Mi ha fatto tenerezza la signora Daria Bignardi nel corpo a corpo con un deputato grillino, Alessandro Di Battista. Era in diretta su La7 per le sue Invasioni barbariche e tentava di mettere in difficoltà il grillino sul padre fascista. Deliziosa ingenuità quella di madamin Bignardi. Risultava chiaro che nessuno le aveva spiegato che per vent’anni, dal 1922 al 1943, tutti gli italiani sono stati fascisti, hanno adorato Benito Mussolini, gli hanno obbedito e si sono fatti accoppare per lui. Fino alla notte del 25 luglio, quando un gruppo di gerarchi, e non un’insurrezione popolare, mandò a gambe all’aria il Duce.
Nel mio piccolo, sono stato anch’io un fascista, essendo venuto al mondo il 1° ottobre 1935, in pieno regime mussoliniano. Il giorno successivo alla mia nascita, la sera del 2 ottobre, dal balcone di palazzo Venezia il Duce annunciò all’Italia di aver dichiarato guerra all’Etiopia. Per volere di Benito, il discorso venne trasmesso in tutto il Paese, nelle piazze dove milioni di persone stavano in religiosa attesa del suo verbo. Tra i tantissimi raccolti nella piazza principale della nostra città, doveva esserci anche mio padre Ernesto, operaio delle Poste con la mansione di guardafili del telegrafo. E in quanto dipendente statale precettato per l’adunata in onore dell’attacco al maledetto Negus, al secolo Hailè Selassiè. Però mio padre in piazza del Cavallo non ci andò. Gli era appena nato un figlio, il primo, e questo evento gli sembrava un motivo più che valido per restare accanto alla moglie, mia madre Giovanna. Devo ricordare che in quel tempo le donne partorivano in casa con l’assistenza di una levatrice, ossia di un’ostetrica. Così aveva fatto Giovanna, urlando un paio d’ore poiché ero grosso e lungo. E non volevo saperne di uscire dalla sua pancia. Il giorno successivo, era il 3 ottobre, due della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale si presentarono in casa nostra e chiesero a Ernesto perché mai non fosse andato anche lui in piazza ad ascoltare il Duce. Mio padre spiegò che gli era appena nato un figlio. «Maschio o femmina? », domandarono i militi. «Maschio», rispose Ernesto. E i militi, una coppia di bonaccioni in divisa e camicia nera, si congratularono: «Ottimo! Anche lui diventerà un soldato della Patria fascista». Mio padre gli offrì un bicchiere di Barbera che bevvero alla salute di mia madre e dell’inconsapevole sottoscritto, addormentato nella culla. E l’ispezione finì lì. A vestire la divisa di soldato del Duce non feci in tempo perché il regime cadde molto prima. In compenso, il 1° ottobre 1941, giorno del mio sesto compleanno, divenni un Figlio della lupa. Era il gradino iniziale della scala inventata per la gioventù del regime. A sette anni, in seconda elementare, si restava sempre Figli della Lupa. A otto si diventava Balilla. Si chiamava Balilla anche il giornaletto che leggevo, una specie di concorrente del Corrierino dei piccoli. Lì avevo imparato chi erano i nemici dell’Italia. Re Giorgetto d’Inghilterra. Il ministro Ciurcillone. Rusveltaccio Trottapiano, presidente americano, che ubbidisce alla signora, la terribile Eleonora. Ma i più pericolosi erano i russi che si ammazzavano tra di loro. Il terribile Stalino, l’Orco rosso del Cremlino, dice urlando come un pazzo alle guardie del palazzo: i compagni qui segnati siano tutti fucilati! Nell’estate del 1943, conclusa la seconda elementare, i miei genitori decisero di mandarmi alla colonia montana delle Regie Poste di Alessandria. Era un luogo triste, nascosto fra alture basse vicine a Biella, dove pioveva sempre. Le giornate si aprivano con l’alza bandiera e le preghiera del Balilla, recitata a turno da uno dei ragazzini: «Signore, benedici il Duce nostro nella grande fatica che Egli compie. E poiché l’hai donato all’Italia, fallo vivere a lungo per la Patria e fa’ che tutti siano degni di lui…». Ogni mattina, dopo il caffelatte, cominciava l’ora di dottrina fascista. Ed era l’unica vera attrazione della giornata. Il merito andava all’insegnante: una ragazzona maestosa, un trionfo di capelli rossi e un seno stupefacente, figlia del capostazione della nostra città. Era una cliente della modisteria di mia madre e aveva fatto impazzire il panettiere del negozio accanto. Quando andavo a comprare il pane, il fornaio mi domandava: «Le hai viste quelle tette? Darei mille lire per poterle pastrugnare! ». Ma la maggiorata dai capelli rossi non badava alle occhiate dei maschi, tanto meno alle nostre di ragazzini troppo arditi. E per tenerci a bada, escogitava ogni giorno una preghiera per il Duce. A me ne toccò una che recitava: «Gioventù italiana di tutte le scuole, prega che la Patria non manchi al suo radioso avvenire. Chiedi a Iddio che il ventesimo secolo veda Roma centro della civiltà latina, dominatrice del Mediterraneo, faro di luce per le genti del mondo». Un mese dopo, era la fine del luglio 1943, tutto sembrò sparire con la caduta del Duce. In piazza si videro molte manifestazioni di giubilo, ma la maggior parte della gente se ne restò a casa. La guerra iniziata nel 1940, e i tanti ragazzi morti su troppi fronti, stavano allontanando dal fascismo un numero sempre più grande di italiani. Ma nessuno aveva il coraggio di riconoscere di essere stato un fascista senza pentimento. E di aver sostenuto con entusiasmo un regime che adesso ci aveva portato al disastro. Il nostro fascismo esistenziale lo si constatò sino in fondo in due momenti terribili che confermarono la natura crudele della dittatura di Mussolini. Il primo, nel 1938, fu il varo delle leggi razziali contro gli ebrei. Il secondo l’inizio delle deportazioni nei campi di sterminio nazisti di migliaia di israeliti, quando l’Italia del centro e del nord stava sotto la Repubblica sociale, un regime sostenuto dai tedeschi. Mi rammento bene quel che accadde in quei momenti. Per il motivo che non accadde nulla. Nella mia piccola città, gli ebrei perseguitati e poi uccisi nelle camere a gas li conoscevamo tutti. Erano nostri vicini di casa, insegnanti nelle nostre scuole, medici che ci avevano curato, clienti della modisteria di mia madre. Ma nessuno aprì bocca. Pochi li compatirono. Pochissimi gli offrirono un aiuto. Quando ci ripenso oggi, mi rendo conto di una verità terribile. Pure in casa mia, dove ogni sera si discuteva di tutto, della guerra, del fascismo, di Mussolini e dei suoi gerarchi, della Repubblica sociale e dei tedeschi, nessuno disse anche una sola parola sulla fine di persone identiche a noi. E mi domando se, insieme al nostro fascismo mentale, dentro il cuore di ciascuno non si celasse il mostro dell’indifferenza disumana, della cattiveria, della ferocia. Per tutto questo mi sembra grottesco che nell’Italia del 2014 qualcuno chieda a qualcun altro: tuo padre era fascista, tuo nonno portava la camicia nera? La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo. Oggi la mia speranza è che lo sfacelo della nostra classe politica non metta in pista qualche nuovo signore autoritario che ci obblighi a innalzare la bandiera voluta da lui. Il colore non importa. Però mi domando quanti accetterebbero di sventolarla. E temo che anche stavolta non sarebbero pochi. Giampaolo Pansa
Nel mio piccolo, sono stato anch’io un fascista, essendo venuto al mondo il 1° ottobre 1935, in pieno regime mussoliniano. Il giorno successivo alla mia nascita, la sera del 2 ottobre, dal balcone di palazzo Venezia il Duce annunciò all’Italia di aver dichiarato guerra all’Etiopia. Per volere di Benito, il discorso venne trasmesso in tutto il Paese, nelle piazze dove milioni di persone stavano in religiosa attesa del suo verbo. Tra i tantissimi raccolti nella piazza principale della nostra città, doveva esserci anche mio padre Ernesto, operaio delle Poste con la mansione di guardafili del telegrafo. E in quanto dipendente statale precettato per l’adunata in onore dell’attacco al maledetto Negus, al secolo Hailè Selassiè. Però mio padre in piazza del Cavallo non ci andò. Gli era appena nato un figlio, il primo, e questo evento gli sembrava un motivo più che valido per restare accanto alla moglie, mia madre Giovanna. Devo ricordare che in quel tempo le donne partorivano in casa con l’assistenza di una levatrice, ossia di un’ostetrica. Così aveva fatto Giovanna, urlando un paio d’ore poiché ero grosso e lungo. E non volevo saperne di uscire dalla sua pancia. Il giorno successivo, era il 3 ottobre, due della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale si presentarono in casa nostra e chiesero a Ernesto perché mai non fosse andato anche lui in piazza ad ascoltare il Duce. Mio padre spiegò che gli era appena nato un figlio. «Maschio o femmina? », domandarono i militi. «Maschio», rispose Ernesto. E i militi, una coppia di bonaccioni in divisa e camicia nera, si congratularono: «Ottimo! Anche lui diventerà un soldato della Patria fascista». Mio padre gli offrì un bicchiere di Barbera che bevvero alla salute di mia madre e dell’inconsapevole sottoscritto, addormentato nella culla. E l’ispezione finì lì. A vestire la divisa di soldato del Duce non feci in tempo perché il regime cadde molto prima. In compenso, il 1° ottobre 1941, giorno del mio sesto compleanno, divenni un Figlio della lupa. Era il gradino iniziale della scala inventata per la gioventù del regime. A sette anni, in seconda elementare, si restava sempre Figli della Lupa. A otto si diventava Balilla. Si chiamava Balilla anche il giornaletto che leggevo, una specie di concorrente del Corrierino dei piccoli. Lì avevo imparato chi erano i nemici dell’Italia. Re Giorgetto d’Inghilterra. Il ministro Ciurcillone. Rusveltaccio Trottapiano, presidente americano, che ubbidisce alla signora, la terribile Eleonora. Ma i più pericolosi erano i russi che si ammazzavano tra di loro. Il terribile Stalino, l’Orco rosso del Cremlino, dice urlando come un pazzo alle guardie del palazzo: i compagni qui segnati siano tutti fucilati! Nell’estate del 1943, conclusa la seconda elementare, i miei genitori decisero di mandarmi alla colonia montana delle Regie Poste di Alessandria. Era un luogo triste, nascosto fra alture basse vicine a Biella, dove pioveva sempre. Le giornate si aprivano con l’alza bandiera e le preghiera del Balilla, recitata a turno da uno dei ragazzini: «Signore, benedici il Duce nostro nella grande fatica che Egli compie. E poiché l’hai donato all’Italia, fallo vivere a lungo per la Patria e fa’ che tutti siano degni di lui…». Ogni mattina, dopo il caffelatte, cominciava l’ora di dottrina fascista. Ed era l’unica vera attrazione della giornata. Il merito andava all’insegnante: una ragazzona maestosa, un trionfo di capelli rossi e un seno stupefacente, figlia del capostazione della nostra città. Era una cliente della modisteria di mia madre e aveva fatto impazzire il panettiere del negozio accanto. Quando andavo a comprare il pane, il fornaio mi domandava: «Le hai viste quelle tette? Darei mille lire per poterle pastrugnare! ». Ma la maggiorata dai capelli rossi non badava alle occhiate dei maschi, tanto meno alle nostre di ragazzini troppo arditi. E per tenerci a bada, escogitava ogni giorno una preghiera per il Duce. A me ne toccò una che recitava: «Gioventù italiana di tutte le scuole, prega che la Patria non manchi al suo radioso avvenire. Chiedi a Iddio che il ventesimo secolo veda Roma centro della civiltà latina, dominatrice del Mediterraneo, faro di luce per le genti del mondo». Un mese dopo, era la fine del luglio 1943, tutto sembrò sparire con la caduta del Duce. In piazza si videro molte manifestazioni di giubilo, ma la maggior parte della gente se ne restò a casa. La guerra iniziata nel 1940, e i tanti ragazzi morti su troppi fronti, stavano allontanando dal fascismo un numero sempre più grande di italiani. Ma nessuno aveva il coraggio di riconoscere di essere stato un fascista senza pentimento. E di aver sostenuto con entusiasmo un regime che adesso ci aveva portato al disastro. Il nostro fascismo esistenziale lo si constatò sino in fondo in due momenti terribili che confermarono la natura crudele della dittatura di Mussolini. Il primo, nel 1938, fu il varo delle leggi razziali contro gli ebrei. Il secondo l’inizio delle deportazioni nei campi di sterminio nazisti di migliaia di israeliti, quando l’Italia del centro e del nord stava sotto la Repubblica sociale, un regime sostenuto dai tedeschi. Mi rammento bene quel che accadde in quei momenti. Per il motivo che non accadde nulla. Nella mia piccola città, gli ebrei perseguitati e poi uccisi nelle camere a gas li conoscevamo tutti. Erano nostri vicini di casa, insegnanti nelle nostre scuole, medici che ci avevano curato, clienti della modisteria di mia madre. Ma nessuno aprì bocca. Pochi li compatirono. Pochissimi gli offrirono un aiuto. Quando ci ripenso oggi, mi rendo conto di una verità terribile. Pure in casa mia, dove ogni sera si discuteva di tutto, della guerra, del fascismo, di Mussolini e dei suoi gerarchi, della Repubblica sociale e dei tedeschi, nessuno disse anche una sola parola sulla fine di persone identiche a noi. E mi domando se, insieme al nostro fascismo mentale, dentro il cuore di ciascuno non si celasse il mostro dell’indifferenza disumana, della cattiveria, della ferocia. Per tutto questo mi sembra grottesco che nell’Italia del 2014 qualcuno chieda a qualcun altro: tuo padre era fascista, tuo nonno portava la camicia nera? La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo. Oggi la mia speranza è che lo sfacelo della nostra classe politica non metta in pista qualche nuovo signore autoritario che ci obblighi a innalzare la bandiera voluta da lui. Il colore non importa. Però mi domando quanti accetterebbero di sventolarla. E temo che anche stavolta non sarebbero pochi. Giampaolo Pansa
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