Petizione.
Creata il 26 Aprile alle 16:44 da Fulvio Fosforino.
Al Presidente del Consiglio Enrico Letta,
al Ministro degli Esteri Emma Bonino
Link Petizione. http://firmiamo.it/salviamo-i-nostri-maro-dalla-pena-di-morte
Dalle news si susseguono notizie ben poco rassicuranti sulla sorte dei nostri due marò, arrestati per la disgrazia dei due pescatori indiani ed accusati di omicidio.Attualmente rinchiusi in carcere in India. Firmiamo per far sentire la nostra vicinanza ai connazionali! Firmiamo perché il Governo si attivi davvero per salvarli.
#salviamoimarò
I due Marò: tutto quello che non vi hanno detto
Storia di una perfetta disinformazione e di un clamoroso fallimento diplomatico.
Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, la vicenda dei due marò ha raggiunto livelli d’isteria difficilmente eguagliabili. Il 26 marzo il Ministro degli Esteri Giulio Terzi si è dimesso in Parlamento dopo una seduta tragicomica. Lo stesso giorno, inoltre, il sindaco leghista di Diano Marina (Imperia), Giacomo Chiappori, ha formulato su Facebook una brillante proposta per risolvere la crisi diplomatica:
Attenti indiani che potete dire quello che volete ma se darete la pena di morte o anche l’ergastolo ai nostri Marò, avrete da vedervela non con gli italiani.
Ma come siamo arrivati fino a questo punto?
Matteo Miavaldi, giornalista del sito specializzato in questioni asiatiche China Files, ha provato a rispondere al quesito nel saggio I due Marò. Tutto quello che non vi hanno detto (in uscita il 17 aprile per Alegre) ripercorrendo in maniera analitica «un fatto di cui si sono perse le origini e la radici», completamente stravolto da una «narrazione tossica» che si muove su quel terreno della “plausibilità”, della “verosimiglianza” che mette insieme pancia e cervello, luoghi comuni e piccole forme di razzismo quasi innate nella popolazione italiana, dando così il la ad una presentazione dei fatti che diventa difficile decostruire lì per lì. (Dalla prefazione di Simone Pieranni.)
Miavaldi parte dall’«incidente» occorso alla petroliera Enrica Lexie al largo delle coste del Kerala, in India meridionale, e al ribaltamento dei ruoli operato da una parte della stampa italiana. I marò, accusati dell’omicidio di due pescatori indiani scambiati per “pirati”, nell’arco di nemmeno una settimana passano da “carnefici” a “vittime”.
L’autore affronta anche quello che a mio avviso è uno dei nodi cruciali della vicenda, sistematicamente relegato in secondo piano dalla stampa italiana: la presenza di militari a bordo di una nave civile. La legge 130/2011 approvata dal governo Berlusconi ha previsto la possibilità di utilizzare i cosiddetti Nuclei Militari di Protezione su «mercantili o passeggeri battente bandiera italiana, chiamati a garantire la sicurezza di equipaggio, carico e passeggeri negli spazi marittimi internazionali a rischio pirateria». La norma lascia entrare nel redditizio settore sia i privati che la Marina Militare.
In realtà, la Marina di fatto opera in regime di monopolio: «l’Italia è l’unico Paese ad aver legalizzato un uso così esteso delle proprie Forze Armate a bordo di mercantili privati esponendosi a rischi e conseguenze legali che il caso Enrica Lexie esemplifica in tutta la sua gravità». Intervistato da Miavaldi in merito alla vicenda dei due marò, Antonio De Felice (ex militare, esperto di Crisis e Incident Management) aveva avvertito per tempo la Commissione Difesa sui rischi insiti in questa legge: «Un incidente privato, con la presenza di personale militare a bordo, si sarebbe potuto trasformare in una crisi tra governi. Non ci hanno ascoltato».
Ed è esattamente quello che è successo. Il comandante civile dell’Enrica Lexie, decidendo legittimamente di rientrare nel porto di Kochi in ottemperanza agli ordini della Guardia costiera indiana, ha messo l’Italia di fronte a «un corto circuito della catena di comando che, avallato dalla firma del Ministero della Difesa, permette al personale civile di interferire con gli ordini della sfera militare».
Un’altra questione restituita dal libro alla sua complessità riguarda il diritto internazionale, da più di un anno oggetto di malintesi e speculazioni alimentate ad arte. Il 18 gennaio del 2013 la Corte Suprema indiana (pur con ritardo) arriva a un «parziale non-verdetto» sul caso:
Il nocciolo della sentenza ruota attorno all’interpretazione del diritto internazionale che, si scopre in Italia con undici mesi di ritardo, non è “bianco o nero” come raccontato fino a quel momento. Entra così in scena l’elefante nel salotto di tutta la vicenda, il concetto di “zona contigua”.
Secondo il diritto marittimo internazionale, la «zona contigua» è il tratto di mare che si estende fino alle 24 miglia nautiche dalla costa, entro le quali è diritto di uno Stato far valere la propria giurisdizione. Per i giudici indiani il processo si dovrebbe celebrare perciò davanti a una Corte Federale e non a una Corte del Kerala. Insomma, dopo aver arrestato i due marò, la polizia del Kerala avrebbe dovuto consegnare i militari italiani al Central Bureau of Investigation (l’Fbi indiana). Perché non è stato fatto? Con l’equilibrio giornalistico che contraddistingue l’intero saggio, Miavaldi scrive:
È lecito pensare che il governo del Kerala a metà febbraio 2012 avesse avuto tutto l’interesse a strumentalizzare il caso dei marò italiani a fini politici, presentandosi agli occhi dell’elettorato come un’amministrazione forte e autoritaria che ha a cuore le sorti dei deboli e degli ultimi.
Togliendo la giurisdizione al Kerela, la Corte Suprema indiana trasferisce il giudizio su Latorre e Girone a un «tribunale speciale», che sarà costituito a New Delhi. In Italia, «tribunale speciale» rimanda inevitabilmente alle corti fasciste, e la profonda ignoranza sul sistema legale indiano ha provocato ondate di panico e terrore. Ma le Corti Speciali non hanno nulla a che fare con quelle fasciste:
Ricorrere ad una Corte speciale, in India, quando si affrontano casi particolarmente complessi o di interesse nazionale è pratica abbastanza comune. […] Approntare una Corte speciale in India è una garanzia di autorevolezza e terzietà in un Paese dove la fiducia nelle altre istituzioni nazionali (il Parlamento in primis) è ai minimi storici.
Di tutto questo, però, nel Belpaese non se n’è minimamente parlato. Anzi. La realtà disturbava i manovratori della «narrazione tossica», che fin dal 15 febbraio 2012 hanno gettato la vicenda in un vortice di sciovinismo straccione, travolgendo giornalismo, opinione pubblica e istituzioni.
Firma anche tu perché il Governo italiano si muova davvero per salvare i nostri connazionali.
#salviamoimarò
Creata il 26 Aprile alle 16:44 da Fulvio Fosforino.
Al Presidente del Consiglio Enrico Letta,
al Ministro degli Esteri Emma Bonino
Link Petizione. http://firmiamo.it/salviamo-i-nostri-maro-dalla-pena-di-morte
Dalle news si susseguono notizie ben poco rassicuranti sulla sorte dei nostri due marò, arrestati per la disgrazia dei due pescatori indiani ed accusati di omicidio.Attualmente rinchiusi in carcere in India. Firmiamo per far sentire la nostra vicinanza ai connazionali! Firmiamo perché il Governo si attivi davvero per salvarli.
#salviamoimarò
I due Marò: tutto quello che non vi hanno detto
Storia di una perfetta disinformazione e di un clamoroso fallimento diplomatico.
Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, la vicenda dei due marò ha raggiunto livelli d’isteria difficilmente eguagliabili. Il 26 marzo il Ministro degli Esteri Giulio Terzi si è dimesso in Parlamento dopo una seduta tragicomica. Lo stesso giorno, inoltre, il sindaco leghista di Diano Marina (Imperia), Giacomo Chiappori, ha formulato su Facebook una brillante proposta per risolvere la crisi diplomatica:
Attenti indiani che potete dire quello che volete ma se darete la pena di morte o anche l’ergastolo ai nostri Marò, avrete da vedervela non con gli italiani.
Ma come siamo arrivati fino a questo punto?
Matteo Miavaldi, giornalista del sito specializzato in questioni asiatiche China Files, ha provato a rispondere al quesito nel saggio I due Marò. Tutto quello che non vi hanno detto (in uscita il 17 aprile per Alegre) ripercorrendo in maniera analitica «un fatto di cui si sono perse le origini e la radici», completamente stravolto da una «narrazione tossica» che si muove su quel terreno della “plausibilità”, della “verosimiglianza” che mette insieme pancia e cervello, luoghi comuni e piccole forme di razzismo quasi innate nella popolazione italiana, dando così il la ad una presentazione dei fatti che diventa difficile decostruire lì per lì. (Dalla prefazione di Simone Pieranni.)
Miavaldi parte dall’«incidente» occorso alla petroliera Enrica Lexie al largo delle coste del Kerala, in India meridionale, e al ribaltamento dei ruoli operato da una parte della stampa italiana. I marò, accusati dell’omicidio di due pescatori indiani scambiati per “pirati”, nell’arco di nemmeno una settimana passano da “carnefici” a “vittime”.
L’autore affronta anche quello che a mio avviso è uno dei nodi cruciali della vicenda, sistematicamente relegato in secondo piano dalla stampa italiana: la presenza di militari a bordo di una nave civile. La legge 130/2011 approvata dal governo Berlusconi ha previsto la possibilità di utilizzare i cosiddetti Nuclei Militari di Protezione su «mercantili o passeggeri battente bandiera italiana, chiamati a garantire la sicurezza di equipaggio, carico e passeggeri negli spazi marittimi internazionali a rischio pirateria». La norma lascia entrare nel redditizio settore sia i privati che la Marina Militare.
In realtà, la Marina di fatto opera in regime di monopolio: «l’Italia è l’unico Paese ad aver legalizzato un uso così esteso delle proprie Forze Armate a bordo di mercantili privati esponendosi a rischi e conseguenze legali che il caso Enrica Lexie esemplifica in tutta la sua gravità». Intervistato da Miavaldi in merito alla vicenda dei due marò, Antonio De Felice (ex militare, esperto di Crisis e Incident Management) aveva avvertito per tempo la Commissione Difesa sui rischi insiti in questa legge: «Un incidente privato, con la presenza di personale militare a bordo, si sarebbe potuto trasformare in una crisi tra governi. Non ci hanno ascoltato».
Ed è esattamente quello che è successo. Il comandante civile dell’Enrica Lexie, decidendo legittimamente di rientrare nel porto di Kochi in ottemperanza agli ordini della Guardia costiera indiana, ha messo l’Italia di fronte a «un corto circuito della catena di comando che, avallato dalla firma del Ministero della Difesa, permette al personale civile di interferire con gli ordini della sfera militare».
Un’altra questione restituita dal libro alla sua complessità riguarda il diritto internazionale, da più di un anno oggetto di malintesi e speculazioni alimentate ad arte. Il 18 gennaio del 2013 la Corte Suprema indiana (pur con ritardo) arriva a un «parziale non-verdetto» sul caso:
Il nocciolo della sentenza ruota attorno all’interpretazione del diritto internazionale che, si scopre in Italia con undici mesi di ritardo, non è “bianco o nero” come raccontato fino a quel momento. Entra così in scena l’elefante nel salotto di tutta la vicenda, il concetto di “zona contigua”.
Secondo il diritto marittimo internazionale, la «zona contigua» è il tratto di mare che si estende fino alle 24 miglia nautiche dalla costa, entro le quali è diritto di uno Stato far valere la propria giurisdizione. Per i giudici indiani il processo si dovrebbe celebrare perciò davanti a una Corte Federale e non a una Corte del Kerala. Insomma, dopo aver arrestato i due marò, la polizia del Kerala avrebbe dovuto consegnare i militari italiani al Central Bureau of Investigation (l’Fbi indiana). Perché non è stato fatto? Con l’equilibrio giornalistico che contraddistingue l’intero saggio, Miavaldi scrive:
È lecito pensare che il governo del Kerala a metà febbraio 2012 avesse avuto tutto l’interesse a strumentalizzare il caso dei marò italiani a fini politici, presentandosi agli occhi dell’elettorato come un’amministrazione forte e autoritaria che ha a cuore le sorti dei deboli e degli ultimi.
Togliendo la giurisdizione al Kerela, la Corte Suprema indiana trasferisce il giudizio su Latorre e Girone a un «tribunale speciale», che sarà costituito a New Delhi. In Italia, «tribunale speciale» rimanda inevitabilmente alle corti fasciste, e la profonda ignoranza sul sistema legale indiano ha provocato ondate di panico e terrore. Ma le Corti Speciali non hanno nulla a che fare con quelle fasciste:
Ricorrere ad una Corte speciale, in India, quando si affrontano casi particolarmente complessi o di interesse nazionale è pratica abbastanza comune. […] Approntare una Corte speciale in India è una garanzia di autorevolezza e terzietà in un Paese dove la fiducia nelle altre istituzioni nazionali (il Parlamento in primis) è ai minimi storici.
Di tutto questo, però, nel Belpaese non se n’è minimamente parlato. Anzi. La realtà disturbava i manovratori della «narrazione tossica», che fin dal 15 febbraio 2012 hanno gettato la vicenda in un vortice di sciovinismo straccione, travolgendo giornalismo, opinione pubblica e istituzioni.
Firma anche tu perché il Governo italiano si muova davvero per salvare i nostri connazionali.
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