Diclorodietilsolfuro o semplicemente iprite: si tratta di un terribile gas, dotato di proprietà vescicatorie e tossiche, largamente usato durante la Prima Guerra Mondiale e messo al bando dal consesso delle Nazioni. Ne ho già scritto, a dire il vero, in un altro post, per smentire le coglionerie che si dicono a proposito della campagna italiana in Abbissinia, andata a buon fine -secondo taluni "storci"- solo perché l'Esercito Italiano ne impiegò quantitativi massicci.
Stavolta, torno a parlarne per un altro motivo. Non tutti sanno, infatti, che gli Alleati nel 1943, (quindi dopo la messa al bando delle armi chimiche), trasportavano massicci carichi di iprite nel Mediterraneo a bordo delle loro navi. Quanto successo al porto di Bari nel dicembre del 1943 è, appunto, una testimonianza di tutto questo.
All’alba del 2 dicembre al porto di Bari, conquistato dagli anglo-americani a seguito dello sbarco di Taranto del 9 settembre 1943, erano presenti circa una quarantina di navi, molte delle quali erano le famose Liberty. Tra esse c’era anche la John Harvey. Gli operai stavano provvedendo a scaricare il carico delle imbarcazioni e ad ammassarlo nei magazzini dello scalo pugliese, divenuto ormai il punto di partenza per le operazioni belliche alleate. Verso sera, un ricognitore tedesco Messerschmitt 210 della Lufwaffe notò il notevole afflusso di navi al porto, difese da pochissimi uomini e mezzi. Immediata fu la comunicazione ai punti di comando, i quali progettarono subito l’azione di guerra, per rallentare quanto meno la risalita dello Stivale da parte degli Alleati. Oltre 100 aerei tedeschi e - pare- alcuni aeromobili della Repubblica di Salò si alzarono in volo alla volta di Bari. Giunsero sul posto verso le ore 19:30, un orario pianificato in base alle condizioni di luce che davano l’opportunità agli aerei della Luftwaffe di vedere senza essere visti (fonte). L’effetto sorpresa fu totale: decine e decine di bombe italo-tedesche caddero sulle navi Alleate ancorate sulle banchine. Ne furono affondate ben 17: “5 americane, 4 inglesi, 3 norvegesi, 3 italiane, 2 polacche. Furono inoltre gravemente danneggiate 7 navi di varia nazionalità e andarono perdute circa 40.000 tonnellate di materiali e munizioni. […] Samuel Eliot Morison definì l'attacco aereo al porto di Bari come il ‘più distruttivo, per gli alleati, dopo Pearl Harbour’ ”. (fonte).
L’effetto sorpresa, tuttavia, non colpì i soli Alleati, ma anche gli aviatori tedeschi. Questi ultimi, infatti, non sapevano che su quelle navi erano caricati notevoli quantitativi di armi all’iprite. Stando alla testimonianza di Augusto Carbonara, un testimone oculare, sulla sola Harvey erano presenti circa “cento tonnellate di bombe all’iprite, […]; ciascuna bomba era lunga quasi 120 centimetri, con un diametro di 20 centimetri, e conteneva iprite fissata ad idrocarburi, per ottenere circa 31 chili di mustard gelatinosa” (fonte). A ciò si devono aggiungere i rapporti che venivano inviati, a partire dal 1947, ai Ministeri e alla Prefettura, i quali parlano di “ben 15.551 bombe d’aereo e 2.533 casse di munizioni armate ad iprite” che giacevano in fondo al mare (fonte). Gli aviatori ed i comandi tedeschi, che intendevano soltanto compiere una poderosa azione di disturbo, utile per poter organizzare una difesa efficace sulla linea Gustav, non potevano certo immaginare la catastrofe che si sarebbe parata di fronte a loro. Il contenuto delle navi era infatti top-secret, tanto che solo alcuni ufficiali della stessa nave ne erano informati. Un segreto che accompagnerà i fatti di Bari anche a seguito del bombardamento, dato che il colonnello Stewart F. Alexander, inviato in Puglia nei giorni successivi all’operazione bellica per fare rapporto, classificherà le ustioni e le ferite riportate tanto dai soldati quanto dai civili come “per causa non ancora identificata”. Stando a quanto riportato qui e confermato dal Maggiore dell'U.S. Air Force Glenn B. Infield , (“Disaster at Bari”), il segreto fu imposto da Churchill in persona, il quale “era fermamente convinto che il ruolo giocato dal gas mostarda nella tragedia di Bari dovesse rimanere un segreto. Egli credeva che rendere pubblico il fiasco consegnasse ai tedeschi una vittoria in termini di propaganda” (“British Prime Minister Winston Churchill was particularly adamant that the role mustard gas played in the tragedy remain a secret. He believed that publicizing the fiasco would hand the Germans a propaganda victory”).
A parte questo, bisogna dire che disastrosi furono gli effetti dell’iprite contenuta nelle navi anglo-americane, aggravati dalla reticenza degli alti gradi Alleati che, di fatto, impedì di poter salvare centinaia di vite: una città messa in ginocchio, un numero di morti imprecisato tra militari e civili, (che taluno stima attorno al migliaio), centinaia di feriti e di intossicati. Non solo ieri, ma ancora oggi, dato che quegli ordigni giacciono ancora sul fondo dell’Adriatico e mettono a repentaglio la salute dei pescatori e dei naviganti pugliesi. Basti pensare che “dal 1946 alla fine degli anni ’90 sono stati ricostruiti 239 casi di intossicazione” in qualche modo ricollegabili all’iprite fuoriuscita dagli ordigni anglo-americani (fonte).
Una circostanza che non serve a far cadere l’alone di mistero che avvolge ancora il carico della Jonh Harvey e che non risponde alle tante domande possibili. In particolare: cosa avrebbero dovuto fare gli Alleati con quel gran quantitativo d'iprite? Cosa ci faceva la nave ormeggiata a Bari? Possibile che si trattasse di un mero “deterrente”, (come vuole la versione ufficiale), oppure si può pensare ad una precisa volontà di impiegare armi proibite?
Domande a cui deve rispondere la Storia, senza menzogne e senza reticenze, perché in grado di dirci ancora molto sul nostro passato e di rendere un'immagina molto diversa della "guerra di liberazione". A maggior ragione se si considera che, a distanza di quasi 70 anni da quei fatti, l’Italia deve ancora fare i conti con la spregiudicatezza e con l’infamia dei “liberatori”.
Roberto Marzola.
Stavolta, torno a parlarne per un altro motivo. Non tutti sanno, infatti, che gli Alleati nel 1943, (quindi dopo la messa al bando delle armi chimiche), trasportavano massicci carichi di iprite nel Mediterraneo a bordo delle loro navi. Quanto successo al porto di Bari nel dicembre del 1943 è, appunto, una testimonianza di tutto questo.
All’alba del 2 dicembre al porto di Bari, conquistato dagli anglo-americani a seguito dello sbarco di Taranto del 9 settembre 1943, erano presenti circa una quarantina di navi, molte delle quali erano le famose Liberty. Tra esse c’era anche la John Harvey. Gli operai stavano provvedendo a scaricare il carico delle imbarcazioni e ad ammassarlo nei magazzini dello scalo pugliese, divenuto ormai il punto di partenza per le operazioni belliche alleate. Verso sera, un ricognitore tedesco Messerschmitt 210 della Lufwaffe notò il notevole afflusso di navi al porto, difese da pochissimi uomini e mezzi. Immediata fu la comunicazione ai punti di comando, i quali progettarono subito l’azione di guerra, per rallentare quanto meno la risalita dello Stivale da parte degli Alleati. Oltre 100 aerei tedeschi e - pare- alcuni aeromobili della Repubblica di Salò si alzarono in volo alla volta di Bari. Giunsero sul posto verso le ore 19:30, un orario pianificato in base alle condizioni di luce che davano l’opportunità agli aerei della Luftwaffe di vedere senza essere visti (fonte). L’effetto sorpresa fu totale: decine e decine di bombe italo-tedesche caddero sulle navi Alleate ancorate sulle banchine. Ne furono affondate ben 17: “5 americane, 4 inglesi, 3 norvegesi, 3 italiane, 2 polacche. Furono inoltre gravemente danneggiate 7 navi di varia nazionalità e andarono perdute circa 40.000 tonnellate di materiali e munizioni. […] Samuel Eliot Morison definì l'attacco aereo al porto di Bari come il ‘più distruttivo, per gli alleati, dopo Pearl Harbour’ ”. (fonte).
L’effetto sorpresa, tuttavia, non colpì i soli Alleati, ma anche gli aviatori tedeschi. Questi ultimi, infatti, non sapevano che su quelle navi erano caricati notevoli quantitativi di armi all’iprite. Stando alla testimonianza di Augusto Carbonara, un testimone oculare, sulla sola Harvey erano presenti circa “cento tonnellate di bombe all’iprite, […]; ciascuna bomba era lunga quasi 120 centimetri, con un diametro di 20 centimetri, e conteneva iprite fissata ad idrocarburi, per ottenere circa 31 chili di mustard gelatinosa” (fonte). A ciò si devono aggiungere i rapporti che venivano inviati, a partire dal 1947, ai Ministeri e alla Prefettura, i quali parlano di “ben 15.551 bombe d’aereo e 2.533 casse di munizioni armate ad iprite” che giacevano in fondo al mare (fonte). Gli aviatori ed i comandi tedeschi, che intendevano soltanto compiere una poderosa azione di disturbo, utile per poter organizzare una difesa efficace sulla linea Gustav, non potevano certo immaginare la catastrofe che si sarebbe parata di fronte a loro. Il contenuto delle navi era infatti top-secret, tanto che solo alcuni ufficiali della stessa nave ne erano informati. Un segreto che accompagnerà i fatti di Bari anche a seguito del bombardamento, dato che il colonnello Stewart F. Alexander, inviato in Puglia nei giorni successivi all’operazione bellica per fare rapporto, classificherà le ustioni e le ferite riportate tanto dai soldati quanto dai civili come “per causa non ancora identificata”. Stando a quanto riportato qui e confermato dal Maggiore dell'U.S. Air Force Glenn B. Infield , (“Disaster at Bari”), il segreto fu imposto da Churchill in persona, il quale “era fermamente convinto che il ruolo giocato dal gas mostarda nella tragedia di Bari dovesse rimanere un segreto. Egli credeva che rendere pubblico il fiasco consegnasse ai tedeschi una vittoria in termini di propaganda” (“British Prime Minister Winston Churchill was particularly adamant that the role mustard gas played in the tragedy remain a secret. He believed that publicizing the fiasco would hand the Germans a propaganda victory”).
A parte questo, bisogna dire che disastrosi furono gli effetti dell’iprite contenuta nelle navi anglo-americane, aggravati dalla reticenza degli alti gradi Alleati che, di fatto, impedì di poter salvare centinaia di vite: una città messa in ginocchio, un numero di morti imprecisato tra militari e civili, (che taluno stima attorno al migliaio), centinaia di feriti e di intossicati. Non solo ieri, ma ancora oggi, dato che quegli ordigni giacciono ancora sul fondo dell’Adriatico e mettono a repentaglio la salute dei pescatori e dei naviganti pugliesi. Basti pensare che “dal 1946 alla fine degli anni ’90 sono stati ricostruiti 239 casi di intossicazione” in qualche modo ricollegabili all’iprite fuoriuscita dagli ordigni anglo-americani (fonte).
Una circostanza che non serve a far cadere l’alone di mistero che avvolge ancora il carico della Jonh Harvey e che non risponde alle tante domande possibili. In particolare: cosa avrebbero dovuto fare gli Alleati con quel gran quantitativo d'iprite? Cosa ci faceva la nave ormeggiata a Bari? Possibile che si trattasse di un mero “deterrente”, (come vuole la versione ufficiale), oppure si può pensare ad una precisa volontà di impiegare armi proibite?
Domande a cui deve rispondere la Storia, senza menzogne e senza reticenze, perché in grado di dirci ancora molto sul nostro passato e di rendere un'immagina molto diversa della "guerra di liberazione". A maggior ragione se si considera che, a distanza di quasi 70 anni da quei fatti, l’Italia deve ancora fare i conti con la spregiudicatezza e con l’infamia dei “liberatori”.
Roberto Marzola.
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