Cosa farebbe fare un generale ai politici seduti in Parlamento? Li metterebbe tutti in fila. Testa alta, petto fuori e march! al lavoro per sciogliere i nodi che soffocano l’Italia. Così, Nicolò Manca, primo comandante sardo della Brigata Sassari oggi a riposo, dopo aver atteso per oltre un anno che il governo risolvesse il caso dei marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone arrestati in India, ha lanciato la sfida. La pazienza ha un limite, tanto più per un militare abituato a prendere decisioni anche difficili, spesso delicate, che si è sempre speso in prima persona per difendere i suoi uomini, come fossero figli suoi. Così ieri ha deciso di rispedire allo Stato le onorificenze di cavaliere, concessa da Cossiga nel 1989, e quella di commendatore che porta la firma di Ciampi, perchè «i governi che si fanno tenere in scacco, i politici che tergiversano per paura di cadere in disgrazia e che non hanno il coraggio delle proprie azioni» il generale, proprio non li sopporta.
«Non hanno coraggio nè orgoglio – sbotta Nicolò Manca – ma guardate il presidente del Consiglio Letta: ha appena scelto ministri, sottosegretari, e che fa? Va a nominare l’ambasciatore Staffan de Mistura suo inviato speciale presso il governo indiano. E il ministro della difesa che ha fatto? La prima scampagnata in Afghanistan anzichè andare in India dove sono agli arresti i suoi soldati. E cosa dire della magistratura indiana che limita i movimenti del nostro ambasciatore a New Delhi in violazione della Convenzione di Ginevra?»
Generale, lei che cosa avrebbe consigliato per risolvere il caso dei marò?
«Non hanno coraggio nè orgoglio – sbotta Nicolò Manca – ma guardate il presidente del Consiglio Letta: ha appena scelto ministri, sottosegretari, e che fa? Va a nominare l’ambasciatore Staffan de Mistura suo inviato speciale presso il governo indiano. E il ministro della difesa che ha fatto? La prima scampagnata in Afghanistan anzichè andare in India dove sono agli arresti i suoi soldati. E cosa dire della magistratura indiana che limita i movimenti del nostro ambasciatore a New Delhi in violazione della Convenzione di Ginevra?»
Generale, lei che cosa avrebbe consigliato per risolvere il caso dei marò?
«Siamo il quarto o quinto paese al mondo per spese e impegno militare nelle missioni di pace, abbiamo una credibilità elevatissima, come possiamo rinunciare a farci valere in una situazione come questa? La verità, forse, è che i nostri politici sono sempre impegnati in altro».
Sostiene che non c’è nulla di lineare, di comprensibile in tutta la vicenda.
«Di chiaro c’è solo un elemento: ogni giorno che passa accorciamo la vita ai due marò e ai loro familiari. Tutto il resto è nebuloso, come i permessi concessi ai militari. Ma quando mai, se davvero si è convinti che siano due assassini e che potrebbero essere condannati a morte? Una licenza si può ammettere per casi gravissimi, ma questi sono venuti in Italia, per venti giorni, per votare!»
Che cosa potrebbe dare una svolta.
«Una ferma presa di posizione da parte del Presidente della Repubblica che solleciti la volontà politica e la determinazione che andava dimostrata fin dall’inizio di non cedere ai ricatti degli indiani ricordando a New Delhi che potremmo irrigidirci sul fronte dell’accoglienza e della tolleranza elargita a quanti di loro vivono e fanno affari in Italia».
Sarebbe la prima volta che l’Italia adotta una politica di rigore come questa.
«Verissimo. Non sarebbe necessario se ci facessimo rispettare e ci comportassimo nei confronti dei nostri soldati come fanno gli altri Stati. Pensate agli americani, agli israeliani che vanno a riprendersi i loro uomini disposti allo scambio uno a cento. Tante volte, pensando ai due marò, mi chiedo che cosa pensino gli uomini e le donne della Brigata sapendo che potrebbero essere abbandonati, esattamente allo stesso modo. E vogliamo parlare del sistema degli indiani? Mentre erano in missione Onu in Congo un gruppo di loro soldati si è macchiato di crimini come lo stupro. Il governo di Delhi se li è riportati a casa per giudicarli. E allora, perchè noi non possiamo giudicare i nostri marò?»
Come tutelava i suoi uomini.
«Ogni volta che un superiore avrebbe voluto toccare un mio soldato ho detto no. E’ un mio uomo, colpite me, con il soldato me la vedo io. In un’occasione ho preso una posizione che poteva costarmi cara, ma lo rifarei. Il ministro Previti aveva ordinato di sciogliere la Brigata Sassari, perchè dieci parà erano stati accusati di alcuni reati (che poi risultò non avessero commesso), scordando però che in quella missione 100 uomini erano rimasti feriti e 17 erano morti. Mi opposi rispondendo “prima di sciogliere la Sassari dovreste mandare a casa questo governo dove più della metà dei rappresentanti è inquisito”. Il presidente della Camera era Bertinotti. In aula gridò “Un generale che parla così deve essere prima di tutto messo in galera”. Forse pensava di farmi paura! Quelli a cui mi riferivo erano accusati di peculato e corruzione. In ogni caso quelle parole mi disgustarono, in un attimo mi è passata davanti tutta la vita dedicata alla Brigata, 45 anni di impegno in dodici città, in otto regioni. Avevo 17 anni quando ho scelto di servire la patria, proprio così “Sa vida pro sa patria”. A 16 anni ho varcato per la prima volta la Nunziatella, ma a 8, quando mio padre è venuto a mancare, ho indossato la prima divisa, in collegio. Appena ho saputo che il Presidente Napolitano, alla sfilata del 2 Giugno, aveva ammesso solo un inno cantato, Dimonios, mi sono commosso».
Dimonios è una sua creatura…
«No, quando ho saputo che solo la Brigata non aveva un inno, il tenente colonnello Antonio Angius mi suggerì di rivolgermi al capitano Luciano Sechi che conosceva la musica. E’ lui il padre di Dimonios nato provando e riprovando con la chitarra e la pianola della figlia. Io mi sono limitato a farne stampare tremila copie e a suggerire “si dice incruga sa conca, che cosa è questo china su fronte?” Sechi mi guardò e disse: lasci perdere, lei non capisce di musica…»
Domanda d’obbligo: le missioni.
«Mamma mia, sono il mio cruccio. Ho partecipato solo ai Vespri, in Sicilia. A Herat sono stato con la delegazione di Cappellacci, ma avevo vicino due che si occupavano della mia sicurezza. Mi rendevo conto che ovunque si nascondeva un pericolo, ma mi sentivo a disagio. Io devo essere partecipe. Le faccio un esempio: se vedo un bullo, uno che per strada provoca, è prepotente, lo raggiungo per fargli capire che sta sbagliando. Lo so, nemmeno a 70 anni quel pizzico di balentia che mi porto dentro e che ho ereditato con il Dna, nascendo a Ortueri, va a riposo. Le ingiustizie, proprio non le sopporto. Per ciò, ridateci i marò».
Fonte art.
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