Un nome, quello di Evola, che per la destra italiana rappresenta quasi un simbolo, la carta di identità di quelle radici profonde che nessuna "svolta" verso la democrazia può cancellare o dissolvere; e all'ombra dei cui insegnamenti si possono incontrare senza difficoltà il dirigente di Alleanza Nazionale e il giovane dell'ultradestra, lo stragista degli anni Settanta e il naziskin acculturato. Perché, come recita il titolo dell'opera forse più nota di Julius Evola, quella "Rivolta contro il mondo moderno" pubblicata per la prima volta nel 1934 e destinata a conoscere un successo senza tempo a destra, il filosofo ha saputo costruire la più complessa, articolata e ricca definizione di quell'alterità fondamentale che il neofascismo italiano ha vissuto, e continua a vivere in molte sue parti, verso i segni distintivi e lo spirito di fondo della modernità democratica.
Julius Evola ha avuto il merito o meglio il demerito, attraverso molti testi e una ricerca spasmodica nelle tradizioni e nei miti della cultura occidentale e orientale, di definire un corpo teorico compiuto per l'irriducibilità del radicalismo di destra al mondo moderno e alla sua radice illuminista ed egualitaria, almeno nei presupposti intellettuali, delineando in una sorta di "sincretismo" dei materiali tradizionali, storici e mitologici, un passato aureo, gerarchico e disciplinato razzialmente, ormai travolto dal "livellamento" introdotto dalla democrazia e dai diritti dell'uomo. Evola ha cioè costruito il dotto quadro ideologico dentro il quale potesse trovare facile alloggio l'idea degli "esuli in patria", cioè di un mondo fascista travolto dagli avvenimenti, primo fra tutti la sconfitta militare e politica subita nel 1945, ma deciso a resistere nella sua fede, proteggendo la propria identità in una sorta di nocciolo duro incapace di rompersi o essere contaminato dal corrotto mondo circostante.
Un ambiente, quello della destra radicale, irrimediabilmente votato a venerare un passato lontano, quello della tradizione originaria incarnato più tardi nel medioevo, o del tentativo di una sua riproposizione più vicina, nei regimi fascisti europei degli anni Trenta. Un filosofo dunque che ha permesso a tutta la generazione della destra del dopoguerra, e poi via via fino ai nostri giorni, di restare "in piedi tra le rovine", conservando la propria identità in un mondo percepito come ostile, in attesa che il clima circostante mutasse radicalmente.
Il primato del pensiero evoliano nella cultura della destra nazionale ha avuto un ruolo talmente determinante, da restare perciò ben saldo anche oggi che gli ex neofascisti sono divenuti, da "esuli", protagonisti a tutti gli effetti della politica italiana. Gli intellettuali "postfascisti", una volta usciti dal ghetto della nostalgia repubblichina e passati dalla difesa della propria "comunità politica" ristretta all'offensiva nella società, dipingono ora Evola come l'ultimo tabù della cultura democratica, il pensatore "scomodo" che la sinistra e l'industria culturale ancora si ostinano a rifiutare. Intanto da anni si celebrano l'opera e la vita del filosofo in mostre e convegni, mentre le Edizioni Mediterranee di Roma hanno da tempo iniziato la ristampa di gran parte dei suoi testi, riproposti oggi con i saggi introduttivi di alcuni noti intellettuali. E quale che sia il giudizio espresso sulle tesi evoliane, a destra il peso del filosofo viene sottolineato continuamente.
"Julius Evola è uno dei rari pensatori del nostro tempo che serba nelle sue pagine non solo la forza di formare ma anche di trasformare i suoi lettori", scrive Marcello Veneziani nel suo L'Antinovecento (Leonardo 1996). E Gianfranco De Turris, presidente della Fondazione intitolata al filosofo, parla di Evola come di "un pensatore completo, il quale possiede una 'visione del mondo' generale, vale a dire riferentesi a tutti i piani, compredente tutti i valori necessari all'uomo contemporaneo che vive da estraneo nella Modernità". Un filosofo che "fornisce anche dettami esistenziali, codici di comportamento (...) non rimane soltanto su un piano dottrinario, ma si cala nel mondo e da principi generali fa discendere principi di orientamento esistenziale". Per De Turris, che ha affidato a un volume intitolato Elogio e difesa di Julius Evola (Edizioni Mediterranee 1997) la sua requisitoria contro i critici del filosofo neofascista, è in questa stessa completezza dell'opera evoliana che va ricercata la ragione dei tanti attacchi che ha subito da parte della "Kultura italiota", e sempre per questa sua ricchezza interna sarebbe stata scatenata negli anni dall'intellettualità progressista addirittura una vera "crociata contro Evola".
Proprio per il ruolo che il pensiero di Evola continua a giocare nella definizone dell'identità culturale di larga parte della destra italiana, che sente venuto definitivamente il tempo della sua rivincita sulla storia, risulta quanto mai tempestivo il saggio che Francesco Germinario ha dedicato a una parte spesso in ombra della produzione evoliana, ma che contraddistingue invece una delle lezioni più importanti lasciate dal filosofo della destra radicale ai suoi discepoli e estimatori.
Razza del sangue, razza dello spirito (Bollati Boringhieri, pp. 175, L. 30.000), questo il titolo del volume pubblicato da Germinario, è uno studio puntuale e documentato che prende in esame un periodo cruciale degli scritti di Evola, compreso tra il 1930 e il 1943, scandagliando il peso e la rilevanza che l'antisemitismo e il razzismo assumono nelle tesi del filosofo tradizionalista parallelamente all'avvicinamento tra il fascismo e il nazismo e alla visione che dell'ideologia nazionalsocialista dà lo stesso autore di "Rivolta contro il mondo moderno".
Furio Jesi nel suo celebre Cultura di destra (Garzanti, 1979) dubitava fortemente della definizione di "spiritualistico" attribuita d'abitudine al razzismo evoliano: Francesco Germinario in questa sua articolata ricerca sembra riprendere implicitamente quello spunto per dare "concretezza", attraverso un esame accurato dei testi di Evola di circa un quindicennio, alle idee razziste del filosofo. Il lavoro di Germinario si muove infatti lungo due principali nodi tematici: da un lato definire compiutamente il razzismo di Evola come una delle componenti, e non la meno influennte, nel dibattito che su quell'argomento prima, ma anche dopo la promulgazione delle leggi razziali, si svolse nell'Italia fascista anche in rapporto con quanto accadeva in Germania. E il primo risultato che emerge da questa indagine sta proprio nel ruolo di rilievo che Evola ebbe nel dibattito "razzista" italiano, nel quale si proponeva - nota Germinario -, come una sorta di Rosemberg nostrano, e che fu più volte apprezzato dallo stesso Mussolini. Dunque un personaggio tutt'altro che marginale al quadro politico del regime fascista come hanno fino ad ora cercato di dipingerlo molti dei suoi seguaci per accentuarne il carattere di isolamento e di distanza dalle responsabilità del fascismo.
Il secondo elemento di indagine riguarda esattamente l'elaborazione di quella che si può definire come la dottrina razziale di Julius Evola, non secondaria o accessoria alla sua più generale "visione del mondo", ma assolutamente centrale a quest'ultima.
Come scrive al riguardo Germinario nel volume Razza del sangue, razza dello spirito, per Julius Evola "incrocio e imbastardimento sono, razzialmente, la cifra della modernità. La conseguenza è che l'offensiva contro la modernità implica il ritorno alla tradizionale differenziazione e rideterminazione delle razze. La evoliana rivolta contro la modernità, quindi, è anche rivolta contro l'imbastardimento e gli incroci razziali che la modernità medesima ha favorito".
L'integrazione sempre più stretta delle tesi di Julius Evola alla politica fascista, il suo sentirsi più vicino alle scelte fatte dal regime, e l'accentuazione della politica razziale italiana, vanno infatti di pari passo, finendo il razzismo per essere la cifra finale dell'identificazione fatta da parte del filosofo tra il fascismo e il tentativo di ritorno al mondo ideale della tradizione.
Il "razzismo dello spirito" propugnato da Evola non può dunque essere ridotto, come temeva Furio Jesi, a una sorta di versione soft di quello che conduceva al camino di Auschwitz. Al contrario Evola criticava una concezione razziale che si basasse esclusivamente sui dati naturali e biologici perché, come scriveva, "la razza esiste sia nel corpo, sia nello spirito". La sua concezione mirava a una definizione ancora più profonda e radicale del razzismo, che riducendo il peso di quella che definiva come la "zootecnica umana" dei razzisti biologici, considerava il "sangue" (la biologia) come un risultato dello "spirito". In questo, l'antisemitismo che caratterizza molti degli scritti evoliani presi in esame da Francesco Germinario nel volume, appare non in contraddizione con quello nazista e fascista quanto piuttosto definito come "un mezzo" nella battaglia contro la modernità, invece che come "un fine" in se stesso: il filosofo si spinge in realtà anche più in là delle stesse legge razziali, e se si vuole dei presupposti teorici del piano di sterminio in Europa, considerando che da sradicare sia l'"elemento ebraico" insito nella modernità di ciascuno e non solo la presenza degli ebrei nella società.
Per Evola il razzismo resta infatti la chiave di accesso al mondo della tradizione, gerarchizzato e organizzato sulla base di una aristocrazia dello spirito, e del sangue, e per la via di un partito-ordine, come i monaci combattenti del medioevo, e più tardi le SS o la Guardia di Ferro rumena di Codreanu.
Infine, ed è forse una delle intuizioni dell'intenso studio di Francesco Germinario che meriterebbe da sola un ulteriore supplemento di indagine, Julius Evola definisce il proprio orizzonte razziale anticipando con molta chiarezza quella sorta di vulgata "differenzialista" che - dai colti teorici della Nouvelle Droite ai beoti paladini della cristianità padana anti-moschee -, conosce oggi grande fortuna internazionale.
"Per Evola la lotta contro la modernità - spiega Francesco Germinario - diveniva tutt'uno con un processo di rinnovata differenziazione e gerarchizzazione delle razze: ciò che era incrociato e imbastardito, andava nuovamente isolato e rideterminato con estremo rigore, nel senso che ciscuna razza, una volta differenziata rispetto alle altre, era destinata a coltivare la propria specificità". E a governo di questo mondo delle differenze Evola poneva non l'imperialismo di una o più nazioni, ma un "impero"; "nell'Imperium razziale teorizzato da Evola la differenziazione s'identificava immediatamente con la gerarchizzazione delle razze", spiega ancora Germinario. Evola sosteneva infatti con tutte le sue energie l'alleanza, anche militare, tra Roma e Berlino e la rinascita a partire dai paesi dell'Asse di un nuovo progetto "imperiale" costruito sul modello del Sacro Romano Impero.
Un'ipotesi, quest'ultima, tornata più volte d'attualità in questi anni di crisi dei vecchi stati nazione e che propone una sconcertante "modernità", in una sorta di interpretazione da destra dei processi di globalizzazione, per il più irriducibile avversario del mondo moderno.
Julius Evola.
di Guido Caldiron.
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