Di Eugenio Cipolla.
Quando nell’ottobre 1969 Giuseppe Saragat, quinto presidente della Repubblica Italiana, partì alla volta di Belgrado, per un incontro bilaterale volto a sviluppare e rafforzare i rapporti con la Jugoslavia, portò al dittatore Josip Broz Tito un dono di pregevole fattura: l’onorificenza di «Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana» con l’aggiunta del Gran cordone, il più alto riconoscimento previsto, destinato a ricompensare benemerenze acquisite verso la Nazione nel campo delle lettere, delle arti, dell’economia e nel disimpegno di pubbliche cariche e di attività svolte a fini sociali, filantropici ed umanitari.
Erano altri tempi quelli. L’Italia che si apprestava ad entrare negli anni di piombo, infatti, non aveva ancora scoperto le terribili sofferenze patite dagli italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia per mano di Tito e dei suoi uomini, non aveva ancora preso coscienza delle migliaia di persone inghiottite dalla follia di quel regime sanguinario, che mirava solo ed esclusivamente all’eliminazione fisica dei nostri connazionali, non aveva ancora smesso di considerare tabù un argomento così scomodo e delicato, che avrebbe rischiato di mettere in cattiva luce le decennali battaglie e le fallaci ideologie dei comunisti italiani.
Poi negli anni, grazie al difficile lavoro di un gruppo di coraggiosi, capaci di mantenere viva la memoria e di risvegliare la coscienza collettiva, tutto è cambiato. E pian piano nelle scuole, sui giornali e nei bar si è iniziato a parlare, seppur gradualmente, delle atrocità subite dai nostri connazionali, dei crimini efferati commessi dal regime di Tito, delle migliaia di vittime uccise due volte, la prima da una guerra insensata, la seconda da una storia irriconoscente. Eppure quarantacinque anni dopo, nonostante la nostra presa di coscienza e l’istituzione di una giornata del Ricordo per le vittime delle Foibe, quell’onorificenza è ancora lì, nell’indifferenza generale dei media, ma soprattutto delle Istituzioni. Nessuno ha mai pensato di revocarla, restituendo così la dignità a quei morti dimenticati per tanti, troppi anni. La legge su questo parla chiaro: «Incorre nella perdita dell’onorificenza l’insignito che se ne renda indegno».
Quando nel febbraio 2011 l’Unione degli Istriani denunciò pubblicamente la presenza del maresciallo Tito tra i cavalieri di Gran Croce della Repubblica, nessuno si indignò. «Chiedo al presidente della Repubblica di voler procedere all’annullamento immediato della benemerenza», scrisse a Napolitano il presidente dell’associazione, Massimiliano Lacota. «E’ semplicemente orribile e disgustoso che lo Stato italiano riconosca il dramma delle Foibe e allo stesso tempo annoveri tra i suoi più illustri insigniti proprio chi ordinò i massacri e la pulizia etnica degli Italiani d’Istria, ovvero il dittatore comunista Tito».
Ma quello sfogo non sortì alcun effetto. La grande stampa, la politica moraleggiante e Napolitano quasi si nascosero, ignorando l’appello di chi, ancora ferito, si sentiva umiliato dalla permanenza del proprio carnefice nell’elenco più importante dei benemeriti della Repubblica. Fa rabbia pensarlo. Ancora di più quando si scopre che l’Unione degli Istriani ha continuato a chiedere, senza alcun risultato, la revoca dell’onorificenza anche dopo il 2011. La prima volta il 27 agosto 2012, quando Lacota scrisse a Monti, il quale da presidente del Consiglio aveva appena ottenuto la revoca dell’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce conferita a Bashar al-Assad l’anno prima da Napolitano, chiedendo che lo stesso trattamento fosse riservato anche a Tito, i cui «crimini contro centinaia di migliaia di italiani, tedeschi, ungheresi, e di varie nazionalità jugoslave, sono stati definitivamente acclarati e condannati. Non è accettabile che lo Stato onori contemporaneamente le vittime di una bestiale pulizia etnica, come quella subita dai
giuliano-dalmati, e il persecutore che la mise in pratica». La seconda, invece, il 10 febbraio dello scorso anno, quando venne annunciata la decisione di figli e nipoti di vittime delle Foibe di non chiedere la medaglia commemorativa prevista dalla Legge istitutiva del Giorno del ricordo (Legge 92/04). «Finora le richieste di revoca della onorificenza a Tito sono rimaste senza risposta. E’ una cosa offensiva e indegna, è una situazione inaccettabile». Sul perché Napolitano non abbia mai risposto, rimane un mistero anche per il sindaco di Calalzo (Belluno), Luca de Carlo. Nel 2011, proprio come Lacota, scrisse una missiva al presidente della Repubblica, senza ricevere alcuna risposta, per sensibilizzarlo sulla questione riguardante vie e piazze intitolate al dittatore comunista: «Sarebbe un segnale fondamentale per ricomporre le tragedie della storia, se Lei decidesse di accogliere il comune sentire delle nostre genti ritirando le onorificenze a Tito (oltre che ai suoi colonnelli Ribicic e Rustja) e contestualmente disponendo la rimozione in tutto il Paese dei toponimi ad essi intitolati». Lo scorso anno de Carlo, supportato dall’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, è tornato alla carica, riuscendo a ricevere una risposta ufficiale dal Prefetto di Belluno. «Il Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Ufficio Cerimoniale di Stato e per le Onorificenze, interessato a sua volta per competenza dalla presidenza della Repubblica, ha rappresentato quanto segue (…) nel caso di Josip Broz Tito, insignito nel 1969 della distinzione di Cavaliere di Gran Cordone quale Presidente della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia in occasione di una visita di Stato non è ipotizzabile alcun provvedimento di revoca essendo il medesimo deceduto». Secondo quanto scritto nella missiva, datata 16 aprile 2013, la norma per la revoca dell’onorificenza «prevede che la persona oggetto dell’eventuale revoca debba essere preventivamente informata, onde poter presentare una memoria scritta a propria difesa. La possibilità di revocare l’onorificenza, pertanto, presuppone l’esistenza in vita dell’insignito».
Sconcertante, perché l’Italia ha fatto il contrario dell’Austria, dove le onorificenze ricevute in passato da Tito sono state revocate nonostante la morte del dittatore jugoslavo. E anche della Slovenia, dove il 3 ottobre 2011 la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’intitolazione di una strada di Lubiana a Josip Broz Tito, affermando che questo «avrebbe comportato la glorificazione del suo regime totalitario e la giustificazione delle gravi violazioni dei diritti dell’uomo da lui compiute».
Da noi, invece, la burocrazia, l’immobilismo della politica e il menefreghismo istituzionale, sono riusciti addirittura a preservare lo status quo (da benemerito) di un assassino. A tal punto che, per gli italiani, ricordare le Foibe è diventato quasi paradossale: è un po’ come se, a Gerusalemme, Hitler avesse un albero piantato nel Giardino dei giusti.
Quando nell’ottobre 1969 Giuseppe Saragat, quinto presidente della Repubblica Italiana, partì alla volta di Belgrado, per un incontro bilaterale volto a sviluppare e rafforzare i rapporti con la Jugoslavia, portò al dittatore Josip Broz Tito un dono di pregevole fattura: l’onorificenza di «Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana» con l’aggiunta del Gran cordone, il più alto riconoscimento previsto, destinato a ricompensare benemerenze acquisite verso la Nazione nel campo delle lettere, delle arti, dell’economia e nel disimpegno di pubbliche cariche e di attività svolte a fini sociali, filantropici ed umanitari.
Erano altri tempi quelli. L’Italia che si apprestava ad entrare negli anni di piombo, infatti, non aveva ancora scoperto le terribili sofferenze patite dagli italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia per mano di Tito e dei suoi uomini, non aveva ancora preso coscienza delle migliaia di persone inghiottite dalla follia di quel regime sanguinario, che mirava solo ed esclusivamente all’eliminazione fisica dei nostri connazionali, non aveva ancora smesso di considerare tabù un argomento così scomodo e delicato, che avrebbe rischiato di mettere in cattiva luce le decennali battaglie e le fallaci ideologie dei comunisti italiani.
Poi negli anni, grazie al difficile lavoro di un gruppo di coraggiosi, capaci di mantenere viva la memoria e di risvegliare la coscienza collettiva, tutto è cambiato. E pian piano nelle scuole, sui giornali e nei bar si è iniziato a parlare, seppur gradualmente, delle atrocità subite dai nostri connazionali, dei crimini efferati commessi dal regime di Tito, delle migliaia di vittime uccise due volte, la prima da una guerra insensata, la seconda da una storia irriconoscente. Eppure quarantacinque anni dopo, nonostante la nostra presa di coscienza e l’istituzione di una giornata del Ricordo per le vittime delle Foibe, quell’onorificenza è ancora lì, nell’indifferenza generale dei media, ma soprattutto delle Istituzioni. Nessuno ha mai pensato di revocarla, restituendo così la dignità a quei morti dimenticati per tanti, troppi anni. La legge su questo parla chiaro: «Incorre nella perdita dell’onorificenza l’insignito che se ne renda indegno».
Quando nel febbraio 2011 l’Unione degli Istriani denunciò pubblicamente la presenza del maresciallo Tito tra i cavalieri di Gran Croce della Repubblica, nessuno si indignò. «Chiedo al presidente della Repubblica di voler procedere all’annullamento immediato della benemerenza», scrisse a Napolitano il presidente dell’associazione, Massimiliano Lacota. «E’ semplicemente orribile e disgustoso che lo Stato italiano riconosca il dramma delle Foibe e allo stesso tempo annoveri tra i suoi più illustri insigniti proprio chi ordinò i massacri e la pulizia etnica degli Italiani d’Istria, ovvero il dittatore comunista Tito».
Ma quello sfogo non sortì alcun effetto. La grande stampa, la politica moraleggiante e Napolitano quasi si nascosero, ignorando l’appello di chi, ancora ferito, si sentiva umiliato dalla permanenza del proprio carnefice nell’elenco più importante dei benemeriti della Repubblica. Fa rabbia pensarlo. Ancora di più quando si scopre che l’Unione degli Istriani ha continuato a chiedere, senza alcun risultato, la revoca dell’onorificenza anche dopo il 2011. La prima volta il 27 agosto 2012, quando Lacota scrisse a Monti, il quale da presidente del Consiglio aveva appena ottenuto la revoca dell’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce conferita a Bashar al-Assad l’anno prima da Napolitano, chiedendo che lo stesso trattamento fosse riservato anche a Tito, i cui «crimini contro centinaia di migliaia di italiani, tedeschi, ungheresi, e di varie nazionalità jugoslave, sono stati definitivamente acclarati e condannati. Non è accettabile che lo Stato onori contemporaneamente le vittime di una bestiale pulizia etnica, come quella subita dai
giuliano-dalmati, e il persecutore che la mise in pratica». La seconda, invece, il 10 febbraio dello scorso anno, quando venne annunciata la decisione di figli e nipoti di vittime delle Foibe di non chiedere la medaglia commemorativa prevista dalla Legge istitutiva del Giorno del ricordo (Legge 92/04). «Finora le richieste di revoca della onorificenza a Tito sono rimaste senza risposta. E’ una cosa offensiva e indegna, è una situazione inaccettabile». Sul perché Napolitano non abbia mai risposto, rimane un mistero anche per il sindaco di Calalzo (Belluno), Luca de Carlo. Nel 2011, proprio come Lacota, scrisse una missiva al presidente della Repubblica, senza ricevere alcuna risposta, per sensibilizzarlo sulla questione riguardante vie e piazze intitolate al dittatore comunista: «Sarebbe un segnale fondamentale per ricomporre le tragedie della storia, se Lei decidesse di accogliere il comune sentire delle nostre genti ritirando le onorificenze a Tito (oltre che ai suoi colonnelli Ribicic e Rustja) e contestualmente disponendo la rimozione in tutto il Paese dei toponimi ad essi intitolati». Lo scorso anno de Carlo, supportato dall’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, è tornato alla carica, riuscendo a ricevere una risposta ufficiale dal Prefetto di Belluno. «Il Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Ufficio Cerimoniale di Stato e per le Onorificenze, interessato a sua volta per competenza dalla presidenza della Repubblica, ha rappresentato quanto segue (…) nel caso di Josip Broz Tito, insignito nel 1969 della distinzione di Cavaliere di Gran Cordone quale Presidente della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia in occasione di una visita di Stato non è ipotizzabile alcun provvedimento di revoca essendo il medesimo deceduto». Secondo quanto scritto nella missiva, datata 16 aprile 2013, la norma per la revoca dell’onorificenza «prevede che la persona oggetto dell’eventuale revoca debba essere preventivamente informata, onde poter presentare una memoria scritta a propria difesa. La possibilità di revocare l’onorificenza, pertanto, presuppone l’esistenza in vita dell’insignito».
Sconcertante, perché l’Italia ha fatto il contrario dell’Austria, dove le onorificenze ricevute in passato da Tito sono state revocate nonostante la morte del dittatore jugoslavo. E anche della Slovenia, dove il 3 ottobre 2011 la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’intitolazione di una strada di Lubiana a Josip Broz Tito, affermando che questo «avrebbe comportato la glorificazione del suo regime totalitario e la giustificazione delle gravi violazioni dei diritti dell’uomo da lui compiute».
Da noi, invece, la burocrazia, l’immobilismo della politica e il menefreghismo istituzionale, sono riusciti addirittura a preservare lo status quo (da benemerito) di un assassino. A tal punto che, per gli italiani, ricordare le Foibe è diventato quasi paradossale: è un po’ come se, a Gerusalemme, Hitler avesse un albero piantato nel Giardino dei giusti.
Fonte art.
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