mercoledì 12 febbraio 2014

Stalin e i lager nazisti tenuti aperti per punire i suoi nemici .


Di Eugenio Cipolla.


Solo chi non ha voluto vedere per ignoranza o partito preso ciò che il comunismo ha prodotto nel mondo, sarà sempre convinto che gli “altri ” siano solo calunniatori.

«Fu una lotta terribile nel corso della quale ho dovuto distruggere 10 milioni di vite. Fu qualcosa di spaventoso. Durò quattro anni. Fu assolutamente necessario». Negli anni quaranta Josif Stalin cercò di spiegare così a Winston Churchill gli orrori dell’Holodomor, la carestia ucraina che tra la fine degli anni ’20 e gli inizi degli anni ’30 provocò quasi il doppio dei morti dell’olocausto nazista.
Racconta lo storico di Cambridge Simon Sebag Montefiore, nella sua imponente opera storico-letteraria “Gli uomini di Stalin”, che il dittatore sovietico arrivò a considerare quel periodo il più duro della sua vita, addirittura ancor di più dell’invasione nazista. Che sia vero o falso, ovviamente poco importa. Perché c’è qualcosa che conta di più in questa vicenda e sono quei dieci milioni di morti dimenticati da una storia infame, che ti ricorda eternamente se sei dalla parte dei vincitori, ma che ti condanna all’oblio se sei dalla parte dei vinti. Sulle ombre di Stalin e gli orrori del comunismo abbiamo detto e scritto tanto, ma non tutto, perlomeno non quanto si doveva realmente per rendere onore a quelle vite spezzate da un’ideologia folle come quella comunista. Quasi settant’anni dopo la loro fine, infatti, delle atroci naziste commesse su ebrei, omosessuali, zingari e disabili, conosciamo tutto nei minimi particolari, mentre sugli orrori del comunismo continua a mantenersi un velo d’ipocrisia e menefreghismo semplicemente agghiacciante. Come se ci fossero morti di serie A e morti di serie B (e non sono solo le vittime dell’Holodomor ad aver subito questo trattamento. Si pensi ai martiri delle foibe). In pochi ad esempio sanno che dopo la fine della fine della guerra Stalin tenne in funzione i lager nazisti di Dachau, Buchenwald e Sachsenhausen per punire nemici e prigionieri, eliminando solo le camere e gas, ma non di certo i deportati, i soprusi e i morti. Il primo, e forse anche l’ultimo a parlarne è stato Albert K. Herling in un volumetto pubblicato dalla Garzanti nel 1953, dal titolo piuttosto eloquente:”L’impero schiavista dei Soviet”. Herling, fu incaricato dalla commissione d’inchiesta sul lavoro forzato, istituita dagli Alleati nel dopoguerra, di compiere una ricerca sul tema. Ne venne fuori un quadro spaventoso. Secondo un elenco fornito a Herling da Rainer Hildebrandt, un tedesco anticomunista e direttore del Gruppo di combattimento contro le crudeltà, dalla fine della guerra fino al 1950, in tredici diversi campi di concentramento dell’ex Germania nazista gestiti dall’Urss, morirono circa 100.000 prigionieri del regime comunista (su oltre 250.000 tra quelli transitati). La gestione di questi lager fu affidata a veri e propri “professionisti” del settore: ex nazisti. Alcuni sopravvissuti hanno raccontato i supplizi e le atrocità subiti all’interno di quei campi della morte. C’era, ad esempio, chi veniva costretto a stare in piedi in celle di quarantacinque centimetri di lato dopo aver bevuto due litri di tè, così da essere presto sommerso dai propri escrementi. Tutto questo mentre i morti, almeno una cinquantina al giorno, venivano caricati su camion, nudi e senza alcun segno di identificazione, e scaricati in fosse comuni scavate all’interno dei boschi circostanti i lager. Eppure in tutti questi anni nessuno si è mai impegnato nel ricordare questi morti. Anzi, per anni ci hanno fatto credere che le crudeltà del regime comunista fossero solo invenzione della propaganda fascista, di sporchi calunniatori che avevano come fine quello di ostacolare la costruzione del primo Stato socialista. Non fu così, non è così, non sarà così.

http://www.qelsi.it 
Fonte art.  

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