Un articolo che pone in risalto e per bene come scrivere una biografia seria...in questo caso su Alessandro Pavolini.
Ricordo che circolano libri dai titoli allucinanti , tipo "Lupo vigliacco", sulla figura di Farinacci....che se poi si de...sse dei "lupi vigliacchi" ai branchi resistenziali, ci si vedrebbe messi all'indice...invece sul male assoluto è lecito scrivere tutto....
Ricordo che circolano libri dai titoli allucinanti , tipo "Lupo vigliacco", sulla figura di Farinacci....che se poi si de...sse dei "lupi vigliacchi" ai branchi resistenziali, ci si vedrebbe messi all'indice...invece sul male assoluto è lecito scrivere tutto....
Alessandro Pavolini e le bufale storiografiche
Il genere storico della biografia, in Italia, dove si legge poco a male, è da sempre l’unico in grado di assicurare vendite accettabili. La biografia avvince ben più del saggio, si avvicina al romanzo, è insomma appetibile. Non così quando si tratta di brutte biografie, tirate giù alla meglio e compromesse da giudizi senza capo né coda. Succede, con la recente biografia di Alessandro Pavolini, compilata dal giovane Giovanni Teodori per le edizioni Castelvecchi e sottotitolata La vita, le imprese e la morte dell’uomo che inventò la propaganda fascista, che veniamo più spesso informati sulle opinioni dell’autore che non su quelle del personaggio storico.
Pavolini, di famiglia altolocata, figlio del celebre filologo Paolo Emilio, giovane dinamico conosciuto come uomo di cultura, due lauree (in legge e scienze politiche), giornalista e prosatore brillante, di formazione moderna, dinamico promotore di importanti e tuttora fiorenti iniziative culturali, poi uomo politico del tutto atipico per l’Italia, cioè coerente e disinteressato, questo Pavolini viene più che altro ricordato per la sua direzione del Partito Fascista Repubblicano durante la RSI, e pertanto sempre bollato con le obbligatorie stigmate del “fanatico”. Del resto in Italia, lo sappiamo, siamo soliti dare del “fanatico” a chiunque faccia seguire i fatti alle parole con coerenza e non si adatti al generale servilismo. “Fanatico”, dunque, certo: poiché non fece come la maggioranza dei non fanatici, che offrirono al mondo lo spettacolo indegno di tradire in ventiquattr’ore i proclami di una vita. E “fanatico”, ed anche “invasato”, ovviamente Teodori chiama il Pavolini che scelse di stare con Mussolini anche dopo l’8 settembre. Dunque, tale appellativo noi lo possiamo considerare un sinonimo di onore e di fedeltà, merce rara presso un popolo le cui classi dirigenti hanno spesso vissuto l’etica dell’astuzia levantina e della fregatura del prossimo come scuola di vita.
Diciamo subito che la biografia stesa da Teodori, che pure si avvale di una discreta antologia di passi di articoli di Pavolini, specialmente dal Corriere della Sera e dal Messaggero, è più ancora deludente di quella ormai storica di Arrigo Petacco (Pavolini, l’ultima raffica di Salò, pubblicata da Mondadori nel 1982 e poi riedita nel 1999 col titolo Pavolini, il superfascista), che almeno apparteneva a quel dignitoso filone di storiografia giornalistica che ebbe in Montanelli, in Cervi, in Monelli, in Bandini e nello stesso Petacco delle firme illustri.
Il libro di Teodori nulla aggiunge a quanto già ampiamente noto ad ogni lettore medio, né propone nuove letture o interpretazioni, tantomeno si addentra con qualche spessore analitico in problematiche di carattere politico: pensiamo all’ideologia nazionalista di formazione, oppure al tipo di squadrismo frequentato dal giovane fiorentino, o magari ad altri argomenti come i rapporti col Partito, la vera natura dell’amicizia con Ciano, le dinamiche di potere, la concezione della guerra rivoluzionaria, le motivazioni di fondo della fedeltà a Mussolini nel 1943, il socialismo nazionale del periodo di Salò, etc. Nulla di tutto ciò è perlustrato come si dovrebbe a proposito di un uomo politico che ha segnato a fondo la storia italiana della prima metà del Novecento. Cosa che invece è stata fatta da uno dei pochi che si sono interessati in maniera approfondita della complessa personalità e della concezione del mondo del fondatore de “Il Bargello”, segnatamente nel suo ruolo di segretario del PFR: alludiamo a Massimiliano Soldani, autore di un ottimo L’ultimo poeta armato, pubblicato dalla Società Editrice Barbarossa nel 1999.
Il libro di Teodori delude perché vive ancora di sentiti dire e di giudizi tranciati a priori, perché si nutre di falsi obsoleti e di grossi sbagli storiografici, sfoderando anche alcune memorabili sciocchezze. Una per tutte: «In Pavolini c’è tutto il dramma della pochezza e provincialità della borghesia italiana…L’unica modernità del fascismo erano i mezzi di comunicazione di massa…un’enorme impalcatura di cartapesta e di celluloide che doveva nascondere il vuoto, cioè l’assenza di reale progresso, di reale sviluppo, di reale ruolo politico internazionale».
Noi affermiamo invece che il dramma è tutto nella piramidale ignoranza di certi “storici” di maniera e d’occasione, che non comprendono ciò di cui scrivono né sono informati sul giudizio storiografico e sul dibattito internazionale in corso. Pavolini “da poco” e “provinciale”? Invitiamo il giovane e ignaro pseudo-storico a misurare la provenienza familiare di Pavolini (come detto suo padre era un’autorità mondiale in campo filologico e la sua famiglia una delle più in vista della Firenze dell’epoca) e le sue due lauree con il grado di acculturazione dell’attuale classe dirigente liberale italiana – veline, piazzisti, lenoni, portaborse, puttane che affollano il nostro Parlamento – notoriamente formata da semicolti o incolti totali.
Il “provincialismo” di Pavolini lo si misura bene dal fatto che faceva scrivere su “Il Bargello” personaggi come Pratolini, Bilenchi e Vittorini, lanciati sul piano nazionale proprio dal giovane federale che di Firenze fece la capitale culturale italiana, prima di diventare, nel 1939, titolare del Ministero della Cultura Popolare. I legami con Maccari, Cardarelli, Berto Ricci, Rosai, Soffici, Longanesi, la sinergia con il vasto ambiente fiorentino delle riviste (durante il Fascismo a Firenze si pubblicavano, scusate se è poco, “La Voce” di Prezzolini, “Solaria” di Montale e Bacchelli, “Il Frontespizio” di Bargellini, Fallacara e Papini, “Il Selvaggio” di Maccari con Soffici, “L’Universale” di Ricci e Montanelli, poi “Campo di Marte” di Enrico Vallecchi con Gatto e Pratolini, etc.) e con quello dell’editoria, che proprio nella Firenze di Pavolini conobbe il suo periodo d’oro con Vallecchi, Sansoni, Bemporad, Nerbini (quella che nel ’32 pubblicò il primo numero di “Topolino”), La Nuova Italia, Le Monnier, etc. Ricordiamo tra parentesi l’importante convegno del ’37, tenuto a Firenze da Alfieri (titolare del Minculpop) e da Ciarlantini per il potenziamento statale alla diffusione del libro: in proposito si legga lo studio di Gabriele Turi sulla Storia dell’editoria (Giunti, 1997), che parla proprio del ruolo modernizzatore del Fascismo nel campo editoriale.
Sempre a proposito del “provincialismo” di Pavolini bisogna ricordare che fu lui a istituire nel ’34 i Littoriali della Cultura (ai quali, com’è a tutti noto, partecipò in massa l’intera classe culturale del post-fascismo), che fu lui nel ’33 a fondare il Maggio Musicale Fiorentino, cioè una delle rassegne musicali più importanti del mondo, e che fu sempre lui a istituire l’annuale Mostra dell’Artigianato, che richiamava a Firenze i manufatti e le aziende artigianali ed artistiche da ogni parte d’Italia e del mondo. Oggi Firenze, città in declino e che ha perduto il primato nazionale dell’editoria e dell’alta moda a vantaggio di Milano, vive a livello internazionale essenzialmente di due manifestazioni, per l’appunto il Maggio e la Mostra artigianale, entrambi frutti del dinamismo di Pavolini, che ottant’anni fa dette vita a iniziative che ancora oggi sono il fiore all’occhiello delle amministrazioni di “sinistra” e che richiamano l’attenzione di una massa internazionale di visitatori colti. Lo stesso “provinciale” Pavolini, in quegli anni, fu il protagonista della rinascita economica e architettonica di Firenze, che ebbe luogo anche per suo impulso. Lo stadio e la stazione ferroviaria di Nervi – risalenti al 1935 – oggi dichiarati monumenti nazionali, stanno ancora oggi a documentare il “provincialismo” tanto di Pavolini che del Fascismo, e infatti sono studiati in tutti i testi scientifici del mondo come esempi massimi del tipico stile novecentesco “razionalista”, che come si sa fu lo stile architettonico fascista.
Sempre sul tema del “provincialismo” di Pavolini, vogliamo ricordare che fu grazie a lui che si ebbe in tutta Italia un risveglio dell’artigianato di qualità: scuole, corsi, accademie, promozioni, concorsi, incentivi per l’apertura di botteghe di vendita e apprendistato, costituirono il tessuto di un’idea che solo oggi si riconosce come straordinariamente valida e attuale: quella di rilanciare le arti manuali delle antiche corporazioni di mestiere, che avevano fatto di Firenze la capitale mondiale dell’alto artigianato, e che Pavolini concepì come primato economico e culturale schiettamente italiano, e in particolare fiorentino. Segnaliamo che quanto rimane della Firenze artigiana rilanciata negli anni Trenta da Pavolini è oggi il fulcro di un movimento internazionale di migliaia di giovani studiosi d’arte, artigiani, restauratori, ebanisti, etc., che dal Giappone, dagli USA, da ogni angolo d’Europa vengono a studiare ciò che Pavolini pose al centro della sua idea di nuova socialità tradizionale e al tempo stesso moderna: l’artigianato di classe, da opporsi al serialismo dozzinale all’americana, quello sì provinciale e di cattivo gusto.
Quanto alla modernità, che l’incauto giovane pseudo-storico Teodori nega al Fascismo…beh, gli consigliamo di darsi agli studi di De Bernardi (ad es. sul concetto di “dittatura moderna di sviluppo”), di Emilio Gentile sulla “modernità totalitaria”, oppure di Roger Griffin, magari le cinquecento pagine del suo Modernism and Fascism, pubblicato nel 2007 da Palgrave Macmillan e mai tradotto in italiano: ne ricaverà che accreditare il Fascismo di «assenza di reale progresso, di reale sviluppo» equivale ad affermare la più solenne delle stupidaggini, non proponibile in sede storiografica, la verità essendo che il Fascismo fu un formidabile strumento di modernizzazione della società italiana in ogni suo aspetto, dal sociale al culturale, ciò che fece dell’Italia (ad es. in campo artistico con il “secondo Futurismo”, De Chirico, Sironi, etc.) un polo di attrazione internazionale quale non era dal Rinascimento.
Quanto all’assenza – dice sempre il malcapitato Teodori – di «reale ruolo politico internazionale» del Fascismo, che avrebbe prodotto in Pavolini la pochezza di una concezione politica basata sul bluff, si rimarca con estrema facilità che il ruolo politico internazionale di primo piano dell’Italia negli anni del Fascismo veniva affermato non da Mussolini o da Pavolini in base ad una loro megalomane fissazione, ma dagli stessi statisti stranieri: a Monaco, nel settembre 1938, per dire di un solo esempio, Mussolini andò perché invitatovi dalla comunità politica internazionale dell’epoca, e invitatovi nel preciso ruolo di arbitro superiore alle parti, in grado, per prestigio internazionale e per ruolo politico riconosciuto, di comporre un dissidio di gravità planetaria: Mussolini per tale venne considerato, e l’Italia era non alla periferia, ma al centro della politica mondiale.
Sollecitiamo Teodori ad esporre ai nostri lettori un caso equipollente in cui un capo di governo italiano, nei decenni che vanno dal 1945 ad oggi, abbia ricoperto un ruolo non diciamo simile, ma appena paragonabile. L’Italia di Mussolini, piaccia o non piaccia a Teodori, aveva un peso internazionale di prima grandezza, unanimemente riconosciuto da Chamberlain, da Churchill, da Roosevelt, da Stalin in persona: in proposito esiste tutta una letteratura storiografica. Tale peso era di fatto largamente superiore a quello reale, certo, in quanto la potenza economica e industriale italiana non era paragonabile a quelle di altre nazioni. Tanto maggior merito, dunque, ad una classe politica che, al vertice di uno Stato debole per strutture militari e industriali, nondimeno lo tenne per parecchi anni al livello delle maggiori potenze del mondo grazie a capacità, prestigio personale, abilità diplomatica e temuto decisionismo politico.
Concludiamo queste brevi note affermando che dispiace che fra le giovani generazioni che si misurano con problemi di storia si trovino ancora casi così avvilenti di mancanza di semplice acculturazione e di supina accettazione di cliché propagandistici d’altri tempi. Ma è bene che questi rigurgiti di incultura, veicolati da pubblicazioni ad alta tiratura, vengano comunque segnalati. Il nipote di Alessandro Pavolini, Lorenzo, nel suo recente libro intitolato Accanto alla tigre (Edizioni Fandango) ha parlato dell’onestà ideale di suo nonno, della sua morte da eroe e della serietà che metteva in ogni sua azione e in ogni suo pensiero. Imparasse Teodori – e tutti i dilettanti come lui – proprio da Pavolini che cosa significa fare le cose con serietà.
Luca Leonello Rimbotti
Il genere storico della biografia, in Italia, dove si legge poco a male, è da sempre l’unico in grado di assicurare vendite accettabili. La biografia avvince ben più del saggio, si avvicina al romanzo, è insomma appetibile. Non così quando si tratta di brutte biografie, tirate giù alla meglio e compromesse da giudizi senza capo né coda. Succede, con la recente biografia di Alessandro Pavolini, compilata dal giovane Giovanni Teodori per le edizioni Castelvecchi e sottotitolata La vita, le imprese e la morte dell’uomo che inventò la propaganda fascista, che veniamo più spesso informati sulle opinioni dell’autore che non su quelle del personaggio storico.
Pavolini, di famiglia altolocata, figlio del celebre filologo Paolo Emilio, giovane dinamico conosciuto come uomo di cultura, due lauree (in legge e scienze politiche), giornalista e prosatore brillante, di formazione moderna, dinamico promotore di importanti e tuttora fiorenti iniziative culturali, poi uomo politico del tutto atipico per l’Italia, cioè coerente e disinteressato, questo Pavolini viene più che altro ricordato per la sua direzione del Partito Fascista Repubblicano durante la RSI, e pertanto sempre bollato con le obbligatorie stigmate del “fanatico”. Del resto in Italia, lo sappiamo, siamo soliti dare del “fanatico” a chiunque faccia seguire i fatti alle parole con coerenza e non si adatti al generale servilismo. “Fanatico”, dunque, certo: poiché non fece come la maggioranza dei non fanatici, che offrirono al mondo lo spettacolo indegno di tradire in ventiquattr’ore i proclami di una vita. E “fanatico”, ed anche “invasato”, ovviamente Teodori chiama il Pavolini che scelse di stare con Mussolini anche dopo l’8 settembre. Dunque, tale appellativo noi lo possiamo considerare un sinonimo di onore e di fedeltà, merce rara presso un popolo le cui classi dirigenti hanno spesso vissuto l’etica dell’astuzia levantina e della fregatura del prossimo come scuola di vita.
Diciamo subito che la biografia stesa da Teodori, che pure si avvale di una discreta antologia di passi di articoli di Pavolini, specialmente dal Corriere della Sera e dal Messaggero, è più ancora deludente di quella ormai storica di Arrigo Petacco (Pavolini, l’ultima raffica di Salò, pubblicata da Mondadori nel 1982 e poi riedita nel 1999 col titolo Pavolini, il superfascista), che almeno apparteneva a quel dignitoso filone di storiografia giornalistica che ebbe in Montanelli, in Cervi, in Monelli, in Bandini e nello stesso Petacco delle firme illustri.
Il libro di Teodori nulla aggiunge a quanto già ampiamente noto ad ogni lettore medio, né propone nuove letture o interpretazioni, tantomeno si addentra con qualche spessore analitico in problematiche di carattere politico: pensiamo all’ideologia nazionalista di formazione, oppure al tipo di squadrismo frequentato dal giovane fiorentino, o magari ad altri argomenti come i rapporti col Partito, la vera natura dell’amicizia con Ciano, le dinamiche di potere, la concezione della guerra rivoluzionaria, le motivazioni di fondo della fedeltà a Mussolini nel 1943, il socialismo nazionale del periodo di Salò, etc. Nulla di tutto ciò è perlustrato come si dovrebbe a proposito di un uomo politico che ha segnato a fondo la storia italiana della prima metà del Novecento. Cosa che invece è stata fatta da uno dei pochi che si sono interessati in maniera approfondita della complessa personalità e della concezione del mondo del fondatore de “Il Bargello”, segnatamente nel suo ruolo di segretario del PFR: alludiamo a Massimiliano Soldani, autore di un ottimo L’ultimo poeta armato, pubblicato dalla Società Editrice Barbarossa nel 1999.
Il libro di Teodori delude perché vive ancora di sentiti dire e di giudizi tranciati a priori, perché si nutre di falsi obsoleti e di grossi sbagli storiografici, sfoderando anche alcune memorabili sciocchezze. Una per tutte: «In Pavolini c’è tutto il dramma della pochezza e provincialità della borghesia italiana…L’unica modernità del fascismo erano i mezzi di comunicazione di massa…un’enorme impalcatura di cartapesta e di celluloide che doveva nascondere il vuoto, cioè l’assenza di reale progresso, di reale sviluppo, di reale ruolo politico internazionale».
Noi affermiamo invece che il dramma è tutto nella piramidale ignoranza di certi “storici” di maniera e d’occasione, che non comprendono ciò di cui scrivono né sono informati sul giudizio storiografico e sul dibattito internazionale in corso. Pavolini “da poco” e “provinciale”? Invitiamo il giovane e ignaro pseudo-storico a misurare la provenienza familiare di Pavolini (come detto suo padre era un’autorità mondiale in campo filologico e la sua famiglia una delle più in vista della Firenze dell’epoca) e le sue due lauree con il grado di acculturazione dell’attuale classe dirigente liberale italiana – veline, piazzisti, lenoni, portaborse, puttane che affollano il nostro Parlamento – notoriamente formata da semicolti o incolti totali.
Il “provincialismo” di Pavolini lo si misura bene dal fatto che faceva scrivere su “Il Bargello” personaggi come Pratolini, Bilenchi e Vittorini, lanciati sul piano nazionale proprio dal giovane federale che di Firenze fece la capitale culturale italiana, prima di diventare, nel 1939, titolare del Ministero della Cultura Popolare. I legami con Maccari, Cardarelli, Berto Ricci, Rosai, Soffici, Longanesi, la sinergia con il vasto ambiente fiorentino delle riviste (durante il Fascismo a Firenze si pubblicavano, scusate se è poco, “La Voce” di Prezzolini, “Solaria” di Montale e Bacchelli, “Il Frontespizio” di Bargellini, Fallacara e Papini, “Il Selvaggio” di Maccari con Soffici, “L’Universale” di Ricci e Montanelli, poi “Campo di Marte” di Enrico Vallecchi con Gatto e Pratolini, etc.) e con quello dell’editoria, che proprio nella Firenze di Pavolini conobbe il suo periodo d’oro con Vallecchi, Sansoni, Bemporad, Nerbini (quella che nel ’32 pubblicò il primo numero di “Topolino”), La Nuova Italia, Le Monnier, etc. Ricordiamo tra parentesi l’importante convegno del ’37, tenuto a Firenze da Alfieri (titolare del Minculpop) e da Ciarlantini per il potenziamento statale alla diffusione del libro: in proposito si legga lo studio di Gabriele Turi sulla Storia dell’editoria (Giunti, 1997), che parla proprio del ruolo modernizzatore del Fascismo nel campo editoriale.
Sempre a proposito del “provincialismo” di Pavolini bisogna ricordare che fu lui a istituire nel ’34 i Littoriali della Cultura (ai quali, com’è a tutti noto, partecipò in massa l’intera classe culturale del post-fascismo), che fu lui nel ’33 a fondare il Maggio Musicale Fiorentino, cioè una delle rassegne musicali più importanti del mondo, e che fu sempre lui a istituire l’annuale Mostra dell’Artigianato, che richiamava a Firenze i manufatti e le aziende artigianali ed artistiche da ogni parte d’Italia e del mondo. Oggi Firenze, città in declino e che ha perduto il primato nazionale dell’editoria e dell’alta moda a vantaggio di Milano, vive a livello internazionale essenzialmente di due manifestazioni, per l’appunto il Maggio e la Mostra artigianale, entrambi frutti del dinamismo di Pavolini, che ottant’anni fa dette vita a iniziative che ancora oggi sono il fiore all’occhiello delle amministrazioni di “sinistra” e che richiamano l’attenzione di una massa internazionale di visitatori colti. Lo stesso “provinciale” Pavolini, in quegli anni, fu il protagonista della rinascita economica e architettonica di Firenze, che ebbe luogo anche per suo impulso. Lo stadio e la stazione ferroviaria di Nervi – risalenti al 1935 – oggi dichiarati monumenti nazionali, stanno ancora oggi a documentare il “provincialismo” tanto di Pavolini che del Fascismo, e infatti sono studiati in tutti i testi scientifici del mondo come esempi massimi del tipico stile novecentesco “razionalista”, che come si sa fu lo stile architettonico fascista.
Sempre sul tema del “provincialismo” di Pavolini, vogliamo ricordare che fu grazie a lui che si ebbe in tutta Italia un risveglio dell’artigianato di qualità: scuole, corsi, accademie, promozioni, concorsi, incentivi per l’apertura di botteghe di vendita e apprendistato, costituirono il tessuto di un’idea che solo oggi si riconosce come straordinariamente valida e attuale: quella di rilanciare le arti manuali delle antiche corporazioni di mestiere, che avevano fatto di Firenze la capitale mondiale dell’alto artigianato, e che Pavolini concepì come primato economico e culturale schiettamente italiano, e in particolare fiorentino. Segnaliamo che quanto rimane della Firenze artigiana rilanciata negli anni Trenta da Pavolini è oggi il fulcro di un movimento internazionale di migliaia di giovani studiosi d’arte, artigiani, restauratori, ebanisti, etc., che dal Giappone, dagli USA, da ogni angolo d’Europa vengono a studiare ciò che Pavolini pose al centro della sua idea di nuova socialità tradizionale e al tempo stesso moderna: l’artigianato di classe, da opporsi al serialismo dozzinale all’americana, quello sì provinciale e di cattivo gusto.
Quanto alla modernità, che l’incauto giovane pseudo-storico Teodori nega al Fascismo…beh, gli consigliamo di darsi agli studi di De Bernardi (ad es. sul concetto di “dittatura moderna di sviluppo”), di Emilio Gentile sulla “modernità totalitaria”, oppure di Roger Griffin, magari le cinquecento pagine del suo Modernism and Fascism, pubblicato nel 2007 da Palgrave Macmillan e mai tradotto in italiano: ne ricaverà che accreditare il Fascismo di «assenza di reale progresso, di reale sviluppo» equivale ad affermare la più solenne delle stupidaggini, non proponibile in sede storiografica, la verità essendo che il Fascismo fu un formidabile strumento di modernizzazione della società italiana in ogni suo aspetto, dal sociale al culturale, ciò che fece dell’Italia (ad es. in campo artistico con il “secondo Futurismo”, De Chirico, Sironi, etc.) un polo di attrazione internazionale quale non era dal Rinascimento.
Quanto all’assenza – dice sempre il malcapitato Teodori – di «reale ruolo politico internazionale» del Fascismo, che avrebbe prodotto in Pavolini la pochezza di una concezione politica basata sul bluff, si rimarca con estrema facilità che il ruolo politico internazionale di primo piano dell’Italia negli anni del Fascismo veniva affermato non da Mussolini o da Pavolini in base ad una loro megalomane fissazione, ma dagli stessi statisti stranieri: a Monaco, nel settembre 1938, per dire di un solo esempio, Mussolini andò perché invitatovi dalla comunità politica internazionale dell’epoca, e invitatovi nel preciso ruolo di arbitro superiore alle parti, in grado, per prestigio internazionale e per ruolo politico riconosciuto, di comporre un dissidio di gravità planetaria: Mussolini per tale venne considerato, e l’Italia era non alla periferia, ma al centro della politica mondiale.
Sollecitiamo Teodori ad esporre ai nostri lettori un caso equipollente in cui un capo di governo italiano, nei decenni che vanno dal 1945 ad oggi, abbia ricoperto un ruolo non diciamo simile, ma appena paragonabile. L’Italia di Mussolini, piaccia o non piaccia a Teodori, aveva un peso internazionale di prima grandezza, unanimemente riconosciuto da Chamberlain, da Churchill, da Roosevelt, da Stalin in persona: in proposito esiste tutta una letteratura storiografica. Tale peso era di fatto largamente superiore a quello reale, certo, in quanto la potenza economica e industriale italiana non era paragonabile a quelle di altre nazioni. Tanto maggior merito, dunque, ad una classe politica che, al vertice di uno Stato debole per strutture militari e industriali, nondimeno lo tenne per parecchi anni al livello delle maggiori potenze del mondo grazie a capacità, prestigio personale, abilità diplomatica e temuto decisionismo politico.
Concludiamo queste brevi note affermando che dispiace che fra le giovani generazioni che si misurano con problemi di storia si trovino ancora casi così avvilenti di mancanza di semplice acculturazione e di supina accettazione di cliché propagandistici d’altri tempi. Ma è bene che questi rigurgiti di incultura, veicolati da pubblicazioni ad alta tiratura, vengano comunque segnalati. Il nipote di Alessandro Pavolini, Lorenzo, nel suo recente libro intitolato Accanto alla tigre (Edizioni Fandango) ha parlato dell’onestà ideale di suo nonno, della sua morte da eroe e della serietà che metteva in ogni sua azione e in ogni suo pensiero. Imparasse Teodori – e tutti i dilettanti come lui – proprio da Pavolini che cosa significa fare le cose con serietà.
Luca Leonello Rimbotti
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