lunedì 3 giugno 2013

CRIMINI ALLEATI: IL MASSACRO DI BISCARI

“Pacta sunt servanda”. Avevo promesso che avrei iniziato a scrivere delle nefandezze compiute dagli Alleati durante la Seconda Guerra Mondiale ed eccomi qui, pronto a farlo.
Voglio provare a parlare del Massacro di Biscari, oggi comune di Acate in provincia di Ragusa. I fatti si sono svolti nel luglio del 1943, quando cioè le forze americane sbarcarono in Sicilia per risalire lo Stivale. In quei giorni, 76 militari italiani e alcuni tedeschi furono vigliaccamente uccisi dopo essersi arresi, ovverosia dopo aver assunto lo status di prigioniero di guerra. Morirono anche dei civili italiani. Queste considerazioni, (ossia lo status di prigioniero di guerra e di civile), autorizzano a parlare di crimini di guerra veri e propri e,come tali, punibili dai tribunali internazionali. Ammesso e non concesso che vi sia la volontà di punirli!
I fatti.
Sbarcati in Sicilia nel corso dell’Operazione Husky, gli americani approdarono nei pressi di Gela tra il 9 e 10 luglio. Trovarono diverse divisioni italo-tedesche a sbarrare la strada, in particolare la “Livorno” e la “Hermann Goering”, le quali riusciranno a reggere l’urto alleato, rischiando persino di far saltare l’intero piano di invasione della 5a armata USA. Il 14 di luglio, però, ha inizio il contrattacco alleato che riesce a sbaragliare la resistenza nemica solo grazie all’aiuto del tiro navale. Le forze statunitensi giunsero all’aeroporto di Biscari, dove trovarono riparati dei militari italo-tedeschi. La resa di questi fu immediata: mani in alto e sventolio di fazzoletti bianchi. Per ordine del comandante John Compton furono fatti mettere in fila, disarmati , denudati e privati del possesso di qualsiasi oggetto di valore. Subito dopo, l’ufficiale impartì l’ordine di fucilazione immediata.
All’indomani il colonnello King,( divenuto anche cappellano),recatosi sul posto, notò i corpi senza vita. Sceso per indagare, notò che “la maggior parte  mostrava ferite alla testa; bruciature sui capelli e tracce di polvere indicavano che i colpi erano stati sparati a distanza ravvicinata. Alcuni soldati  che si riposavano nei dintorni raggiunsero il colonnello e cappellano, protestando che essi ‘avevano preso le armi proprio per combattere quel genere di cose’ - disse King –Essi si vergognavano dei loro stessi  connazionali’ “ (fonte).
Seguì un’altra strage ad opera del sergente West. Quest’ultimo doveva condurre un gruppo di prigionieri presso le retrovie, affinché potessero essere interrogati. Dopo circa un kilometro di marcia, però, fu intimato l’alt. Il sergente in persona imbracciò il fucile mitragliatore e, dopo aver dato istruzione ai suoi uomini di non guardare, aprì il fuoco contro i prigionieri indifesi. Fu una strage. Vale la pena di riportare la testimonianza di Giuseppe Giannola, all’epoca aviatore in forza all’esercito italiano. “All’alba del 14 luglio, gli americani circondarono il nostro rifugio lanciando bombe a mano che esplosero davanti alle uscite. Ci urlarono di venire fuori con le braccia alzate e noi obbedimmo. Ci perquisirono e ci tolsero tutto lasciandoci in mutande. E ci portarono via le scarpe per impedirci di correre. Dopo poco, una trentina di soldati italiani furono uniti al nostro gruppo. […]Ci fecero disporre in due file da venticinque. Fu tremendo quando ci schierarono: io ero al centro della prima fila. Accanto avevo due commilitoni palermitani che conoscevo da bambino. A quel punto un sergente alto, robusto e tatuato imbracciò il mitragliatore e cominciò a sparare. Io ricevetti la prima raffica di mitra al braccio destro e mi buttai a terra. I corpi degli altri commilitoni mi caddero addosso. Non vedevo più nulla. Sentivo solo il colpo di grazia a quelli in agonia. Stavo fermo con il braccio infuocato, la faccia e il corpo coperti dal sangue dei miei compagni. Rimasi immobile un paio d’ore, finché il silenzio non divenne totale. Lentamente e quasi paralizzato dalla paura, spostati i corpi, mi alzai. Feci appena in tempo a guardarmi intorno e mi raggiunse un’altra fucilata, che mi sfiorò la testa dove scavò un solco bruciandomi i capelli. Sarebbe bastato un millimetro più in giù per ammazzarmi. Ho cercato di non respirare, temendo che ci fosse qualche soldato americano appostato per fare secco chiunque fosse rimasto vivo. Non so quanto tempo sia passato. Il braccio sanguinante e la ferita alla testa mi bruciavano. Il dolore superò la paura. Così riuscii ad allontanarmi falla scena della strage vagando alla ricerca d’aiuto. Mi imbattei allora in diversi militari americani, uno dei quali esibiva al braccio la fascia della Croce Rossa. Mi diedero da bere e mi medicarono le ferite. Poi a gesti mi fecero capire che da lì sarebbe passata un’ambulanza per portarmi in ospedale. Invece, arrivò una jeep con due soldati americani. Il primo scese disarmato, il secondo, armato di fucile, mi sparò il terzo colpo della giornata, questa volta a distanza ravvicinata, nel collo”. Eppure Giannola riuscì a sopravvivere, dopo essere stato raccolto da un’altra ambulanza e portato in ospedale. Denuncerà più volte l’accaduto, ma nessuno gli credette mai. In compenso, la procura militare di Palermo lo dichiarò disertore (fonte).
Il giornalista inglese Alexander Clifford riporta almeno altri due eccidi di cui fu testimone oculare.  Assistette all’esecuzione di 60 italiani catturati in prima linea e, poco dopo, di circa 50 tedeschi nei pressi di Comiso, all’epoca base della Luftwaffe. Denunciò tutto al generale Patton, il quale promise provvedimenti immediati contro i responsabili dei massacri; ma alla promessa non seguì mai alcun atto ufficiale (fonte).
Lo stesso 14 luglio si consumò un’altra strage a Canicattì, presso la Saponeria Narbone-Garilli di Viale Carlo Alberto, colpita dai bombardamenti alleati. La polizia armata americana vide la popolazione civile che la stava saccheggiando. Allora, ai soldati venne dato l’ordine di far fuoco sulla folla. Nessuno eseguì l’ordine, cosicché un tenente colonnello alleato,(il cui nome è ignoto), sparò sulla folla con la propria pistola. Secondo il prof. Joseph S. Salemi della New York University, figlio di uno di quei militari dell'Intelligence che furono presenti alla strage, vennero scaricati sulla popolazione civile tre interi caricatori. Non si conosce bene il numero delle vittime. C’è chi sostiene che siano state 6, chi 12 e chi addirittura 21. Lo stesso professore, in particolare, rammenta un racconto del padre, il quale vide un “bambino di circa dodici o tredici anni che ricevette un colpo di rivoltella direttamente nello stomaco. Il bambino non morì subito, ma si mise a gridare più volte in dialetto siciliano: ‘C'haiu na bodda ntu stummachu!’ (una pallottola nello stomaco, ndr)” (fonte).
Conseguenze.
Certi accadimenti sono di dominio pubblico solo da poco tempo. Hanno iniziato a trapelare sono negli anni ’80, ma si sono posti all’attenzione del grande pubblico solo dopo il 2000, quando furono portati alla ribalta da un’iniziativa de “Il Corriere della Sera” che, (giusto per curiosità), ha ispirato un’interrogazione parlamentare di Gennaro Malgieri, di Allenanza Nazionale, per chiedere di onorare la memoria delle vittime (trovate l’interrogazione qui).
La sentenza contro West.
Sappiamo, in particolare, che le denunce di King e Clifford misero in serio imbarazzo gli alti gradi dell’esercito alleato, tanto che dovette intervenire la procura militare, rinviando a giudizio il sergente Horace West (Compagnia A) ed il capitano John Compton (Compagnia C). Il primo si difese riportando le parole di Patton pronunciate dagli altoparlanti delle navi da guerra a stelle e strisce: “Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! È finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali!” (fonte). Nonostante ciò venne condannato all’ergastolo per aver ucciso dei prigionieri di guerra. Un provvedimento, tuttavia, che è rimasto senza effetti, dato  che lo stesso West ha continuato a prestare servizio nell’esercito. Anche Compton giustificò il proprio operato con gli ordini di Patton. A differenza del collega fu assolto, ma morì presso Monte Cassino nel 1943. Patton, per conto suo, non ha subito nessun provvedimento per quegli ordini.  I fatti di Comiso e di Canicattì, invece, sono da sempre rimasti impuniti.
Dalle pagine de “Il Corriere della Sera” si apprende che, addirittura, dietro le istruttorie “si nascose una lotta di potere al vertice dei comandi alleati, con il generale a due stelle Omar Bradley impegnato a scavalcare il suo superiore. E si celò una ancora più complessa manovra per impedire la pubblicazione delle notizie sui massacri, rimaste infatti sostanzialmente inedite fino agli anni Ottanta”. Nello stesso articolo si ipotizza che la paura di uno scandalo mondiale era tale che Patton venne praticamente silurato. Ma non per gli schiaffi e gli insulti antisemiti contro due soldati americani, come tradizionalmente si racconta; proprio questa versione, sarebbe stata inventata di sana pianta, ( o comunque si ripiegò su di essa), pur di non far sapere all’opinione pubblica di come gli alti gradi dell’esercito “liberatore” si erano macchiati le mani di sangue innocente (fonte). Un fatto che la dice lunga sull’atrocità di quegli atti.
Insomma, abbiamo a che fare con un altro episodio di storia volutamente dimenticato. Un’altra tessera nel mosaico della “liberazione”, ma con un peso enorme, dato che richiama atti di assoluta ed ingiustificata perfidia, per giunta assolutamente inutili ai fini della guerra. Una testimonianza in più sul conto dei “liberatori”, ancora oggi spacciati per paladini del bene e della giustizia. Un episodio che sicuramente non sconvolgerà molti dei lettori di questo scritto, perché purtroppo accadimenti così cruenti non sono nuovi a chi, come me, ha un minimo di curiosità storica; ma che spero, almeno, inviti chiunque ne fosse all’oscuro ad una seria riflessione sulla veridicità del “mito della liberazione”. Un mito, appunto, e nulla più, pure lordo di sangue. Un mito da smentire con la storia. Quella vera però!

Roberto Marzola.

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