Il 29 aprile di Achille Starace, l'ex gerarca che non ha mai rinnegato il suo passato.
Il giorno che per alcuni è simbolo di vendetta e vergogna, per altri è esempio di onore e fedeltà
Il giorno che per alcuni è simbolo di vendetta e vergogna, per altri è esempio di onore e fedeltà
Avevo consacrato la mia vita al fascismo. Da militare, da politico, da uomo. Sulle trincee della Prima guerra mondiale, nel mio ufficio di segretario del PNF, tra i banchi del Parlamento, nel mio ruolo di capo di Stato Maggiore della Milizia. Credevo davvero in quel che facevo seguendo Benito Mussolini. Ero convinto che la fascistizzazione avrebbe fatto bene al nostro Paese, fatto di gente abituata al lavoro, passionale e vera. Purtroppo però questa mia Fede, assoluta ma mai cieca, è stata messa a dura prova dagli eventi che hanno tormentato l'Italia nell'ultimo periodo della Seconda Guerra Mondiale. Anni in cui il rapporto che avevo con colui che tutt'ora considero il mio Capo, si è pian piano deteriorato, forse a causa del precipitare della situazione bellica, forse per colpa di cattivi consiglieri di cui Lui si era circondato. O forse, più semplicemente, il mio destino era quello di concludere la mia esistenza in ombra, lontano dalla vita pubblica e dagli oneri ed onori che essa comportava.
Non avrei mai immaginato che, in una primavera così fredda da sembrare inverno come quella del 1945 – e non mi riferisco soltanto al gelo climatico, ma anche, e forse soprattutto, a quello dell'anima – mi sarei ritrovato in fila, tra altri disperati ed affamati come me, in attesa di ricevere un po' di cibo alle mense di guerra del Comune di Milano. Mentre aspettavo disciplinatamente il mio turno, mi tornarono in mente le onorificenze per meriti di guerra che mi ero conquistato sui vari fronti dei diversi conflitti in cui avevo combattuto. E pensai, sorridendo tra me e me, che infondo la solitudine, l'umiliazione e il dolore di quel presente così grigio non potevano essere la fine di tutto. Ci poteva ancora essere speranza. Doveva essere così.
Era su questo che stavo ancora riflettendo mentre tornavo a casa, sovrappensiero. Avevo notato che per le strade c'era un certo fermento, ma non avevo dato troppa importanza a quei gruppetti di gente che sembrava agitata come le foglie della chioma di un albero mosse dal vento. Ad un certo momento mi sentii chiamare e risposi senza pensarci. Rimasi molto sorpreso quando, alzando la testa, mi trovai di fronte la canna di un mitra. A puntarmelo contro, un ragazzo forse dell'età di mio figlio, con il volto sfigurato dall'odio. Di fianco a lui altri partigiani, che cominciarono ad insultarmi. Poco dopo, dalle parole passarono ai fatti, o meglio alle mani. Ma tutti i calci, pugni e sputi che ho ricevuto, non mi hanno fatto male quanto quel che la “giuria” del processo sommario a cui venni sottoposto poco dopo mi gridò in faccia ridendo: “Mussolini è morto! Lo abbiamo giustiziato!”.
Tentarono di interrogarmi, di farmi ammettere le mie presunte colpe. Ma non li ascoltavo. Riuscivo soltanto a pensare che il Duce non c'era più. In quegli istanti terribili, mi passò di fronte tutta la mia vita al fianco di quell'Uomo in cui avevo sempre creduto: le parate, i “sabato fascista”, le manifestazioni sportive, le adunate oceaniche e tutto quel che insieme avevamo fatto per diffondere tra gli italiani l'etica e lo spirito fascista. In quel momento, di fronte a quei sedicenti giudici che evidentemente più che giustizia cercavano vendetta, non cercai di salvarmi, di giustificare le mie azioni, di spiegare che ero lontano da tempo dalla vita pubblica. Quando mi condannarono a morte, risposi rivendicando, con orgoglio e consapevolezza, il mio essere fascista.
Ormai ero sereno. Sorridevo mentre mi trascinarono fuori e mi portarono in giro per le vie di Milano, alla gogna. Sorridevo anche mentre la gente mi lanciava addosso qualunque cosa avesse in mano. Quando arrivammo in Piazzale Loreto, di fronte al distributore di benzina a cui erano stati appesi a testa in giù i cadaveri di Mussolini, di Clara Petacci e di altri fedelissimi al Duce, osservai per un momento la folla urlante e delirante che assisteva a quel macabro spettacolo e riflettei sul fatto che molti di loro, fino a poco tempo prima, erano in piazza ad osannare chi ora dileggiavano. Guardando quei novelli sciacalli con la bava alla bocca, pensai che non meritavano nulla e nulla avrebbero avuto, perché chi basa il proprio futuro sul tradimento e su uno scempio come quello che avevo davanti agli occhi, non sarà mai davvero libero.
Per quanto mi riguardava, nonostante il dolore che avevo vissuto sarei morto a testa alta. Lanciai uno sguardo di sfida il plotone che mi avrebbe giustiziato e dissi loro: “Fate presto, invece di picchiare e di insultare un uomo che state per fucilare!”. Feci appena in tempo a gridare per l'ultima volta “Viva il Duce!” e ad accennare un saluto romano. Poi il piombo delle mitragliatrici investì il mio corpo. Quando presero il mio cadavere e lo appesero a testa in giù al fianco del corpo martoriato di Mussolini, la mia anima sorrideva ancora. Ero fiero di essere riuscito a portare a termine il mio compito. Ovvero dimostrare a quella marmaglia il vero senso di un motto in cui credevo fermamente: “Il mio Onore si chiama Fedeltà”.
Art di Cristina DI Giorgi.
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