Il dualismo tra nazione e fascismo alle origini della disfatta del 1943
Ogni qual volta gli storici italiani si sono trovati ad affrontare le ragioni della disfatta italiana nella seconda guerra mondiale, hanno preferito soffermarsi sulle ragioni materiali, sull'impreparazione tecnica, sulla povertà delle materie prime, e così via. Tuttavia, anche se la celebre frase di Napoleone che "Dio sta dalla parte dei grossi battaglioni" esprime una verità di fondo che non si può ignorare, le ragioni puramente militari e industriali non dovrebbero esimere gli storici dal domandarsi quale peso abbiano avuto i fattori immateriali, primo fra tutti lo spirito nazionale e il morale del popolo coinvolto nella guerra.
Ora, non è sufficiente domandarsi quale fosse lo stato d'animo con il quale il popolo italiano accolse lo storico discorso di Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia, il 10 giugno del 1940; così come non è sufficiente domandarsi quale era stato il suo stato d'animo il 24 maggio del 1915. Bisogna piuttosto porsi la domanda se il fascismo seppe presentare la guerra del 1940 come un passo necessario per gli interessi vitali della nazione e se seppe fare appello alle energie morali del popolo italiano in maniera chiara e coerente, evitando ogni forma di ambiguità e di confusione, ottenendone la massima mobilitazione in vista di uno sforzo supremo.
A questa domanda dobbiamo rispondere in maniera negativa; e lo stesso Mussolini se ne rese conto allorché, dopo le prime, amare sconfitte dell'esercito e della flotta, osservò che gli Italiani di allora non erano più quelli del 1915. Né giova osservare che l'esercito ed il popolo italiano, nella prima guerra mondiale, avevano saputo dare il meglio di sé solo dopo il disastro di Caporetto, quando la guerra da offensiva si era trasformata in difensiva e non si trattava più di liberare le terre "irredente" o di affermare la grandezza della Patria, ma di salvare la Patria stessa dall'invasione e dalla minaccia di vederla scomparire come Stato indipendente e sovrano. Infatti, il "miracolo del Piave" non si verificò nel 1943, allorché gli eserciti e le flotte anglo-americani, conclusa la campagna d'Africa, incominciarono le operazioni per la conquista della Sicilia, e subito apparve chiaro che la volontà di resistenza delle forze armate e della popolazione era arrivata ormai alla fine. (1) Resta perciò da spiegare perché, neppure quando la seconda guerra mondiale si trasformò da offensiva in difensiva e i confini nazionali vennero direttamente minacciati (da Sud, questa volta, e non da Nord-est, come nella prima), non vi fu quel soprassalto di spirito patriottico e né l'esercito, né la popolazione civile si mostrarono all'altezza del gravissimo pericolo che la Patria stava correndo. Anche nel 1943, infatti, così come nel 1917, non erano in gioco semplici perdite territoriali, ma la stessa possibilità di conservare la sovranità e l'indipendenza nazionali, nel significato più vero del termine.
Bisogna osservare peraltro che l'ambiguità con cui il fascismo presentò la guerra del 1940, ora come guerra nazionale per completare l'opera del Risorgimento (rivendicando Nizza, Savoia, Corsica, Dalmazia e Malta) e per accadere all'oceano aperto, come spetta a una grande potenza (impadronendosi di Suez e di Gibilterra), ora, invece, come guerra ideologica e rivoluzionaria, mirante all'affermazione del fascismo a livello internazionale, un po' come i Sovietici avevano cercato di fare nel 1920 con la marcia su Varsavia, durante la guerra russo-polacca, al fine di esportare il comunismo e accendere le fiamme della rivoluzione proletaria nell'Europa centrale e occidentale. In tal senso, mentre la guerra d'Etiopia era stata una tipica guerra nel segno del "sacro egoismo" nazionale e per conquistare il sacrosanto "posto al sole", quella di Spagna era stata invece una guerra ideologica, in cui avevano prevalso non già motivazioni di ampliamento territoriale (e infatti le Isole Baleari, occupate dalla flotta italiana, erano state poi restituite al governo franchista) bensì di carattere puramente ideale, quali la "crociata" contro il bolscevismo internazionale e la necessità di dare sostegno a un governo nazionalista e clericale (e la cosa era alquanto dispiaciuta ad alcuni "fascisti di sinistra", come Tullio Cianetti, i quali, se il contesto internazionale fosse stato diverso, non avrebbero esitato a schierarsi a favore del governo spagnolo repubblicano).(2)
A questa ambiguità di fondo bisogna aggiungere, naturalmente, il fatto che lo Stato italiano era ancora molto giovane: nel 1940 non aveva nemmeno ottant'anni di vita; e che le circostanze in cui il processo di unificazione si era svolto erano state tali, per cui un vero sentimento nazionale stentava ancora a radicarsi. Se l'Italia, allo scoppio della seconda guerra mondiale, era una grande potenza (e tale status le veniva effettivamente riconosciuto da amici e da nemici, tanto da culminare nella firma del patto Tripartito con la Germania e il Giappone, che la poneva formalmente sullo stesso piano degli altri due membri), era però l'unica a nutrire in sé una tale contraddizione. Questa, ancor prima della scarsità di materie prime e delle deficienze nello sviluppo industriale, era la sua fondamentale debolezza; e, senza dubbio, la mancata unificazione interna tra il Nord e il Sud era, a sua volta, la causa principale dello scarso radicamento di uno spirito nazionale. E tutto questo era aggravato dalla tiepidezza, se non proprio dalla diffidenza, con le quali il cittadino medio guardava allo Stato in quanto tale, sia al Nord che al Sud, per una serie di ragioni storiche che risalivano ai quattordici secoli della divisione e della sudditanza.
In uno scritto dal titolo La guerra rivoluzionaria, risalente alla metà del 1941 - quando, cioè, una vittoria dell'Asse appariva ancora possibile, anzi perfino probabile - il filosofo Ugo Spirito metteva in evidenza i pericoli insiti nel dualismo ideologico di "guerra patriottica" e "guerra fascista". La prima era nazionalista, la seconda internazionalista; la prima mirava ad assicurare gli obiettivi strategici ritenuti necessari alla vita della nazione, la seconda era per sua essenza rivoluzionaria e mirava all'instaurazione di una Nuova Europa e di un nuovo ordine mondiale.
Come grande potenza, l'Italia fascista mirava a sostituirsi alla Gran Bretagna e alla Francia non solo nella supremazia sul Mediterraneo, ma anche nel Vicino e Medio Oriente; e, inoltre, a fare dei Balcani una sfera d'influenza puramente italiana. In questo senso vanno visti i rapporti col Gran Muftì di Gerusalemme, il sostegno aereo fornito alla guerra del regime iracheno contro i Britannici, i tentativi di Mussolini di presentarsi ai popoli arabi come "la spada dell'Islam" contro Londra e Parigi; nonché l'alleanza con l'Ungheria dell'ammiraglio Horty (3), gli aiuti generosamente forniti agli ustascia di Ante Pavelic, i tentavi di coinvolgere la Bulgaria nella campagna contro la Grecia, nell'autunno del 1940.
Tuttavia, limitandoci al solo scacchiere mediterraneo e medio-orientale, era abbastanza evidente che, qualunque fosse stato l'esito della seconda guerra mondiale, il processo della decolonizzazione sarebbe stato irreversibile; e che il fare appello al nazionalismo arabo in funzione anti-inglese significava, inevitabilmente, affrettare tale processo storico. Ecco perché l'imperialismo italiano, nel momento in cui ambiva a sostituirsi, puramente e semplicemente, a quello britannico, si poneva in una situazione contraddittoria e non solo verso i popoli coloniali, ma anche nei confronti della propria ideologia rivoluzionaria e della propria concezione dinamica ed esasperatamente "darwiniana" della politica internazionale.
Dal punto di vista razziale, poi, le leggi del 1938 avevano creato un punto di non-ritorno ideologico cui invano Mussolini cercherà una soluzione, tentando di far proprio il razzismo "spirituale" di Julius Evola e non quello "biologico" di Giovanni Preziosi (ammesso che quello di Preziosi fosse biologico e quello di Evola solamente spirituale, il che non è affatto certo). Poco importa che, nella promulgazione delle leggi razziali, molto più della piccola minoranza ebraica abbia pesato la recente conquista dell'Etiopia e la necessità di stabilire dei punti fermi nella politica dei rapporti con i sudditi africani; e che, forse ancor più di questo, abbiano pesato considerazioni di natura internazionale, legate alla necessità di accreditarsi come un partner affidabile per la Germania nazista. Il fatto è quello; e l'aver presentato la guerra del 1940 come una guerra contro le "plutocrazie giudaico-massoniche" ribadiva l'ambiguità, perché non era chiaro se gli Ebrei fossero presentati come dei nemici per via del loro potere a livello della finanza internazionale, o per ragioni puramente e semplicemente biologiche. In un caso come nell'altro, tutto ciò sembrava appiattire la politica italiana sulle posizioni di quella tedesca, anzi, di quella hitleriana; sicché l'ambizione iniziale (durata appena sei mesi) di poter condurre una "guerra parallela" a quella della Germania, ma autonomamente da essa, appariva velleitaria non solo sul piano tecnico e materiale, ma anche su quello politico e ideologico.
A ciò si aggiunga che il razzismo fascista non era sentito né condiviso dalla stragrande maggioranza del popolo italiano, esercito compreso: come dimostra il comportamento delle forze armate che, nella Francia meridionale e in Jugoslavia, si sforzarono di sottrarre gli Ebrei alla feroce persecuzione dei nazisti e degli ustascia croati.
A proposito del dualismo ideologico denunciato da Ugo Spirito negli obiettivi di guerra italiani, lo storico Emilio Gentile ha scritto una pagina illuminante, che riportiamo qui di seguito.
Si tratta di questo: la guerra del 1940 non rappresenta affatto una rottura nella tradizione risorgimentale e liberale, ma è in perfetta continuità con esse e, in particolare, con la guerra del 195-1918 (ma anche con quelle in Africa Orientale, fra il 1887 e il 1896, e con quella di Libia del 1911-12). La distinzione fra le guerre "giuste" e "legittime" del Risorgimento, e quelle "ingiuste" e "illegittime" del fascismo (ivi comprese quella d'Etiopia e quella di Spagna) sfuma e si perde, non appena si consideri la prima guerra mondiale come il ponte naturale fra le prime e le seconde; prima guerra mondiale che fu presentata e percepita, appunto, dalla classe dirigente liberale, al tempo stesso come completamento del Risorgimento (irredentismo) e come affermazione della volontà di grande potenza (nazionalismo e imperialismo); nonché, da parte di un settore piccolo ma combattivo dell'interventismo di sinistra, come guerra rivoluzionaria contro il militarismo, l'assolutismo e, in prospettiva, contro la borghesia internazionale.
Ora, si dà il caso che di quest'ultima componente avesse fatto parte, appunto, Benito Mussolini (che per tal ragione era stato cacciato sia dalla direzione dell'Avanti, sia dal partito Socialista Italiano). E non ci sembra possa trattarsi di una mera coincidenza se quello stesso Mussolini, nel maggio del 1940, volle ripetere il colpo di forza che un pugno di uomini della vecchia classe dirigente liberale (in sostanza, Salandra e Sonnino, con l'appoggio del re: guarda caso, lo stesso re di allora), avevano compiuto nel 1915, trascinando in guerra un Paese sostanzialmente riluttante e neutralista. Dall'azzardo del patto di Londra e delle "gloriose giornate" del maggio 1915, era poi venuta la vittoria del 1918; perché al fascismo, dopo quasi venti anni di potere assoluto e di incessante propaganda, non avrebbe dovuto arridere un successo almeno eguale?
Ciò sia detto a prescindere dalle precise, contingenti circostanze in cui Mussolini prese la sua fatale decisione del 10 giugno 1940: l'attacco tedesco alla Polonia, da lui non previsto; l'intervento delle potenze occidentali; la clamorosa sconfitta della Francia e la vittoria totale che sembrava a portata di mano di Hitler, con il conseguente asservimento dell'Europa alla Germania. Circostanze che dovettero convincerlo, specie dopo la firma del trattato-trabocchetto del Patto d'Acciaio, della impossibilità di rimanere neutrale fino alla conclusione delle operazioni in Occidente; poiché il vincitore, chiunque fosse stato (e, fino alla primavera del 1940, non era affatto certo che sarebbe stato il Terzo Reich) certamente si sarebbe vendicato della neutralità italiana; e specialmente se ne sarebbe vendicato Hitler.
Scrive Marco Picone Chiodo in un libro che non è stato, forse, letto e apprezzato quanto avrebbe meritato:
Ma quella confusone ideologica, a ben guardare, risale alle radici del fascismo stesso. Tanto è vero che ancora oggi, a più di sessant'anni dalla fine di quella vicenda, gli storici non sono ancora riusciti nemmeno a mettersi d'accordo su una base minima di interpretazione del fenomeno fascista: se cioè il "vero" fascismo fu quello di Piazza San Sepolcro: di sinistra, repubblicano, rivoluzionario, anti-borghese e anti-clericale; oppure se fu quello del ventennio: di destra, monarchico, conservatore, filo-borghese e filo-clericale.
Ma è un fatto che entrambe le anime del fascismo esistettero; che si intrecciarono senza mai confondersi del tutto; e che nel tragico epilogo di Salò molti fascisti della Repubblica Sociale, a cominciare da Mussolini stesso, ebbero un ritorno di fiamma per le posizioni originarie "di sinistra", anche perché disillusi dal "tradimento" del re e della borghesia industriale del 25 luglio 1943. I quali, allorché Mussolini aveva progettato di socializzare le aziende italiane, e specialmente le più grandi (ciò che era deciso per il mese di ottobre del 1943), avevano pensato bene di sbarazzarsi sia del Duce che del fascismo.
di Francesco Lamendola
Ogni qual volta gli storici italiani si sono trovati ad affrontare le ragioni della disfatta italiana nella seconda guerra mondiale, hanno preferito soffermarsi sulle ragioni materiali, sull'impreparazione tecnica, sulla povertà delle materie prime, e così via. Tuttavia, anche se la celebre frase di Napoleone che "Dio sta dalla parte dei grossi battaglioni" esprime una verità di fondo che non si può ignorare, le ragioni puramente militari e industriali non dovrebbero esimere gli storici dal domandarsi quale peso abbiano avuto i fattori immateriali, primo fra tutti lo spirito nazionale e il morale del popolo coinvolto nella guerra.
Ora, non è sufficiente domandarsi quale fosse lo stato d'animo con il quale il popolo italiano accolse lo storico discorso di Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia, il 10 giugno del 1940; così come non è sufficiente domandarsi quale era stato il suo stato d'animo il 24 maggio del 1915. Bisogna piuttosto porsi la domanda se il fascismo seppe presentare la guerra del 1940 come un passo necessario per gli interessi vitali della nazione e se seppe fare appello alle energie morali del popolo italiano in maniera chiara e coerente, evitando ogni forma di ambiguità e di confusione, ottenendone la massima mobilitazione in vista di uno sforzo supremo.
A questa domanda dobbiamo rispondere in maniera negativa; e lo stesso Mussolini se ne rese conto allorché, dopo le prime, amare sconfitte dell'esercito e della flotta, osservò che gli Italiani di allora non erano più quelli del 1915. Né giova osservare che l'esercito ed il popolo italiano, nella prima guerra mondiale, avevano saputo dare il meglio di sé solo dopo il disastro di Caporetto, quando la guerra da offensiva si era trasformata in difensiva e non si trattava più di liberare le terre "irredente" o di affermare la grandezza della Patria, ma di salvare la Patria stessa dall'invasione e dalla minaccia di vederla scomparire come Stato indipendente e sovrano. Infatti, il "miracolo del Piave" non si verificò nel 1943, allorché gli eserciti e le flotte anglo-americani, conclusa la campagna d'Africa, incominciarono le operazioni per la conquista della Sicilia, e subito apparve chiaro che la volontà di resistenza delle forze armate e della popolazione era arrivata ormai alla fine. (1) Resta perciò da spiegare perché, neppure quando la seconda guerra mondiale si trasformò da offensiva in difensiva e i confini nazionali vennero direttamente minacciati (da Sud, questa volta, e non da Nord-est, come nella prima), non vi fu quel soprassalto di spirito patriottico e né l'esercito, né la popolazione civile si mostrarono all'altezza del gravissimo pericolo che la Patria stava correndo. Anche nel 1943, infatti, così come nel 1917, non erano in gioco semplici perdite territoriali, ma la stessa possibilità di conservare la sovranità e l'indipendenza nazionali, nel significato più vero del termine.
Bisogna osservare peraltro che l'ambiguità con cui il fascismo presentò la guerra del 1940, ora come guerra nazionale per completare l'opera del Risorgimento (rivendicando Nizza, Savoia, Corsica, Dalmazia e Malta) e per accadere all'oceano aperto, come spetta a una grande potenza (impadronendosi di Suez e di Gibilterra), ora, invece, come guerra ideologica e rivoluzionaria, mirante all'affermazione del fascismo a livello internazionale, un po' come i Sovietici avevano cercato di fare nel 1920 con la marcia su Varsavia, durante la guerra russo-polacca, al fine di esportare il comunismo e accendere le fiamme della rivoluzione proletaria nell'Europa centrale e occidentale. In tal senso, mentre la guerra d'Etiopia era stata una tipica guerra nel segno del "sacro egoismo" nazionale e per conquistare il sacrosanto "posto al sole", quella di Spagna era stata invece una guerra ideologica, in cui avevano prevalso non già motivazioni di ampliamento territoriale (e infatti le Isole Baleari, occupate dalla flotta italiana, erano state poi restituite al governo franchista) bensì di carattere puramente ideale, quali la "crociata" contro il bolscevismo internazionale e la necessità di dare sostegno a un governo nazionalista e clericale (e la cosa era alquanto dispiaciuta ad alcuni "fascisti di sinistra", come Tullio Cianetti, i quali, se il contesto internazionale fosse stato diverso, non avrebbero esitato a schierarsi a favore del governo spagnolo repubblicano).(2)
A questa ambiguità di fondo bisogna aggiungere, naturalmente, il fatto che lo Stato italiano era ancora molto giovane: nel 1940 non aveva nemmeno ottant'anni di vita; e che le circostanze in cui il processo di unificazione si era svolto erano state tali, per cui un vero sentimento nazionale stentava ancora a radicarsi. Se l'Italia, allo scoppio della seconda guerra mondiale, era una grande potenza (e tale status le veniva effettivamente riconosciuto da amici e da nemici, tanto da culminare nella firma del patto Tripartito con la Germania e il Giappone, che la poneva formalmente sullo stesso piano degli altri due membri), era però l'unica a nutrire in sé una tale contraddizione. Questa, ancor prima della scarsità di materie prime e delle deficienze nello sviluppo industriale, era la sua fondamentale debolezza; e, senza dubbio, la mancata unificazione interna tra il Nord e il Sud era, a sua volta, la causa principale dello scarso radicamento di uno spirito nazionale. E tutto questo era aggravato dalla tiepidezza, se non proprio dalla diffidenza, con le quali il cittadino medio guardava allo Stato in quanto tale, sia al Nord che al Sud, per una serie di ragioni storiche che risalivano ai quattordici secoli della divisione e della sudditanza.
In uno scritto dal titolo La guerra rivoluzionaria, risalente alla metà del 1941 - quando, cioè, una vittoria dell'Asse appariva ancora possibile, anzi perfino probabile - il filosofo Ugo Spirito metteva in evidenza i pericoli insiti nel dualismo ideologico di "guerra patriottica" e "guerra fascista". La prima era nazionalista, la seconda internazionalista; la prima mirava ad assicurare gli obiettivi strategici ritenuti necessari alla vita della nazione, la seconda era per sua essenza rivoluzionaria e mirava all'instaurazione di una Nuova Europa e di un nuovo ordine mondiale.
"La determinazione del carattere dualistico del conflitto vale a chiarire il significato del disorientamento cui esso dà luogo. Perché (…) i due motivi dominanti non soltanto sono diversi, ma opposti, e non possono facilmente comporsi nella coscienza di chi li avverte contemporaneamente nella loro esigenza. Si aggiunga che la discriminazione per lo più non è neanche compiuta, e che i due aspetti si intrecciano e si confondono senza che il problema della dualità e del rapporto sia coscientemente proposto. Ne risulta che lo stato d'animo prevalente è caratterizzato da una successione disordinata di desideri e di ideali, che vanno dall'orgoglio della parte e dal desiderio di conquista all'ideale della giustizia, dall'ideale di potenza alla riparazione dei torti, dal nazionalismo all'internazionalismo, dall'ipostasi della guerra alla pace a qualunque costo,, e soprattutto dalla fede immediata nella lotta alla più cinica indifferenza. Ora parte ,ora al di là delle parti, l'animo si apre e si chiude ai più vari sentimenti di odio e di amore, di soddisfatto interesse e di vaghi ideali, quando addirittura non si estranea dal problema della guerra e lo sente unicamente in funzione del bene o del male dell'individuo e della famiglia.A questo dualismo, peraltro, si aggiungevano, si sovrapponevano e si confondevano altri temi propagandistici, altri obiettivi strategici e altre ambiguità di fondo, che contribuivano a rendere confuse le motivazioni ideologiche della guerra. Ci limiteremo, in questa sede, a metterne in evidenza due di tali contraddizioni: quella imperialistica e quella razzista.
"Peggio avviene quando, pur operandola distinzione dei due motivi, si specula su quello universalistico per meglio affermare l'interesse della parte.(…) La rivoluzione diventa una vana parola in cui non si crede. (…) Allora tra l'incomprensione e la retorica ci si torna a domandare il perché di questa guerra e si riprende animo soltanto di fronte al fatto immediato del nemico e al conseguente risveglio dell'amor patrio, in cui si riafferma la propria realtà di parte. La guerra è tradita nella sua più vera finalità e si torna al livello dell'elementare affermazione del proprio essere. Alle volte, però, neppure tale ritorno è possibile, perché chi ha avuto l'illusione di un ideale superiore, e lo vede disperso nella retorica, non ha più la capacità di ripiegare su di un piano che aveva abbandonato e si lascia andare alla deriva per disperazione. I due aspetti della guerra sono entrambi svalutati e resta il fatto nella sua brutalità, che devasta le coscienze e le rende insensibili e torbide." (3)
Come grande potenza, l'Italia fascista mirava a sostituirsi alla Gran Bretagna e alla Francia non solo nella supremazia sul Mediterraneo, ma anche nel Vicino e Medio Oriente; e, inoltre, a fare dei Balcani una sfera d'influenza puramente italiana. In questo senso vanno visti i rapporti col Gran Muftì di Gerusalemme, il sostegno aereo fornito alla guerra del regime iracheno contro i Britannici, i tentativi di Mussolini di presentarsi ai popoli arabi come "la spada dell'Islam" contro Londra e Parigi; nonché l'alleanza con l'Ungheria dell'ammiraglio Horty (3), gli aiuti generosamente forniti agli ustascia di Ante Pavelic, i tentavi di coinvolgere la Bulgaria nella campagna contro la Grecia, nell'autunno del 1940.
Tuttavia, limitandoci al solo scacchiere mediterraneo e medio-orientale, era abbastanza evidente che, qualunque fosse stato l'esito della seconda guerra mondiale, il processo della decolonizzazione sarebbe stato irreversibile; e che il fare appello al nazionalismo arabo in funzione anti-inglese significava, inevitabilmente, affrettare tale processo storico. Ecco perché l'imperialismo italiano, nel momento in cui ambiva a sostituirsi, puramente e semplicemente, a quello britannico, si poneva in una situazione contraddittoria e non solo verso i popoli coloniali, ma anche nei confronti della propria ideologia rivoluzionaria e della propria concezione dinamica ed esasperatamente "darwiniana" della politica internazionale.
Dal punto di vista razziale, poi, le leggi del 1938 avevano creato un punto di non-ritorno ideologico cui invano Mussolini cercherà una soluzione, tentando di far proprio il razzismo "spirituale" di Julius Evola e non quello "biologico" di Giovanni Preziosi (ammesso che quello di Preziosi fosse biologico e quello di Evola solamente spirituale, il che non è affatto certo). Poco importa che, nella promulgazione delle leggi razziali, molto più della piccola minoranza ebraica abbia pesato la recente conquista dell'Etiopia e la necessità di stabilire dei punti fermi nella politica dei rapporti con i sudditi africani; e che, forse ancor più di questo, abbiano pesato considerazioni di natura internazionale, legate alla necessità di accreditarsi come un partner affidabile per la Germania nazista. Il fatto è quello; e l'aver presentato la guerra del 1940 come una guerra contro le "plutocrazie giudaico-massoniche" ribadiva l'ambiguità, perché non era chiaro se gli Ebrei fossero presentati come dei nemici per via del loro potere a livello della finanza internazionale, o per ragioni puramente e semplicemente biologiche. In un caso come nell'altro, tutto ciò sembrava appiattire la politica italiana sulle posizioni di quella tedesca, anzi, di quella hitleriana; sicché l'ambizione iniziale (durata appena sei mesi) di poter condurre una "guerra parallela" a quella della Germania, ma autonomamente da essa, appariva velleitaria non solo sul piano tecnico e materiale, ma anche su quello politico e ideologico.
A ciò si aggiunga che il razzismo fascista non era sentito né condiviso dalla stragrande maggioranza del popolo italiano, esercito compreso: come dimostra il comportamento delle forze armate che, nella Francia meridionale e in Jugoslavia, si sforzarono di sottrarre gli Ebrei alla feroce persecuzione dei nazisti e degli ustascia croati.
A proposito del dualismo ideologico denunciato da Ugo Spirito negli obiettivi di guerra italiani, lo storico Emilio Gentile ha scritto una pagina illuminante, che riportiamo qui di seguito.
"In realtà, il dualismo denunciato da Spirito non era sorto con la guerra, ma aveva origine dalla natura del mito nazionale fascista: esso era inerente alla trama culturale e ideologica, su cui si erano sviluppati l'atteggiamento fascista verso la nazione e la sua conseguente azione politica, condotta per venti ani all'insegna di una fascistizzazione della patria, in cui vennero alla fine confusi e smarriti anche quei valori, quei principi, quei miti che, fin dalla nascita dello Stato nazionale, avevano nutrito, poco o molto che fosse, il sentimento di identità collettiva degli italiani.Eppure c'è ancora una cosa da dire, a proposito della partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale; una cosa più che mai "politicamente scorretta", e che va oltre l'ovvia constatazione che, se il fascismo aveva voluto subordinare a sé l'idea di nazione, la guerra da esso voluta e perduta non poteva non trascinare nella rovina sia il fascismo stesso, sia la nazione.
"Il fascismo aveva sempre professato l sua fede nei principi del machiavellismo, sbeffeggiando le utopie e le ideologie universalistiche. Ma nel corso degli anni Trenta, esso divenne sempre più prigioniero, al di là delle esigenze della propaganda, della componente mitica e visionaria della sua cultura politica, che lo spinse a veleggiare entusiasta verso utopie di grandezza a prefigurare grandiosi scenari futuri dominati dal genio di Mussolini, ad architettare disegni di nuovi ordinamenti internazionali, di cui il fascismo sarebbe stato progettista e costruttore. Nel mito nazionale fascista convivevano, fusi e confusi, un realismo politico che inneggiava allo sperimentalismo spregiudicato della contingenza quotidiana, ma che subiva la seduzione del pensiero mitico e inseguiva la politica del meraviglioso e dell'impossibile; un pragmatismo che derideva le utopie, ma che pure era posseduto dalla passione di creare realtà nuove disegnando la Città del sole di una Nuova Civiltà; un pessimismo antropologico che disprezzava la natura umana, ma che agiva su uomini e donne per redimerli in un progetto collettivo di palingenesi morale.
"In realtà, osservato nel complesso del suo svolgimento, il nazionalismo fascista appare dominato da un obnubilante senso della sproporzione, che confondeva i confini fra mito e realtà, fra la grandiosità dei progetti immaginati e la consapevolezza delle risorse materiali e morali disponibili per la loro realizzazione, fra il fanatismo di un volontarismo visionario, che concepiva la politica come 'arte dell'impossibile', e la coscienza dell'enorme distanza che separava la nazione vivente degli italiani dal modello utopico della nazione fascista.
"E tutto ciò non era rimasto confinato nel mondo delle elucubrazioni e delle fantasie politiche, ma aveva avuto effetti e conseguenze pratiche per la vita di milioni di donne e uomini, abituati dalla pedagogia e dalla propaganda dello stato fascista a identificare la nazione con il fascismo e le sorti della patria con le sorti del regime, lasciandosi sedurre dal fascino della potenza, dall'effetto euforico dei successi interni ed esteri che indubbiamente il fascismo riuscì a ottenere, e dal mito di una Grande Italia che mai, come sotto il regime, sembrò alla maggioranza degli italiani, confusa fra l'incantesimo dell'illusione e l'inganno della facilità dell'impresa, prossimo a essere trasformato in realtà per l'opera demiurgica del duce, il "nuovo Dio d'Italia".
"Si potrebbe dire che, prima ancora d'essere sconfitto militarmente, il fascismo fosse rimasto vittima di un ingorgo ideologico, in cui erano stati avviluppati e confusi anche il mito della nazione e dello Stato nazionale, portando gli italiani a combattere un'impopolare 'guerra fascista' che, che avrebbe trascinato il regime alla disfatta e la patria alla rovina. E non fu sufficiente qualche tardivo richiamo a ridare prestigio e preminenza a un valore e a un principio rimasti così a lungo confusi con il fascismo e quindi soggetti a logorarsi con il discredito e l'ostilità che, a cechi sempre più ampi, circondavano il regime nell'opinione pubblica e nel più intimo sentire degli italiani. Una testimonianza molto importante del declino del mito nazionale nella 'guerra fascista' la troviamo nei primi mesi del 1942, quando ancora sopravvivevano le illusioni sulla vittoria dell'Asse, sulla rivista dei mistici fascisti, la quale rivelava che "nella guerra attuale quasi più nessuno pronunzia il nome di Nazione" (Renzo Bertoli Salis, Nazionalità e razza nell'ordine nuovo)." (5)
Si tratta di questo: la guerra del 1940 non rappresenta affatto una rottura nella tradizione risorgimentale e liberale, ma è in perfetta continuità con esse e, in particolare, con la guerra del 195-1918 (ma anche con quelle in Africa Orientale, fra il 1887 e il 1896, e con quella di Libia del 1911-12). La distinzione fra le guerre "giuste" e "legittime" del Risorgimento, e quelle "ingiuste" e "illegittime" del fascismo (ivi comprese quella d'Etiopia e quella di Spagna) sfuma e si perde, non appena si consideri la prima guerra mondiale come il ponte naturale fra le prime e le seconde; prima guerra mondiale che fu presentata e percepita, appunto, dalla classe dirigente liberale, al tempo stesso come completamento del Risorgimento (irredentismo) e come affermazione della volontà di grande potenza (nazionalismo e imperialismo); nonché, da parte di un settore piccolo ma combattivo dell'interventismo di sinistra, come guerra rivoluzionaria contro il militarismo, l'assolutismo e, in prospettiva, contro la borghesia internazionale.
Ora, si dà il caso che di quest'ultima componente avesse fatto parte, appunto, Benito Mussolini (che per tal ragione era stato cacciato sia dalla direzione dell'Avanti, sia dal partito Socialista Italiano). E non ci sembra possa trattarsi di una mera coincidenza se quello stesso Mussolini, nel maggio del 1940, volle ripetere il colpo di forza che un pugno di uomini della vecchia classe dirigente liberale (in sostanza, Salandra e Sonnino, con l'appoggio del re: guarda caso, lo stesso re di allora), avevano compiuto nel 1915, trascinando in guerra un Paese sostanzialmente riluttante e neutralista. Dall'azzardo del patto di Londra e delle "gloriose giornate" del maggio 1915, era poi venuta la vittoria del 1918; perché al fascismo, dopo quasi venti anni di potere assoluto e di incessante propaganda, non avrebbe dovuto arridere un successo almeno eguale?
Ciò sia detto a prescindere dalle precise, contingenti circostanze in cui Mussolini prese la sua fatale decisione del 10 giugno 1940: l'attacco tedesco alla Polonia, da lui non previsto; l'intervento delle potenze occidentali; la clamorosa sconfitta della Francia e la vittoria totale che sembrava a portata di mano di Hitler, con il conseguente asservimento dell'Europa alla Germania. Circostanze che dovettero convincerlo, specie dopo la firma del trattato-trabocchetto del Patto d'Acciaio, della impossibilità di rimanere neutrale fino alla conclusione delle operazioni in Occidente; poiché il vincitore, chiunque fosse stato (e, fino alla primavera del 1940, non era affatto certo che sarebbe stato il Terzo Reich) certamente si sarebbe vendicato della neutralità italiana; e specialmente se ne sarebbe vendicato Hitler.
Scrive Marco Picone Chiodo in un libro che non è stato, forse, letto e apprezzato quanto avrebbe meritato:
"La guerra che incominciava [nel 1940], anche se oggi il discorso non piace, era nel pieno della tradizione risorgimentale e fu anzi definita la "Quinta Guerra per l'Indipendenza".E proprio perché risorgimentale era imperialista, con le solite tesi 'democratiche' dell'imperialismo italiano, sempre buone per presentarlo in modo 'innocente' Così era stato nel 1915 e nelle guerre coloniali del 1895, del 1911 e del 1935. Giustamente Golo Mann fa notare che 'il grido per Roma e per Venezia' si mutò e continuò a risuonare altisonante per il Trentino prima, poi per il Tirolo e la Dalmazia, quindi per la Savoia, per la Corsica, per il grande impero africano…" un crescendo che non ci permette di condannare Mussolini senza condannare Cavour, il cui 'costituzionalismo', in ultima analisi, era nient'altro che la volontà di essere lui il re al posto di Vittorio Emanuele II. Dal legittimo desiderio di scacciare l'Austria dagli affari interni italiani, si sviluppò, a partire al 1859, uno Stato che schiaccia brutalmente l'indipendenza di altri Stati italiani, soprattutto quello del Regno delle Due Sicilie, e che, immemore dei colonialismi subiti dall'Italia a partire dal 1500, sarebbe dovuto divenire colonialista, dato che non si faceva mistero della predisposizione a sottomettere , ad esempio, il beilicato di Tunisi, i cui bey si sforzavano proprio negli stessi anni di modernizzare il loro paese, senza mai avere espresso il bisogno di avere saccenti protettori italiani sulle spalle. Uno stato, insomma, che anche se con delle forze armate deboli e soprattutto mal guidate, dimostrava un appetito e un'aggressività come se avesse avuto a sua disposizione la più potente forza militare del pianeta. Un contrasto che necessariamente doveva condurre a disfatte che a loro volta inducevano ad essere ancora più bellicosi, per lavarle con delle vittorie ancora maggiori. Un circolo vizioso che ha reso il nostro popolo psicologicamente malato. Vi è da dubitare che la cosa sarebbe stata diversa, se nell'Ottocento avesse trionfato la rivoluzione repubblicana di Giuseppe Mazzini. Egli, come convinto assertore dei diritti umani, proprio nella convinzione di rispettarli, dichiarava l'italianità anche della Corsica e di Nizza. Motivi diversi da quelli di Mussolini, che riconosceva solo i diritti nazionali (e se questi non bastavano, i diritti del più forte), ma che avrebbero ugualmente condotto alla guerra. La pace sarebbe stata garantita all'Italia solo se avesse avuto successo la tesi di Vincenzo Gioberti della confederazione italiana sotto il papato, ma l'incapacità di questo di risolvere il problema dell'Austria riportava alla ribalta la soluzione cavouriana e, teoricamente, quella mazziniana!" (6)In conclusione, se di deve esprimere un giudizio sull'ambigua coesistenza, nella guerra italiana del 1940-43, del motivo nazionale-patriottico e di quello fascista-rivoluzionario (giudizio che si può estendere, per la Repubblica Sociale Italiana, al periodo 1943-45), esso non può essere che un giudizio severo, per la grave confusione ideologica con cui il popolo italiano fu chiamato alla guerra e sulle conseguenze che ciò, inevitabilmente, ebbe.
Ma quella confusone ideologica, a ben guardare, risale alle radici del fascismo stesso. Tanto è vero che ancora oggi, a più di sessant'anni dalla fine di quella vicenda, gli storici non sono ancora riusciti nemmeno a mettersi d'accordo su una base minima di interpretazione del fenomeno fascista: se cioè il "vero" fascismo fu quello di Piazza San Sepolcro: di sinistra, repubblicano, rivoluzionario, anti-borghese e anti-clericale; oppure se fu quello del ventennio: di destra, monarchico, conservatore, filo-borghese e filo-clericale.
Ma è un fatto che entrambe le anime del fascismo esistettero; che si intrecciarono senza mai confondersi del tutto; e che nel tragico epilogo di Salò molti fascisti della Repubblica Sociale, a cominciare da Mussolini stesso, ebbero un ritorno di fiamma per le posizioni originarie "di sinistra", anche perché disillusi dal "tradimento" del re e della borghesia industriale del 25 luglio 1943. I quali, allorché Mussolini aveva progettato di socializzare le aziende italiane, e specialmente le più grandi (ciò che era deciso per il mese di ottobre del 1943), avevano pensato bene di sbarazzarsi sia del Duce che del fascismo.
di Francesco Lamendola
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