di Giovanni Fantozzi
IV capitolo – Le stragi
Nei limiti del presente lavoro, e stante l’attuale scarsità di ricerche al riguardo, sarebbe praticamente impossibile dare un conto anche solo approssimativo delle violenze consumate nel dopoguerra.
Anche perché, in linea generale, il fenomeno si estrinsecò in un stillicidio di episodi in cui trovarono la morte singole, o comunque poche persone per volta, in gran parte soppresse nelle loro abitazioni o prelevate in ore notturne nelle proprie abitazioni e successivamente all’esecuzione sepolte in zone isolate di campagna. Nei “triangoli della morte” emilianoromagnoli tuttavia vennero però commesse anche vere e proprie stragi che coinvolsero in un’unica soluzione criminosa anche diverse decine di individui, sia tra gli esecutori che tra le vittime. A differenza dei delitti individuali che proseguirono numerosi per buona parte del 1946, le stragi furono consumate esclusivamente nei primi mesi del post Liberazione a causa della pressoché completa disorganizzazione delle forze dell’ordine e nella possibilità da parte dei gruppi di ex partigiani comunisti, che spesso agivano con la copertura di “polizia partigiana”, di potere pianificare ed attuare le loro azioni praticamente indisturbati. Senza avere la pretesa della completezza, ci pare opportuno ricostruire alcune delle stragi perpetrate nel 1945, scelte tra quelle che più fecero parlare di sé, o per l’elevato numero delle persone uccise e per le particolari e significative circostanze in cui esse si svolsero. 5
a) Codevigo
L’eccidio di Codevigo, almeno da un punto di vista numerico, risulta come il più sanguinoso, anche se a rigore non dovrebbe essere compreso in quest’elenco poiché fu consumato non sul territorio regionale bensì in provincia di Padova, dove Codevigo appunto si trova. Ma è pur vero che ravennati erano tutti gli uccisori – appartenenti alla 28esima Brigata partigiana Garibaldi “Mario Gordini” e ravennati erano tutti gli uccisi – militi fascisti incorporati nel 618esimo Comando provinciale di Verona -, trovatisi gli uni e gli altri all’indomani della Liberazione e per motivi diversi in quei luoghi. 96
Alcune centinaia di fascisti ravennati ripiegarono, molti con le famiglie, a Codevigo e nei paesi vicini di Pescantina e Candiana nella seconda metà del 1944, in seguito all’occupazione di Ravenna da parte delle forze alleate. Qui vennero incorporati nei locali presidi della Guardia nazionale repubblicana fino alla Liberazione. Parecchi riuscirono ad ottenere un lasciapassare del Cln che attestava la loro non partecipazione ad azioni di rastrellamento contro partigiani: con quel pezzo di carta pensavano di essere al riparo da brutte sorprese. E probabilmente sarebbe stato davvero così se la mattina del 29 aprile, il giorno seguente la Liberazione, non fosse entrata in Pescantina la 28esima Brigata Garibaldi, comandata dal leggendario comandante partigiano “Bulow” (Arrigo Boldrini), ed incorporata nel Corpo italiano di liberazione (Cil). Posto il loro comando in una villa del paese, non è chiarito con quale grado di connivenza o di tolleranza del loro comandante 97, una decina di partigiani comunisti della 28esima, vestiti con divise inglesi e con un fazzoletto rosso al collo, a bordo di un camion Chevrolet si mettono a rastrellare i paesi circostanti alla ricerca dei fascisti ravennati di cui conoscono la presenza in loco. Dal 2 al 10 maggio 1945, in tre, e forse più riprese, numerose persone vengono prelevate nei dintorni di Pescantina con la scusa di un breve interrogatorio e di una successiva traduzione a Ravenna. In realtà gli interrogatori sono sommari e brutali 98 poi, a gruppi di sei, i condannati vengono in realtà trasferiti sull’argine del Brenta e falciati nella notte a raffiche di mitra Thompson. Centoundici saranno le salme rinvenute. 99 Solo quattro i fortunati superstiti. 100
b) La “corriera fantasma”
Notevole scalpore destò all’epoca dei fatti, ma anche in seguito, la vicenda della “corriera fantasma” di Concordia, soprattutto per l’alone di mistero non meno di dramma che l’avvolse. Mistero che non è mai stato chiarito completamente: più che in altri delitti del post Liberazione, infatti, la cortina di silenzi ed omertà, l’oggettiva difficoltà nel comporre il mosaico confuso e contraddittorio dei fatti e delle circostanze, i colpi di scena a base di testimonianze anonime e di pentimenti tardivi, hanno lasciato intorno alla “corriera fantasma” molti margini d’incertezza, tanto da tratteggiare una fosca sceneggiatura che sembra fatta apposta per una trasposizione cinematografica. 101
Tutto ha inizio la mattina del 14 maggio 1945. Dalla piazza del Vescovado di Brescia parte un autocarro (che nei successivi resoconti giornalistici sarà ribattezzato impropriamente “corriera”) appartenente alla Pontificia Opera di Assistenza (POA), di cui porta i simboli sulle fiancate. L’automezzo, che ha come meta il sud, reca a bordo 43 passeggeri: si tratta in grande prevalenza di residenti nel meridione che la guerra ha separato dalla propria famiglia. Sullo scomodo autocarro siedono numerosi reduci dalla prigionia in Germania e un gruppo di giovani ex militi repubblichini della scuola allievi ufficiali di Oderzo. Tutti hanno in tasca un regolare lasciapassare rilasciato da vari Cln dell’alta Italia, segno che nei loro confronti nessuno ha mosso addebiti specifici. Tutti pertanto pensano ad un viaggio senza intoppi.
Procedendo verso sud il camion giunge nel centro del paese di Concordia, nella bassa modenese, ove viene fermato da un posto di blocco della locale polizia partigiana. Trenta passeggeri vengono separati dal gruppo e condotti a Villa Medici, sede della polizia partigiana. Alcuni saranno rilasciati e proseguiranno il viaggio con mezzi di fortuna; sedici persone vengono invece trattenute. Saranno le prime vittime della “corriera fantasma”.
Intanto, con a bordo le poche persone non fermate, l’autocarro riprende il suo percorso senza incidenti fino a Modena. Qui, in base a nuovi ordini, il mezzo deve ripartire alla volta di Verona per effettuare un nuovo carico. I viaggiatori a questo punto si disperdono e ciascuno torna a casa come può.
Del mistero della “corriera fantasma” cominciano ad occuparsi i giornali su sollecitazione dei parenti degli scomparsi che hanno del viaggio solo notizie confuse e discordanti: ed in un primo tempo si sospetta, in mancanza di notizie precise, che tutti i viaggiatori abbiano subito identica, tragica, sorte e che lo stesso autocarro sia stato fatto scomparire dagli autori della strage.
Neppure con il ritrovamento, nella primavera del 1946, delle prime sei salme nelle campagne di Concordia è possibile fare luce sulla vicenda, anche perché l’indagine necroscopica dei cadaveri non riesce a stabilire un collegamento certo con gli scomparsi della “corriera”. Le indagini continuano fino a quando, nel novembre 1948, si rinviene un’altra fossa con dieci cadaveri quasi irriconoscibili. Grazie però al ritrovamento di alcuni effetti personali, si riesce a dimostrare che si tratta proprio dei morti della “corriera”, anzi delle “corriere” poiché i carabinieri scoprono che sono stati in realtà due i mezzi partiti da Brescia il 14 maggio e fermati a Concordia. 102
Si giunge così nel 1950 al processo, presso la Corte d’Assise di Viterbo, contro i responsabili delle Polizia partigiana di Concordia. Il processo appura che i 16 ex repubblichini rinchiusi a Villa Medici, dopo essere stati malmenati e derubati, nella notte tra il 16 e 17 maggio, sono stati trascinati in un podere poco distante e sommariamente eliminati.
L’odissea della “corriera fantasma”- pur non dissolvendo dubbi ed incertezze derivanti principalmente dalla discordanza dei testimoni su alcune importanti circostanze e in primo luogo sul numero dei morti che risultano essere molti di più – pare comunque conclusa con la sentenza del processo di Viterbo che condanna due imputati, Armando Forti e Giovanni Bernardi, a 25 anni di reclusione, di cui 16 condonati. 103
Nel gennaio 1968, invece, il caso riesplode clamorosamente con il ritrovamento – dietro una circostanziata segnalazione anonima – di un’altra fossa comune, ubicata questa volta nel limitrofo comune di San Possidonio e contenente i resti ossei di sei persone. L’anonimo informatore fa anche i nomi degli esecutori dell’eccidio – tutti appartenenti alla polizia partigiana di San Possidonio – ed afferma che il fatto è da collegarsi con la “corriera fantasma”.
Le indagini dei carabinieri, pur ostacolate dal persistere di un clima di pesante omertà, riescono ad aggiungere un nuovo e decisivo tassello al mistero: innanzitutto gli autocarri partiti il 14 maggio da Brescia e fermati nella zona erano stati addirittura tre, con ciò superando l’ostacolo delle testimonianze ancora discordi circa le caratteristiche dei mezzi e l’identità ed il numero dei passeggeri che si trovavano a bordo. Si accerta inoltre che i prelevamenti dei passeggeri erano avvenuti su tutti e tre i camion: parte dei prigionieri erano stati trasportati a Villa Medici e parte inviati a Carpi. Da quest’ultima località sarebbe poi partito un furgone (di qui il nome “corriera”) che la notte del 18 maggio – il giorno successivo all’eccidio di Concordia – avrebbe portato una dozzina di persone alla Casa del Popolo di San Possidonio e di qui, in due gruppi, sul luogo dell’esecuzione, situato ai margini di una fossa anticarro a poche centinaia di metri dall’abitato.
Nel luglio 1970, ai cinque principali imputati al cui carico esistono “elementi gravi, precisi e concordanti”, il giudice istruttore del Tribunale di Modena applica l’amnistia sulla scorta del DPR 4 giugno 1966, n. 332, che considera “amnistiati tutti i reati commessi dal 25 luglio 1943 al 2 luglio 1946 da appartenenti al movimento della Resistenza e dal chiunque abbia cooperato con essa, determinati da movente a fine politico e se connessi con tali reati”.
c) I conti Manzoni
L’eccidio dei conti Manzoni, consumato a Lugo di Romagna (Ravenna) la notte del 7 luglio 1945 104, non è eclatante per il numero delle persone uccise, ma perché rispecchia fedelmente il clima di intolleranza e di “odio classista” diffuso nelle campagne emiliano-romagnole contro quelli che venivano definiti i “padroni”. Questo delitto è paradigmatico delle centinaia di altri che costarono la vita a persone non compromesse con il fascismo ed unicamente colpevoli di essere in quanto possidenti, agricoltori o commercianti, dei “nemici di classe”.
La famiglia Manzoni, proprietaria di una vasta tenuta terriera tra le frazioni di Voltana e Lavezzola e di una grande villa “La Frascata”, è composta da quattro persone: la madre Beatrice, di 64 anni, i figli Giacomo di 41, Luigi e Reginaldo, rispettivamente di 38 e 36. A parte Luigi, diplomatico di carriera che nello scorcio finale della guerra aveva prestato servizio al ministero degli Esteri della Rsi, nessuno degli altri Manzoni ha attivamente preso parte al fascismo: Giacomo si dedica alla cura della vasta proprietà terriera di famiglia e Reginaldo è direttore dell’Istituto di Chimica presso l’Università di Bologna. La contessa Beatrice è poi universalmente nota per la opere di beneficenza nei confronti dei contadini delle sue tenute ed è attivamente impegnata nella congregazione di San Vincenzo, di cui nel 1931 era stata nominata presidente generale. “L’immensa fortuna, la grande tenuta appartenente in antico ai Bentivoglio, scemava lentamente da quando la contesa aveva deciso di vendere un podere ogni anno a beneficio dei suoi coloni e dei suoi paesani”. 105
Altri proprietari della zona erano riparati dopo la Liberazione in luoghi più sicuri. Non i Manzoni che pensavano, a torto, di non avere nulla da temere.
Nella sera di sabato 7 luglio 1945, dopo il tramonto, si presentano alla “Frascata” quattro individui armati che intimano di rientrare in casa al conte Giacomo che si trova all’esterno della villa a godersi il fresco, e di allontanarsi ad alcuni contadini che stanno con lui. Dopo le dieci arrivano due automobili, una 1109 e una Balilla, che caricano i quattro Manzoni e la loro domestica Francesca Anconelli e ripartono in direzione di Passogatto. Dopo una mezz’ora giunge un’altra Balilla seguita da un camion su cui vengono caricati oggetti di valore e vestiario, insieme a gioielli, fucili, macchine fotografiche e libri. I Manzoni e la Anconelli nel frattempo sono stati trasportati in un campo in località Villa Pianta, dove si trova una fossa anticarro costruita dai tedeschi, e qui falciati a colpi di arma da fuoco e quindi seppelliti.
Il delitto resta per lunghi mesi avvolto nel mistero. Molti erano stati i testimoni del delitto ma nessuno parla. Solo alla fine di agosto del 1945, i carabinieri di Lugo inviano un rapporto alla Procura di Ravenna in merito alla scomparsa dei conti Manzoni, ma senza fare riferimento al delitto. Si afferma anzi, in base a voci raccolte in paese, che i Manzoni sono partiti, anche se non si “sa e la partenza sia stata spontanea o forzata”. In questa opera di disinformazione spicca un funzionario comunista della Questura di Ravenna Mario La Sala, che tenta in ogni modo di ostacolare e sviare le indagini, tanto che riuscirà a fare arrestare con una falsa accusa il brigadiere della stessa Questura Vincenzo Caputo, che stava raccogliendo preziosi indizi sulla vicenda. L’azione di occultamento del La Sala riuscirà fino all’agosto del 1946, quando le meticolose indagini dei carabinieri cominciano a far emergere importanti tasselli della verità e ad accertare con una certa sicurezza che i Manzoni sono stati vittime di un delitto politico. I sospetti si concentrano sugli esponenti più in vista del Cln e dell’Anpi di Giovecca e Lavezzola. Tramite numerose perquisizioni, si rinvengono nelle case dei paesi limitrofi alla “Frascata” gioielli, vestiti ed oggetti appartenenti ai Manzoni e prova eloquente della razzia. Solo nel giugno del 1948, però, si arriva a fare completa luce: le forze dell’ordine ottengono prima una confessione di un colono della”Frascata” che aveva assistito allo svolgimento del sequestro, e quindi di Primo Cassani, uno dei partigiani che aveva partecipato all’eccidio: e così il 4 agosto i carabinieri possono risalire al luogo dell’esecuzione e disseppellire i cadaveri delle cinque perone uccise.
Pochi giorni dopo vengono denunciati per la scomparsa dei Manzoni sedici persone, tra cui Silvio Pasi (“Elic”), il comandante partigiano più in vista della zona ed in quel momento segretario della Camera del Lavoro di Faenza. Indagini e testimonianze arrivano a stabilire che era stato il Pasi l’organizzatore dell’intera operazione e che la decisione era stata assunta nella sede della polizia partigiana di Lavezzola comandata da Dergo Donigaglia, anch’egli tra i principali responsabili dell’eccidio. 106
Nel 1951 si giunge al processo che si svolge presso la Corte di Assise di Macerata, dopo la decisione della Cassazione di sottrarre il dibattimento alla Corte di Ravenna per legittima suspicione. Il dibattimento registra un clamoroso colpo di scena con l’autoaccusa di sette partigiani di Voltana che asseriscono in una lettera, dopo aver imboccato la strada della latitanza, di essere loro, ed esclusivamente loro, gli autori del delitto. La Corte non crede a questa versione e li assolve, seppure per insufficienza di prove, mentre condanna i tredici imputati all’ergastolo, ridotti a 19 anni essendo stato riconosciuto il movente politico.
Gli assassini dei Manzoni in carcere rimarranno poco, poichè la Corte d’Appello di Ancona, dopo aver ridotto la pena a 28 anni, applica l’indulto, per cui restano solo due anni di carcere, del resto già scontati. Tutti gli imputati vengono subito scarcerati.
Da notare che all’”eroe” Silvio Pasi, morto nel 1962, e più di ogni altro responsabile del massacro dei Manzoni, è stata dedicata una strada a Lavezzola.
d) Gaggio Montano
“Parla chiaro, esplicito, sincero, ammettendo quasi tutte le imputazioni, raccontando ogni particolare dell’”azione punitiva”, anche i più atroci, con la freddezza di chi si sente nel giusto, seguendo una sua logica disumana ma inesorabile”. Con queste parole il giornalista Enzo Biagi descrive nel 1948 l’atteggiamento di Mario Rovinetti, ex partigiano gappista, nel corso del processo che lo deve giudicare quale maggiore responsabile per la strage di Gaggio Montano, nell’Appennino bolognese. Mario Rovinetti è un caso più unico che raro tra le centinaia di imputati che in quegli anni sono giudicati per i delitti del dopoguerra. Quasi tutti gli imputati dei processi per fatti di sangue, anche di fronte ad evidenti prove di colpevolezza, tentano di negare o di minimizzare le loro responsabilità o magari di scaricarle su altri. Rovinetti no: assume su di se ogni colpa e cerca di scagionare in ogni modo i suoi compagni. È convinto di avere agito nel giusto e per una causa e lo ribadisce nel corso dell’interrogatorio. Al giudice che interrogandolo gli parla della “rapina” dei beni delle vittime, in perfetto stile rivoluzionario, lui corregge il termine in “sequestro”, quando il presidente dice “uccidere”, lui rettifica in “prelevare”. “Tre sentimenti hanno agito in lui – scrive ancora Biagi -, lo hanno spinto all’impresa: l’odio per i fascisti, la fede nella “lotta del proletariato”, la solidarietà per i compagni”. 107
In realtà non era stato Rovinetti a pianificare quell’azione, bensì il segretario del Pci di Gaggio Ivo Gaetani, insieme a Secondo Lenzi, nel frattempo morto di tubercolosi, a Giuseppe Torri ed Antonio Camurri. E proprio in casa di Gaetani viene consegnata a Rovinetti la lista degli “eliminandi” di Gaggio Montano presentati tutti come “camice nere e spie dei tedeschi”. In realtà si tratta di persone comuni senza particolari tendenze politiche, a parte una, Guido Brasa che è segretario del Partito d’Azione del luogo. Ed inoltre, a differenza di altre stragi del dopoguerra, la strage di Gaggio è consumata a freddo, non solo perché si svolge nel novembre del 1945 ma anche perché la liberazione di Gaggio dai nazifascisti data da più di un anno, essendo avvenuta nell’autunno del 1944. Nel corso del processo, per tentare di dare una giustificazione al loro operato, alcuni imputati affermano che intendevano vendicare l’eccidio di Ranchidosso, in cui i tedeschi avevano fucilato alcune decine di abitanti dopo uno scontro a fuoco con i partigiani. Un alibi non credibile che porta lo stesso Pci a prendere, almeno ufficialmente, le distanze, fatto quasi unico in quegli anni, dai responsabili della strage di Gaggio.
L’azione è progettata ed eseguita in perfetto stile militare. Rovinetti sceglie per l’impresa dodici gregari, tre dei quali appena fuggiti dalla carceri bolognesi di San Giovanni in Monte, e con essi, nella notte tra il 16 e 17 novembre 1945, occupa il paese, sbarrando le vie di accesso con sentinelle. Agiscono davanti a decine di persone, non hanno paura di essere riconosciuti. Unica precauzione: non si chiamano per nome ma per numero. Primo obiettivo è la caserma dei carabinieri, che viene circondata prima dell’irruzione. I quattro militi presenti vengono immobilizzati. Poi viene assalita la filiale del Credito Romagnolo e comincia il “saccheggio sistematico del paese” ed i prelevamenti delle vittime. La prima è Bianca Ramazzini, che trovano nell’osteria del paese gestita dal marito e la portano via di fronte ad una decina di avventori. Un altro “eliminando” è Guido Brasa. Quando entrano sta mangiando con la moglie incinta (il figlio nascerà dopo un mese); uno dei banditi sale al piano di sopra e fredda Aldo Brasa, fratello di Guido, che aveva tentato di difendersi. Adelfo Cecchelli è a letto quando vanno a prenderlo. Mentre lo portano fuori dicono, mentendo, ai figli in lacrime: “Siamo italiani e non vogliamo uccidere il vostro papà”. Alfredo Capitani è l’ultima della vittime designate ad essere catturata. Riescono a sottrarsi solo due persone, il cui nome è nella lista: Adolfo Graziani e Ferdinando Ferrari, sindaco del paese.
E finalmente il “commando” toglie l’assedio al paese, mentre le campane del paese suonano a stormo “per dare pace ai vivi, e forse per consolare i quattro prelevati che si avviano alla morte”.
I quattro non si ribellano. Portano dei sacchi contenenti roba sequestrata. Arrivati ad una mulattiera si fermano. Due partigiani si mettono a scavare fino a quando la fossa è pronta per l’esecuzione. Un colpo ciascuno e l’eccidio è consumato.
Rovinetti procede alla divisione del bottino: il denaro e la maggior parte degli abiti agli evasi; a due braccianti che avevano lasciato i campi per aggregarsi al gruppo, vuole pagare due giornate di lavoro, ma essi rifiutano.
Similmente ad altri processi del periodo, anche in questo caso la difesa, per consentire una riduzione di pena agli imputati, insiste sul movente politico. Afferma l’avv. Mauceri: “Escluso che i componenti della banda fossero animati da spirito di vendetta e di lucro, occorre tenere presente che, come comunisti, volevano ottenere, secondo i loro principi, una trasformazione sociale”. 108 Il processo comunque si conclude con sette pesanti condanne a carico dei maggiori responsabili, ed altre sette con pene minori ai gregari.
e) I sette fratelli Govoni
Nella notte del 16 marzo 1945, in comune di Argelato, tre sconosciuti si recano nella casa di Ido Cevolani, un disertore della Gnr in contatto con alcune formazioni partigiane. Lo spingono fuori di casa insieme alla moglie Giovannina. A poche centinaia di metri dall’abitazione, la donna viene freddata con una raffica di mitra mentre il marito cade a terra gravemente ferito. Data la diserzione del Cevolani dalle file fasciste, il movente del delitto viene facilmente individuato nella vedetta di alcuni suoi ex camerati. Ma gli autori restano impuniti poiché il Cevolani nel corso dell’istruttoria che si svolge nel 1947 afferma di non aver riconosciuto nessuno dei prelevatori di quella notte. E pertanto il procedimento si chiude con un “non luogo a procedere per mancanza di indizi sugli autori”.
Un episodio come tanti altri accaduto in quel periodo che scivolerebbe presto nell’ombra se non venisse ripescato improvvisamente alcuni anni più tardi, per spiegare, o meglio giustificare, l’uccisione dei sette fratelli Govoni, avvenuta nei dintorni di Pieve di Cento, comune ai confini tra la provincia di Bologna e quella di Ferrara, l’11 maggio del 1945. 109
Il tragico destino di Dino, Augusto, Primo, Giuseppe, Enzo, Marino ed Ida Govoni è stato più volte messo in contraltare a quello dei sette fratelli Cervi uccisi a Reggio Emilia nel novembre del 1943 dai fascisti. Ed indubbiamente è impressionante la coincidenza dello stesso numero di morti negli eccidi delle due famiglie: e forse ciò che decise la sorte dei Govoni fu proprio il loro numero e la possibilità per i loro assassini di vendicare in modo “esemplare” i fratelli Cervi.
Coraggiosi e spavaldi, così come indisciplinati e riottosi alle direttive dall’alto, i Cervi erano tutti militanti antifascisti e partigiani della prima ora, e caddero vittime di una spietata rappresaglia dei fascisti per la morte del seniore della milizia Giovanni Fagiani e del segretario comunale di Bagnolo in Piano, in provincia di Reggio Emilia, Davide Onfiani. La loro morte, per quanto comminata ingiustamente, fu dunque conseguenza diretta della consapevole scelta antifascista che avevano compiuto, e questo spiega anche la fama a cui assursero nel dopoguerra e le medaglie d’oro al valor militare che vennero loro conferite.
I fratelli Govoni, a parte due di loro che avevano preso parte attiva alla Rsi, non facevano politica e non combattevano nessuno. Furono travolti come tanti altri nell’incandescente clima di odio del dopoguerra che trasformava i sospetti in prove, le accuse in condanne, la sete di vendetta in sentenze di morte. Ai loro assassini fu applicata l’amnistia e non giova oggi giudicare se fu fatta opera di giustizia. Resta il fatto che, amnistiabile o meno, si trattò di un crimine non meno grave di quello commesso contro i Cervi.
Tornando alla dinamica dei fatti, come si è detto solo Marino e Dino Govoni si erano compromessi seriamente con la Rsi: il primo era stato nelle Brigate Nere di Massa Lombarda nel ravennate; il secondo aveva militato nella Gnr. Degli altri fratelli nessuno si era iscritto al Pfr, anche se nel corso della guerra, come sostenne molto genericamente il giudice istrutture del processo, “avevano manifestato solidarietà con i nazi-fascisti”.
Subito dopo la Liberazione, i sette Govoni vengono chiamati al comando partigiano di Pieve di Cento per essere interrogati: quattro sono rilasciati quasi subito; Dino e Marino alcuni giorni dopo, segno che le accuse nei loro confronti non devono essere particolarmente gravi.
Negli stessi giorni fa ritorno a S. Giorgio di Piano, località che dista pochi chilometri da Pieve, lo studente universitario Giacomo Malaguti, che aveva combattuto come sottotenente di artiglieria nella VIII Armata alleata sul fronte di Cassino. In quelle settimane convulse dopo il 25 aprile non basta essere stato antifascista ed avere rischiato la vita per liberare il proprio paese per essere al sicuro. E come si saprà poi, Malaguti ebbe la sorte segnata per poche parole pronunciate al cospetto di uno degli estremisti del luogo. Nel corso di una discussione tra il padre e l’inquilino di un suo appartamento che non vuole andarsene, il giovane Giacomo, invitando il padre a lasciar perdere, dice: “Comanderanno ancora una ventina di giorni”. Per queste poche parole viene denunciato e ripetutamente interrogato nella sede della polizia partigiana del luogo e tanto è sufficiente a far inserire il suo nome nell’elenco delle persone della zona, circa una trentina, da sopprimere.
Questa lista, come poi risulterà al processo, viene stilata da Vittorio Caffeo (“Drago”), un commissario politico comunista che gode di un notevole e sinistro ascendente e non è nuovo ad azioni di questo genere. Caffeo, insieme ad altri capi della polizia partigiana del luogo, Luigi Borghi, Renzo Marchesi, Remo Zanardi ed Arrigo Pioppi, proprio in quei giorni si era già reso responsabile ad Argelato di un altro “nefando eccidio” in cui erano state soppresse 12 persone. 110
Questa “squadra della morte” prepara il suo piano con grande scrupolo senza lasciare nulla al caso. Per convincere i gregari riluttanti ad associarsi all’impresa criminosa, Caffeo ed i suoi compagni adottano uno stratagemma, in modo che “una volta iniziate le operazioni nessuno avrebbe più avuto il coraggio di tirarsi indietro”. Il 10 maggio avvertono un gruppo di partigiani di tenersi pronti per il mattino successivo a San Giorgio di Piano e spiegano che occorre recarsi a San Martino in Spino, ai confini con la provincia di Modena, allo scopo di ritirare un carico di bestiame.
La sera stessa peparano la casa che deve ospitare il “tribunale del popolo” (si tratta dell’abitazione di certo Emilio Grazia che aveva avuto il figlio ucciso dalle Brigate Nere) per giudicare le vittime già predestinate. Non dimenticano di predisporre anche la fossa per i cadaveri. Durante la notte Caffeo si reca con una 1109 nera a prelevare la prima vittima: Marino Govoni.
Alle quattro del mattino del giorno dopo, un camioncino con sopra una decina di partigiani armati parte come stabilito da San Giorgio in Piano, ma la meta non è quella indicata da Caffeo, ma bensì Argelato, nei cui pressi sono attesi da un altro gruppo di partigiani a bordo di una macchina. I due automezzi si dirigono verso la frazione di Veneta di Argelato, ove abita Ida Govoni con il marito Angiolino Cevolani, ed il figlioletto di pochi mesi. Riescono a farla salire sull’autocarro con il pretesto che indichi la casa dei fratelli. Giunti all’abitazione della famiglia Govoni, irrompono nella casa, la perquisiscono, prelevano alcuni fucili da caccia e fanno salire i cinque fratelli sul camion e nella macchina. Si dirigono quindi a Casadio di Argelato per l’ultima e tragica tappa del viaggio.
A questo punto uno dei partigiani del seguito comprende il vero scopo dell’impresa e, riconoscendo tra i prelevati la zia Ida Govoni, chiede a Caffeo di lasciarla andare per allattare il figlioletto. Per tutta risposta viene spedito a casa senza troppi complimenti.
Nella stessa mattinata si verifica un incidente che rischia di mandare a monte tutto il piano. Alcuni graduati della polizia alleata si presentano al comando dei carabinieri di San Pietro in Casale e chiedono d’interrogare i fascisti arrestati. In quel luogo si trova anche il partigiano Vitaliano Bertuzzi, che ha partecipato poco prima ai prelevamenti, il quale afferma che anche a San Giorgio vi sono fascisti pericolosi. Gli alleati gli ordinano di procedere al loro arresto e di tenerli a disposizione della Polizia alleata, che li avrebbe presi in consegna il pomeriggio seguente.
Questo contrattempo potrebbe mandare all’aria tutto. Ma gli organizzatori della strage sono decisi ad andare fino in fondo e giocano d’astuzia. In fondo, pensano, quell’ordine così imprevisto può mascherare il loro piano di un manto di legalità, almeno nella prima fase, e facilitare il loro compito. E difatti, ai tempi del processo molti degli imputati cercheranno di difendersi giocando sull’equivoco ed affermando di aver consegnato tutti i fermati alla Polizia alleata.
Con notevole tempismo, Caffeo si trasferisce a San Giorgio di Piano ed impartisce un ordine di arresto per 27 prsone di cui 10 sono da sopprimere. Le persone condannate a morte vengono prelevate con lo stesso camion che aveva trasportato i Govoni e subito trasferiti nella casa del Grazia, in un’altra stanza rispetto a quella in cui sono rinchiusi i sette fratelli. Si tratta di Alberto Bonora, Cesare Bonora, Ivo Bonora, Ugo Bonora, Vinicio Testoni, Alberto Bonvicini, Ugo Mattioli, Giovanni Caliceti, Guido Pancaldi e Giacomo Malaguti.
Giunta la sera si costituisce la farsa del Tribunale del popolo che deve emettere le sentenze di morte. Le vittime sono portate, due a due, al cospetto dei “giudici” e qui interrogate per varie ore, rapinate e sottoposte a violenze e sevizie. Poi l’immancabile condanna a morte.
Quando si tratta di portare i condannati alla morte, ci si accorge che manca il mezzo, e qualcuno, forse per dare un tono ancora più tragico e macabro alla scena, ha l’idea di servirsi di un carro funebre. Ma il pilota del mezzo che viene chiamato, una volta compreso l’uso per cui è stato adibito, accusa un malore e rinuncia. I diciassette condannati, legati strettamente per le braccia l’uno all’altro a file di tre per tre, per evitare fughe, sono incolonnati ed avviati a piedi lungo i campi verso il luogo dell’esecuzione già preparato in precedenza. Poi si procede al massacro: tre alla volta i prigionieri sono portati sull’orlo della buca e qui strangolati con un cappio. La fossa viene quindi ricoperta di terra.
Passeranno sei anni prima che la verità sui fatti, ed insieme ad essa i poveri resti dei trucidati, venga alla luce.
Nel 1948 Cesare Govoni, padre dei sette fratelli, chiede che vengano riaperte le indagini, quanto meno per il recupero delle salme, segnalando che cinque dei suoi figli “non si erano mai compromessi per ragioni politiche”.
Le indagini però conoscono una decisiva accelerazione solo tre anni dopo, nel febbraio del 1951, quando in località Casadio di Argelato nel corso di lavori di scavo affiorano i cadaveri dei Govoni e degli altri dieci uccisi.
Gli inquirenti riescono a rintracciare i responsabili uno dopo l’altro, molti dei quali confessano il delitto. Ed è nel corso delle indagini che, in modo del tutto strano ed alquanto sospetto, Ido Cevolani offre una nuova versione sul suo ferimento e sull’uccisione della moglie Giovannina. Il Cevolani si ricorda improvvisamente che la notte di quel marzo 1945 ad attendere fuori i suoi prelevatori c’erano i fratelli Marino e Dino Govoni ed avanza esplicitamente il sospetto che fosse stata sua cognata Ida Govoni a denunciarlo ai fascisti come disertore. Un ritorno di memoria così repentino che pare fatto apposta per creare un alibi politico per l’uccisione di almeno quattro dei fratelli Govoni.
L’anno successivo il Giudice istruttore della Procura di Bologna Giuseppe Toni è in grado di emettere la sua sentenza, molto generosa in rapporto alla gravità dei fatti: applicazione dell’amnistia per l’uccisione dei Govoni e di tutti gli altri ad eccezione del sottotenente Giacomo Malaguti.
Il Giudice infatti riconosce che “la soppressione dei sette fratelli Govoni e dei prelevati di San Giorgio, ad eccezione del S. Tenente Malaguti Giacomo, fu determinata da motivi di lotta contro il nazifascismo”. Dino e Marino erano fascisti, mentre Ida era di “sentimenti fascisti”. E gli altri quattro fratelli? Il Giudice, mancando qualsiasi addebito concreto a loro carico, afferma che “forse la soppressione di tutti fu probabilmente causata dal fatto che i partigiani stessi, non sapendo con certezza quali di essi si erano macchiati dei delitti suddetti, decisero di ucciderli tutti per avere così la certezza di avere eliminati i responsabili”.
Per quanto riguarda l’uccisione delle altre nove persone, il Giudice non trova alcun motivo specifico che possa in qualche modo collegarsi alla loro soppressione, a parte una generica simpatia fascista. Nel caso di Giovanni Caliceti la condanna a morte era stata determinata dal fatto che il fratello aveva ricoperto la carica di “consigliere nazionale” del Pnf. Legata alla sorte di Caliceti è quella di Ivo Bonora: dopo aver frequentato il corso Allievi ufficiali della Rsi aveva disertato e chiesto di entrare nelle file partigiane. I capi partigiani lo avrebbero accolto se avesse dato dimostrazione di riabilitarsi uccidendo proprio Giovanni Caliceti, che era un suo lontano parente. Ma Ivo Bonora rifiutò e “tale rifiuto – afferma il giudice – si suppone sia stato il motivo del suo prelevamento e della sua soppressione”. “Meritava per questo di essere soppresso?”, si chiede retoricamente il magistrato. Non lo meritava, ma esistevano delle “apparenze” di una sua collaborazione coi nazifascisti e tali apparenze bastavano per giustificare una condanna a morte agli occhi dei suoi uccisori.
E così i responsabili di un massacro ai danni di persone che erano state fasciste né più né meno di tante altre, anzi meno certamente di uno degli uccisori, Vitaliano Bertuzzi che aveva appartenuto alla milizia repubblichina fino alla fine del 1944, sarebbero stati completamente scagionati se non avessero commesso un grave errore uccidendo il sottotenente Gino Malaguti.
Malaguti con il fascismo non c’entrava assolutamente niente, al contrario lo aveva combattuto. Come il Giudice riconosce “la figura dello scomparso è uscita limpida e immune da qualsiasi pecca politica”. Il rinvio a giudizio e la conseguente e successiva condanna degli imputati riguardò quindi la sola uccisione di Malaguti.
NOTE
95 Oltre a quelle narrate nel testo, è giusto riferire sommariamente per completezza storica anche di altre stragi perpetrate sul territorio regionale nella lunga “primavera di sangue” del 1945. A Comacchio (Ferrara), tra il 12 ed il 13 maggio 1945, un gruppo di partigiani comunisti della polizia partigiana di Lagosanto arresta undici persone (Arrigo e Gustavo Piva, Giovanni Bigoni, Giuseppe Zanellati, Luigi Albino Bigoni ed il figlio Giovanni, Paolo Piva, i fratelli Tranquillo e Giovanni Bigoni, Natale Finessi e Secondo Bulgarelli) e li rinchiude a villa Tudes. Qui i prigionieri, quasi tutti fascisti, vengono percossi brutalmente e ripetutamente percossi. Trasferiti nella vicina prigione di Comacchio, nella notte tra il 26 ed il 27 maggio i reclusi vengono prelevati e portati su di un camion presso il cimitero di Comacchio e falciati a raffiche di mitra. Cfr. Alberto BALBONI, Edda BONETTI, Guido MENARINI, Repubblica sociale italiana e Resistenza. Ferrara 1943-1945, Ferrara, 1990, pp. 195-201, e Democrazia cristiana dell’Emilia Romagna (a cura della), La Seconda Liberazione dell’Emilia, Roma, 1949, p. 39. L’opuscolo della Dc cita anche (p. 38) un rapporto dei carabinieri di Portomaggiore con un elenco di 104 nomi di scomparsi. A Ferrara la notte dell’8 giugno 1945, una motocicletta ed un’automobile si fermano davanti all’edificio delle carceri. Scendono sette uomini vestiti da militari alleati. Quattro restano all’ingresso, gli altri penetrano nella prigione e raggiungono le cinque celle dove sono ammassati una quarantina di prigionieri fascisti. I mitra cominciano a crepitare nel mucchio. Diciotto persone muoiono (Giorgio Broz, Gilberto Colla, Carlo Cavallini, Pasquale Esposito, Corrado Ghedini, Luigi Gusmano, Medardo Graziano, Francesco Melloni, Bruto Melloni, Mirco Mazzoni, Roberto Stabellini, Eros Scaglianti, Vincenzo Fiocchi, Costantino Satta, Giuseppe Montagnese, Manto Mariotti, Viscardo Vaccari e Alvaro Maggi). Altre quattordici restano ferite. Gli assassini vengono prosciolti in istruttoria. Cfr. “Avvenire Padano”, 23 maggio 1952. In circostanze analoghe, una settimana dopo, il 15 giugno, a Carpi di Modena viene consumata un’altra strage nelle carceri. Questa volta sono sedici i prigionieri a cadere sotto le raffiche sparate da un gruppo di individui che sono entrati nella prigione dopo aver disarmato le guardie: Giulio Silvestri, Alfonso Fontanesi, Aldo Reggiani, Sesto Dallari, Umberto Griminelli, Gianmario Vallati, Giuseppe Fattorini, Walter Pincella, Walter Priniello, Massimiliano Zanella, Dante Pantaleoni, Armando Pirondi, Luigi Neri, Gustavo Martelli, Umberto Guinicelli e Arduino Bergonzoni. Nel 1951 nove appartenenti alla polizia partigiana del luogo vengono condannati per il delitto. Cfr. Giovanni FANTOZZI, “Vittime dell’odio”. L’ordine pubblico a Modena dopo la Liberazione (1945-1946), Bologna, 1990, pp. 38-39. Nel reggiano, a Campagnola, il 28 aprile 1945 dieci persone (Carlo Bizzarri con la moglie Maria Bocedi, Vittorio Bizzarri, Salvino Bolognesi, Giuseppe Campedelli, Pietro Mariani, Gastone Pecorari, Cesare Righi, Giacomo Righi ed Ezio Silingardi) vengono prelevate ed uccise, e i cadaveri occultati nel “cavoun” della fornace Fontanesi, insieme ad altri eliminati prima e dopo di loro in quella zona. Dal “cavoun”, nel marzo del 1991, dopo che il figlio di una delle vittime aveva inviato una lettera alle famiglie di Campagnola e dopo che un anonimo aveva piantato una croce sul posto della strage, i cadaveri saranno parzialmente disseppelliti. Cfr. Associazione nazionale famiglie caduti e dispersi della Repubblica sociale italiana (a cura della), Reggio Emilia 1943-1946. Martirologio, Rimini, 1991, pp. 76-79. Delle fosse di Campagnola ed di altre sparse nella bassa reggiana si era occupato anche Giorgio Morelli (“Il solitario”) su “La Nuova Penna” nei numeri del 17 maggio 1946 e 15 ottobre 1946. Dell’esistenza di numerose fosse comuni era al corrente anche il Prefetto di Reggio Emilia Potito Chieffo che nel 1946 scrisse un rapporto alla Presidenza del Consiglio elencando le località ove erano ubicate. Cfr. “Il Resto del Carlino”, 9 novembre 1991.96 Cfr. Gianfranco STELLA, 1945. Ravennati contro. La strage di Codevigo, Rimini, 1991 e “La Repubblica”, 6 ottobre 1990.
97 Arrigo Boldrini è parlamentare del Pds e presidente nazionale dell’Anpi. Nel suo diario di quei giorni “Bulow” si esprime con una certa ambiguità circa il comportamento dei suoi partigiani. Tra le righe del diario si capisce che le esecuzioni sommarie di oltre cento fascisti da parte dei partigiani della 28esima non gli erano sconosciute, mentre non c’è alcun elemento per affermare che egli sia intervenuto per fermare il massacro. In data 9-10 maggio 1945 scrive: [... ] Nella serata dobbiamo affrontare nuovamente una questione molto seria: si tratta dei rastrellamenti dei fascisti, operati spontaneamente dai patrioti un pò dovunque, così come si registrano autonome iniziative di gruppi contro le ultime sacche di resistenza nazifascista (si noti, a smentita di Boldrini, che dopo il 28 aprile non vi è alcuna traccia di combattimenti armati in quella zona, tanto è vero che nel diario storico della 28esima si legge “Dal 30 aprile al 6 maggio – Riposo a Codevigo”, ndr). [... ] Pressoché impossibile intervenire. Non possiamo che prendere atto degli strascichi di una guerra nel corso della quale le forze armate della Rsi, soprattutto le brigate nere, la guardia nazionale repubblicana, hanno resistito fino all’ultimo. Ci rendiamo conto di quali e quanti problemi personali ed umani si pongano in questa fase finale: gli animi sono esasperati, si apprendono terribili notizie sui misfatti compiuti dai nazifascisti”. E, quasi a voler giustificare quello che stava accadendo: “si sa che la guerra rompe tutti gli equilibri e non è facile riconquistarli in poco tempo. Alla fine di ogni conflitto si sono avuti troppi episodi dolorosi. Occorrerebbe tempo per raggruppare i partigiani in caserme e in altri centri di raccolta, per inserirli gradualmente nella vita civile. Gli eventi invece incalzano, incontrollati e velocissimi”. Infine, con parole da comandante, Boldrini si assume ogni responsabilità: “Ribadiamo per quanto ci compete l’intimazione del Comitato di liberazione nazionale per il nord Italia del 19 aprile “arrendersi o perire” che era un invito alla resa: “oggi, subito: arrendersi o perire. Questa è la formale intimazione che il Comitato di liberazione nazionale per l’alta Italia vi rivolge”. Ma molti fascisti hanno combattuto fino all’ultimo, eccome (non certo comunque i fascisti di Pescantina arresisi al locale Cln, ndr). I comandi alleati hanno confermato la loro direttiva di massima “annientare il nemico ovunque si trovi”. Chi può giudicare in simili frangenti? In ogni caso la 28esima si assume la piena responsabilità degli ordini che sono stati impartiti (anche quella dell’uccisione a freddo di persone inermi?, ndr). STELLA, op. cit., pp. 128-129.
98 Dalle testimonianze dei superstiti risulta che i prigionieri venivano portati a villa Ghellero, sede del comando partigiano per essere interrogati, alla presenza di Ateo Minghelli (“Regan”), vicecomandante della 28esima, prima di essere condotti alla fucilazione. Altri invece erano rinchiusi in alcune “boarie” (stalle) della zona dove sostavano, tra percosse e torture, in attesa della fucilazione.
99 I cadaveri di una parte degli scomparsi vennero sepolti nel cimitero di Codevigo. “La fossa comune venne scoperta solo nel 1961: 77 salme furono trovate a Codevigo, 17 a Santa Margherita, 12 a Brenta d’Adda. In tutto 106 corpi, di cui 90 identificati: 76 emiliani, quasi tutti di Ravenna, e 14 di Codevigo. Altri trenta, almeno, se li sarebbe presi il fiume”. “La Repubblica”, 6 ottobre 1990.
100 I superstiti della strage, tali perché le raffiche di mitra li ferirono solo leggermente e perché riuscirono miracolosamente a celarsi lungo la riva con la complicità della notte, furono: Alvaro Allegri, Guido Corbelli, Paolo Maccesi. Ad essi si deve la descrizione dei particolari della tragedia.
101 Cfr. Vittorio MARTINELLI, La “corriera fantasma”, Brescia, 1988 e FANTOZZI, op. cit., pp. 71-78.
102 Le persone uccise di cui venne accertata l’identità sono: Cesare Jannoni-Sebastianini, Marcello Calvani, Roberto Lombardi, Marcello Cozzi, Nicodemo Della Gerva, Enrico Serreli, Alfredo Notti, Alfonso Cagno e Vincenzo Giuffrè. Queste, più altre cinque non identificate, furono le vittime prelevate dal primo camion. Alfio Fallai, Gino Grossi ed uno sconosciuto furono prelevate da un secondo camion ed anch’esse uccise.
103 Per quanto concerne il processo di Viterbo cfr. “Gazzetta di Modena”, dicembre 1950-gennaio 1951.
104 Cfr. Gianfranco STELLA , L’eccidio dei conti Manzoni di Lugo di Romagna, Rimini, 1991; Paolo SCALINI, Fare giustizia in Romagna, Bologna, 1991, pp. 19-26; Giordano MARCHIANI , La bottega del barbiere, Bologna, 1988.
105 STELLA, op. cit., p35.
106 “Nei mesi che seguirono però si verificò un convulso groviglio di ritrattazioni, piccoli ricatti, accuse di falso e denunce di estorsione delle confessioni tanto che, ad un certo momento, tutti si dichiararono innocenti, compresi coloro che erano stati riconosciuti dai contadini e che si giustificarono asserendo di aver svolto una normale opera di controllo e di imposizione del coprifuoco, anche se con la forza delle armi, sollecitando la gente a rientrare in casa. Tutti gli accusati furono, chi più chi meno, concordi anche nel riconoscere che non c’era nulla da rimproverare ai Manzoni dal punto di vista politico e che erano visti da tutti con simpatia per la oro affabilità e la loro generosità nei confronti dei contadini. SCALINI, op. cit., p. 22.
107 “Giornale dell’Emilia”, 7 luglio 1948 e ss. Cfr. anche “Giornale dell’Emilia”, 21 marzo 1946 e Archivio dell’Istituto storico della Resistenza dell’Emilia-Romagna, Fondo Casali, sett. II, b. 98, ff. 1-5. Questo processo fu uno dei pochissimi in cui il Centro di solidarietà democratica non fornì diretta assistenza processuale agli imputati, stante la difficoltà per il Pci di solidarizzare apertamente con i rei confessi di un delitto dichiaratamente politico e senza alcuna possibilità di giustificazione.
Nel saggio di Luca ALESSANDRINI ed Angela Maria POLITI, Nuove fonti sui processi contro i partigiani 1948-1953. Contesto politico ed organizzazione della difesa, in “Italia contemporanea”, n. 178, marzo 1990, pp. 49-50, questo procedimento è significativo per almeno due aspetti. “In primo luogo il candore col quale si valutano i fatti: pare cosa normale, nonostante l’evidente scarto temporale tra la conclusione della guerra di liberazione ed il momento dell’azione, la lotta clandestina, la soppressione dei fascisti, il prelievo di beni per i combattenti. In secondo luogo, perché essa offre uno spaccato di una situazione della provincia di Bologna, ancorché parziale e da verificare in tutte le sue implicazioni, caratterizzata dalla difficoltà a rientrare nella legalità da parte almeno di alcuni partigiani e da una già avviata repressione dei responsabili di fatti che, compiuti dopo il 25 aprile 1945, vengono a configurarsi come reati. Questo processo, celebrato in prima istanza nella seconda metà del 1948, fu in grado, come appare evidentissimo dal confronto con altri dello stesso archivio, di mettere in difficoltà il Pci e tutte le altre forze di opposizione che si ispiravano alla resistenza. Per queste ultime il problema fu parzialmente risolto non esponendosi nella difesa degli imputati, mentre per il Pci fu tutto più difficile: alcuni imputati erano iscritti al partito – uno era segretario di sezione – tutti avevano agito nell’ambito della brigata Gap Ettore Rovinetti, o meglio di ciò che rimaneva di tale formazione e che venne definito “ufficio stralcio della brigata”. La campagna della stampa moderata fu intensa e sostenne, a spiegazione dell’accaduto, l’esistenza di dissidi tra le famiglie agiate del paese da una parte, e il Cln e il Pci locali dall’altra; di contrasti privati fra un imputato e una vittima; di risentimenti verso i sindaco liberale. Elemento di ulteriore imbarazzo fu il fatto che almeno una delle vittime non era più stata iscritta al partito dal 1935 e anzi era aderente al Partito d’azione. Per i processi di primo grado, presso la Corte di assise di Bologna dal 5 luglio 1948, e di secondo grado, presso la Corte di assise di Appello di Firenze dal 3 dicembre 1952, furono costituiti due nutriti collegi di difesa al centro dei quali fu sempre l’avvocato Casali”.
108 “Giornale dell’Emilia”, 22 luglio 1948
109 La vicenda dei sette fratelli Govoni è stata desunta interamente dagli atti processuali depositati in Archivio del Centro di Solidarietà democratica di Bologna (d’ora in poi ACSDBO), presso Istituto di storia della Resistenza dell’Emilia-Romagna, sez. II, sett. 3, ff. 132-134.
110 Tra l’8 ed il 9 maggio 1945 Borghi e Caffeo organizzano, insieme a Walter Montorsi e ad altri, il prelevamento e l’uccisione di dodici persone di Asia di Argelato e di Pieve di Cento. Si tratta di: Laura Emiliani, Sisto Costa, della moglie Adeleaide Taddia e del figlio Vincenzo, oltre a Enrico Cavallini, Giuseppe Alberghini, Dino Bonazzi, Guido Tartari, Ferdinando Melloni, Otello Moroni, Vanes Maccaferri e Augusto Zaccarato. I prigionieri vengono condotti in una casa colonica sita nel fondo di proprietà del marchese Talon a Volta di Reno di Argelato. Qui sono uccisi per strangolamento. Il 3 maggio 1952, nell’ordinanza di rinvio a giudizio degli imputati relativamente all’uccisione di quattro delle vittime, il giudice Istruttore della Procura di Bologna Giuseppe Toni individua il movente “nella lotta di classe, che abilmente i comunisti inseriscono nel quadro più generale della lotta di liberazione”. Data la circostanza che molti degli uccisi erano dei proprietari terrieri ed avevano subito delle minacce in occasione del rinnovo del contratto mezzadrile, il giudice rileva, in relazione al delitto, che i “Comitati di Agitazione e di Difesa dei contadini”, emanazione dei CLN ma di netta marca comunista, iniziarono specie nel bolognese una vasta attività di proselitismo sindacale tra i mezzadri, proponendo per essi estreme rivendicazioni e cercando nel contempo di creare uno stato di intimidazione generale tra i proprietari, perché le rivendicazioni venissero accettate senza discussione e senza reazione. C’era bisogno in altri termini di creare un particolare clima politico favorevole a certi piani da tempo predisposti”. ACSDBO, sez. II, sett. 3. f. 129.
Bologna 1991
Fonte art.
http://athenasophia.bloog.it
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