevole soltanto di essere “un giovane e determinato sindaco comunista”. 89 Da parte sua Pasquale Vesce, oggi generale in pensione, interpellato, ha ribadito la correttezza delle indagini e la sua convinzione della colpevolezza di Nicolini90; mentre la Curia di Reggio ha difeso con vigore la memoria del vescovo Socche definendo “intollerabili calunnie” le insinuazioni su una sua presunta orchestrazione di tutta la vicenda: “Appare incredibile e paradossale che si tenti di trasformare in persecutrice proprio quella Chiesa che ha subito l’uccisione dei suoi preti, attribuendole addirittura la ‘filosofia dell’inquisizione’. La vera macchinazione è l’odierno tentativo di imputare al vescovo monsignor Beniamino Socche la deliberata condanna di un innocente sindaco comunista”. 91
D’altra parte, se fosse vera la teoria della congiura ai danni di Nicolini, il vescovo Socche si sarebbe in realtà prestato ad una manovra di depistaggio del Pci per allontanare il pericolo di vedere scoperta la propria responsabilità nell’organizzazione delle squadre di azione che preparavano la rivoluzione e che intanto toglievano di mezzo gli avversari scomodi. Come don Pessina, appunto. “Se fosse emersa subito la verità – ha detto Nicolini – avrebbero finito per essere coinvolti anche alcuni dirigenti provinciali del Pci”, quelli che utilizzavano come “strumenti” Gaiti ed altri “per tenere in piedi una vera e propria organizzazione paramilitare che non operava certamente solo a San Martino Piccolo”. 92 A poco a poco è anche emerso anche il nome di questa struttura paramilitare direttamente od indirettamente responsabile di questo come di tanti altri delitti di matrice politica nel reggiano: si tratta della Cars (Commissione di assistenza ai reduci e ai soldati). Una vera e propria “Gladio rossa” nel cui culto sono cresciuti tanti extraparlamentari reggiani poi approdati al brigatismo rosso da Alberto Franceschini a Prospero Gallinari. 93
E che il partito fosse direttamente coinvolto in quelle torbide vicende di violenza politica e dello stesso assassinio di don Pessina, stanno a testimoniarlo le dichiarazioni dell’ottantottenne fondatore del Pci reggiano, Aldo Magnani, che ha ammesso di aver mandato in diverse occasioni delle “ronde” per sorvegliare la canonica del sacerdote sospettato di fare “traffico d’armi” (sic!). Inoltre Magnani ha confermato che il giorno seguente il delitto tutto il vertice del Pci reggiano era perfettamente a conoscenza del fatto e dei responsabili e decise la strada del silenzio, con il conseguente sacrificio di Nicolini che in quanto all’oscuro di tutto non era in grado di fare i nomi dei mandanti. Di tutto questo era stato informato anche Togliatti, che alla fine del 1946, compresa la gravità della situazione, decise di trasferire alcuni dirigenti in altre province. 94
Siamo all’ultimo atto della tragedia? Probabilmente no. E non è escluso che si arrivi ad un nuovo processo per fare luce una volta per tutte su chi armò la mano agli assassini di don Pessina e sulle trame di odio e di violenza che fecero da sfondo a quello come ad altri delitti.
b) Martirologio
. Gianni don Domenico, San Vitale in Reno, Bologna, 24 aprile 1945
2. Terenzani don Carlo, Ventosa, Reggio Emilia 29 aprile 1945
3. Donati don Enrico, Lorenzatico, Bologna, 13 maggio 1945
4. Galletti don Tiso, Spezzate Sassatelli, Bologna, 18 maggio 1945
5. Galassi don Giuseppe, Campanile in Selva, Ravenna, 21 maggio 1945
6. Preci don Giuseppe, Montalto di Zocca, Modena, 24 maggio 1945
7. Tarozzi don Giuseppe, Riolo, Modena, 26 maggio 1945
8. Guicciardi don Giovanni, Mocogno, Modena, 10 giugno 1945
9. Bortolini don Raffaele, Dosso, Bologna, 20 giugno 1945
10. Rasori don Giuseppe, San Martino di Casola, Bologna, 2 luglio 1945
11. Lenzini don Luigi, Crocette, Modena, 21 luglio 1945
12. Filippi don Achille, Maiola, Bologna, 25 luglio 1945
13. Dapporto don Teobaldo, Castelfiumanese, Bologna, 14 settembre 1945
14. Reggiani don Alfonso, Amola di Piano, Bologna, 5 dicembre 1945
15. Venturelli don Francesco, Fossoli, Carpi, 16 gennaio 1946
16. Pessina don Umberto, San Martino Piccolo, Reggio Emilia, 18 giugno 1946
NOTE
63 I sacerdoti uccisi da partigiani comunisti durante la Resistenza furono: don Corrado Bortolini, Bologna, 1 marzo 1945; don Aldemiro Corsi, Reggio Emilia, 21 settembre 1944; don Giovanni Ferruzzi, Imola, 3 aprile 1945; don Luigi Ilariucci, Reggio Emilia, 19 agosto 1944; don Giuseppe Jemmi, Reggio Emilia, 19 aprile 1945; don Luigi Manfredi, Reggio Emilia, 14 dicembre 1944; don Sante Mattioli, Reggio Emilia, 11 aprile 1945; don Ernesto Talè, Modena, 11 dicembre 1944; don Giuseppe Violi, Parma, 31 marzo 1945. Sul sacrificio del clero emiliano-romagnolo durante e dopo la guerra cfr. Azione Cattolica Italiana (a cura della), Martirologio del clero italiano 1940-1946, Roma, 1963; Lorenzo BEDESCHI, L’Emilia ammazza i preti, Bologna, 1961; Primo MAZZOLARI , I preti sanno morire, In “Presbyterium”, Padova, 1958; Mino MARTELLI, Una guerra e due resistenze, Bari, 1976; Luciano BERGONZONI, Clero e Resistenza, Bologna, 1964 e Preti nella tormenta, Bologna, 1949;. Don Carlo LINDNER, Nostri preti, Reggio Emilia, 1950; Ilva VACCARI, Il tempo di decidere, Modena, 1968; Giovanni FANTOZZI , “Vittime dell’odio”. L’ordine pubblico a Modena dopo la Liberazione (1945-1946), Bologna, 1990. Da questi volumi sono desunte principalmente le vicende narrate in queste pagine.64 BEDESCHI, op. cit., p. 17-18; BERGONZONI, Preti nella tormenta, cit. pp. 201-210; MARTELLI, op. cit., p. 250.
65 BEDESCHI, op. cit., p. 41; MARTELLI, op. cit., p. 278.
66 BEDESCHI, op. cit., p. 20; BERGONZONI, Preti nella tormenta, cit. p. 217-222.
67 Nell’arco di un’ora di quella stessa sera la “motocicletta della morte” si rende responsabile di altri tre omicidi tra Conselice e Spazzate Sassatelli. Oltre a don Tiso vengono soppressi Anello Volta, Aldo Negrini e Aristide Olivieri. Al processo presso la Corte d’Assise di Ravenna nell’ottobre 1954, il figlio di una delle vittime, Tullo Negrini, nega decisamente che il sacerdote fosse fascista: “Io ero fascista, uno dei due soli fascisti di Spazzate Sassatelli; l’altro, Tellarini, è stato ucciso e mio padre è stato assassinato perché ero fascista io. Sapevo tutto dei partigiani perché, pur essendo a Bologna, tornavo a casa ogni sabato; ma non li denunciai, né li disturbai. Don Tiso era un nostro avversario, tanto che ebbi con lui alcune vivaci discussioni”. Don Francesco Gianstefani, parroco del vicino paese di Conselice, racconta che quando si recò a Spazzate Sassatelli “per il funerale non c’era nessuno, tranne i famigliari ed il campanaro. In fondo al viale c’era un giovane in bicicletta con il fazzoletto rosso al collo per controllare i presenti”. E aggiunge: “Sono convinto che ancor oggi i sacerdoti sono considerati carne da macello e noi preti e gli altri che vengono qui a testimoniare saranno uccisi se solo per cinque minuti quelli prendessero il sopravvento”. Il processo si conclude con la condanna a dieci anni di reclusione, interamente condonati, ad Efrem Fontana ed Astore Felicetti, ex partigiani comunisti. Cfr. “Il Resto del Carlino”, 21-22 ottobre 1954 e Archivio del Centro di solidarietà democratica di Bologna (d’ora in poi ACSDBO), sez. II, sett. 3, f. 65. BEDESCHI, op. cit., pp. 27-28; MARTELLI, op. cit., pp. 227-228.
68 BEDESCHI, op. cit., p. 28-29. “Al funerale intervennero circa venti sacerdoti, ma solo tre parrocchiani osarono rompere il cerchio del terrore che attanagliava quella pur religiosa ed ottima popolazione. La rivincita del coraggio si fece attendere dieci anni, ma venne. Nel decennale del martirio, migliaia di persone da ogni parte e decine e decine di bandiere”.
69 FANTOZZI, op. cit., p. 59. Per questo delitto Giuseppe Galluzzi ed Ivo Zanni vengono condannati a 18 anni di reclusione. “Gazzettadi Modena”, 5 aprile 1952. BEDESCHI, op. cit., pp. 265-266.
70 FANTOZZI, op. cit., p. 59. Nella sentenza di condanna i giudici scrivono: “Anche questo grave delitto va inquadrato nel tempo in cui venne commesso, quando l’uccisione di capitalisti e di preti da parte di estremisti sostenitori del proletariato non può non riportarsi anche a motivi di natura sociale-politica, sul piano di una realizzazione ritenuta possibile da alcuni esaltati sprovveduti di cultura e di scarsa sensibilità morale e politica, deviati da un’accesa propaganda di idee contrastanti col capitalismo e investente anche i preti, fino al punto da determinarli a commettere simili gravi delitti”. ACSDBO, sez. II, sett. 3, f. 75. Ventidue anni di reclusione vengono irrogati a Rino Govoni, Ermes Vanzini e Riccardo Cotti; diciotto anni e sei mesi a Guido e Dante Bottazzi e Renato Melotti. “L’Avvenire d’Italia”, 1 aprile 1951. Nel corso del 1991 la Procura della Repubblica di Modena, dietro a nuove segnalazioni, ha ripreso le indagini per individuare il luogo di sepoltura del sacerdote. E’ opportuno ricordare che nel “triangolo della morte” di Castelfranco-Manzolino-Piumazzo, tra il 25 aprile del 1945 ed il maggio 1946 vengono eliminate quarantaquattro persone. BEDESCHI, op. cit., p. 18; MARTELLI , op. cit., p. 250.
71 FANTOZZI, op. cit., pp. 59-60. Dieci anni di prigione vengono inflitti per l’omicidio di don Guicciardi a Giacomo Rossi. “Gazzetta di Modena”, 19 luglio 1949. BEDESCHI, op. cit., p. 32. MARTELLI, op. cit., p. 266.
72 BEDESCHI, op. ci t., pp. 20-21; MARTELLI, op. cit., p. 251
73 BERGONZONI, Preti nella tormenta, cit., pp. 241-253; BEDESCHI, op. cit., pp. 18-19; MARTELLI, op. cit., p. 251.
74 FANTOZZI, op. cit., p. 60. Nel 1949 cinque imputati per il delitto vengono assolti per insufficienza di prove. “Gazzetta di Modena”, 20 maggio 1949.
75 Bruno Grandi, reo confesso dell’omicidio di don Filippi, afferma che la soppressione del prete venne decisa “perché durante il periodo della Repubblica sociale il parroco aveva collaborato con i fascisti ed i repubblichini ed era fra l’altro responsabile del rastrellamento di Monte San Pietro del 27 agosto 1944 e aveva fatto la spia ai danni dei partigiani”. Nel marzo del 1952 Grandi, insieme a Miro Lionelli e a Raffaele Collina, vengono condannati a 20 anni di reclusione interamente condonati per movente politico. ACSDBO, sez. II, sett. 3, f. 22. BERGONZONI, Preti nella tormenta, cit., pp. 223-227; BEDESCHI, op. cit., p. 21; MARTELLI, op. cit. p. 36.
76 “Don Teobaldo Daporto fu l’unico dei sette preti assassinati (della Diocesi di Imola, ndr) ad avere funerali da cristiano. Tutto il popolo e tutti i confratelli della zona erano presenti in chiesa. Molta gente piangeva. Al cimitero, don Gaspare Bianconcini condannò con parole di fuoco la “criminale seminagione di odio”, che bisognava finalmente arrestare. Gli effetti estremi di quella seminagione nei riguardi del clero vennero bloccati”. MARTELLI, op. cit., p. 233-235. BEDESCHI, op. cit., p. 27.
77 BERGONZONI, Preti nella tormenta, cit., pp. 229-239; BEDESCHI, op. cit., p. 19; MARTELLI, op. cit., pp. 251-252.
78 FANTOZZI, op. cit., p. 61. La Dc carpigiana nei giorni seguenti l’assassinio di don Venturelli affigge un manifesto per condannare il misfatto: “Cittadini di Carpi! Un nuovo assassinio, un vergognoso delitto ha insanguinato la nostra terra, che dopo i duri anni sofferti deve essere libera da tradimenti, violenze e minacce. La delinquenza ha voluto ancora una vittima nella persona di un retto ed amato sacerdote, noto Patriota della guerra clandestina, Don Francesco Venturelli. Vi invitiamo a rendere omaggio alla vittima innocente di un perverso odio di parte che tutto abbrutisce e di tutti macchia il nome di civili cittadini”. “L’Unità Democratica”, 19 febbraio 1946. Nel 1991, Carpi ha deciso di rendere omaggio alla memoria di don Venturelli intitolandogli una via cittadina. MARTELLI, op. cit., pp. 272-273.
79 Mons. Wilson PIGNAGNOLI si è occupato ripetutamente della figura e del delitto di don Pessina. Si vedano i suoi: Ho ucciso don Pessina, Roma, 1949 e Reggio: bandiera rossa, Milano, 1961.
80 Sulla vita e l’operato di Mons. Socche cfr. Wilson PIGNAGNOLI, L’ultimo Vescovo-Principe di Reggio Emilia, Roma, 1975; Dino TORREGGIANI, Mons. Beniamino Socche. Profilo di un Vescovo eroico, Vicenza, 1966; Paolo CAMELLINI, Testamento di un Vescovo, Reggio Emilia, 1968.
81 PIGNAGNOLI, Reggio: bandiera rossa, cit., pp. 87-88.
82 L’atteggiamento duro ed intransigente sul caso don Pessina procurò a Mons. Socche qualche disapprovazione nella Dc ed anche all’interno della gerarchia ecclesiastica. Nelle sue memorie il Vescovo infatti scrisse che “un’alta personalità politica, che poi diventò sacerdote (Giuseppe Dossetti ndr), cambiò diocesi e fu incardinato in una diocesi della Romagna-Emilia. Un ragioniere ed una professoressa, modello di vita cristiana, non nascondevano la loro ripugnanza quando il Vescovo parlava, ed uscivano dalla chiesa dicendo, “ma non si fa così: non si conquistano così i comunisti: sono tutti nostri cari fratelli”. PIGNAGNOLI , L’ultimo Vescovo-Principe, cit., p. 69. Mons. Socche rilevò inoltre che “uno era riuscito a creare in Vaticano un’atmosfera di accusa al Vescovo di Reggio Emilia dicendo che egli era il provocatore di tutto… Io stesso me ne accorsi sul serio quando il 7 marzo 1947 ebbi l’Udienza del Papa Pio XII di santa memoria”. Ibidem, p. 72. Anche la successiva idea di Mons. Socche di costruire a Correggio una “Via Crucis sacerdotale ed Arca dell’Insepolto”, per ricordare il sacrificio di don Pessina e di tutti i trecento sacerdoti italiani periti durante e dopo la guerra, fu accolta in Vaticano con molta freddezza e quindi non realizzata.
83 La ricostruzione delle indagini condotte da Vesce è contenuta in Massimo STORCHI, (a cura di), Gli omicidi don Pessina, Mirotti e Vischi nei ricordi del generale Pasquale Vesce, in “Ricerche storiche”, Rivista di Storia della Resistenza e della società contemporanea dell’Istituto per la storia della Resistenza e della Guerra di Liberazione di Reggio Emilia, n. 64/66, dicembre 1990, pp. 41-59.
84 La vendita dei cavalli ed il collocamento delle mondariso quale moventi del delitto sono state ribadite da Mons. Wilson Pignagnoli su “Gazzetta di Reggio”, 3 settembre 1991 e don Giorgio Neviani su “Gazzetta di Reggio”, 13 settembre 1991. Giorgio Morelli (“Il solitario”) in un articolo su “La Nuova Penna” del 28 giugno 1946 parla di un altro movente fatto circolare dai comunisti per infangare la memoria di don Pessina: “E questi vili, come sempre, non sono soddisfatti d’averlo finito, ma gettano sulla sua memoria la solita, infamante classica calunnia: “Don Pessina corteggiava le ragazze”. “Don Pessina aveva delle amanti”. “Don Pessina è stato ucciso per un movente passionale”. [... ] Ecco perché Eros ha detto: “Non capisco perché si faccia tanto rumore politico intorno ad un delitto passionale. Tutti sanno che don Pessina aveva due amanti”. Perché non si è ancora chiesto a quest’uomo chi sono le due amanti? se le sa le denunci. Esse sapranno chi ha ucciso il prete, se il prete è stato ucciso per loro. Ma le due amanti non ci sono. Questo Eros lo sa”.
85 La lettera di Mons. Socche, scritta nel marzo 1955 ed apparsa su “L’Osservatore Romano”, diceva testualmente: “E’ ritornato a casa dalla prigione un capo comunista, che ben quattro processi d’accordo hanno autenticato, proclamato e condannato come assassino di don Pessina. E su ciò nulla abbiamo da dire: gli auguriamo in Domino che se ne penta e che possa vivere da cristiano con la sua diletta famiglia, benchè l’Unità comunista di ieri abbia scritto che egli ha dovuto scontare la pena di otto anni di reclusione sebbene “innocente”, dando così una sfida di incompetenza e di ingiustizia a quattro Corti giudicanti: Assise di Perugia, prima sezione dell’Assise di Appello di Roma, Cassazione e seconda sezione dell’Assise di Appello di Roma, la quali tutte univocamente hanno sentenziato per la colpevolezza dell’interessato. Ma quello che a noi preme di rilevare qui e che assolutamente non è lecito, è quanto è accaduto domenica scorsa. A riceverlo alla stazione ferroviaria erano pronti i compagni con la macchina infiorata di garofani rossi. Con quattro staffette motorizzate davanti, ed una colonna di macchine di seguito, è entrato trionfalmente nel suo paese. Ora tutto questo non è che l’applauso al delitto, apologia dell’assassinio”. PIGNAGNOLI, Reggio: bandiera rossa, cit., pp. 110-111.
86 “Ritengo corretto ricordare che Germano Nicolini non fu giudicato alla Lubianka, ma in Corte d’Assise, a Perugia: aveva dei difensori, poteva parlare. Sono passati più di quarant’anni da quella vicenda, ma non ho memoria di particolari che svelassero intrighi o subdole congiure. La sorte di Nicolini non è state segnata dalla malafede dei magistrati, o dalla malvagità del capitano Vesce, che condusse l’inchiesta: ma dal silenzio dei suoi compagni. Ecco un’altra prova: tacere, talvolta, diventa menzogna. [... ] Adesso qualcuno lancia l’ipotesi che monsignor Socche, il vescovo di Reggio Emilia, avesse in qualche modo manovrato per far punirei “rossi”: di certo li considerava pericolosi avversari, ma non posso pensare ad un’alterazione di prove. Ho conosciuto, e anche ammirato, il coraggio del capitano Vesce: raccontavano che Scelba aveva dimostrato disprezzo del pericolo perché era andato a Modena solo, guidando la sua automobile. Mostruosa è questa vicenda, nata da una dedizione cieca alla causa del partito che “ha sempre ragione”, una omertà che ha resistito a ogni richiamo della coscienza. Che ha lasciato dilagare prima il sospetto poi pronunciare le sentenza. C’è voluto l’ex onorevole del Pci Montanari a lanciare l’appello: “Chi sa parli”. Il guaio è che, più o meno, sapevano in tanti. Ha taciuto anche Nicolini: e allora perché stupirsi se nei lager sovietici c’era gente che andava a morire gridando: ‘Viva Stalin’?”. Enzo BIAGI, in “Panorama”, 29 settembre 1991.
87 “La Repubblica”, 12 settembre 1991.
88 “Il Resto del Carlino”, 11 settembre 1991. Le dichiarazioni di Gaiti, per la verità, sono troppo generiche e soprattutto troppo scopertamente autoassolutorie – gli spari quasi accidentali nel corso di una colluttazione, guarda caso, ingaggiata dal prete – per non essere assunte con la necessaria prudenza. Senza dimenticare che Gaiti non ha fatto il minimo cenno sui motivi e gli scopi della missione affidata a lui ed agli altri quella sera.
89 “La Repubblica”, 12 settembre 1991.
90 “Gli assassini di don Pessina – ha affermato Vesce – sono quelli che sono stati denunciati da me e sono quelli che sono stati processati a Perugia, in Appello a Roma con sentenza confermata in Cassazione. Per me sono quelli che ho denunciato io: non ci sono altri”. “Gazzetta di Reggio”, 4 settembre 1991. Occorre peraltro osservare che il magistrato che conduce le indagini, Elio Bevilacqua, si è subito convinto dell’innocenza di Nicolini, al punto da dichiarare che se fosse stato processato oggi “Il Diavolo” “sarebbe stato assolto in cinque minuti”.
91 “Gazzetta di Reggio”, 17 settembre 1991.
92 Sulla natura e sui comandanti di questa struttura armata a cui fa cenno Nicolini le testimonianze per ora divergono. Ne risulta però accertata l’esistenza e la circostanza che quasi tutti i delitti commessi tra il giugno ed il settembre del 1946 in provincia di Reggio Emilia – Verderi, Pessina, Mirotti, Ferioli, Farri – portano direttamente od indirettamente a questa organizzazione, in gran parte composta da ex partigiani della 77esima Brigata Sap. I responsabili della formazione pare siano stati: Ottavio Morgotti, il cui nome è stato fatto in relazione al delitto di don Pessina, Renato Bolondi, implicato nell’omicidio Mirotti, e l’allora sindaco di Casalgrande Domenico Braglia (“Piccolo Padre”), quest’ultimo sospettato per l’uccisione di Umberto Farri e di Ferdinando Ferioli. Lo stesso Procuratore Bevilacqua si è detto convinto dell’”esistenza di una struttura militare parallela al Pci” che operava in provincia di Reggio in quegli anni.
93 Sui rapporti tra i giovani futuri brigatisti ed i vecchi ex partigiani reggiani cfr. Alberto FRANCESCHINI, Mara, Renato ed io, Milano, 1988.
94 Aldo Magnani, aveva già in precedenza pubblicamente affermato di aver saputo direttamente dal capo del Pci di Correggio Ottavio Morgotti dell’uccisione del prete, ma di non avere appreso da lui i nomi degli esecutori. In realtà Magnani sapeva tutto al pari del vertice comunista reggiano, come è risultato da un’intervista registrata nel 1984 da Antonio Rangoni, archivista del Pci. “Venne da me il Morgotti – disse Magnani nell’intervista – per informarmi che la parrocchia di San Martino Piccolo costituirebbe un centro per traffico d’armi pilotato dal Parroco, il quale sarebbe in contatto con elementi fascisti. Ho chiesto al Morgotti di istituire una ronda e qualora i fatti supposti risultassero veri di avvertire i carabinieri. Alcuni giorni dopo, un mattino, il Morgotti venne da me in Federazione per dirmi che la notte prima, durante la ronda, si era verificato l’episodio tragico della morte di don Pessina, avvenuta dopo una colluttazione. Decisi di parlarne immediatamente col segretario provinciale Arrigo Nizzoli il quale, appreso che a sparare era stato William Gaiti si oppose a qualsiasi denuncia ai carabinieri. Denunciare il figlio del povero Gaiti (il padre di William era stato ucciso dai fascisti, ndr) – disse Nizzoli – Siete matti? Ci pensino i carabinieri che, naturalmente non sanno niente di come sono andate veramente le cose”. “Gazzetta di Reggio”, 5 ottobre 1991.
Bologna 1991
IV capitolo – Le stragi
Nei limiti del presente lavoro, e stante l’attuale scarsità di ricerche al riguardo, sarebbe praticamente impossibile dare un conto anche solo approssimativo delle violenze consumate nel dopoguerra.
Anche perché, in linea generale, il fenomeno si estrinsecò in un stillicidio di episodi in cui trovarono la morte singole, o comunque poche persone per volta, in gran parte soppresse nelle loro abitazioni o prelevate in ore notturne nelle proprie abitazioni e successivamente all’esecuzione sepolte in zone isolate di campagna. Nei “triangoli della morte” emilianoromagnoli tuttavia vennero però commesse anche vere e proprie stragi che coinvolsero in un’unica soluzione criminosa anche diverse decine di individui, sia tra gli esecutori che tra le vittime. A differenza dei delitti individuali che proseguirono numerosi per buona parte del 1946, le stragi furono consumate esclusivamente nei primi mesi del post Liberazione a causa della pressoché completa disorganizzazione delle forze dell’ordine e nella possibilità da parte dei gruppi di ex partigiani comunisti, che spesso agivano con la copertura di “polizia partigiana”, di potere pianificare ed attuare le loro azioni praticamente indisturbati. Senza avere la pretesa della completezza, ci pare opportuno ricostruire alcune delle stragi perpetrate nel 1945, scelte tra quelle che più fecero parlare di sé, o per l’elevato numero delle persone uccise e per le particolari e significative circostanze in cui esse si svolsero. 5
a) Codevigo
L’eccidio di Codevigo, almeno da un punto di vista numerico, risulta come il più sanguinoso, anche se a rigore non dovrebbe essere compreso in quest’elenco poiché fu consumato non sul territorio regionale bensì in provincia di Padova, dove Codevigo appunto si trova. Ma è pur vero che ravennati erano tutti gli uccisori – appartenenti alla 28esima Brigata partigiana Garibaldi “Mario Gordini” e ravennati erano tutti gli uccisi – militi fascisti incorporati nel 618esimo Comando provinciale di Verona -, trovatisi gli uni e gli altri all’indomani della Liberazione e per motivi diversi in quei luoghi. 96
Alcune centinaia di fascisti ravennati ripiegarono, molti con le famiglie, a Codevigo e nei paesi vicini di Pescantina e Candiana nella seconda metà del 1944, in seguito all’occupazione di Ravenna da parte delle forze alleate. Qui vennero incorporati nei locali presidi della Guardia nazionale repubblicana fino alla Liberazione. Parecchi riuscirono ad ottenere un lasciapassare del Cln che attestava la loro non partecipazione ad azioni di rastrellamento contro partigiani: con quel pezzo di carta pensavano di essere al riparo da brutte sorprese. E probabilmente sarebbe stato davvero così se la mattina del 29 aprile, il giorno seguente la Liberazione, non fosse entrata in Pescantina la 28esima Brigata Garibaldi, comandata dal leggendario comandante partigiano “Bulow” (Arrigo Boldrini), ed incorporata nel Corpo italiano di liberazione (Cil). Posto il loro comando in una villa del paese, non è chiarito con quale grado di connivenza o di tolleranza del loro comandante 97, una decina di partigiani comunisti della 28esima, vestiti con divise inglesi e con un fazzoletto rosso al collo, a bordo di un camion Chevrolet si mettono a rastrellare i paesi circostanti alla ricerca dei fascisti ravennati di cui conoscono la presenza in loco. Dal 2 al 10 maggio 1945, in tre, e forse più riprese, numerose persone vengono prelevate nei dintorni di Pescantina con la scusa di un breve interrogatorio e di una successiva traduzione a Ravenna. In realtà gli interrogatori sono sommari e brutali 98 poi, a gruppi di sei, i condannati vengono in realtà trasferiti sull’argine del Brenta e falciati nella notte a raffiche di mitra Thompson. Centoundici saranno le salme rinvenute. 99 Solo quattro i fortunati superstiti. 100
b) La “corriera fantasma”
Notevole scalpore destò all’epoca dei fatti, ma anche in seguito, la vicenda della “corriera fantasma” di Concordia, soprattutto per l’alone di mistero non meno di dramma che l’avvolse. Mistero che non è mai stato chiarito completamente: più che in altri delitti del post Liberazione, infatti, la cortina di silenzi ed omertà, l’oggettiva difficoltà nel comporre il mosaico confuso e contraddittorio dei fatti e delle circostanze, i colpi di scena a base di testimonianze anonime e di pentimenti tardivi, hanno lasciato intorno alla “corriera fantasma” molti margini d’incertezza, tanto da tratteggiare una fosca sceneggiatura che sembra fatta apposta per una trasposizione cinematografica. 101
Tutto ha inizio la mattina del 14 maggio 1945. Dalla piazza del Vescovado di Brescia parte un autocarro (che nei successivi resoconti giornalistici sarà ribattezzato impropriamente “corriera”) appartenente alla Pontificia Opera di Assistenza (POA), di cui porta i simboli sulle fiancate. L’automezzo, che ha come meta il sud, reca a bordo 43 passeggeri: si tratta in grande prevalenza di residenti nel meridione che la guerra ha separato dalla propria famiglia. Sullo scomodo autocarro siedono numerosi reduci dalla prigionia in Germania e un gruppo di giovani ex militi repubblichini della scuola allievi ufficiali di Oderzo. Tutti hanno in tasca un regolare lasciapassare rilasciato da vari Cln dell’alta Italia, segno che nei loro confronti nessuno ha mosso addebiti specifici. Tutti pertanto pensano ad un viaggio senza intoppi.
Procedendo verso sud il camion giunge nel centro del paese di Concordia, nella bassa modenese, ove viene fermato da un posto di blocco della locale polizia partigiana. Trenta passeggeri vengono separati dal gruppo e condotti a Villa Medici, sede della polizia partigiana. Alcuni saranno rilasciati e proseguiranno il viaggio con mezzi di fortuna; sedici persone vengono invece trattenute. Saranno le prime vittime della “corriera fantasma”.
Intanto, con a bordo le poche persone non fermate, l’autocarro riprende il suo percorso senza incidenti fino a Modena. Qui, in base a nuovi ordini, il mezzo deve ripartire alla volta di Verona per effettuare un nuovo carico. I viaggiatori a questo punto si disperdono e ciascuno torna a casa come può.
Del mistero della “corriera fantasma” cominciano ad occuparsi i giornali su sollecitazione dei parenti degli scomparsi che hanno del viaggio solo notizie confuse e discordanti: ed in un primo tempo si sospetta, in mancanza di notizie precise, che tutti i viaggiatori abbiano subito identica, tragica, sorte e che lo stesso autocarro sia stato fatto scomparire dagli autori della strage.
Neppure con il ritrovamento, nella primavera del 1946, delle prime sei salme nelle campagne di Concordia è possibile fare luce sulla vicenda, anche perché l’indagine necroscopica dei cadaveri non riesce a stabilire un collegamento certo con gli scomparsi della “corriera”. Le indagini continuano fino a quando, nel novembre 1948, si rinviene un’altra fossa con dieci cadaveri quasi irriconoscibili. Grazie però al ritrovamento di alcuni effetti personali, si riesce a dimostrare che si tratta proprio dei morti della “corriera”, anzi delle “corriere” poiché i carabinieri scoprono che sono stati in realtà due i mezzi partiti da Brescia il 14 maggio e fermati a Concordia. 102
Si giunge così nel 1950 al processo, presso la Corte d’Assise di Viterbo, contro i responsabili delle Polizia partigiana di Concordia. Il processo appura che i 16 ex repubblichini rinchiusi a Villa Medici, dopo essere stati malmenati e derubati, nella notte tra il 16 e 17 maggio, sono stati trascinati in un podere poco distante e sommariamente eliminati.
L’odissea della “corriera fantasma”- pur non dissolvendo dubbi ed incertezze derivanti principalmente dalla discordanza dei testimoni su alcune importanti circostanze e in primo luogo sul numero dei morti che risultano essere molti di più – pare comunque conclusa con la sentenza del processo di Viterbo che condanna due imputati, Armando Forti e Giovanni Bernardi, a 25 anni di reclusione, di cui 16 condonati. 103
Nel gennaio 1968, invece, il caso riesplode clamorosamente con il ritrovamento – dietro una circostanziata segnalazione anonima – di un’altra fossa comune, ubicata questa volta nel limitrofo comune di San Possidonio e contenente i resti ossei di sei persone. L’anonimo informatore fa anche i nomi degli esecutori dell’eccidio – tutti appartenenti alla polizia partigiana di San Possidonio – ed afferma che il fatto è da collegarsi con la “corriera fantasma”.
Le indagini dei carabinieri, pur ostacolate dal persistere di un clima di pesante omertà, riescono ad aggiungere un nuovo e decisivo tassello al mistero: innanzitutto gli autocarri partiti il 14 maggio da Brescia e fermati nella zona erano stati addirittura tre, con ciò superando l’ostacolo delle testimonianze ancora discordi circa le caratteristiche dei mezzi e l’identità ed il numero dei passeggeri che si trovavano a bordo. Si accerta inoltre che i prelevamenti dei passeggeri erano avvenuti su tutti e tre i camion: parte dei prigionieri erano stati trasportati a Villa Medici e parte inviati a Carpi. Da quest’ultima località sarebbe poi partito un furgone (di qui il nome “corriera”) che la notte del 18 maggio – il giorno successivo all’eccidio di Concordia – avrebbe portato una dozzina di persone alla Casa del Popolo di San Possidonio e di qui, in due gruppi, sul luogo dell’esecuzione, situato ai margini di una fossa anticarro a poche centinaia di metri dall’abitato.
Nel luglio 1970, ai cinque principali imputati al cui carico esistono “elementi gravi, precisi e concordanti”, il giudice istruttore del Tribunale di Modena applica l’amnistia sulla scorta del DPR 4 giugno 1966, n. 332, che considera “amnistiati tutti i reati commessi dal 25 luglio 1943 al 2 luglio 1946 da appartenenti al movimento della Resistenza e dal chiunque abbia cooperato con essa, determinati da movente a fine politico e se connessi con tali reati”.
c) I conti Manzoni
L’eccidio dei conti Manzoni, consumato a Lugo di Romagna (Ravenna) la notte del 7 luglio 1945 104, non è eclatante per il numero delle persone uccise, ma perché rispecchia fedelmente il clima di intolleranza e di “odio classista” diffuso nelle campagne emiliano-romagnole contro quelli che venivano definiti i “padroni”. Questo delitto è paradigmatico delle centinaia di altri che costarono la vita a persone non compromesse con il fascismo ed unicamente colpevoli di essere in quanto possidenti, agricoltori o commercianti, dei “nemici di classe”.
La famiglia Manzoni, proprietaria di una vasta tenuta terriera tra le frazioni di Voltana e Lavezzola e di una grande villa “La Frascata”, è composta da quattro persone: la madre Beatrice, di 64 anni, i figli Giacomo di 41, Luigi e Reginaldo, rispettivamente di 38 e 36. A parte Luigi, diplomatico di carriera che nello scorcio finale della guerra aveva prestato servizio al ministero degli Esteri della Rsi, nessuno degli altri Manzoni ha attivamente preso parte al fascismo: Giacomo si dedica alla cura della vasta proprietà terriera di famiglia e Reginaldo è direttore dell’Istituto di Chimica presso l’Università di Bologna. La contessa Beatrice è poi universalmente nota per la opere di beneficenza nei confronti dei contadini delle sue tenute ed è attivamente impegnata nella congregazione di San Vincenzo, di cui nel 1931 era stata nominata presidente generale. “L’immensa fortuna, la grande tenuta appartenente in antico ai Bentivoglio, scemava lentamente da quando la contesa aveva deciso di vendere un podere ogni anno a beneficio dei suoi coloni e dei suoi paesani”. 105
Altri proprietari della zona erano riparati dopo la Liberazione in luoghi più sicuri. Non i Manzoni che pensavano, a torto, di non avere nulla da temere.
Nella sera di sabato 7 luglio 1945, dopo il tramonto, si presentano alla “Frascata” quattro individui armati che intimano di rientrare in casa al conte Giacomo che si trova all’esterno della villa a godersi il fresco, e di allontanarsi ad alcuni contadini che stanno con lui. Dopo le dieci arrivano due automobili, una 1109 e una Balilla, che caricano i quattro Manzoni e la loro domestica Francesca Anconelli e ripartono in direzione di Passogatto. Dopo una mezz’ora giunge un’altra Balilla seguita da un camion su cui vengono caricati oggetti di valore e vestiario, insieme a gioielli, fucili, macchine fotografiche e libri. I Manzoni e la Anconelli nel frattempo sono stati trasportati in un campo in località Villa Pianta, dove si trova una fossa anticarro costruita dai tedeschi, e qui falciati a colpi di arma da fuoco e quindi seppelliti.
Il delitto resta per lunghi mesi avvolto nel mistero. Molti erano stati i testimoni del delitto ma nessuno parla. Solo alla fine di agosto del 1945, i carabinieri di Lugo inviano un rapporto alla Procura di Ravenna in merito alla scomparsa dei conti Manzoni, ma senza fare riferimento al delitto. Si afferma anzi, in base a voci raccolte in paese, che i Manzoni sono partiti, anche se non si “sa e la partenza sia stata spontanea o forzata”. In questa opera di disinformazione spicca un funzionario comunista della Questura di Ravenna Mario La Sala, che tenta in ogni modo di ostacolare e sviare le indagini, tanto che riuscirà a fare arrestare con una falsa accusa il brigadiere della stessa Questura Vincenzo Caputo, che stava raccogliendo preziosi indizi sulla vicenda. L’azione di occultamento del La Sala riuscirà fino all’agosto del 1946, quando le meticolose indagini dei carabinieri cominciano a far emergere importanti tasselli della verità e ad accertare con una certa sicurezza che i Manzoni sono stati vittime di un delitto politico. I sospetti si concentrano sugli esponenti più in vista del Cln e dell’Anpi di Giovecca e Lavezzola. Tramite numerose perquisizioni, si rinvengono nelle case dei paesi limitrofi alla “Frascata” gioielli, vestiti ed oggetti appartenenti ai Manzoni e prova eloquente della razzia. Solo nel giugno del 1948, però, si arriva a fare completa luce: le forze dell’ordine ottengono prima una confessione di un colono della”Frascata” che aveva assistito allo svolgimento del sequestro, e quindi di Primo Cassani, uno dei partigiani che aveva partecipato all’eccidio: e così il 4 agosto i carabinieri possono risalire al luogo dell’esecuzione e disseppellire i cadaveri delle cinque perone uccise.
Pochi giorni dopo vengono denunciati per la scomparsa dei Manzoni sedici persone, tra cui Silvio Pasi (“Elic”), il comandante partigiano più in vista della zona ed in quel momento segretario della Camera del Lavoro di Faenza. Indagini e testimonianze arrivano a stabilire che era stato il Pasi l’organizzatore dell’intera operazione e che la decisione era stata assunta nella sede della polizia partigiana di Lavezzola comandata da Dergo Donigaglia, anch’egli tra i principali responsabili dell’eccidio. 106
Nel 1951 si giunge al processo che si svolge presso la Corte di Assise di Macerata, dopo la decisione della Cassazione di sottrarre il dibattimento alla Corte di Ravenna per legittima suspicione. Il dibattimento registra un clamoroso colpo di scena con l’autoaccusa di sette partigiani di Voltana che asseriscono in una lettera, dopo aver imboccato la strada della latitanza, di essere loro, ed esclusivamente loro, gli autori del delitto. La Corte non crede a questa versione e li assolve, seppure per insufficienza di prove, mentre condanna i tredici imputati all’ergastolo, ridotti a 19 anni essendo stato riconosciuto il movente politico.
Gli assassini dei Manzoni in carcere rimarranno poco, poichè la Corte d’Appello di Ancona, dopo aver ridotto la pena a 28 anni, applica l’indulto, per cui restano solo due anni di carcere, del resto già scontati. Tutti gli imputati vengono subito scarcerati.
Da notare che all’”eroe” Silvio Pasi, morto nel 1962, e più di ogni altro responsabile del massacro dei Manzoni, è stata dedicata una strada a Lavezzola.
d) Gaggio Montano
“Parla chiaro, esplicito, sincero, ammettendo quasi tutte le imputazioni, raccontando ogni particolare dell’”azione punitiva”, anche i più atroci, con la freddezza di chi si sente nel giusto, seguendo una sua logica disumana ma inesorabile”. Con queste parole il giornalista Enzo Biagi descrive nel 1948 l’atteggiamento di Mario Rovinetti, ex partigiano gappista, nel corso del processo che lo deve giudicare quale maggiore responsabile per la strage di Gaggio Montano, nell’Appennino bolognese. Mario Rovinetti è un caso più unico che raro tra le centinaia di imputati che in quegli anni sono giudicati per i delitti del dopoguerra. Quasi tutti gli imputati dei processi per fatti di sangue, anche di fronte ad evidenti prove di colpevolezza, tentano di negare o di minimizzare le loro responsabilità o magari di scaricarle su altri. Rovinetti no: assume su di se ogni colpa e cerca di scagionare in ogni modo i suoi compagni. È convinto di avere agito nel giusto e per una causa e lo ribadisce nel corso dell’interrogatorio. Al giudice che interrogandolo gli parla della “rapina” dei beni delle vittime, in perfetto stile rivoluzionario, lui corregge il termine in “sequestro”, quando il presidente dice “uccidere”, lui rettifica in “prelevare”. “Tre sentimenti hanno agito in lui – scrive ancora Biagi -, lo hanno spinto all’impresa: l’odio per i fascisti, la fede nella “lotta del proletariato”, la solidarietà per i compagni”. 107
In realtà non era stato Rovinetti a pianificare quell’azione, bensì il segretario del Pci di Gaggio Ivo Gaetani, insieme a Secondo Lenzi, nel frattempo morto di tubercolosi, a Giuseppe Torri ed Antonio Camurri. E proprio in casa di Gaetani viene consegnata a Rovinetti la lista degli “eliminandi” di Gaggio Montano presentati tutti come “camice nere e spie dei tedeschi”. In realtà si tratta di persone comuni senza particolari tendenze politiche, a parte una, Guido Brasa che è segretario del Partito d’Azione del luogo. Ed inoltre, a differenza di altre stragi del dopoguerra, la strage di Gaggio è consumata a freddo, non solo perché si svolge nel novembre del 1945 ma anche perché la liberazione di Gaggio dai nazifascisti data da più di un anno, essendo avvenuta nell’autunno del 1944. Nel corso del processo, per tentare di dare una giustificazione al loro operato, alcuni imputati affermano che intendevano vendicare l’eccidio di Ranchidosso, in cui i tedeschi avevano fucilato alcune decine di abitanti dopo uno scontro a fuoco con i partigiani. Un alibi non credibile che porta lo stesso Pci a prendere, almeno ufficialmente, le distanze, fatto quasi unico in quegli anni, dai responsabili della strage di Gaggio.
L’azione è progettata ed eseguita in perfetto stile militare. Rovinetti sceglie per l’impresa dodici gregari, tre dei quali appena fuggiti dalla carceri bolognesi di San Giovanni in Monte, e con essi, nella notte tra il 16 e 17 novembre 1945, occupa il paese, sbarrando le vie di accesso con sentinelle. Agiscono davanti a decine di persone, non hanno paura di essere riconosciuti. Unica precauzione: non si chiamano per nome ma per numero. Primo obiettivo è la caserma dei carabinieri, che viene circondata prima dell’irruzione. I quattro militi presenti vengono immobilizzati. Poi viene assalita la filiale del Credito Romagnolo e comincia il “saccheggio sistematico del paese” ed i prelevamenti delle vittime. La prima è Bianca Ramazzini, che trovano nell’osteria del paese gestita dal marito e la portano via di fronte ad una decina di avventori. Un altro “eliminando” è Guido Brasa. Quando entrano sta mangiando con la moglie incinta (il figlio nascerà dopo un mese); uno dei banditi sale al piano di sopra e fredda Aldo Brasa, fratello di Guido, che aveva tentato di difendersi. Adelfo Cecchelli è a letto quando vanno a prenderlo. Mentre lo portano fuori dicono, mentendo, ai figli in lacrime: “Siamo italiani e non vogliamo uccidere il vostro papà”. Alfredo Capitani è l’ultima della vittime designate ad essere catturata. Riescono a sottrarsi solo due persone, il cui nome è nella lista: Adolfo Graziani e Ferdinando Ferrari, sindaco del paese.
E finalmente il “commando” toglie l’assedio al paese, mentre le campane del paese suonano a stormo “per dare pace ai vivi, e forse per consolare i quattro prelevati che si avviano alla morte”.
I quattro non si ribellano. Portano dei sacchi contenenti roba sequestrata. Arrivati ad una mulattiera si fermano. Due partigiani si mettono a scavare fino a quando la fossa è pronta per l’esecuzione. Un colpo ciascuno e l’eccidio è consumato.
Rovinetti procede alla divisione del bottino: il denaro e la maggior parte degli abiti agli evasi; a due braccianti che avevano lasciato i campi per aggregarsi al gruppo, vuole pagare due giornate di lavoro, ma essi rifiutano.
Similmente ad altri processi del periodo, anche in questo caso la difesa, per consentire una riduzione di pena agli imputati, insiste sul movente politico. Afferma l’avv. Mauceri: “Escluso che i componenti della banda fossero animati da spirito di vendetta e di lucro, occorre tenere presente che, come comunisti, volevano ottenere, secondo i loro principi, una trasformazione sociale”. 108 Il processo comunque si conclude con sette pesanti condanne a carico dei maggiori responsabili, ed altre sette con pene minori ai gregari.
e) I sette fratelli Govoni
Nella notte del 16 marzo 1945, in comune di Argelato, tre sconosciuti si recano nella casa di Ido Cevolani, un disertore della Gnr in contatto con alcune formazioni partigiane. Lo spingono fuori di casa insieme alla moglie Giovannina. A poche centinaia di metri dall’abitazione, la donna viene freddata con una raffica di mitra mentre il marito cade a terra gravemente ferito. Data la diserzione del Cevolani dalle file fasciste, il movente del delitto viene facilmente individuato nella vedetta di alcuni suoi ex camerati. Ma gli autori restano impuniti poiché il Cevolani nel corso dell’istruttoria che si svolge nel 1947 afferma di non aver riconosciuto nessuno dei prelevatori di quella notte. E pertanto il procedimento si chiude con un “non luogo a procedere per mancanza di indizi sugli autori”.
Un episodio come tanti altri accaduto in quel periodo che scivolerebbe presto nell’ombra se non venisse ripescato improvvisamente alcuni anni più tardi, per spiegare, o meglio giustificare, l’uccisione dei sette fratelli Govoni, avvenuta nei dintorni di Pieve di Cento, comune ai confini tra la provincia di Bologna e quella di Ferrara, l’11 maggio del 1945. 109
Il tragico destino di Dino, Augusto, Primo, Giuseppe, Enzo, Marino ed Ida Govoni è stato più volte messo in contraltare a quello dei sette fratelli Cervi uccisi a Reggio Emilia nel novembre del 1943 dai fascisti. Ed indubbiamente è impressionante la coincidenza dello stesso numero di morti negli eccidi delle due famiglie: e forse ciò che decise la sorte dei Govoni fu proprio il loro numero e la possibilità per i loro assassini di vendicare in modo “esemplare” i fratelli Cervi.
Coraggiosi e spavaldi, così come indisciplinati e riottosi alle direttive dall’alto, i Cervi erano tutti militanti antifascisti e partigiani della prima ora, e caddero vittime di una spietata rappresaglia dei fascisti per la morte del seniore della milizia Giovanni Fagiani e del segretario comunale di Bagnolo in Piano, in provincia di Reggio Emilia, Davide Onfiani. La loro morte, per quanto comminata ingiustamente, fu dunque conseguenza diretta della consapevole scelta antifascista che avevano compiuto, e questo spiega anche la fama a cui assursero nel dopoguerra e le medaglie d’oro al valor militare che vennero loro conferite.
I fratelli Govoni, a parte due di loro che avevano preso parte attiva alla Rsi, non facevano politica e non combattevano nessuno. Furono travolti come tanti altri nell’incandescente clima di odio del dopoguerra che trasformava i sospetti in prove, le accuse in condanne, la sete di vendetta in sentenze di morte. Ai loro assassini fu applicata l’amnistia e non giova oggi giudicare se fu fatta opera di giustizia. Resta il fatto che, amnistiabile o meno, si trattò di un crimine non meno grave di quello commesso contro i Cervi.
Tornando alla dinamica dei fatti, come si è detto solo Marino e Dino Govoni si erano compromessi seriamente con la Rsi: il primo era stato nelle Brigate Nere di Massa Lombarda nel ravennate; il secondo aveva militato nella Gnr. Degli altri fratelli nessuno si era iscritto al Pfr, anche se nel corso della guerra, come sostenne molto genericamente il giudice istrutture del processo, “avevano manifestato solidarietà con i nazi-fascisti”.
Subito dopo la Liberazione, i sette Govoni vengono chiamati al comando partigiano di Pieve di Cento per essere interrogati: quattro sono rilasciati quasi subito; Dino e Marino alcuni giorni dopo, segno che le accuse nei loro confronti non devono essere particolarmente gravi.
Negli stessi giorni fa ritorno a S. Giorgio di Piano, località che dista pochi chilometri da Pieve, lo studente universitario Giacomo Malaguti, che aveva combattuto come sottotenente di artiglieria nella VIII Armata alleata sul fronte di Cassino. In quelle settimane convulse dopo il 25 aprile non basta essere stato antifascista ed avere rischiato la vita per liberare il proprio paese per essere al sicuro. E come si saprà poi, Malaguti ebbe la sorte segnata per poche parole pronunciate al cospetto di uno degli estremisti del luogo. Nel corso di una discussione tra il padre e l’inquilino di un suo appartamento che non vuole andarsene, il giovane Giacomo, invitando il padre a lasciar perdere, dice: “Comanderanno ancora una ventina di giorni”. Per queste poche parole viene denunciato e ripetutamente interrogato nella sede della polizia partigiana del luogo e tanto è sufficiente a far inserire il suo nome nell’elenco delle persone della zona, circa una trentina, da sopprimere.
Questa lista, come poi risulterà al processo, viene stilata da Vittorio Caffeo (“Drago”), un commissario politico comunista che gode di un notevole e sinistro ascendente e non è nuovo ad azioni di questo genere. Caffeo, insieme ad altri capi della polizia partigiana del luogo, Luigi Borghi, Renzo Marchesi, Remo Zanardi ed Arrigo Pioppi, proprio in quei giorni si era già reso responsabile ad Argelato di un altro “nefando eccidio” in cui erano state soppresse 12 persone. 110
Questa “squadra della morte” prepara il suo piano con grande scrupolo senza lasciare nulla al caso. Per convincere i gregari riluttanti ad associarsi all’impresa criminosa, Caffeo ed i suoi compagni adottano uno stratagemma, in modo che “una volta iniziate le operazioni nessuno avrebbe più avuto il coraggio di tirarsi indietro”. Il 10 maggio avvertono un gruppo di partigiani di tenersi pronti per il mattino successivo a San Giorgio di Piano e spiegano che occorre recarsi a San Martino in Spino, ai confini con la provincia di Modena, allo scopo di ritirare un carico di bestiame.
La sera stessa peparano la casa che deve ospitare il “tribunale del popolo” (si tratta dell’abitazione di certo Emilio Grazia che aveva avuto il figlio ucciso dalle Brigate Nere) per giudicare le vittime già predestinate. Non dimenticano di predisporre anche la fossa per i cadaveri. Durante la notte Caffeo si reca con una 1109 nera a prelevare la prima vittima: Marino Govoni.
Alle quattro del mattino del giorno dopo, un camioncino con sopra una decina di partigiani armati parte come stabilito da San Giorgio in Piano, ma la meta non è quella indicata da Caffeo, ma bensì Argelato, nei cui pressi sono attesi da un altro gruppo di partigiani a bordo di una macchina. I due automezzi si dirigono verso la frazione di Veneta di Argelato, ove abita Ida Govoni con il marito Angiolino Cevolani, ed il figlioletto di pochi mesi. Riescono a farla salire sull’autocarro con il pretesto che indichi la casa dei fratelli. Giunti all’abitazione della famiglia Govoni, irrompono nella casa, la perquisiscono, prelevano alcuni fucili da caccia e fanno salire i cinque fratelli sul camion e nella macchina. Si dirigono quindi a Casadio di Argelato per l’ultima e tragica tappa del viaggio.
A questo punto uno dei partigiani del seguito comprende il vero scopo dell’impresa e, riconoscendo tra i prelevati la zia Ida Govoni, chiede a Caffeo di lasciarla andare per allattare il figlioletto. Per tutta risposta viene spedito a casa senza troppi complimenti.
Nella stessa mattinata si verifica un incidente che rischia di mandare a monte tutto il piano. Alcuni graduati della polizia alleata si presentano al comando dei carabinieri di San Pietro in Casale e chiedono d’interrogare i fascisti arrestati. In quel luogo si trova anche il partigiano Vitaliano Bertuzzi, che ha partecipato poco prima ai prelevamenti, il quale afferma che anche a San Giorgio vi sono fascisti pericolosi. Gli alleati gli ordinano di procedere al loro arresto e di tenerli a disposizione della Polizia alleata, che li avrebbe presi in consegna il pomeriggio seguente.
Questo contrattempo potrebbe mandare all’aria tutto. Ma gli organizzatori della strage sono decisi ad andare fino in fondo e giocano d’astuzia. In fondo, pensano, quell’ordine così imprevisto può mascherare il loro piano di un manto di legalità, almeno nella prima fase, e facilitare il loro compito. E difatti, ai tempi del processo molti degli imputati cercheranno di difendersi giocando sull’equivoco ed affermando di aver consegnato tutti i fermati alla Polizia alleata.
Con notevole tempismo, Caffeo si trasferisce a San Giorgio di Piano ed impartisce un ordine di arresto per 27 prsone di cui 10 sono da sopprimere. Le persone condannate a morte vengono prelevate con lo stesso camion che aveva trasportato i Govoni e subito trasferiti nella casa del Grazia, in un’altra stanza rispetto a quella in cui sono rinchiusi i sette fratelli. Si tratta di Alberto Bonora, Cesare Bonora, Ivo Bonora, Ugo Bonora, Vinicio Testoni, Alberto Bonvicini, Ugo Mattioli, Giovanni Caliceti, Guido Pancaldi e Giacomo Malaguti.
Giunta la sera si costituisce la farsa del Tribunale del popolo che deve emettere le sentenze di morte. Le vittime sono portate, due a due, al cospetto dei “giudici” e qui interrogate per varie ore, rapinate e sottoposte a violenze e sevizie. Poi l’immancabile condanna a morte.
Quando si tratta di portare i condannati alla morte, ci si accorge che manca il mezzo, e qualcuno, forse per dare un tono ancora più tragico e macabro alla scena, ha l’idea di servirsi di un carro funebre. Ma il pilota del mezzo che viene chiamato, una volta compreso l’uso per cui è stato adibito, accusa un malore e rinuncia. I diciassette condannati, legati strettamente per le braccia l’uno all’altro a file di tre per tre, per evitare fughe, sono incolonnati ed avviati a piedi lungo i campi verso il luogo dell’esecuzione già preparato in precedenza. Poi si procede al massacro: tre alla volta i prigionieri sono portati sull’orlo della buca e qui strangolati con un cappio. La fossa viene quindi ricoperta di terra.
Passeranno sei anni prima che la verità sui fatti, ed insieme ad essa i poveri resti dei trucidati, venga alla luce.
Nel 1948 Cesare Govoni, padre dei sette fratelli, chiede che vengano riaperte le indagini, quanto meno per il recupero delle salme, segnalando che cinque dei suoi figli “non si erano mai compromessi per ragioni politiche”.
Le indagini però conoscono una decisiva accelerazione solo tre anni dopo, nel febbraio del 1951, quando in località Casadio di Argelato nel corso di lavori di scavo affiorano i cadaveri dei Govoni e degli altri dieci uccisi.
Gli inquirenti riescono a rintracciare i responsabili uno dopo l’altro, molti dei quali confessano il delitto. Ed è nel corso delle indagini che, in modo del tutto strano ed alquanto sospetto, Ido Cevolani offre una nuova versione sul suo ferimento e sull’uccisione della moglie Giovannina. Il Cevolani si ricorda improvvisamente che la notte di quel marzo 1945 ad attendere fuori i suoi prelevatori c’erano i fratelli Marino e Dino Govoni ed avanza esplicitamente il sospetto che fosse stata sua cognata Ida Govoni a denunciarlo ai fascisti come disertore. Un ritorno di memoria così repentino che pare fatto apposta per creare un alibi politico per l’uccisione di almeno quattro dei fratelli Govoni.
L’anno successivo il Giudice istruttore della Procura di Bologna Giuseppe Toni è in grado di emettere la sua sentenza, molto generosa in rapporto alla gravità dei fatti: applicazione dell’amnistia per l’uccisione dei Govoni e di tutti gli altri ad eccezione del sottotenente Giacomo Malaguti.
Il Giudice infatti riconosce che “la soppressione dei sette fratelli Govoni e dei prelevati di San Giorgio, ad eccezione del S. Tenente Malaguti Giacomo, fu determinata da motivi di lotta contro il nazifascismo”. Dino e Marino erano fascisti, mentre Ida era di “sentimenti fascisti”. E gli altri quattro fratelli? Il Giudice, mancando qualsiasi addebito concreto a loro carico, afferma che “forse la soppressione di tutti fu probabilmente causata dal fatto che i partigiani stessi, non sapendo con certezza quali di essi si erano macchiati dei delitti suddetti, decisero di ucciderli tutti per avere così la certezza di avere eliminati i responsabili”.
Per quanto riguarda l’uccisione delle altre nove persone, il Giudice non trova alcun motivo specifico che possa in qualche modo collegarsi alla loro soppressione, a parte una generica simpatia fascista. Nel caso di Giovanni Caliceti la condanna a morte era stata determinata dal fatto che il fratello aveva ricoperto la carica di “consigliere nazionale” del Pnf. Legata alla sorte di Caliceti è quella di Ivo Bonora: dopo aver frequentato il corso Allievi ufficiali della Rsi aveva disertato e chiesto di entrare nelle file partigiane. I capi partigiani lo avrebbero accolto se avesse dato dimostrazione di riabilitarsi uccidendo proprio Giovanni Caliceti, che era un suo lontano parente. Ma Ivo Bonora rifiutò e “tale rifiuto – afferma il giudice – si suppone sia stato il motivo del suo prelevamento e della sua soppressione”. “Meritava per questo di essere soppresso?”, si chiede retoricamente il magistrato. Non lo meritava, ma esistevano delle “apparenze” di una sua collaborazione coi nazifascisti e tali apparenze bastavano per giustificare una condanna a morte agli occhi dei suoi uccisori.
E così i responsabili di un massacro ai danni di persone che erano state fasciste né più né meno di tante altre, anzi meno certamente di uno degli uccisori, Vitaliano Bertuzzi che aveva appartenuto alla milizia repubblichina fino alla fine del 1944, sarebbero stati completamente scagionati se non avessero commesso un grave errore uccidendo il sottotenente Gino Malaguti.
Malaguti con il fascismo non c’entrava assolutamente niente, al contrario lo aveva combattuto. Come il Giudice riconosce “la figura dello scomparso è uscita limpida e immune da qualsiasi pecca politica”. Il rinvio a giudizio e la conseguente e successiva condanna degli imputati riguardò quindi la sola uccisione di Malaguti.
96 Cfr. Gianfranco STELLA, 1945. Ravennati contro. La strage di Codevigo, Rimini, 1991 e “La Repubblica”, 6 ottobre 1990.
97 Arrigo Boldrini è parlamentare del Pds e presidente nazionale dell’Anpi. Nel suo diario di quei giorni “Bulow” si esprime con una certa ambiguità circa il comportamento dei suoi partigiani. Tra le righe del diario si capisce che le esecuzioni sommarie di oltre cento fascisti da parte dei partigiani della 28esima non gli erano sconosciute, mentre non c’è alcun elemento per affermare che egli sia intervenuto per fermare il massacro. In data 9-10 maggio 1945 scrive: [... ] Nella serata dobbiamo affrontare nuovamente una questione molto seria: si tratta dei rastrellamenti dei fascisti, operati spontaneamente dai patrioti un pò dovunque, così come si registrano autonome iniziative di gruppi contro le ultime sacche di resistenza nazifascista (si noti, a smentita di Boldrini, che dopo il 28 aprile non vi è alcuna traccia di combattimenti armati in quella zona, tanto è vero che nel diario storico della 28esima si legge “Dal 30 aprile al 6 maggio – Riposo a Codevigo”, ndr). [... ] Pressoché impossibile intervenire. Non possiamo che prendere atto degli strascichi di una guerra nel corso della quale le forze armate della Rsi, soprattutto le brigate nere, la guardia nazionale repubblicana, hanno resistito fino all’ultimo. Ci rendiamo conto di quali e quanti problemi personali ed umani si pongano in questa fase finale: gli animi sono esasperati, si apprendono terribili notizie sui misfatti compiuti dai nazifascisti”. E, quasi a voler giustificare quello che stava accadendo: “si sa che la guerra rompe tutti gli equilibri e non è facile riconquistarli in poco tempo. Alla fine di ogni conflitto si sono avuti troppi episodi dolorosi. Occorrerebbe tempo per raggruppare i partigiani in caserme e in altri centri di raccolta, per inserirli gradualmente nella vita civile. Gli eventi invece incalzano, incontrollati e velocissimi”. Infine, con parole da comandante, Boldrini si assume ogni responsabilità: “Ribadiamo per quanto ci compete l’intimazione del Comitato di liberazione nazionale per il nord Italia del 19 aprile “arrendersi o perire” che era un invito alla resa: “oggi, subito: arrendersi o perire. Questa è la formale intimazione che il Comitato di liberazione nazionale per l’alta Italia vi rivolge”. Ma molti fascisti hanno combattuto fino all’ultimo, eccome (non certo comunque i fascisti di Pescantina arresisi al locale Cln, ndr). I comandi alleati hanno confermato la loro direttiva di massima “annientare il nemico ovunque si trovi”. Chi può giudicare in simili frangenti? In ogni caso la 28esima si assume la piena responsabilità degli ordini che sono stati impartiti (anche quella dell’uccisione a freddo di persone inermi?, ndr). STELLA, op. cit., pp. 128-129.
98 Dalle testimonianze dei superstiti risulta che i prigionieri venivano portati a villa Ghellero, sede del comando partigiano per essere interrogati, alla presenza di Ateo Minghelli (“Regan”), vicecomandante della 28esima, prima di essere condotti alla fucilazione. Altri invece erano rinchiusi in alcune “boarie” (stalle) della zona dove sostavano, tra percosse e torture, in attesa della fucilazione.
99 I cadaveri di una parte degli scomparsi vennero sepolti nel cimitero di Codevigo. “La fossa comune venne scoperta solo nel 1961: 77 salme furono trovate a Codevigo, 17 a Santa Margherita, 12 a Brenta d’Adda. In tutto 106 corpi, di cui 90 identificati: 76 emiliani, quasi tutti di Ravenna, e 14 di Codevigo. Altri trenta, almeno, se li sarebbe presi il fiume”. “La Repubblica”, 6 ottobre 1990.
100 I superstiti della strage, tali perché le raffiche di mitra li ferirono solo leggermente e perché riuscirono miracolosamente a celarsi lungo la riva con la complicità della notte, furono: Alvaro Allegri, Guido Corbelli, Paolo Maccesi. Ad essi si deve la descrizione dei particolari della tragedia.
101 Cfr. Vittorio MARTINELLI, La “corriera fantasma”, Brescia, 1988 e FANTOZZI, op. cit., pp. 71-78.
102 Le persone uccise di cui venne accertata l’identità sono: Cesare Jannoni-Sebastianini, Marcello Calvani, Roberto Lombardi, Marcello Cozzi, Nicodemo Della Gerva, Enrico Serreli, Alfredo Notti, Alfonso Cagno e Vincenzo Giuffrè. Queste, più altre cinque non identificate, furono le vittime prelevate dal primo camion. Alfio Fallai, Gino Grossi ed uno sconosciuto furono prelevate da un secondo camion ed anch’esse uccise.
103 Per quanto concerne il processo di Viterbo cfr. “Gazzetta di Modena”, dicembre 1950-gennaio 1951.
104 Cfr. Gianfranco STELLA , L’eccidio dei conti Manzoni di Lugo di Romagna, Rimini, 1991; Paolo SCALINI, Fare giustizia in Romagna, Bologna, 1991, pp. 19-26; Giordano MARCHIANI , La bottega del barbiere, Bologna, 1988.
105 STELLA, op. cit., p35.
106 “Nei mesi che seguirono però si verificò un convulso groviglio di ritrattazioni, piccoli ricatti, accuse di falso e denunce di estorsione delle confessioni tanto che, ad un certo momento, tutti si dichiararono innocenti, compresi coloro che erano stati riconosciuti dai contadini e che si giustificarono asserendo di aver svolto una normale opera di controllo e di imposizione del coprifuoco, anche se con la forza delle armi, sollecitando la gente a rientrare in casa. Tutti gli accusati furono, chi più chi meno, concordi anche nel riconoscere che non c’era nulla da rimproverare ai Manzoni dal punto di vista politico e che erano visti da tutti con simpatia per la oro affabilità e la loro generosità nei confronti dei contadini. SCALINI, op. cit., p. 22.
107 “Giornale dell’Emilia”, 7 luglio 1948 e ss. Cfr. anche “Giornale dell’Emilia”, 21 marzo 1946 e Archivio dell’Istituto storico della Resistenza dell’Emilia-Romagna, Fondo Casali, sett. II, b. 98, ff. 1-5. Questo processo fu uno dei pochissimi in cui il Centro di solidarietà democratica non fornì diretta assistenza processuale agli imputati, stante la difficoltà per il Pci di solidarizzare apertamente con i rei confessi di un delitto dichiaratamente politico e senza alcuna possibilità di giustificazione.
Nel saggio di Luca ALESSANDRINI ed Angela Maria POLITI, Nuove fonti sui processi contro i partigiani 1948-1953. Contesto politico ed organizzazione della difesa, in “Italia contemporanea”, n. 178, marzo 1990, pp. 49-50, questo procedimento è significativo per almeno due aspetti. “In primo luogo il candore col quale si valutano i fatti: pare cosa normale, nonostante l’evidente scarto temporale tra la conclusione della guerra di liberazione ed il momento dell’azione, la lotta clandestina, la soppressione dei fascisti, il prelievo di beni per i combattenti. In secondo luogo, perché essa offre uno spaccato di una situazione della provincia di Bologna, ancorché parziale e da verificare in tutte le sue implicazioni, caratterizzata dalla difficoltà a rientrare nella legalità da parte almeno di alcuni partigiani e da una già avviata repressione dei responsabili di fatti che, compiuti dopo il 25 aprile 1945, vengono a configurarsi come reati. Questo processo, celebrato in prima istanza nella seconda metà del 1948, fu in grado, come appare evidentissimo dal confronto con altri dello stesso archivio, di mettere in difficoltà il Pci e tutte le altre forze di opposizione che si ispiravano alla resistenza. Per queste ultime il problema fu parzialmente risolto non esponendosi nella difesa degli imputati, mentre per il Pci fu tutto più difficile: alcuni imputati erano iscritti al partito – uno era segretario di sezione – tutti avevano agito nell’ambito della brigata Gap Ettore Rovinetti, o meglio di ciò che rimaneva di tale formazione e che venne definito “ufficio stralcio della brigata”. La campagna della stampa moderata fu intensa e sostenne, a spiegazione dell’accaduto, l’esistenza di dissidi tra le famiglie agiate del paese da una parte, e il Cln e il Pci locali dall’altra; di contrasti privati fra un imputato e una vittima; di risentimenti verso i sindaco liberale. Elemento di ulteriore imbarazzo fu il fatto che almeno una delle vittime non era più stata iscritta al partito dal 1935 e anzi era aderente al Partito d’azione. Per i processi di primo grado, presso la Corte di assise di Bologna dal 5 luglio 1948, e di secondo grado, presso la Corte di assise di Appello di Firenze dal 3 dicembre 1952, furono costituiti due nutriti collegi di difesa al centro dei quali fu sempre l’avvocato Casali”.
108 “Giornale dell’Emilia”, 22 luglio 1948
109 La vicenda dei sette fratelli Govoni è stata desunta interamente dagli atti processuali depositati in Archivio del Centro di Solidarietà democratica di Bologna (d’ora in poi ACSDBO), presso Istituto di storia della Resistenza dell’Emilia-Romagna, sez. II, sett. 3, ff. 132-134.
110 Tra l’8 ed il 9 maggio 1945 Borghi e Caffeo organizzano, insieme a Walter Montorsi e ad altri, il prelevamento e l’uccisione di dodici persone di Asia di Argelato e di Pieve di Cento. Si tratta di: Laura Emiliani, Sisto Costa, della moglie Adeleaide Taddia e del figlio Vincenzo, oltre a Enrico Cavallini, Giuseppe Alberghini, Dino Bonazzi, Guido Tartari, Ferdinando Melloni, Otello Moroni, Vanes Maccaferri e Augusto Zaccarato. I prigionieri vengono condotti in una casa colonica sita nel fondo di proprietà del marchese Talon a Volta di Reno di Argelato. Qui sono uccisi per strangolamento. Il 3 maggio 1952, nell’ordinanza di rinvio a giudizio degli imputati relativamente all’uccisione di quattro delle vittime, il giudice Istruttore della Procura di Bologna Giuseppe Toni individua il movente “nella lotta di classe, che abilmente i comunisti inseriscono nel quadro più generale della lotta di liberazione”. Data la circostanza che molti degli uccisi erano dei proprietari terrieri ed avevano subito delle minacce in occasione del rinnovo del contratto mezzadrile, il giudice rileva, in relazione al delitto, che i “Comitati di Agitazione e di Difesa dei contadini”, emanazione dei CLN ma di netta marca comunista, iniziarono specie nel bolognese una vasta attività di proselitismo sindacale tra i mezzadri, proponendo per essi estreme rivendicazioni e cercando nel contempo di creare uno stato di intimidazione generale tra i proprietari, perché le rivendicazioni venissero accettate senza discussione e senza reazione. C’era bisogno in altri termini di creare un particolare clima politico favorevole a certi piani da tempo predisposti”. ACSDBO, sez. II, sett. 3. f. 129.
Bologna 1991
Fonte art.
Nei limiti del presente lavoro, e stante l’attuale scarsità di ricerche al riguardo, sarebbe praticamente impossibile dare un conto anche solo approssimativo delle violenze consumate nel dopoguerra.
Anche perché, in linea generale, il fenomeno si estrinsecò in un stillicidio di episodi in cui trovarono la morte singole, o comunque poche persone per volta, in gran parte soppresse nelle loro abitazioni o prelevate in ore notturne nelle proprie abitazioni e successivamente all’esecuzione sepolte in zone isolate di campagna. Nei “triangoli della morte” emilianoromagnoli tuttavia vennero però commesse anche vere e proprie stragi che coinvolsero in un’unica soluzione criminosa anche diverse decine di individui, sia tra gli esecutori che tra le vittime. A differenza dei delitti individuali che proseguirono numerosi per buona parte del 1946, le stragi furono consumate esclusivamente nei primi mesi del post Liberazione a causa della pressoché completa disorganizzazione delle forze dell’ordine e nella possibilità da parte dei gruppi di ex partigiani comunisti, che spesso agivano con la copertura di “polizia partigiana”, di potere pianificare ed attuare le loro azioni praticamente indisturbati. Senza avere la pretesa della completezza, ci pare opportuno ricostruire alcune delle stragi perpetrate nel 1945, scelte tra quelle che più fecero parlare di sé, o per l’elevato numero delle persone uccise e per le particolari e significative circostanze in cui esse si svolsero. 5
a) Codevigo
L’eccidio di Codevigo, almeno da un punto di vista numerico, risulta come il più sanguinoso, anche se a rigore non dovrebbe essere compreso in quest’elenco poiché fu consumato non sul territorio regionale bensì in provincia di Padova, dove Codevigo appunto si trova. Ma è pur vero che ravennati erano tutti gli uccisori – appartenenti alla 28esima Brigata partigiana Garibaldi “Mario Gordini” e ravennati erano tutti gli uccisi – militi fascisti incorporati nel 618esimo Comando provinciale di Verona -, trovatisi gli uni e gli altri all’indomani della Liberazione e per motivi diversi in quei luoghi. 96
Alcune centinaia di fascisti ravennati ripiegarono, molti con le famiglie, a Codevigo e nei paesi vicini di Pescantina e Candiana nella seconda metà del 1944, in seguito all’occupazione di Ravenna da parte delle forze alleate. Qui vennero incorporati nei locali presidi della Guardia nazionale repubblicana fino alla Liberazione. Parecchi riuscirono ad ottenere un lasciapassare del Cln che attestava la loro non partecipazione ad azioni di rastrellamento contro partigiani: con quel pezzo di carta pensavano di essere al riparo da brutte sorprese. E probabilmente sarebbe stato davvero così se la mattina del 29 aprile, il giorno seguente la Liberazione, non fosse entrata in Pescantina la 28esima Brigata Garibaldi, comandata dal leggendario comandante partigiano “Bulow” (Arrigo Boldrini), ed incorporata nel Corpo italiano di liberazione (Cil). Posto il loro comando in una villa del paese, non è chiarito con quale grado di connivenza o di tolleranza del loro comandante 97, una decina di partigiani comunisti della 28esima, vestiti con divise inglesi e con un fazzoletto rosso al collo, a bordo di un camion Chevrolet si mettono a rastrellare i paesi circostanti alla ricerca dei fascisti ravennati di cui conoscono la presenza in loco. Dal 2 al 10 maggio 1945, in tre, e forse più riprese, numerose persone vengono prelevate nei dintorni di Pescantina con la scusa di un breve interrogatorio e di una successiva traduzione a Ravenna. In realtà gli interrogatori sono sommari e brutali 98 poi, a gruppi di sei, i condannati vengono in realtà trasferiti sull’argine del Brenta e falciati nella notte a raffiche di mitra Thompson. Centoundici saranno le salme rinvenute. 99 Solo quattro i fortunati superstiti. 100
b) La “corriera fantasma”
Notevole scalpore destò all’epoca dei fatti, ma anche in seguito, la vicenda della “corriera fantasma” di Concordia, soprattutto per l’alone di mistero non meno di dramma che l’avvolse. Mistero che non è mai stato chiarito completamente: più che in altri delitti del post Liberazione, infatti, la cortina di silenzi ed omertà, l’oggettiva difficoltà nel comporre il mosaico confuso e contraddittorio dei fatti e delle circostanze, i colpi di scena a base di testimonianze anonime e di pentimenti tardivi, hanno lasciato intorno alla “corriera fantasma” molti margini d’incertezza, tanto da tratteggiare una fosca sceneggiatura che sembra fatta apposta per una trasposizione cinematografica. 101
Tutto ha inizio la mattina del 14 maggio 1945. Dalla piazza del Vescovado di Brescia parte un autocarro (che nei successivi resoconti giornalistici sarà ribattezzato impropriamente “corriera”) appartenente alla Pontificia Opera di Assistenza (POA), di cui porta i simboli sulle fiancate. L’automezzo, che ha come meta il sud, reca a bordo 43 passeggeri: si tratta in grande prevalenza di residenti nel meridione che la guerra ha separato dalla propria famiglia. Sullo scomodo autocarro siedono numerosi reduci dalla prigionia in Germania e un gruppo di giovani ex militi repubblichini della scuola allievi ufficiali di Oderzo. Tutti hanno in tasca un regolare lasciapassare rilasciato da vari Cln dell’alta Italia, segno che nei loro confronti nessuno ha mosso addebiti specifici. Tutti pertanto pensano ad un viaggio senza intoppi.
Procedendo verso sud il camion giunge nel centro del paese di Concordia, nella bassa modenese, ove viene fermato da un posto di blocco della locale polizia partigiana. Trenta passeggeri vengono separati dal gruppo e condotti a Villa Medici, sede della polizia partigiana. Alcuni saranno rilasciati e proseguiranno il viaggio con mezzi di fortuna; sedici persone vengono invece trattenute. Saranno le prime vittime della “corriera fantasma”.
Intanto, con a bordo le poche persone non fermate, l’autocarro riprende il suo percorso senza incidenti fino a Modena. Qui, in base a nuovi ordini, il mezzo deve ripartire alla volta di Verona per effettuare un nuovo carico. I viaggiatori a questo punto si disperdono e ciascuno torna a casa come può.
Del mistero della “corriera fantasma” cominciano ad occuparsi i giornali su sollecitazione dei parenti degli scomparsi che hanno del viaggio solo notizie confuse e discordanti: ed in un primo tempo si sospetta, in mancanza di notizie precise, che tutti i viaggiatori abbiano subito identica, tragica, sorte e che lo stesso autocarro sia stato fatto scomparire dagli autori della strage.
Neppure con il ritrovamento, nella primavera del 1946, delle prime sei salme nelle campagne di Concordia è possibile fare luce sulla vicenda, anche perché l’indagine necroscopica dei cadaveri non riesce a stabilire un collegamento certo con gli scomparsi della “corriera”. Le indagini continuano fino a quando, nel novembre 1948, si rinviene un’altra fossa con dieci cadaveri quasi irriconoscibili. Grazie però al ritrovamento di alcuni effetti personali, si riesce a dimostrare che si tratta proprio dei morti della “corriera”, anzi delle “corriere” poiché i carabinieri scoprono che sono stati in realtà due i mezzi partiti da Brescia il 14 maggio e fermati a Concordia. 102
Si giunge così nel 1950 al processo, presso la Corte d’Assise di Viterbo, contro i responsabili delle Polizia partigiana di Concordia. Il processo appura che i 16 ex repubblichini rinchiusi a Villa Medici, dopo essere stati malmenati e derubati, nella notte tra il 16 e 17 maggio, sono stati trascinati in un podere poco distante e sommariamente eliminati.
L’odissea della “corriera fantasma”- pur non dissolvendo dubbi ed incertezze derivanti principalmente dalla discordanza dei testimoni su alcune importanti circostanze e in primo luogo sul numero dei morti che risultano essere molti di più – pare comunque conclusa con la sentenza del processo di Viterbo che condanna due imputati, Armando Forti e Giovanni Bernardi, a 25 anni di reclusione, di cui 16 condonati. 103
Nel gennaio 1968, invece, il caso riesplode clamorosamente con il ritrovamento – dietro una circostanziata segnalazione anonima – di un’altra fossa comune, ubicata questa volta nel limitrofo comune di San Possidonio e contenente i resti ossei di sei persone. L’anonimo informatore fa anche i nomi degli esecutori dell’eccidio – tutti appartenenti alla polizia partigiana di San Possidonio – ed afferma che il fatto è da collegarsi con la “corriera fantasma”.
Le indagini dei carabinieri, pur ostacolate dal persistere di un clima di pesante omertà, riescono ad aggiungere un nuovo e decisivo tassello al mistero: innanzitutto gli autocarri partiti il 14 maggio da Brescia e fermati nella zona erano stati addirittura tre, con ciò superando l’ostacolo delle testimonianze ancora discordi circa le caratteristiche dei mezzi e l’identità ed il numero dei passeggeri che si trovavano a bordo. Si accerta inoltre che i prelevamenti dei passeggeri erano avvenuti su tutti e tre i camion: parte dei prigionieri erano stati trasportati a Villa Medici e parte inviati a Carpi. Da quest’ultima località sarebbe poi partito un furgone (di qui il nome “corriera”) che la notte del 18 maggio – il giorno successivo all’eccidio di Concordia – avrebbe portato una dozzina di persone alla Casa del Popolo di San Possidonio e di qui, in due gruppi, sul luogo dell’esecuzione, situato ai margini di una fossa anticarro a poche centinaia di metri dall’abitato.
Nel luglio 1970, ai cinque principali imputati al cui carico esistono “elementi gravi, precisi e concordanti”, il giudice istruttore del Tribunale di Modena applica l’amnistia sulla scorta del DPR 4 giugno 1966, n. 332, che considera “amnistiati tutti i reati commessi dal 25 luglio 1943 al 2 luglio 1946 da appartenenti al movimento della Resistenza e dal chiunque abbia cooperato con essa, determinati da movente a fine politico e se connessi con tali reati”.
c) I conti Manzoni
L’eccidio dei conti Manzoni, consumato a Lugo di Romagna (Ravenna) la notte del 7 luglio 1945 104, non è eclatante per il numero delle persone uccise, ma perché rispecchia fedelmente il clima di intolleranza e di “odio classista” diffuso nelle campagne emiliano-romagnole contro quelli che venivano definiti i “padroni”. Questo delitto è paradigmatico delle centinaia di altri che costarono la vita a persone non compromesse con il fascismo ed unicamente colpevoli di essere in quanto possidenti, agricoltori o commercianti, dei “nemici di classe”.
La famiglia Manzoni, proprietaria di una vasta tenuta terriera tra le frazioni di Voltana e Lavezzola e di una grande villa “La Frascata”, è composta da quattro persone: la madre Beatrice, di 64 anni, i figli Giacomo di 41, Luigi e Reginaldo, rispettivamente di 38 e 36. A parte Luigi, diplomatico di carriera che nello scorcio finale della guerra aveva prestato servizio al ministero degli Esteri della Rsi, nessuno degli altri Manzoni ha attivamente preso parte al fascismo: Giacomo si dedica alla cura della vasta proprietà terriera di famiglia e Reginaldo è direttore dell’Istituto di Chimica presso l’Università di Bologna. La contessa Beatrice è poi universalmente nota per la opere di beneficenza nei confronti dei contadini delle sue tenute ed è attivamente impegnata nella congregazione di San Vincenzo, di cui nel 1931 era stata nominata presidente generale. “L’immensa fortuna, la grande tenuta appartenente in antico ai Bentivoglio, scemava lentamente da quando la contesa aveva deciso di vendere un podere ogni anno a beneficio dei suoi coloni e dei suoi paesani”. 105
Altri proprietari della zona erano riparati dopo la Liberazione in luoghi più sicuri. Non i Manzoni che pensavano, a torto, di non avere nulla da temere.
Nella sera di sabato 7 luglio 1945, dopo il tramonto, si presentano alla “Frascata” quattro individui armati che intimano di rientrare in casa al conte Giacomo che si trova all’esterno della villa a godersi il fresco, e di allontanarsi ad alcuni contadini che stanno con lui. Dopo le dieci arrivano due automobili, una 1109 e una Balilla, che caricano i quattro Manzoni e la loro domestica Francesca Anconelli e ripartono in direzione di Passogatto. Dopo una mezz’ora giunge un’altra Balilla seguita da un camion su cui vengono caricati oggetti di valore e vestiario, insieme a gioielli, fucili, macchine fotografiche e libri. I Manzoni e la Anconelli nel frattempo sono stati trasportati in un campo in località Villa Pianta, dove si trova una fossa anticarro costruita dai tedeschi, e qui falciati a colpi di arma da fuoco e quindi seppelliti.
Il delitto resta per lunghi mesi avvolto nel mistero. Molti erano stati i testimoni del delitto ma nessuno parla. Solo alla fine di agosto del 1945, i carabinieri di Lugo inviano un rapporto alla Procura di Ravenna in merito alla scomparsa dei conti Manzoni, ma senza fare riferimento al delitto. Si afferma anzi, in base a voci raccolte in paese, che i Manzoni sono partiti, anche se non si “sa e la partenza sia stata spontanea o forzata”. In questa opera di disinformazione spicca un funzionario comunista della Questura di Ravenna Mario La Sala, che tenta in ogni modo di ostacolare e sviare le indagini, tanto che riuscirà a fare arrestare con una falsa accusa il brigadiere della stessa Questura Vincenzo Caputo, che stava raccogliendo preziosi indizi sulla vicenda. L’azione di occultamento del La Sala riuscirà fino all’agosto del 1946, quando le meticolose indagini dei carabinieri cominciano a far emergere importanti tasselli della verità e ad accertare con una certa sicurezza che i Manzoni sono stati vittime di un delitto politico. I sospetti si concentrano sugli esponenti più in vista del Cln e dell’Anpi di Giovecca e Lavezzola. Tramite numerose perquisizioni, si rinvengono nelle case dei paesi limitrofi alla “Frascata” gioielli, vestiti ed oggetti appartenenti ai Manzoni e prova eloquente della razzia. Solo nel giugno del 1948, però, si arriva a fare completa luce: le forze dell’ordine ottengono prima una confessione di un colono della”Frascata” che aveva assistito allo svolgimento del sequestro, e quindi di Primo Cassani, uno dei partigiani che aveva partecipato all’eccidio: e così il 4 agosto i carabinieri possono risalire al luogo dell’esecuzione e disseppellire i cadaveri delle cinque perone uccise.
Pochi giorni dopo vengono denunciati per la scomparsa dei Manzoni sedici persone, tra cui Silvio Pasi (“Elic”), il comandante partigiano più in vista della zona ed in quel momento segretario della Camera del Lavoro di Faenza. Indagini e testimonianze arrivano a stabilire che era stato il Pasi l’organizzatore dell’intera operazione e che la decisione era stata assunta nella sede della polizia partigiana di Lavezzola comandata da Dergo Donigaglia, anch’egli tra i principali responsabili dell’eccidio. 106
Nel 1951 si giunge al processo che si svolge presso la Corte di Assise di Macerata, dopo la decisione della Cassazione di sottrarre il dibattimento alla Corte di Ravenna per legittima suspicione. Il dibattimento registra un clamoroso colpo di scena con l’autoaccusa di sette partigiani di Voltana che asseriscono in una lettera, dopo aver imboccato la strada della latitanza, di essere loro, ed esclusivamente loro, gli autori del delitto. La Corte non crede a questa versione e li assolve, seppure per insufficienza di prove, mentre condanna i tredici imputati all’ergastolo, ridotti a 19 anni essendo stato riconosciuto il movente politico.
Gli assassini dei Manzoni in carcere rimarranno poco, poichè la Corte d’Appello di Ancona, dopo aver ridotto la pena a 28 anni, applica l’indulto, per cui restano solo due anni di carcere, del resto già scontati. Tutti gli imputati vengono subito scarcerati.
Da notare che all’”eroe” Silvio Pasi, morto nel 1962, e più di ogni altro responsabile del massacro dei Manzoni, è stata dedicata una strada a Lavezzola.
d) Gaggio Montano
“Parla chiaro, esplicito, sincero, ammettendo quasi tutte le imputazioni, raccontando ogni particolare dell’”azione punitiva”, anche i più atroci, con la freddezza di chi si sente nel giusto, seguendo una sua logica disumana ma inesorabile”. Con queste parole il giornalista Enzo Biagi descrive nel 1948 l’atteggiamento di Mario Rovinetti, ex partigiano gappista, nel corso del processo che lo deve giudicare quale maggiore responsabile per la strage di Gaggio Montano, nell’Appennino bolognese. Mario Rovinetti è un caso più unico che raro tra le centinaia di imputati che in quegli anni sono giudicati per i delitti del dopoguerra. Quasi tutti gli imputati dei processi per fatti di sangue, anche di fronte ad evidenti prove di colpevolezza, tentano di negare o di minimizzare le loro responsabilità o magari di scaricarle su altri. Rovinetti no: assume su di se ogni colpa e cerca di scagionare in ogni modo i suoi compagni. È convinto di avere agito nel giusto e per una causa e lo ribadisce nel corso dell’interrogatorio. Al giudice che interrogandolo gli parla della “rapina” dei beni delle vittime, in perfetto stile rivoluzionario, lui corregge il termine in “sequestro”, quando il presidente dice “uccidere”, lui rettifica in “prelevare”. “Tre sentimenti hanno agito in lui – scrive ancora Biagi -, lo hanno spinto all’impresa: l’odio per i fascisti, la fede nella “lotta del proletariato”, la solidarietà per i compagni”. 107
In realtà non era stato Rovinetti a pianificare quell’azione, bensì il segretario del Pci di Gaggio Ivo Gaetani, insieme a Secondo Lenzi, nel frattempo morto di tubercolosi, a Giuseppe Torri ed Antonio Camurri. E proprio in casa di Gaetani viene consegnata a Rovinetti la lista degli “eliminandi” di Gaggio Montano presentati tutti come “camice nere e spie dei tedeschi”. In realtà si tratta di persone comuni senza particolari tendenze politiche, a parte una, Guido Brasa che è segretario del Partito d’Azione del luogo. Ed inoltre, a differenza di altre stragi del dopoguerra, la strage di Gaggio è consumata a freddo, non solo perché si svolge nel novembre del 1945 ma anche perché la liberazione di Gaggio dai nazifascisti data da più di un anno, essendo avvenuta nell’autunno del 1944. Nel corso del processo, per tentare di dare una giustificazione al loro operato, alcuni imputati affermano che intendevano vendicare l’eccidio di Ranchidosso, in cui i tedeschi avevano fucilato alcune decine di abitanti dopo uno scontro a fuoco con i partigiani. Un alibi non credibile che porta lo stesso Pci a prendere, almeno ufficialmente, le distanze, fatto quasi unico in quegli anni, dai responsabili della strage di Gaggio.
L’azione è progettata ed eseguita in perfetto stile militare. Rovinetti sceglie per l’impresa dodici gregari, tre dei quali appena fuggiti dalla carceri bolognesi di San Giovanni in Monte, e con essi, nella notte tra il 16 e 17 novembre 1945, occupa il paese, sbarrando le vie di accesso con sentinelle. Agiscono davanti a decine di persone, non hanno paura di essere riconosciuti. Unica precauzione: non si chiamano per nome ma per numero. Primo obiettivo è la caserma dei carabinieri, che viene circondata prima dell’irruzione. I quattro militi presenti vengono immobilizzati. Poi viene assalita la filiale del Credito Romagnolo e comincia il “saccheggio sistematico del paese” ed i prelevamenti delle vittime. La prima è Bianca Ramazzini, che trovano nell’osteria del paese gestita dal marito e la portano via di fronte ad una decina di avventori. Un altro “eliminando” è Guido Brasa. Quando entrano sta mangiando con la moglie incinta (il figlio nascerà dopo un mese); uno dei banditi sale al piano di sopra e fredda Aldo Brasa, fratello di Guido, che aveva tentato di difendersi. Adelfo Cecchelli è a letto quando vanno a prenderlo. Mentre lo portano fuori dicono, mentendo, ai figli in lacrime: “Siamo italiani e non vogliamo uccidere il vostro papà”. Alfredo Capitani è l’ultima della vittime designate ad essere catturata. Riescono a sottrarsi solo due persone, il cui nome è nella lista: Adolfo Graziani e Ferdinando Ferrari, sindaco del paese.
E finalmente il “commando” toglie l’assedio al paese, mentre le campane del paese suonano a stormo “per dare pace ai vivi, e forse per consolare i quattro prelevati che si avviano alla morte”.
I quattro non si ribellano. Portano dei sacchi contenenti roba sequestrata. Arrivati ad una mulattiera si fermano. Due partigiani si mettono a scavare fino a quando la fossa è pronta per l’esecuzione. Un colpo ciascuno e l’eccidio è consumato.
Rovinetti procede alla divisione del bottino: il denaro e la maggior parte degli abiti agli evasi; a due braccianti che avevano lasciato i campi per aggregarsi al gruppo, vuole pagare due giornate di lavoro, ma essi rifiutano.
Similmente ad altri processi del periodo, anche in questo caso la difesa, per consentire una riduzione di pena agli imputati, insiste sul movente politico. Afferma l’avv. Mauceri: “Escluso che i componenti della banda fossero animati da spirito di vendetta e di lucro, occorre tenere presente che, come comunisti, volevano ottenere, secondo i loro principi, una trasformazione sociale”. 108 Il processo comunque si conclude con sette pesanti condanne a carico dei maggiori responsabili, ed altre sette con pene minori ai gregari.
e) I sette fratelli Govoni
Nella notte del 16 marzo 1945, in comune di Argelato, tre sconosciuti si recano nella casa di Ido Cevolani, un disertore della Gnr in contatto con alcune formazioni partigiane. Lo spingono fuori di casa insieme alla moglie Giovannina. A poche centinaia di metri dall’abitazione, la donna viene freddata con una raffica di mitra mentre il marito cade a terra gravemente ferito. Data la diserzione del Cevolani dalle file fasciste, il movente del delitto viene facilmente individuato nella vedetta di alcuni suoi ex camerati. Ma gli autori restano impuniti poiché il Cevolani nel corso dell’istruttoria che si svolge nel 1947 afferma di non aver riconosciuto nessuno dei prelevatori di quella notte. E pertanto il procedimento si chiude con un “non luogo a procedere per mancanza di indizi sugli autori”.
Un episodio come tanti altri accaduto in quel periodo che scivolerebbe presto nell’ombra se non venisse ripescato improvvisamente alcuni anni più tardi, per spiegare, o meglio giustificare, l’uccisione dei sette fratelli Govoni, avvenuta nei dintorni di Pieve di Cento, comune ai confini tra la provincia di Bologna e quella di Ferrara, l’11 maggio del 1945. 109
Il tragico destino di Dino, Augusto, Primo, Giuseppe, Enzo, Marino ed Ida Govoni è stato più volte messo in contraltare a quello dei sette fratelli Cervi uccisi a Reggio Emilia nel novembre del 1943 dai fascisti. Ed indubbiamente è impressionante la coincidenza dello stesso numero di morti negli eccidi delle due famiglie: e forse ciò che decise la sorte dei Govoni fu proprio il loro numero e la possibilità per i loro assassini di vendicare in modo “esemplare” i fratelli Cervi.
Coraggiosi e spavaldi, così come indisciplinati e riottosi alle direttive dall’alto, i Cervi erano tutti militanti antifascisti e partigiani della prima ora, e caddero vittime di una spietata rappresaglia dei fascisti per la morte del seniore della milizia Giovanni Fagiani e del segretario comunale di Bagnolo in Piano, in provincia di Reggio Emilia, Davide Onfiani. La loro morte, per quanto comminata ingiustamente, fu dunque conseguenza diretta della consapevole scelta antifascista che avevano compiuto, e questo spiega anche la fama a cui assursero nel dopoguerra e le medaglie d’oro al valor militare che vennero loro conferite.
I fratelli Govoni, a parte due di loro che avevano preso parte attiva alla Rsi, non facevano politica e non combattevano nessuno. Furono travolti come tanti altri nell’incandescente clima di odio del dopoguerra che trasformava i sospetti in prove, le accuse in condanne, la sete di vendetta in sentenze di morte. Ai loro assassini fu applicata l’amnistia e non giova oggi giudicare se fu fatta opera di giustizia. Resta il fatto che, amnistiabile o meno, si trattò di un crimine non meno grave di quello commesso contro i Cervi.
Tornando alla dinamica dei fatti, come si è detto solo Marino e Dino Govoni si erano compromessi seriamente con la Rsi: il primo era stato nelle Brigate Nere di Massa Lombarda nel ravennate; il secondo aveva militato nella Gnr. Degli altri fratelli nessuno si era iscritto al Pfr, anche se nel corso della guerra, come sostenne molto genericamente il giudice istrutture del processo, “avevano manifestato solidarietà con i nazi-fascisti”.
Subito dopo la Liberazione, i sette Govoni vengono chiamati al comando partigiano di Pieve di Cento per essere interrogati: quattro sono rilasciati quasi subito; Dino e Marino alcuni giorni dopo, segno che le accuse nei loro confronti non devono essere particolarmente gravi.
Negli stessi giorni fa ritorno a S. Giorgio di Piano, località che dista pochi chilometri da Pieve, lo studente universitario Giacomo Malaguti, che aveva combattuto come sottotenente di artiglieria nella VIII Armata alleata sul fronte di Cassino. In quelle settimane convulse dopo il 25 aprile non basta essere stato antifascista ed avere rischiato la vita per liberare il proprio paese per essere al sicuro. E come si saprà poi, Malaguti ebbe la sorte segnata per poche parole pronunciate al cospetto di uno degli estremisti del luogo. Nel corso di una discussione tra il padre e l’inquilino di un suo appartamento che non vuole andarsene, il giovane Giacomo, invitando il padre a lasciar perdere, dice: “Comanderanno ancora una ventina di giorni”. Per queste poche parole viene denunciato e ripetutamente interrogato nella sede della polizia partigiana del luogo e tanto è sufficiente a far inserire il suo nome nell’elenco delle persone della zona, circa una trentina, da sopprimere.
Questa lista, come poi risulterà al processo, viene stilata da Vittorio Caffeo (“Drago”), un commissario politico comunista che gode di un notevole e sinistro ascendente e non è nuovo ad azioni di questo genere. Caffeo, insieme ad altri capi della polizia partigiana del luogo, Luigi Borghi, Renzo Marchesi, Remo Zanardi ed Arrigo Pioppi, proprio in quei giorni si era già reso responsabile ad Argelato di un altro “nefando eccidio” in cui erano state soppresse 12 persone. 110
Questa “squadra della morte” prepara il suo piano con grande scrupolo senza lasciare nulla al caso. Per convincere i gregari riluttanti ad associarsi all’impresa criminosa, Caffeo ed i suoi compagni adottano uno stratagemma, in modo che “una volta iniziate le operazioni nessuno avrebbe più avuto il coraggio di tirarsi indietro”. Il 10 maggio avvertono un gruppo di partigiani di tenersi pronti per il mattino successivo a San Giorgio di Piano e spiegano che occorre recarsi a San Martino in Spino, ai confini con la provincia di Modena, allo scopo di ritirare un carico di bestiame.
La sera stessa peparano la casa che deve ospitare il “tribunale del popolo” (si tratta dell’abitazione di certo Emilio Grazia che aveva avuto il figlio ucciso dalle Brigate Nere) per giudicare le vittime già predestinate. Non dimenticano di predisporre anche la fossa per i cadaveri. Durante la notte Caffeo si reca con una 1109 nera a prelevare la prima vittima: Marino Govoni.
Alle quattro del mattino del giorno dopo, un camioncino con sopra una decina di partigiani armati parte come stabilito da San Giorgio in Piano, ma la meta non è quella indicata da Caffeo, ma bensì Argelato, nei cui pressi sono attesi da un altro gruppo di partigiani a bordo di una macchina. I due automezzi si dirigono verso la frazione di Veneta di Argelato, ove abita Ida Govoni con il marito Angiolino Cevolani, ed il figlioletto di pochi mesi. Riescono a farla salire sull’autocarro con il pretesto che indichi la casa dei fratelli. Giunti all’abitazione della famiglia Govoni, irrompono nella casa, la perquisiscono, prelevano alcuni fucili da caccia e fanno salire i cinque fratelli sul camion e nella macchina. Si dirigono quindi a Casadio di Argelato per l’ultima e tragica tappa del viaggio.
A questo punto uno dei partigiani del seguito comprende il vero scopo dell’impresa e, riconoscendo tra i prelevati la zia Ida Govoni, chiede a Caffeo di lasciarla andare per allattare il figlioletto. Per tutta risposta viene spedito a casa senza troppi complimenti.
Nella stessa mattinata si verifica un incidente che rischia di mandare a monte tutto il piano. Alcuni graduati della polizia alleata si presentano al comando dei carabinieri di San Pietro in Casale e chiedono d’interrogare i fascisti arrestati. In quel luogo si trova anche il partigiano Vitaliano Bertuzzi, che ha partecipato poco prima ai prelevamenti, il quale afferma che anche a San Giorgio vi sono fascisti pericolosi. Gli alleati gli ordinano di procedere al loro arresto e di tenerli a disposizione della Polizia alleata, che li avrebbe presi in consegna il pomeriggio seguente.
Questo contrattempo potrebbe mandare all’aria tutto. Ma gli organizzatori della strage sono decisi ad andare fino in fondo e giocano d’astuzia. In fondo, pensano, quell’ordine così imprevisto può mascherare il loro piano di un manto di legalità, almeno nella prima fase, e facilitare il loro compito. E difatti, ai tempi del processo molti degli imputati cercheranno di difendersi giocando sull’equivoco ed affermando di aver consegnato tutti i fermati alla Polizia alleata.
Con notevole tempismo, Caffeo si trasferisce a San Giorgio di Piano ed impartisce un ordine di arresto per 27 prsone di cui 10 sono da sopprimere. Le persone condannate a morte vengono prelevate con lo stesso camion che aveva trasportato i Govoni e subito trasferiti nella casa del Grazia, in un’altra stanza rispetto a quella in cui sono rinchiusi i sette fratelli. Si tratta di Alberto Bonora, Cesare Bonora, Ivo Bonora, Ugo Bonora, Vinicio Testoni, Alberto Bonvicini, Ugo Mattioli, Giovanni Caliceti, Guido Pancaldi e Giacomo Malaguti.
Giunta la sera si costituisce la farsa del Tribunale del popolo che deve emettere le sentenze di morte. Le vittime sono portate, due a due, al cospetto dei “giudici” e qui interrogate per varie ore, rapinate e sottoposte a violenze e sevizie. Poi l’immancabile condanna a morte.
Quando si tratta di portare i condannati alla morte, ci si accorge che manca il mezzo, e qualcuno, forse per dare un tono ancora più tragico e macabro alla scena, ha l’idea di servirsi di un carro funebre. Ma il pilota del mezzo che viene chiamato, una volta compreso l’uso per cui è stato adibito, accusa un malore e rinuncia. I diciassette condannati, legati strettamente per le braccia l’uno all’altro a file di tre per tre, per evitare fughe, sono incolonnati ed avviati a piedi lungo i campi verso il luogo dell’esecuzione già preparato in precedenza. Poi si procede al massacro: tre alla volta i prigionieri sono portati sull’orlo della buca e qui strangolati con un cappio. La fossa viene quindi ricoperta di terra.
Passeranno sei anni prima che la verità sui fatti, ed insieme ad essa i poveri resti dei trucidati, venga alla luce.
Nel 1948 Cesare Govoni, padre dei sette fratelli, chiede che vengano riaperte le indagini, quanto meno per il recupero delle salme, segnalando che cinque dei suoi figli “non si erano mai compromessi per ragioni politiche”.
Le indagini però conoscono una decisiva accelerazione solo tre anni dopo, nel febbraio del 1951, quando in località Casadio di Argelato nel corso di lavori di scavo affiorano i cadaveri dei Govoni e degli altri dieci uccisi.
Gli inquirenti riescono a rintracciare i responsabili uno dopo l’altro, molti dei quali confessano il delitto. Ed è nel corso delle indagini che, in modo del tutto strano ed alquanto sospetto, Ido Cevolani offre una nuova versione sul suo ferimento e sull’uccisione della moglie Giovannina. Il Cevolani si ricorda improvvisamente che la notte di quel marzo 1945 ad attendere fuori i suoi prelevatori c’erano i fratelli Marino e Dino Govoni ed avanza esplicitamente il sospetto che fosse stata sua cognata Ida Govoni a denunciarlo ai fascisti come disertore. Un ritorno di memoria così repentino che pare fatto apposta per creare un alibi politico per l’uccisione di almeno quattro dei fratelli Govoni.
L’anno successivo il Giudice istruttore della Procura di Bologna Giuseppe Toni è in grado di emettere la sua sentenza, molto generosa in rapporto alla gravità dei fatti: applicazione dell’amnistia per l’uccisione dei Govoni e di tutti gli altri ad eccezione del sottotenente Giacomo Malaguti.
Il Giudice infatti riconosce che “la soppressione dei sette fratelli Govoni e dei prelevati di San Giorgio, ad eccezione del S. Tenente Malaguti Giacomo, fu determinata da motivi di lotta contro il nazifascismo”. Dino e Marino erano fascisti, mentre Ida era di “sentimenti fascisti”. E gli altri quattro fratelli? Il Giudice, mancando qualsiasi addebito concreto a loro carico, afferma che “forse la soppressione di tutti fu probabilmente causata dal fatto che i partigiani stessi, non sapendo con certezza quali di essi si erano macchiati dei delitti suddetti, decisero di ucciderli tutti per avere così la certezza di avere eliminati i responsabili”.
Per quanto riguarda l’uccisione delle altre nove persone, il Giudice non trova alcun motivo specifico che possa in qualche modo collegarsi alla loro soppressione, a parte una generica simpatia fascista. Nel caso di Giovanni Caliceti la condanna a morte era stata determinata dal fatto che il fratello aveva ricoperto la carica di “consigliere nazionale” del Pnf. Legata alla sorte di Caliceti è quella di Ivo Bonora: dopo aver frequentato il corso Allievi ufficiali della Rsi aveva disertato e chiesto di entrare nelle file partigiane. I capi partigiani lo avrebbero accolto se avesse dato dimostrazione di riabilitarsi uccidendo proprio Giovanni Caliceti, che era un suo lontano parente. Ma Ivo Bonora rifiutò e “tale rifiuto – afferma il giudice – si suppone sia stato il motivo del suo prelevamento e della sua soppressione”. “Meritava per questo di essere soppresso?”, si chiede retoricamente il magistrato. Non lo meritava, ma esistevano delle “apparenze” di una sua collaborazione coi nazifascisti e tali apparenze bastavano per giustificare una condanna a morte agli occhi dei suoi uccisori.
E così i responsabili di un massacro ai danni di persone che erano state fasciste né più né meno di tante altre, anzi meno certamente di uno degli uccisori, Vitaliano Bertuzzi che aveva appartenuto alla milizia repubblichina fino alla fine del 1944, sarebbero stati completamente scagionati se non avessero commesso un grave errore uccidendo il sottotenente Gino Malaguti.
Malaguti con il fascismo non c’entrava assolutamente niente, al contrario lo aveva combattuto. Come il Giudice riconosce “la figura dello scomparso è uscita limpida e immune da qualsiasi pecca politica”. Il rinvio a giudizio e la conseguente e successiva condanna degli imputati riguardò quindi la sola uccisione di Malaguti.
NOTE
95 Oltre a quelle narrate nel testo, è giusto riferire sommariamente per completezza storica anche di altre stragi perpetrate sul territorio regionale nella lunga “primavera di sangue” del 1945. A Comacchio (Ferrara), tra il 12 ed il 13 maggio 1945, un gruppo di partigiani comunisti della polizia partigiana di Lagosanto arresta undici persone (Arrigo e Gustavo Piva, Giovanni Bigoni, Giuseppe Zanellati, Luigi Albino Bigoni ed il figlio Giovanni, Paolo Piva, i fratelli Tranquillo e Giovanni Bigoni, Natale Finessi e Secondo Bulgarelli) e li rinchiude a villa Tudes. Qui i prigionieri, quasi tutti fascisti, vengono percossi brutalmente e ripetutamente percossi. Trasferiti nella vicina prigione di Comacchio, nella notte tra il 26 ed il 27 maggio i reclusi vengono prelevati e portati su di un camion presso il cimitero di Comacchio e falciati a raffiche di mitra. Cfr. Alberto BALBONI, Edda BONETTI, Guido MENARINI, Repubblica sociale italiana e Resistenza. Ferrara 1943-1945, Ferrara, 1990, pp. 195-201, e Democrazia cristiana dell’Emilia Romagna (a cura della), La Seconda Liberazione dell’Emilia, Roma, 1949, p. 39. L’opuscolo della Dc cita anche (p. 38) un rapporto dei carabinieri di Portomaggiore con un elenco di 104 nomi di scomparsi. A Ferrara la notte dell’8 giugno 1945, una motocicletta ed un’automobile si fermano davanti all’edificio delle carceri. Scendono sette uomini vestiti da militari alleati. Quattro restano all’ingresso, gli altri penetrano nella prigione e raggiungono le cinque celle dove sono ammassati una quarantina di prigionieri fascisti. I mitra cominciano a crepitare nel mucchio. Diciotto persone muoiono (Giorgio Broz, Gilberto Colla, Carlo Cavallini, Pasquale Esposito, Corrado Ghedini, Luigi Gusmano, Medardo Graziano, Francesco Melloni, Bruto Melloni, Mirco Mazzoni, Roberto Stabellini, Eros Scaglianti, Vincenzo Fiocchi, Costantino Satta, Giuseppe Montagnese, Manto Mariotti, Viscardo Vaccari e Alvaro Maggi). Altre quattordici restano ferite. Gli assassini vengono prosciolti in istruttoria. Cfr. “Avvenire Padano”, 23 maggio 1952. In circostanze analoghe, una settimana dopo, il 15 giugno, a Carpi di Modena viene consumata un’altra strage nelle carceri. Questa volta sono sedici i prigionieri a cadere sotto le raffiche sparate da un gruppo di individui che sono entrati nella prigione dopo aver disarmato le guardie: Giulio Silvestri, Alfonso Fontanesi, Aldo Reggiani, Sesto Dallari, Umberto Griminelli, Gianmario Vallati, Giuseppe Fattorini, Walter Pincella, Walter Priniello, Massimiliano Zanella, Dante Pantaleoni, Armando Pirondi, Luigi Neri, Gustavo Martelli, Umberto Guinicelli e Arduino Bergonzoni. Nel 1951 nove appartenenti alla polizia partigiana del luogo vengono condannati per il delitto. Cfr. Giovanni FANTOZZI, “Vittime dell’odio”. L’ordine pubblico a Modena dopo la Liberazione (1945-1946), Bologna, 1990, pp. 38-39. Nel reggiano, a Campagnola, il 28 aprile 1945 dieci persone (Carlo Bizzarri con la moglie Maria Bocedi, Vittorio Bizzarri, Salvino Bolognesi, Giuseppe Campedelli, Pietro Mariani, Gastone Pecorari, Cesare Righi, Giacomo Righi ed Ezio Silingardi) vengono prelevate ed uccise, e i cadaveri occultati nel “cavoun” della fornace Fontanesi, insieme ad altri eliminati prima e dopo di loro in quella zona. Dal “cavoun”, nel marzo del 1991, dopo che il figlio di una delle vittime aveva inviato una lettera alle famiglie di Campagnola e dopo che un anonimo aveva piantato una croce sul posto della strage, i cadaveri saranno parzialmente disseppelliti. Cfr. Associazione nazionale famiglie caduti e dispersi della Repubblica sociale italiana (a cura della), Reggio Emilia 1943-1946. Martirologio, Rimini, 1991, pp. 76-79. Delle fosse di Campagnola ed di altre sparse nella bassa reggiana si era occupato anche Giorgio Morelli (“Il solitario”) su “La Nuova Penna” nei numeri del 17 maggio 1946 e 15 ottobre 1946. Dell’esistenza di numerose fosse comuni era al corrente anche il Prefetto di Reggio Emilia Potito Chieffo che nel 1946 scrisse un rapporto alla Presidenza del Consiglio elencando le località ove erano ubicate. Cfr. “Il Resto del Carlino”, 9 novembre 1991.96 Cfr. Gianfranco STELLA, 1945. Ravennati contro. La strage di Codevigo, Rimini, 1991 e “La Repubblica”, 6 ottobre 1990.
97 Arrigo Boldrini è parlamentare del Pds e presidente nazionale dell’Anpi. Nel suo diario di quei giorni “Bulow” si esprime con una certa ambiguità circa il comportamento dei suoi partigiani. Tra le righe del diario si capisce che le esecuzioni sommarie di oltre cento fascisti da parte dei partigiani della 28esima non gli erano sconosciute, mentre non c’è alcun elemento per affermare che egli sia intervenuto per fermare il massacro. In data 9-10 maggio 1945 scrive: [... ] Nella serata dobbiamo affrontare nuovamente una questione molto seria: si tratta dei rastrellamenti dei fascisti, operati spontaneamente dai patrioti un pò dovunque, così come si registrano autonome iniziative di gruppi contro le ultime sacche di resistenza nazifascista (si noti, a smentita di Boldrini, che dopo il 28 aprile non vi è alcuna traccia di combattimenti armati in quella zona, tanto è vero che nel diario storico della 28esima si legge “Dal 30 aprile al 6 maggio – Riposo a Codevigo”, ndr). [... ] Pressoché impossibile intervenire. Non possiamo che prendere atto degli strascichi di una guerra nel corso della quale le forze armate della Rsi, soprattutto le brigate nere, la guardia nazionale repubblicana, hanno resistito fino all’ultimo. Ci rendiamo conto di quali e quanti problemi personali ed umani si pongano in questa fase finale: gli animi sono esasperati, si apprendono terribili notizie sui misfatti compiuti dai nazifascisti”. E, quasi a voler giustificare quello che stava accadendo: “si sa che la guerra rompe tutti gli equilibri e non è facile riconquistarli in poco tempo. Alla fine di ogni conflitto si sono avuti troppi episodi dolorosi. Occorrerebbe tempo per raggruppare i partigiani in caserme e in altri centri di raccolta, per inserirli gradualmente nella vita civile. Gli eventi invece incalzano, incontrollati e velocissimi”. Infine, con parole da comandante, Boldrini si assume ogni responsabilità: “Ribadiamo per quanto ci compete l’intimazione del Comitato di liberazione nazionale per il nord Italia del 19 aprile “arrendersi o perire” che era un invito alla resa: “oggi, subito: arrendersi o perire. Questa è la formale intimazione che il Comitato di liberazione nazionale per l’alta Italia vi rivolge”. Ma molti fascisti hanno combattuto fino all’ultimo, eccome (non certo comunque i fascisti di Pescantina arresisi al locale Cln, ndr). I comandi alleati hanno confermato la loro direttiva di massima “annientare il nemico ovunque si trovi”. Chi può giudicare in simili frangenti? In ogni caso la 28esima si assume la piena responsabilità degli ordini che sono stati impartiti (anche quella dell’uccisione a freddo di persone inermi?, ndr). STELLA, op. cit., pp. 128-129.
98 Dalle testimonianze dei superstiti risulta che i prigionieri venivano portati a villa Ghellero, sede del comando partigiano per essere interrogati, alla presenza di Ateo Minghelli (“Regan”), vicecomandante della 28esima, prima di essere condotti alla fucilazione. Altri invece erano rinchiusi in alcune “boarie” (stalle) della zona dove sostavano, tra percosse e torture, in attesa della fucilazione.
99 I cadaveri di una parte degli scomparsi vennero sepolti nel cimitero di Codevigo. “La fossa comune venne scoperta solo nel 1961: 77 salme furono trovate a Codevigo, 17 a Santa Margherita, 12 a Brenta d’Adda. In tutto 106 corpi, di cui 90 identificati: 76 emiliani, quasi tutti di Ravenna, e 14 di Codevigo. Altri trenta, almeno, se li sarebbe presi il fiume”. “La Repubblica”, 6 ottobre 1990.
100 I superstiti della strage, tali perché le raffiche di mitra li ferirono solo leggermente e perché riuscirono miracolosamente a celarsi lungo la riva con la complicità della notte, furono: Alvaro Allegri, Guido Corbelli, Paolo Maccesi. Ad essi si deve la descrizione dei particolari della tragedia.
101 Cfr. Vittorio MARTINELLI, La “corriera fantasma”, Brescia, 1988 e FANTOZZI, op. cit., pp. 71-78.
102 Le persone uccise di cui venne accertata l’identità sono: Cesare Jannoni-Sebastianini, Marcello Calvani, Roberto Lombardi, Marcello Cozzi, Nicodemo Della Gerva, Enrico Serreli, Alfredo Notti, Alfonso Cagno e Vincenzo Giuffrè. Queste, più altre cinque non identificate, furono le vittime prelevate dal primo camion. Alfio Fallai, Gino Grossi ed uno sconosciuto furono prelevate da un secondo camion ed anch’esse uccise.
103 Per quanto concerne il processo di Viterbo cfr. “Gazzetta di Modena”, dicembre 1950-gennaio 1951.
104 Cfr. Gianfranco STELLA , L’eccidio dei conti Manzoni di Lugo di Romagna, Rimini, 1991; Paolo SCALINI, Fare giustizia in Romagna, Bologna, 1991, pp. 19-26; Giordano MARCHIANI , La bottega del barbiere, Bologna, 1988.
105 STELLA, op. cit., p35.
106 “Nei mesi che seguirono però si verificò un convulso groviglio di ritrattazioni, piccoli ricatti, accuse di falso e denunce di estorsione delle confessioni tanto che, ad un certo momento, tutti si dichiararono innocenti, compresi coloro che erano stati riconosciuti dai contadini e che si giustificarono asserendo di aver svolto una normale opera di controllo e di imposizione del coprifuoco, anche se con la forza delle armi, sollecitando la gente a rientrare in casa. Tutti gli accusati furono, chi più chi meno, concordi anche nel riconoscere che non c’era nulla da rimproverare ai Manzoni dal punto di vista politico e che erano visti da tutti con simpatia per la oro affabilità e la loro generosità nei confronti dei contadini. SCALINI, op. cit., p. 22.
107 “Giornale dell’Emilia”, 7 luglio 1948 e ss. Cfr. anche “Giornale dell’Emilia”, 21 marzo 1946 e Archivio dell’Istituto storico della Resistenza dell’Emilia-Romagna, Fondo Casali, sett. II, b. 98, ff. 1-5. Questo processo fu uno dei pochissimi in cui il Centro di solidarietà democratica non fornì diretta assistenza processuale agli imputati, stante la difficoltà per il Pci di solidarizzare apertamente con i rei confessi di un delitto dichiaratamente politico e senza alcuna possibilità di giustificazione.
Nel saggio di Luca ALESSANDRINI ed Angela Maria POLITI, Nuove fonti sui processi contro i partigiani 1948-1953. Contesto politico ed organizzazione della difesa, in “Italia contemporanea”, n. 178, marzo 1990, pp. 49-50, questo procedimento è significativo per almeno due aspetti. “In primo luogo il candore col quale si valutano i fatti: pare cosa normale, nonostante l’evidente scarto temporale tra la conclusione della guerra di liberazione ed il momento dell’azione, la lotta clandestina, la soppressione dei fascisti, il prelievo di beni per i combattenti. In secondo luogo, perché essa offre uno spaccato di una situazione della provincia di Bologna, ancorché parziale e da verificare in tutte le sue implicazioni, caratterizzata dalla difficoltà a rientrare nella legalità da parte almeno di alcuni partigiani e da una già avviata repressione dei responsabili di fatti che, compiuti dopo il 25 aprile 1945, vengono a configurarsi come reati. Questo processo, celebrato in prima istanza nella seconda metà del 1948, fu in grado, come appare evidentissimo dal confronto con altri dello stesso archivio, di mettere in difficoltà il Pci e tutte le altre forze di opposizione che si ispiravano alla resistenza. Per queste ultime il problema fu parzialmente risolto non esponendosi nella difesa degli imputati, mentre per il Pci fu tutto più difficile: alcuni imputati erano iscritti al partito – uno era segretario di sezione – tutti avevano agito nell’ambito della brigata Gap Ettore Rovinetti, o meglio di ciò che rimaneva di tale formazione e che venne definito “ufficio stralcio della brigata”. La campagna della stampa moderata fu intensa e sostenne, a spiegazione dell’accaduto, l’esistenza di dissidi tra le famiglie agiate del paese da una parte, e il Cln e il Pci locali dall’altra; di contrasti privati fra un imputato e una vittima; di risentimenti verso i sindaco liberale. Elemento di ulteriore imbarazzo fu il fatto che almeno una delle vittime non era più stata iscritta al partito dal 1935 e anzi era aderente al Partito d’azione. Per i processi di primo grado, presso la Corte di assise di Bologna dal 5 luglio 1948, e di secondo grado, presso la Corte di assise di Appello di Firenze dal 3 dicembre 1952, furono costituiti due nutriti collegi di difesa al centro dei quali fu sempre l’avvocato Casali”.
108 “Giornale dell’Emilia”, 22 luglio 1948
109 La vicenda dei sette fratelli Govoni è stata desunta interamente dagli atti processuali depositati in Archivio del Centro di Solidarietà democratica di Bologna (d’ora in poi ACSDBO), presso Istituto di storia della Resistenza dell’Emilia-Romagna, sez. II, sett. 3, ff. 132-134.
110 Tra l’8 ed il 9 maggio 1945 Borghi e Caffeo organizzano, insieme a Walter Montorsi e ad altri, il prelevamento e l’uccisione di dodici persone di Asia di Argelato e di Pieve di Cento. Si tratta di: Laura Emiliani, Sisto Costa, della moglie Adeleaide Taddia e del figlio Vincenzo, oltre a Enrico Cavallini, Giuseppe Alberghini, Dino Bonazzi, Guido Tartari, Ferdinando Melloni, Otello Moroni, Vanes Maccaferri e Augusto Zaccarato. I prigionieri vengono condotti in una casa colonica sita nel fondo di proprietà del marchese Talon a Volta di Reno di Argelato. Qui sono uccisi per strangolamento. Il 3 maggio 1952, nell’ordinanza di rinvio a giudizio degli imputati relativamente all’uccisione di quattro delle vittime, il giudice Istruttore della Procura di Bologna Giuseppe Toni individua il movente “nella lotta di classe, che abilmente i comunisti inseriscono nel quadro più generale della lotta di liberazione”. Data la circostanza che molti degli uccisi erano dei proprietari terrieri ed avevano subito delle minacce in occasione del rinnovo del contratto mezzadrile, il giudice rileva, in relazione al delitto, che i “Comitati di Agitazione e di Difesa dei contadini”, emanazione dei CLN ma di netta marca comunista, iniziarono specie nel bolognese una vasta attività di proselitismo sindacale tra i mezzadri, proponendo per essi estreme rivendicazioni e cercando nel contempo di creare uno stato di intimidazione generale tra i proprietari, perché le rivendicazioni venissero accettate senza discussione e senza reazione. C’era bisogno in altri termini di creare un particolare clima politico favorevole a certi piani da tempo predisposti”. ACSDBO, sez. II, sett. 3. f. 129.
Bologna 1991
Fonte art.
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