mercoledì 29 maggio 2013

Mussolini cittadino onorario?


Mussolini cittadino onorario? A Varese si vota
28 maggio 2013 – 12:39Nessun Commento


... Cos’hanno in comune il Dalai Lama, la poetessa Alda Merini e il dittatore Benito Mussolini? Nulla, a parte la cittadinanza onoraria del Comune di Varese. Presto, però, il Duce potrebbe essere eliminato dall’elenco. Già perché giovedì 8 giugno il Consiglio comunale della Città Giardino discuterà una mozione presentata dal Partito democratico in cui se ne chiede la revoca.

“In pochi minuti, con una semplice votazione – dice il primo firmatario del documento, il consigliere Luca Conte – si potrà cancellare dall’elenco dei cittadini degni di essere ricordati dalla nostra città, un uomo condannato dalla storia. Molte altre città, revocarono la cittadinanza subito dopo la guerra o negli anni successivi”. Vero. Altri municipi, anche in territori storicamente antifascisti, come la città di Firenze, ci misero invece un bel po’ di tempo, cancellando Mussolini soltanto nel 2009. Ma sono ancora centinaia i Comuni che hanno lasciato ancora oggi il massimo riconoscimento comunale all’alleato di Hitler. A Varese, per esempio, il “premio” arrivò il 24 maggio 1924 perché fu proprio Mussolini a promuovere la città insubrica a capoluogo di provincia. Ed è proprio legata a questa motivazione che la mozione del gruppo di minoranza del Pd potrebbe essere bocciata. Ai voti del centrosinistra, infatti, servirà l’appoggio di qualcuno del centrodestra: in tal senso il Popolo della Libertà e la Lega Nord devono ancora decidere il da farsi. Non resta che attendere l’assemblea dell’8 giugno, ma intanto fra anti-fascisti e post-fascisti divampa la polemica.

Già perché a prima vista la presenza di Benito Mussolini nell’elenco dei cittadini onorari di Varese suona un po’ come quello di un intruso. Nella lista dei meritevoli omaggiati dalla città ci sono l’eroe del Risorgimento Giuseppe Garibaldi, il pittore Renato Guttuso, la Brigata Alpina Tridentina, la poetessa Alda Merini, la scrittrice Dacia Maraini, il Dalai Lama, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, i campioni di basket Bob Morse e Manuel Raga. E soprattutto Charles Poletti, colonnello statunitense di madre varesina, che durante la Seconda Guerra Mondiale guidò la contropropaganda radiofonica proprio contro Mussolini. Entrambi sono cittadini onorari di Varese. Ancora per quanto?

Nicola Antonello

Francesco Cecchin, vittima dell’”antifascismo” da 33 anni senza giustizia

34 ANNI FA, IL 29 MAGGIO 1979, A ROMA, FRANCESCO CECCHIN, GIOVANE MILITANTE DEL FRONTE DELLA GIOVENTU', ATTESO DA UN COMMANDO COMUNISTA SOTTO CASA, DOPO ESSERE STATO INSEGUITO DA DUE "PERSONE", VENIVA AGGREDITO E COLPITO DURAMENTE AL CAPO. IL CORPO VENNE POI AFFERRATO E SCAGLIATO IN UN CORTILE CONDOMINIALE DEL QUARTIERE TRIESTE, DOPO ESSERE STATO SOTTOPOSTO, VEROSIMILMENTE, AD UN PESTAGGIO. FRANCESCO MORIRA' DOPO DICIANNOVE GIORNI DI COMA IL 16 GIUGNO 1979. LA "GIUSTIZIA" NON FARA' IL SUO CORSO…, LA SENTENZA DEL PROCESSO NON INDIVIDUO' I CRIMINALI COLPEVOLI DELL'ORRENDO ASSASSINIO MA SOSTENNE CHE FRANCESCO FU AGGREDITO E SCARAVENTATO GIU' DAL MURETTO CON UN VOLO DI 5 METRI, CON LA CHIARA INTENZIONE DI UCCIDERLO COME, D'ALTRO CANTO, RIBADITO NELLA SENTENZA DELLA CORTE D'ASSISE DI ROMA: « E' convinzione della Corte che, nel caso di specie, non si sia trattato di omicidio preterintenzionale, ma di vero e proprio omicidio volontario. ». (Dalla sentenza del 23 gennaio 1981). FRANCESCO! ABBIAMO BLATERATO TANTE PAROLE…. ORA BASTA! VOGLIAMO RICORDARTI CON IL TESTO DI UN MOTIVO CHE E' DIVENTATO LA NOSTRA ICONA, IL SIMBOLO DELLE NOSTRE GIORNATE VISSUTE IN NOME DI UNA FEDE, DI UNA PASSIONE, DI UN CREDO, DI UN IDEALE, DI UNA BANDIERA… " E Francesco che è volato sull'asfalto di un cortile, con le chiavi strette in mano, strano modo di morire. Braccia tese ai funerali ed un coro contro il vento, "OGGI è MORTO UN CAMERATA,NE RINASCONO ALTRI CENTO".
SI!!!!!!!!!!! OGGI COME ALLORA! DOMANI COME SEMPRE! FRANCESCO CECCHIN! PRESENTE!!!!!

 
Negli anni ’70 si poteva morire perché si indossavano i “camperos”, stivali texani di moda soprattutto tra i giovani di destra, o perché ci si trovava in un bar frequentato abitualmente da “fasci”. Si moriva per le proprie idee politiche, o anche solo per un manifesto. Francesco Cecchin è una delle troppe vittime della campagna d’odio della sinistra extraparlamentare negli anni in cui “uccidere un fascista non era reato”, come Sergio Ramelli a Milano o i fratelli Mattei a Roma. E’ soprattutto nella capitale che la guerra tra i “rossi” e i “neri” diventa una questione di egemonia territoriale, di “conquista dei quartieri”.
Francesco Cecchin era militante del Fronte della Gioventù, frequentava la sezione di via Migiurtina, la zona più rossa del cosiddetto “quartiere Africano”, ossia un piccolo avamposto di sinistra all’interno del quartiere Trieste, che invece è di destra. Il quartiere Trieste-Salario è quindi negli anni ’70 uno dei campi di battaglia più caldi di Roma: la sezione Msi di via Migiurtina appare come provocazione in una porzione di territorio che i militanti del Pci consideravano “cosa loro”, e diventa ben presto un bersaglio fino ad essere costretta a chiudere. Francesco, diciassettenne, è figlio di Antonio Cecchin, che era stato volontario in Somalia e imprigionato dagli inglesi prima di essere consegnato agli americani, venendo trasferito in cinque campi di prigionia diversi negli Usa.
La sera del 28 maggio 1979 Francesco Cecchin si trova in piazza Vescovio con altri tre ragazzi del Fronte della Gioventù. Scoppia una lite per un manifesto con alcuni militanti del Pci. I “compagni” sono molti di più, una ventina. Contro quattro. Francesco Cecchin viene minacciato ma non si fa intimidire. Qualche ora dopo gli costerà caro.
Sono le dieci di sera quando Francesco esce di casa con sua sorella di due anni più grande, Maria Carla. In piazza Vescovio bar ed edicola sono chiusi, tutto è buio. Dopo pochi minuti si avvicina una Fiat 850 bianca, con a bordo quattro persone. Si sente una voce: “E’ lui, prendetelo!”, due persone scendono e rincorrono il giovane missino, che intuisce il pericolo, scappa via e dice alla sorella di chiamare aiuto. Maria Carla Cecchin urla, cerca di seguire il fratello, ma è superata anche dagli inseguitori: le tre figure scompaiono in via Montebuono. Ed è lì che viene ritrovato il corpo di Francesco: all’altezza del civico 5, in un terrazzino situato sotto il livello del marciapiede di quasi cinque metri.
Francesco Cecchin è stato inseguito dai suoi aguzzini, ha scavalcato il cancelletto di via Montebuono 5 (dove abita un suo amico) ma è stato raggiunto e picchiato. Ha provato a difendersi con un mazzo di chiavi, ma dopo aver perso i sensi è stato buttato giù dal muretto.
Viene ritrovato con il mazzo di chiavi in una mano (una, tra le nocche, è piegata) e un pacchetto di sigarette nell’altra, perde sangue da naso e tempia, ha gli occhi gonfi, è appoggiato di schiena e con la testa sopra un lucernario.
Testimoni raccontano di aver sentito prima un vociare e poi un tonfo. La dinamica è chiara, ma la solita disinformazione militante cerca di far passare la versione che il ragazzo si sia buttato da solo da quel muretto, forse per paura.
Cecchin viene ritrovato ancora vivo, ma morirà in ospedale dopo 19 giorni di agonia: il 16 giugno 1979. Soltanto un giorno prima, i medici avevano comunicato alla famiglia un netto miglioramento delle condizioni. Davvero strano, soprattutto perché Francesco Cecchin avrebbe potuto riconoscere e denunciare i suoi aggressori.
I quali, invece, non saranno mai trovati.
In fase di indagini emergono due nomi, che hanno in comune una sigla che sarà riportata anche in un dossier preparato dal Fronte della Gioventù: S.M.
Sono Sante Moretti e Stefano Marozza. Il primo, ex pugile all’epoca quarantaseienne, durante la rissa per i manifesti in piazza Vescovio, qualche ora prima dell’aggressione, minaccia Cecchin con queste parole: “Tu stai attento. Perché se poi mi incazzo ti potresti fare male. Vi abbiamo fatto chiudere la sezione di via Migiurtina, vi faremo chiudere anche quella di via Somalia”. Il secondo è proprietario di una 850 bianca, era presente alla rissa di piazza Vescovio e sostiene di essere andato a “vedere il film “Il Vizietto” al cinema “Ariel” di Monteverde con un amico” la sera del 28 maggio. Un alibi che viene smentito: quel film non era in programmazione in quel cinema, quella sera. E pure l’amico lo smentisce.
Il 1 luglio 1979 Stefano Marozza viene arrestato per concorso in omicidio, ma il 21 novembre le perizie disposte dal pm Giorgio Santacroce rivelano che “Sul cadavere del giovane non sono state trovate lesioni riferibili con certezza a percosse e/o colluttazione”.
Dunque, secondo i tre periti Alvaro Marchiori, Gaetano Secca e Giancarlo Ronchi, non c’è nulla che possa dimostrare che Francesco Cecchin sia stato picchiato e poi gettato dal muretto contro la sua volontà.
Stefano Marozza non viene riconosciuto neppure dalla sorella di Francesco, Maria Carla Cecchin, la quale peraltro non si ricordava facce ma solo ombre, a causa del buio e dello spavento, e viene assolto con formula piena il 24 gennaio 1981.
Secondo la Corte, però, la disattenzione degli inquirenti durante le indagini avrebbe addirittura sfiorato il dolo.
Non c’è stata nessuna caduta accidentale, come gridato dagli “innocentisti”, bensì “è opinione della Corte che nel caso di specie, non di omicidio preterintenzionale si sia trattato, ma di vero e proprio omicidio volontario.” E, quanto a Stefano Marozza, pur prosciolto con formula piena “non potrà mai scrollarsi completamente di dosso i dubbi e i sospetti che aleggiano intorno alla sua persona”.
L’avvocato della famiglia Cecchin commenterà giustamente: “Con questi verdetti, di solito si motiva una condanna, non un’assoluzione”.
O, quantomeno, un’assoluzione per insufficienza di prove e non con formula piena.
Ma tant’è: 33 anni dopo sappiamo che Francesco Cecchin è stato ucciso, ma non da chi. E’ solo uno dei tanti martiri dell’”antifascismo” senza giustizia.
Francesco Mancinelli, per la sua canzone “Generazione ’78″, scriverà questi versi dedicati a Cecchin:
E Francesco che è volato sull’asfalto di un cortile con le chiavi strette in mano, strano modo per morire
Braccia tese ai funerali e un coro contro il vento “Oggi è morto un camerata ne rinascono altri cento”
E il silenzio di un’accusa che rimbalza su ogni muro
Questa volta pagheranno te lo giuro

 

Università: gli immigrati non pagano, gli italiani si

Come ben sapete, e come ci ricordano sempre i due comici al governo, gli immigrati sono discriminati in Italia.
Ed è per questo che i loro figli non pagano le tasse universitarie. Non è poi così conveniente “essere
italiani”.
la situazione nelle altre università italiane.
I sedicenti profughi non pagano. Ma anche i figli di immigrati senegalesi, piuttosto che bengalesi, piuttosto che – ma senti un po’ – congolesi pagano la metà di quanto paga un ragazzo italiano. Ma tranquilli, non è discriminazione, è per venire incontro ai “migranti”.
Facciamo un esempio. Andrea ha una figlia che vorrebbe studiare all’università, ma Andrea ha un lavoro che non lo permette, sua figlia non potrà studiare. Nel frattempo arriva Abdul con un barcone, a lui lo Stato italiano dà uno stipendio di 45€ al giorno e l’università gratis alla figlia. Intanto Andrea paga anche le tasse per mantenere Abdul. E Boldrini festeggia.
Qualcosa mi dice che i “collettivi de sinistra” non faranno alcuna marcetta di protesta e non occuperanno alcun ateneo. Tanto a loro l’università la paga il papi. Ma tranquilli, non diranno nulla nemmeno le associazioni della cosiddetta destra, non vogliono passare per “razzisti”. E’ la par condicio, nessuno fa nulla per gli italiani.

Centro Documentazione Rsi .

Rendo pubblico l'intervento personale in conferenza: con grande emozione penso di aver dato un modesto ma sentito contributo ad attualizzare ciò che della RSI va davvero riscoperto, la sua attualità profonda e la mistica che ci sta dietro.
...come ben diceva il Prof. Stelvio Dal Piaz la RSI fu INTERVENTO CONFERENZA MANTOVA 11 MAGGIO 2013 (BARBARA SPADINI)
Mentre nel 2013 si continua ad insistere sulla convivenza in Italia di due storie, un’insistenza avvalorata dalla forza dei vincitori, oggi – nel ricordare la figura di mio nonno Professor Maggiore Ferruccio Spadini- sono qui a raccontare qualcosa di diverso: non esistono due storie.
Ne esiste una soltanto, quella che dà voce alle memorie , quella che dà vita ai ricordi.
Le memorie e i ricordi restano vivi finchè qualcuno sa mantenerli tali: ecco che oggi ricordare mio nonno ha senso, siamo qui in tanti a ricordarlo e quindi a dargli senso.
Un senso storico, un senso umano e un senso attuale: così come nella Repubblica Sociale Italiana la parola “sociale” che sta giusto nel mezzo è ancora oggi attualissima, anche la figura di Ferruccio Spadini resta attuale, in quanto rappresenta un esempio ed una testimonianza luminosa di vita vissuta in un contesto ampio, teso entro tutto l’arco del Novecento, che lascia un segno valoriale ed ideale di patriottismo, di servizio, di liberò ed estremo sacrificio per “qualcosa” per cui tutti noi combattiamo ancora , la Patria, l’Italia, questa nazione che vorremo ben governata, che vorremmo libera, che vorremmo “nostra”, a misura d’uomo, lontana da globalizzazioni, mondialismi, relativismi, qualunquismi, multiculturalità destrutturate e spesso non basate sulla vera legalità, una patria nella quale tutti noi possiamo partecipare, col nostro lavoro e con le nostre intelligenze operanti, a rendere migliore la vita sociale di tutti, dei bambini, dei giovani, degli anziani, dei malati, dei cittadini. Questo sogno e questa visione era chiara a mio nonno e tutti coloro che aderirono alla RSI : l’onore da salvaguardare fu anche il non ammettere la sconfitta e la perdita delle valorialità implicite nel concetto di Patria così come l’ho delineato poco fa.
Ecco che morire gridando “viva l’Italia” ebbe un senso per mio nonno e per tutti i caduti della RSI che dico sempre sono tutti miei nonni, e tutti oggi presenti qui.
Il ricordo e la memoria sono i due principali strumenti dello storico, quelli che servono a far luce sugli eventi del passato.
L’onestà intellettuale e la visione lungimirante, sono gli strumenti ulteriori, che permettono alla storico di poter analizzare l’oggi ed il domani, mai slegati da ieri. Non esisterà mai in Italia un domani sereno sociale e politico, finchè non verrà metabolizzato dalle coscienze di tutti il nostro passato, che in molto ignorano proponendo un “oltre” che non c’è e che molti rendono servo delle menzogne più disparate, quelle menzogne che innalzano a “miti” alcuni e abbassano a “mali assoluti” tutti gli altri.

13 febbraio 1946, sessantasette anni fa, all’alba: un plotone d’esecuzione partigiano, dopo processo iniquo con una sentenza di morte dettata dall’odio, metteva fine alla vita dell’allora cinquantenne Maggiore G.N.R. Ferruccio Spadini, nella vita privata professore di lettere al liceo classico “Arici” di Brescia, padre di cinque figli, pluridecorato della prima guerra mondiale, Ardito d’Italia,Cavaliere della Corona d’Italia per meriti di guerra, veterano della Campagne di Grecia e d’Albania, aderente alla Repubblica Sociale Italiana per conservare a se stesso ed alla sua famiglia l’Onore di sentirsi italiani.
Mantovano di nascita, traferitosi a Brescia dal 1922, fu persona retta ed onesta, patriota, umanista, soldato sempre e sempre volontario.
Con ulteriore processo postumo, voluto fortemente dalla sua famiglia per riabilitarne la memoria scempiata nell’onore e nei beni, la Repubblica Italiana attraverso un suo libero tribunale sanciva l’estraneità ai fatti addebitatigli e con sentenza di Cassazione del 23 aprile 1960 ne stabiliva l’innocenza.
Ricordare mio nonno è ricordare oggi tutti i Caduti per l’Onore e per la Patria della Repubblica Sociale Italiana, coloro che seppero distinguersi per dignità e per coerenza tra i tanti che scappavano, svaligiavano, si trasformavano, si mascheravano e si riproponevano in altre forme ipocrite.
Questi soldati, dal più giovane all’ultimo dei vecchi veterani , dal più umile al più alto graduato, hanno dato una prova di saldezza d’animo e di profondità di valori che , secondo me, va oltre i limiti della consapevolezza, oltre l’eroismo, oltre il coraggio: questi uomini sapevano che la loro sorte era segnata, che la disfatta era dietro l’angolo, ma – ugualmente- rimasero tutti al loro posto, quello dei soldati.
In molti, il cui destino non fu quello eroico della morte sul campo di battaglia, ebbero in sorte la tortura, la violenza, la persecuzione gratuita, l’odio dei vincitori, gli sputi della folla, le percosse, l’internamento a Coltano o in altri campi, la fucilazione alla schiena – forse la più insopportabile onta per un soldato, e questa fu la sorte di mio nonno- ed ebbero tutti l’implacabile giudizio di condanna della storia posteriore , che condizionò a lungo la serenità dei parenti, dei figli, delle vedove.
Ancora oggi questi nostri soldati, i miei nonni, restano nella memoria di tanti di noi e sono fari, esempi, in molti casi Martiri.
Per tanti altri essi furono il male , l’assoluto male e potessero di nuovo morire, li ucciderebbero ancora e ne oscurerebbero la memoria sotto metri e metri di iniqui giudizi antistorici e pieni di becera ideologia.
La miglior cosa: la Memoria, il ricordo, l’omaggio di ogni giorno.
La miglior cosa: non strumentalizzare le loro memorie in nome di pacificazioni che in realtà sono solo tentativi di non affrontare il passato con coscienza, onestà intellettuale e libertà di pensiero.
La miglior cosa: combattere con penna e documenti, scrivere, scrivere tutto, fotografare, trascrivere, creare cultura attorno a loro, farli conoscere ai giovani, diffonderne gli esempi, parlarne, celebrarli ogni qual volta se ne presenti l’occasione, nei loro cimiteri e accanto ai loro monumenti, con fiori, corone e il nostro esserci fisico ed interiore.
La miglior cosa, ricordare la figura del Maggiore Ferruccio Spadini, e del Professore, educatore di giovani anche attraverso il suo esempio, con alcune sue parole, scelte non a caso e che ascoltare oggi non è insensato, né nostalgico, ma attuale : Lettera ai compagni di cella, che avevano steso per lui la domanda di grazia
“ Non avendo ben capito la tua generosa offerta e quella dei tuoi cari compagni di cella, hai strappato il consenso del mio animo sempre pronto ad acconsentire ad una proposta partita dai condannati, che nel giorno dell’approdo sono gli ultimi a scendere e nell’ora del naufragio sono i primi a morire. Ti prego perciò di non ritenerlo valido, pur stimando la generosità e la bontà dei vostri animi.
La mia miseria non è un dono di tutti: è privilegio che mi ha concesso la mia Patria, dopo averla fedelmente e onestamente servita. E’ un titolo d’onore che non mi abbatte, anzi mi ritempra le forze. La Patria ha avuto bisogno dei miei pochi beni: che le siano di utilità! Almeno così spero.
Pochi vivono nel privilegio dell’azzurro e se la mia vita dovrà durare un solo giorno, la mia morte durerà tutta la vita e si riprodurrà nei miei figli. Vivo in questa meditazione e nel sacrificio la vita acquista la sola vera libertà. Vi prego di lasciarmi in questo privilegio. Vi bacio tutti. Ferruccio”

A mio nonno e a tutti i Caduti della Repubblica Sociale Italiana, nel suo settantesimo anniversario della fondazione il mio ricordo, il mio impegno,la mia battaglia d’ogni giorno.Visualizza altro soprattutto "uno stato d'animo".Fatto d'ONORE.

Centro Documentazione Rsi .

Un articolo che pone in risalto e per bene come scrivere una biografia seria...in questo caso su Alessandro Pavolini.
Ricordo che circolano libri dai titoli allucinanti , tipo "Lupo vigliacco", sulla figura di Farinacci....che se poi si de...sse dei "lupi vigliacchi" ai branchi resistenziali, ci si vedrebbe messi all'indice...invece sul male assoluto è lecito scrivere tutto....
 
Alessandro Pavolini e le bufale storiografiche

Il genere storico della biografia, in Italia, dove si legge poco a male, è da sempre l’unico in grado di assicurare vendite accettabili. La biografia avvince ben più del saggio, si avvicina al romanzo, è insomma appetibile. Non così quando si tratta di brutte biografie, tirate giù alla meglio e compromesse da giudizi senza capo né coda. Succede, con la recente biografia di Alessandro Pavolini, compilata dal giovane Giovanni Teodori per le edizioni Castelvecchi e sottotitolata La vita, le imprese e la morte dell’uomo che inventò la propaganda fascista, che veniamo più spesso informati sulle opinioni dell’autore che non su quelle del personaggio storico.
Pavolini, di famiglia altolocata, figlio del celebre filologo Paolo Emilio, giovane dinamico conosciuto come uomo di cultura, due lauree (in legge e scienze politiche), giornalista e prosatore brillante, di formazione moderna, dinamico promotore di importanti e tuttora fiorenti iniziative culturali, poi uomo politico del tutto atipico per l’Italia, cioè coerente e disinteressato, questo Pavolini viene più che altro ricordato per la sua direzione del Partito Fascista Repubblicano durante la RSI, e pertanto sempre bollato con le obbligatorie stigmate del “fanatico”. Del resto in Italia, lo sappiamo, siamo soliti dare del “fanatico” a chiunque faccia seguire i fatti alle parole con coerenza e non si adatti al generale servilismo. “Fanatico”, dunque, certo: poiché non fece come la maggioranza dei non fanatici, che offrirono al mondo lo spettacolo indegno di tradire in ventiquattr’ore i proclami di una vita. E “fanatico”, ed anche “invasato”, ovviamente Teodori chiama il Pavolini che scelse di stare con Mussolini anche dopo l’8 settembre. Dunque, tale appellativo noi lo possiamo considerare un sinonimo di onore e di fedeltà, merce rara presso un popolo le cui classi dirigenti hanno spesso vissuto l’etica dell’astuzia levantina e della fregatura del prossimo come scuola di vita.
Diciamo subito che la biografia stesa da Teodori, che pure si avvale di una discreta antologia di passi di articoli di Pavolini, specialmente dal Corriere della Sera e dal Messaggero, è più ancora deludente di quella ormai storica di Arrigo Petacco (Pavolini, l’ultima raffica di Salò, pubblicata da Mondadori nel 1982 e poi riedita nel 1999 col titolo Pavolini, il superfascista), che almeno apparteneva a quel dignitoso filone di storiografia giornalistica che ebbe in Montanelli, in Cervi, in Monelli, in Bandini e nello stesso Petacco delle firme illustri.
Il libro di Teodori nulla aggiunge a quanto già ampiamente noto ad ogni lettore medio, né propone nuove letture o interpretazioni, tantomeno si addentra con qualche spessore analitico in problematiche di carattere politico: pensiamo all’ideologia nazionalista di formazione, oppure al tipo di squadrismo frequentato dal giovane fiorentino, o magari ad altri argomenti come i rapporti col Partito, la vera natura dell’amicizia con Ciano, le dinamiche di potere, la concezione della guerra rivoluzionaria, le motivazioni di fondo della fedeltà a Mussolini nel 1943, il socialismo nazionale del periodo di Salò, etc. Nulla di tutto ciò è perlustrato come si dovrebbe a proposito di un uomo politico che ha segnato a fondo la storia italiana della prima metà del Novecento. Cosa che invece è stata fatta da uno dei pochi che si sono interessati in maniera approfondita della complessa personalità e della concezione del mondo del fondatore de “Il Bargello”, segnatamente nel suo ruolo di segretario del PFR: alludiamo a Massimiliano Soldani, autore di un ottimo L’ultimo poeta armato, pubblicato dalla Società Editrice Barbarossa nel 1999.
Il libro di Teodori delude perché vive ancora di sentiti dire e di giudizi tranciati a priori, perché si nutre di falsi obsoleti e di grossi sbagli storiografici, sfoderando anche alcune memorabili sciocchezze. Una per tutte: «In Pavolini c’è tutto il dramma della pochezza e provincialità della borghesia italiana…L’unica modernità del fascismo erano i mezzi di comunicazione di massa…un’enorme impalcatura di cartapesta e di celluloide che doveva nascondere il vuoto, cioè l’assenza di reale progresso, di reale sviluppo, di reale ruolo politico internazionale».
Noi affermiamo invece che il dramma è tutto nella piramidale ignoranza di certi “storici” di maniera e d’occasione, che non comprendono ciò di cui scrivono né sono informati sul giudizio storiografico e sul dibattito internazionale in corso. Pavolini “da poco” e “provinciale”? Invitiamo il giovane e ignaro pseudo-storico a misurare la provenienza familiare di Pavolini (come detto suo padre era un’autorità mondiale in campo filologico e la sua famiglia una delle più in vista della Firenze dell’epoca) e le sue due lauree con il grado di acculturazione dell’attuale classe dirigente liberale italiana – veline, piazzisti, lenoni, portaborse, puttane che affollano il nostro Parlamento – notoriamente formata da semicolti o incolti totali.
Il “provincialismo” di Pavolini lo si misura bene dal fatto che faceva scrivere su “Il Bargello” personaggi come Pratolini, Bilenchi e Vittorini, lanciati sul piano nazionale proprio dal giovane federale che di Firenze fece la capitale culturale italiana, prima di diventare, nel 1939, titolare del Ministero della Cultura Popolare. I legami con Maccari, Cardarelli, Berto Ricci, Rosai, Soffici, Longanesi, la sinergia con il vasto ambiente fiorentino delle riviste (durante il Fascismo a Firenze si pubblicavano, scusate se è poco, “La Voce” di Prezzolini, “Solaria” di Montale e Bacchelli, “Il Frontespizio” di Bargellini, Fallacara e Papini, “Il Selvaggio” di Maccari con Soffici, “L’Universale” di Ricci e Montanelli, poi “Campo di Marte” di Enrico Vallecchi con Gatto e Pratolini, etc.) e con quello dell’editoria, che proprio nella Firenze di Pavolini conobbe il suo periodo d’oro con Vallecchi, Sansoni, Bemporad, Nerbini (quella che nel ’32 pubblicò il primo numero di “Topolino”), La Nuova Italia, Le Monnier, etc. Ricordiamo tra parentesi l’importante convegno del ’37, tenuto a Firenze da Alfieri (titolare del Minculpop) e da Ciarlantini per il potenziamento statale alla diffusione del libro: in proposito si legga lo studio di Gabriele Turi sulla Storia dell’editoria (Giunti, 1997), che parla proprio del ruolo modernizzatore del Fascismo nel campo editoriale.
Sempre a proposito del “provincialismo” di Pavolini bisogna ricordare che fu lui a istituire nel ’34 i Littoriali della Cultura (ai quali, com’è a tutti noto, partecipò in massa l’intera classe culturale del post-fascismo), che fu lui nel ’33 a fondare il Maggio Musicale Fiorentino, cioè una delle rassegne musicali più importanti del mondo, e che fu sempre lui a istituire l’annuale Mostra dell’Artigianato, che richiamava a Firenze i manufatti e le aziende artigianali ed artistiche da ogni parte d’Italia e del mondo. Oggi Firenze, città in declino e che ha perduto il primato nazionale dell’editoria e dell’alta moda a vantaggio di Milano, vive a livello internazionale essenzialmente di due manifestazioni, per l’appunto il Maggio e la Mostra artigianale, entrambi frutti del dinamismo di Pavolini, che ottant’anni fa dette vita a iniziative che ancora oggi sono il fiore all’occhiello delle amministrazioni di “sinistra” e che richiamano l’attenzione di una massa internazionale di visitatori colti. Lo stesso “provinciale” Pavolini, in quegli anni, fu il protagonista della rinascita economica e architettonica di Firenze, che ebbe luogo anche per suo impulso. Lo stadio e la stazione ferroviaria di Nervi – risalenti al 1935 – oggi dichiarati monumenti nazionali, stanno ancora oggi a documentare il “provincialismo” tanto di Pavolini che del Fascismo, e infatti sono studiati in tutti i testi scientifici del mondo come esempi massimi del tipico stile novecentesco “razionalista”, che come si sa fu lo stile architettonico fascista.
Sempre sul tema del “provincialismo” di Pavolini, vogliamo ricordare che fu grazie a lui che si ebbe in tutta Italia un risveglio dell’artigianato di qualità: scuole, corsi, accademie, promozioni, concorsi, incentivi per l’apertura di botteghe di vendita e apprendistato, costituirono il tessuto di un’idea che solo oggi si riconosce come straordinariamente valida e attuale: quella di rilanciare le arti manuali delle antiche corporazioni di mestiere, che avevano fatto di Firenze la capitale mondiale dell’alto artigianato, e che Pavolini concepì come primato economico e culturale schiettamente italiano, e in particolare fiorentino. Segnaliamo che quanto rimane della Firenze artigiana rilanciata negli anni Trenta da Pavolini è oggi il fulcro di un movimento internazionale di migliaia di giovani studiosi d’arte, artigiani, restauratori, ebanisti, etc., che dal Giappone, dagli USA, da ogni angolo d’Europa vengono a studiare ciò che Pavolini pose al centro della sua idea di nuova socialità tradizionale e al tempo stesso moderna: l’artigianato di classe, da opporsi al serialismo dozzinale all’americana, quello sì provinciale e di cattivo gusto.
Quanto alla modernità, che l’incauto giovane pseudo-storico Teodori nega al Fascismo…beh, gli consigliamo di darsi agli studi di De Bernardi (ad es. sul concetto di “dittatura moderna di sviluppo”), di Emilio Gentile sulla “modernità totalitaria”, oppure di Roger Griffin, magari le cinquecento pagine del suo Modernism and Fascism, pubblicato nel 2007 da Palgrave Macmillan e mai tradotto in italiano: ne ricaverà che accreditare il Fascismo di «assenza di reale progresso, di reale sviluppo» equivale ad affermare la più solenne delle stupidaggini, non proponibile in sede storiografica, la verità essendo che il Fascismo fu un formidabile strumento di modernizzazione della società italiana in ogni suo aspetto, dal sociale al culturale, ciò che fece dell’Italia (ad es. in campo artistico con il “secondo Futurismo”, De Chirico, Sironi, etc.) un polo di attrazione internazionale quale non era dal Rinascimento.
Quanto all’assenza – dice sempre il malcapitato Teodori – di «reale ruolo politico internazionale» del Fascismo, che avrebbe prodotto in Pavolini la pochezza di una concezione politica basata sul bluff, si rimarca con estrema facilità che il ruolo politico internazionale di primo piano dell’Italia negli anni del Fascismo veniva affermato non da Mussolini o da Pavolini in base ad una loro megalomane fissazione, ma dagli stessi statisti stranieri: a Monaco, nel settembre 1938, per dire di un solo esempio, Mussolini andò perché invitatovi dalla comunità politica internazionale dell’epoca, e invitatovi nel preciso ruolo di arbitro superiore alle parti, in grado, per prestigio internazionale e per ruolo politico riconosciuto, di comporre un dissidio di gravità planetaria: Mussolini per tale venne considerato, e l’Italia era non alla periferia, ma al centro della politica mondiale.
Sollecitiamo Teodori ad esporre ai nostri lettori un caso equipollente in cui un capo di governo italiano, nei decenni che vanno dal 1945 ad oggi, abbia ricoperto un ruolo non diciamo simile, ma appena paragonabile. L’Italia di Mussolini, piaccia o non piaccia a Teodori, aveva un peso internazionale di prima grandezza, unanimemente riconosciuto da Chamberlain, da Churchill, da Roosevelt, da Stalin in persona: in proposito esiste tutta una letteratura storiografica. Tale peso era di fatto largamente superiore a quello reale, certo, in quanto la potenza economica e industriale italiana non era paragonabile a quelle di altre nazioni. Tanto maggior merito, dunque, ad una classe politica che, al vertice di uno Stato debole per strutture militari e industriali, nondimeno lo tenne per parecchi anni al livello delle maggiori potenze del mondo grazie a capacità, prestigio personale, abilità diplomatica e temuto decisionismo politico.
Concludiamo queste brevi note affermando che dispiace che fra le giovani generazioni che si misurano con problemi di storia si trovino ancora casi così avvilenti di mancanza di semplice acculturazione e di supina accettazione di cliché propagandistici d’altri tempi. Ma è bene che questi rigurgiti di incultura, veicolati da pubblicazioni ad alta tiratura, vengano comunque segnalati. Il nipote di Alessandro Pavolini, Lorenzo, nel suo recente libro intitolato Accanto alla tigre (Edizioni Fandango) ha parlato dell’onestà ideale di suo nonno, della sua morte da eroe e della serietà che metteva in ogni sua azione e in ogni suo pensiero. Imparasse Teodori – e tutti i dilettanti come lui – proprio da Pavolini che cosa significa fare le cose con serietà.
Luca Leonello Rimbotti

lunedì 27 maggio 2013

Centro Documentazione Rsi.

                                                                 

Tra i crimini del comunismo:
- fucilazione di decine di migliaia di ostaggi o di persone imprigionate senza essere state sottoposte a giudizio e massacro di
centinaia di migliaia di operai e di contadini insorti fra il 1918 e il 1922;
- carestia del 1922, che ha provocato la morte di 5 milioni di persone;
- deportazione ed eliminazione dei cosacchi del Don nel 1920;
... - assassinio di decine di migliaia di persone nei campi di concentramento fra il 1918 e il 1930;
- eliminazione di quasi 690 mila persone durante la Grande purga del 1937-1938;
- deportazione di 2 milioni di kulak (o presunti tali) nel 1930-1932;
- sterminio di 6 milioni di ucraini nel 1932-1933 per carestia indotta e non soccorsa;
- deportazione di centinaia di migliaia di polacchi, ucraini, baltici, moldavi e bessarabi nel 1939-1941, poi nuovamente nel 1944-1945;
- deportazione dei tedeschi del Volga nel 1941;
- deportazione-abbandono dei tatari della Crimea nel 1943:
- deportazione-abbandono dei ceceni nel 1944;
- deportazione-abbandono degli ingusceti nel 1944;
- deportazione-eliminazione delle popolazioni urbane della Cambogia fra il 1975 e il 1978;
- lento sterminio dei tibetani per mano dei cinesi dal 1950 eccetera.
Tra i crimini del comunismo:
- fucilazione di decine di migliaia di ostaggi o di persone imprigionate senza essere state sottoposte a giudizio e massacro di
centinaia di migliaia di operai e di contadini insorti fra il 1918 e il 1922;
- carestia del 1922, che ha provocato la morte di 5 milioni di persone;
- deportazione ed eliminazione dei cosacchi del Don nel 1920;
- assassinio di decine di migliaia di persone nei campi di concentramento fra il 1918 e il 1930;
- eliminazione di quasi 690 mila persone durante la Grande purga del 1937-1938;
- deportazione di 2 milioni di kulak (o presunti tali) nel 1930-1932;
- sterminio di 6 milioni di ucraini nel 1932-1933 per carestia indotta e non soccorsa;
- deportazione di centinaia di migliaia di polacchi, ucraini, baltici, moldavi e bessarabi nel 1939-1941, poi nuovamente nel 1944-1945;
- deportazione dei tedeschi del Volga nel 1941;
- deportazione-abbandono dei tatari della Crimea nel 1943:
- deportazione-abbandono dei ceceni nel 1944;
- deportazione-abbandono degli ingusceti nel 1944;
- deportazione-eliminazione delle popolazioni urbane della Cambogia fra il 1975 e il 1978;
- lento sterminio dei tibetani per mano dei cinesi dal 1950 eccetera.



     

 

domenica 26 maggio 2013

Video] La Grecia di oggi è l’Italia di domani. Tutti lo sanno, ma nessuno reagisce.

Tutti i greci intervistati auspicano reazioni violente e attentati terroristici contro il governo. Molti parlano di suicidio, di impiccarsi, MA TUTTI FANNO LA FILA PER PAGARE!
Ogni tanto qualcuno organizza qualche rivolta, si fanno prendere a randellate e poi nuovamente in fila agli sportelli dell’erario! A noi occidentali ci hanno prima svuotati dentro, altrimenti non avrebbero mai potuto ridurci in queste condizioni!
Noi italiani faremo la stessa fine? E’ matematico, non è un opinione, ma stiamo qui a lasciar fare tutto quello che decideranno di fare…

Invasione islamica: il futuro che non vogliamo

sabato 25 maggio 2013

Pino Rauti.



« Dopo la sconfitta del 1945 la propaganda antifascista non cessava di martellarci. Se si è mobilitato il mondo intero contro di noi, pensammo allora, vuol dire che siamo stati qualcosa di grande. E noi, che del fascismo in fondo sapevamo poco, trovammo così l'orgoglio e la volontà di continuare. »
(Pino Rauti)
Oggi riprendiamo in mano le “idee che mossero il mondo”, capolavoro storiografico di Rauti, ne sfogliamo le pagine, ne rivediamo la visionaria capacita’ di leggere con anticipo processi sociali e mutamenti politici e sorridiamo. Potremmo credere di essere vinti dalla tentazione di ricordare l’uomo che se ne va solo perché temiamo che con lui vada via la nostra giovinezza, ma sappiamo che non e’ così. Pino avrebbe sorriso, sistemando sul naso i suoi occhiali con una goffaggine che non ne avrebbe mai fatto un personaggio da talk show televisivo, e ci avrebbe detto di guardare avanti, di pensare a chi soffre, ai nuovi poveri, alla necessita’ di aggregare li dove le sue idee più difficilmente potrebbero attecchire.
Ci avrebbe detto di “andare oltre”, oltre le divisioni, le contrapposizioni, le meschinità umane, le difficoltà di un contingente povero di grandi figure a cui fare riferimento. E noi andremo oltre. Le grandi idee possono trovare cattivi interpreti, ma difficilmente muoiono.
Grazie di tutto, Pino, noi restiamo qui, in piedi, anche se altri ci vorrebbero in ginocchio.

La corrente di Ordine Nuovo

Nel gennaio 1954 nel corso del IV° Congresso di Viareggio ad Augusto De Marsanich succedette a segretario di Arturo Michelini. Nel corso del Congresso, Rauti, Nicosia e Erra, che erano tra i più noti rappresentanti del gruppo giovanile, proposero lo spostamento del partito su posizioni più intransigenti e la rivisitazione del Fascismo in chiave più critica[1] ricollegandosi soprattutto all'impostazione tradizionalista-spiritualista di Evola[2] e in particolare al saggio "Orientamenti" pubblicato per la prima volta nel 1950 dalla rivista "Imperium"[3]. Dopo il Congresso di Viareggio Rauti si pose su posizioni estremamente critiche verso la nuova classe dirigente ritenendo che il partito avesse perso ogni aspirazione rivoluzionaria[
Ordine Nuovo scelse come proprio simbolo l'ascia bipenne e come proprio motto il motto delle SS: "Il mio onore si chiama fedeltà".
La canzone La vandeana, una antica ballata controrivoluzionaria, il cui ritornello è "Spade della Vandea, falci (o asce) della boscaglia, baroni e contadini siam pronti alla battaglia" diventerà l'inno di Ordine Nuovo in piena coerenza con l'insegnamento evoliano di difesa della Francia monarchica e pregiacobina


I Campi della vergogna - I Lager degli Alleati


Centro Documentazione Rsi
790mila soldati tedeschi morti nei campi di prigionia francesi e americani e oltre 500mila scomparsi nei campi sovietici. Testimonianze e documenti che confermano e ampliano il tragico scenario delle morti di massa dei soldati tedeschi che si erano arresi alle truppe alleate.
In questo documentario la storia dei prigionieri nei campi alleati. Sono pagine sconvolgenti, che non vengono insegnate in nessuna scuola, ma sono resoconti di fatti veramente accaduti.
 
Contrariamente ai campi di sterminio nazisti, per i lager alleati non ci fu alcuna ‘Liberazione’. Non arrivarono mai truppe a liberarli e non vi furono mai portati fotografi a documentarne i crimini. Per questo esistono ben poche fotografie e qualche disegno. Bastano però a far capire quest'altra drammatica realtà storica.Contrariamente ai campi di sterminio nazisti, per i lager alleati non ci fu alcuna ‘Liberazione’. Non arrivarono mai truppe a liberarli e non vi furono mai portati fotografi a documentarne i crimini. Per questo esistono ben poche fotografie e qualche disegno. Bastano però a far capire quest'altra drammatica realtà storica.
Ci viene incessantemente rammentato dei campi di concentramento del Terzo Reich durante la seconda guerra mondiale. Ma pochi sanno che tali campi famigerati, quali Dachau, Buchenwald, Sachsenhausen e Auschwitz rimasero operativi anche dopo la fine della guerra, riempiti questa volta di prigionieri tedeschi, molti dei quali morirono in modo miserevole.
I campi alleati di norma furono tutti al di fuori non solo di qualsiasi convenzione, ma anche di qualsiasi umanità.
L’Esercito americano trasforma la tranquilla Dachau in un mattatoio
I fanti della Brigata SS “Westfalia” vennero catturati dalla Terza Divisione Corazzata americana. La maggior parte dei prigionieri tedeschi venne uccisa con un colpo alla nuca.
Gli americani esultanti dissero alla gente del posto di lasciare i loro corpi nelle strade come monito e minacciavano altre vendette. I corpi restarono ne...lle strade per cinque giorni prima che gli occupanti ne permisero la sepoltura.
Dopo la guerra le autorità tedesche tentarono, inutilmente, di perseguire penalmente i responsabili militari americani (Fonte: Daily Mail, London, 1° Maggio 1995).
Ironicamente, alla fine delle ricerche post-belliche, è stato scoperto che le sole atrocità commesse a Dachau furono quelle dei vittoriosi alleati.
Altrettanto ironico è il fatto che Dachau fu un campo di concentramento alleato per un periodo (11 anni) più lungo di quando era gestito dai tedeschi. Laggiù trecento sentinelle delle SS furono rapidamente neutralizzate su ordine del Gen. Dwight Eisenhower.
Il termine “neutralizzate” è un termine politicamente (o vigliaccamente) corretto per dire che i prigionieri di guerra furono sterminati in gruppo a colpi di mitra.
Racconti di omicidi di massa di prigionieri di guerra tedeschi a Dachau sono stati descritti in almeno due libri: ” The Day of The Americans ” di Nerin Gun, Fleet Publishing Company di New York e ” Deliverance Day-The Lost Hours at Dachau ” di Michael Selzer, Lippincot, Philadelphia.
Questi libri spiegano come i prigionieri tedeschi venivano radunati in gruppi, messi contro il muro e sistematicamente fucilati da soldati americani, alcuni di essi ancora con le mani alzate in segno di resa.
Gli americani calpestavano disinvoltamente i corpi a terra ancora palpitanti, eliminando i feriti.
Mentre ciò accadeva, fotografi americani prendevano delle foto dei massacri. A Dachau, che si trovava nella zona di controllo americano in Germania, truppe d’intervento americane e polacche tentarono di far salire sul treno con la forza un gruppo di prigionieri russi dell’Armata di Vlasov che si rifiutavano di essere rimpatriati in Unione Sovietica.
 
 

Comunicato Forza Nuova.

Gli italiani? Forza Nuova: "Vittime indiscusse dell'ennesima discriminazione radical chic"

venerdì, 24 maggio 2013, 10:00
"Come se ci fossimo già dimenticati dei finanziamenti stanziati per il consultorio transgenere di Torre del Lago Puccini, apprendiamo con stupore dalla cronaca locale, dello stanziamento di 200.000 euro per il proseguimento dell''ambulatorio medico dedicato ad uso esclusivo degli immigrati, mentre l'ASL 12 Versilia, per mancanza di fondi rischia di dover tagliare nei vari reparti circa 160 posti letto", scrivono in una nota i militanti di Forza Nuova aggiungendo: "Tutto questo avviene mentre i parlamentari del PD invocano sempre più repressione per cercare di mettere a tacere in modo dittatoriale ed antidemocratico una forza politica che in modo assolutamente pacifico, con iniziative simboliche e mai violente, osa contraddire la sinistra. Per il cittadino italiano spese, ticket e salassi sempre maggiori e spreco di denaro pubblico per alimentare i progetti più inutili a vantaggio delle nuove categorie protette, il tutto in nome di una ideologia xenofilo mondialista. Pertanto riteniamo che gli italiani continuino ad essere le vittime indiscusse dell'ennesima discriminazione radical chic, in barba all'articolo 3 della costituzione". 

giovedì 23 maggio 2013

Forza Nuova: "C'è una visione distorta del concetto di democrazia"

Comunicato FN Viareggio.

mercoledì, 22 maggio 2013, 14:05
In riferimento ai fatti accaduti domenica scorsa lungo il viale Capponi, in occasione del banchetto e della presentazione dei candidati leghisti per le elezioni comunali, e presa visione delle lettere giunte e pubblicate dalla Gazzetta di Viareggio nelle quali comparivano frasi come "Non sta scritto da nessuna parte che democrazia è far parlare tutti", la sezione viareggina di Forza Nuova esprime sdegno per la vergognosa vicenda.
"A scandalizzarci - si legge in una nota - non è tanto il comportamento dei militanti dei centri sociali ai quali ormai siamo abituati a tal punto da aver sviluppato una sorta di assuefazione, ma bensì le lettere dei cittadini giunte alle redazioni dei quotidiani. Invitiamo gli autori di tali lettere a rileggersi la costituzione italiana, la stessa che spesso troppe persone invocano senza averla mai letta, in particolare gli art.3, 21 e 49. Non riusciamo ancora a capacitarci di come alcuni individui abbiano un'idea così distorta del concetto di democrazia, per non parlare della totale mancanza di rispetto per chi non la pensa come loro. Concetti come confronto civile, polemica costruttiva e libertà di pensiero sembrano essere banditi dalla loro mente.
Immaginate se le stesse parole fossero uscite dalla penna di chi viene da loro etichettato come fascista, ci sarebbero orde di giornalisti sul sentiero di guerra pronte a gridare allo scandalo. Pertanto esprimiamo la nostra solidarietà ai militanti della sezione viareggina della Lega Nord ed infine non possiamo che congratularci con il direttore della Gazzetta di Viareggio che ancora una volta dimostra con i suoi commenti e con i suoi editoriali di essere uomo intellettualmente onesto in grado di dare a Cesare quel che è di Cesare"

mercoledì 22 maggio 2013

Camerata Giorgio Almirante PRESENTE PRESENTE PRESENTE.

1979, congresso di Napoli del Msi-Dn. Giorgio Almirante, leader della destra italiana, lanciò una grande offensiva di democrazia e di partecipazione, quella della nuova Repubblica. La battaglia presidenzialista per l’elezione popolare a suffragio universale del Capo dello Stato fu per la destra italiana una scelta convinta e prioritaria. Fu oggetto d’intense campagne politiche e proprio nel congresso di Napoli trovò la sua sintesi con una proposta organica di riforma dello Stato.
Il tema si era affacciato anche ai tempi della Costituente e Calamandrei e altri avrebbero probabilmente voluto una scelta più coraggiosa quando si scrissero le nuove regole della Repubblica italiana. Ma il nodo non è stato sciolto ancora oggi. Parto da questa riflessione per attualizzare l’eredità di Giorgio Almirante nel giorno in cui ricordiamo i 25 anni dalla sua scomparsa.
A quanti lo hanno troppo sbrigativamente giudicato un nostalgico proponiamo una diversa lettura. Giorgio Almirante fu maestro di democrazia e di pacificazione. Incontrando nei giorni scorsi i fratelli Mattei, mi è tornata alla mente quella drammatica giornata dell’aprile 1973, quando da giovane militante del Fronte della gioventù andai ai funerali di Stefano e Virgilio bruciati da Potere operai nel rogo di Primavalle.
Sulla scalinata della Chiesa di Piazza Salerno, Giorgio Almirante disse: “chiediamo giustizia, non vendetta”. Almirante invitò costantemente alla pacificazione tra gli italiani. E lo fece durante gli anni di piombo, in un tempo ancora non sufficientemente lontano dagli odi e dai rancori della guerra civile. Lo voglio ricordare oggi che di pacificazione si torna a parlare in altri contesti, di grande polemica e di scontro politico, ma certamente diversi dai tempi cruenti degli anni di piombo durante i quali parlare della pacificazione era un atto di grande coraggio.
Ma Giorgio Almirante fu innovatore anche sul fronte delle istituzioni. Altro che nemico della democrazia! Con il presidenzialismo voleva un coinvolgimento più ampio dei cittadini nelle scelte fondamentali della vita dello Stato e della democrazia governante.
Oggi quella svolta non si è ancora realizzata. Ma il fronte presidenzialista si allarga e si estende. Anche quelli più ostili a questo principio ne diventano di fatto fautori quando suppliscono con le consultazioni via internet a quel bisogno di democrazia diretta di cui la destra si è fatta sempre interprete in questo lungo dopoguerra. E quel congresso di Napoli del ’79 elevò quella della nuova Repubblica presidenzialista a scelta prioritaria e identitaria della destra italiana. Ancora qualcuno all’epoca diceva che dietro quella proposta ci fosse un’istanza autoritaria. Non era così allora e tantomeno lo è oggi.
Almirante, quindi, è stato non solo un leader coraggioso, un infaticabile esponente politico che peregrinò incessantemente per tutta l’Italia, dando sostanza fisica alla rappresentanza delle idee. Fu anche un fautore di scelte di avanguardia e di rafforzamento della democrazia repubblicana. Ponendo questioni che ancora oggi sono al centro del dibattito politico. Ed è per questo che ho voluto citarlo e ricordarlo nella relazione che accompagna la proposta di legge di modifica costituzionale che ho presentato in apertura di questa diciassettesima legislatura al Senato, affinché la Costituzione venga modificata e preveda finalmente l’elezione diretta a suffragio universale del Presidente della Repubblica.
Rendiamo omaggio a 25 anni dalla scomparsa a colui che ci ha insegnato la pacificazione e la democrazia. A quanti non se ne fossero resi ancora conto in ambienti politici diversi dal nostro, chiediamo di fare un’onesta riflessione e di unire al nostro omaggio anche il loro. Per qualcuno forse sarà un atto tardivo. Ma per le scelte di buonsenso non è mai troppo tardi. Noi che lo abbiamo conosciuto e che da lui molto abbiamo imparato, lo ricordiamo con commozione, consapevoli che cercò sempre di portare gli ideali e i valori della destra in ambiti più vasti. Fu fautore della costituente della destra nazionale, della costituente di destra, cercando in epoche ben più difficili di quelle che viviamo oggi di non farsi mai isolare in un ghetto identitario. Cercò di condividere i valori della destra. Ed è quello che ciascuno di noi dovrà continuare a fare nell’Italia del nuovo millennio.
 
 

Seppuku di un eroe moderno: si uccide a Notre Dame contro le adozioni gay

Dominique Venner si spara a Notre Dame: “La mia morte contro le nozze gay”
 
È entrato nella cattedrale di Notre Dame, e una volta dietro l’altare, si puntanto la pistola alla testa e ha fatto fuoco. E’ morto così, lo scrittore e storico Dominique Venner, 78 anni. Non suicidandosi, ma “sacrificando” la propria vita per risvegliarne milioni.
Sul corpo è stata ritrovata una lettera, nella quale spiegava le ragioni del suo determinato, drammatico e al tempo stesso eroico gesto. Come un Samurai d’altri tempi, come Mishima che fece seppuku per protesta contro la modernità nichilista dilagante nel suo Giappone.
Autore di decine di opere sulla “guerra civile europea” e militante identitario, si era schierato contro la nichilista e folle legge sulle nozze e adozioni gay. Proprio poche ore prima di compiere il suo estremo sacrificio aveva chiesto sul suo blog “gesti nuovi, spettacolari e simbolici per scuotere i sonnolenti, le coscienze anestetizzate e risvegliare la memoria delle nostre origini”. Attualmente era direttore della rivista bimestrale di storia “Nouvelle Revue d’Histoire” e vicino ai movimenti anti-omosessualisti francesi.
“Tutto il nostro rispetto a Dominique Venner, il cui ultimo gesto, eminentemente politico, è stato di tentare di svegliare il popolo di Francia”, scrive su Twitter la leader del Front National, Marine Le Pen.
Ora cercheranno di dipingerlo come un “vecchio folle”, perché questa morte è una testimonianza che terrorizza il Sistema. Un uomo che sacrifica i suoi ultimi anni con l’ultima ribellione possibile davanti al regime: togliendosi la vita.
Venner ha segnato la strada del risveglio con il suo sacrificio. Come i monaci tibetani che si immolano contro l’oppressione cinese, lui si è immolato contro l’oppressione del nuovo totalitarismo del politicamente corretto. Onore a lui.
RITRATTO – Il saggista e storico francese Dominique Venner, immolatosi davanti all’altare della Cattedrale di Notre-Dame de Paris, è un uomo che non ha mai rinunciato al suo impegno per i giovani nel campo della destra radicale che potremmo chiamare “pagana”.
Nato il 16 APRILE 1935 e segnato dall’influenza di un padre architetto che era un membro del PPF, Partito Popolare francese. Volontario durante la guerra in Algeria, ha partecipato al conflitto in una unità di paracadutisti, vicino all’OAS, sarà imprigionato in carcere per aver sostenuto il putsch dei generali ad Algeri nel 1961.
Dopo aver fondato nel 1963, il movimento nazionalista d’azione europeo, ha partecipato nel 1968, con Alain de Benoist, alla creazione di Grece, Gruppo di ricerca e studio sulla civiltà europea, movimento intellettuale che rivendica una visione della società elitaria e tradizionalista, che raccoglieva, alla fine degli anni ’70, la simpatia di intellettuali diversi come Louis Pauwels, Thierry Maulnier Pierre Debray-Ritzen o Jules Monnerot.
Politicamente disimpegnato dal 1980, Dominique Venner si è poi dedicato alla ricerca storica e saggi di scrittura, tra cui la caccia e le armi, diventerà uno specialista riconosciuto.
Si dedicò soprattutto a lavorare sulla storia del XX secolo pubblicando libri che ora sono libri di riferimento, come Baltikum dedicato ai Freikorps tedeschi 1920, Les Blancs et les Rouges, un libro straordinario sulla guerra civile in Russia dopo la presa del potere da parte di Lenin. Altri libri, come la Storia critica della Resistenza o la storia e le tradizioni degli europei , pubblicato nel 1990, riflettono la continuità del suo impegno ideologico anti-gollista e tradizionalista.
Fondatore nel 2002 de La Nouvelle Revue d’histoire. Il suo gesto è l’ultimo atto di un “cuore ribelle”, titolo della sua autobiografia pubblicata nel 1994, dove ha raccontato la sua vita e il significato dei suoi impegni.

Milano: sgombero del centro sociale con lanci di bottiglie e barricate in fiamme.

Milano, 22 mag. – Momenti di tensione a Milano per lo sgombero del centro sociale Zam in via Olgiati. Due giovani del centro sociale sono saliti sul tetto dell’edificio per protesta, mentre all’arrivo delle camionette della polizia i giovani hanno posizionato per strada quattro file di barricate da cui e’ partito un lancio di bottiglie con vernice ed oggetti.
Gli agenti hanno dovuto utilizzare una ruspa per farsi strada fra i detriti. Prima che gli agenti riuscissero ad arrivare all’entrata dell’edificio alcune barricate sono state date alle fiamme, tanto da costringere i Vigili del Fuoco ad intervenire per spegnere le fiamme. Sul posto sono presenti decine di uomini fra Polizia e Carabinieri in assetto antisommossa. Il Centro sociale Zam era nato in un palazzo abbandonato alla periferia sud di Milano due anni fa e in questo periodo ha ospitato incontri, dibattiti e concerti. Alcuni dei suoi componenti erano stati raggiunti da denunce in seguito agli scontri avvenuti in Val di Susa nell’estate del 2011. (AGI) .

martedì 21 maggio 2013

COMMEMORAZIONE DEI 43 MILITI DELLA TAGLIAMENTO TRUCIDATI .


DOMENICA 26 MAGGIO ALLE ORE 10,30 PRESSO IL CIMITERO DI ROVETTA 

COMMEMORAZIONE DEI 43 MILITI DELLA TAGLIAMENTO TRUCIDATI IL 

28 APRILE 1945 E NEL RICORDO DI TUTTI CADUTI PER L’ ONORETRUCIDATI IL 


28 APRILE 1945 E NEL RICORDO DI TUTTI CADUTI PER L’ ONORE.

Firenze: famiglia di italiani in camper e le case popolari agli immigrati!

maurizio vive nel camper da 2 anni a firenze
FIRENZE – Quello che trovate qua sotto è un comunicato stampa in cui si mette in risalto la situazione di Maurizio, un uomo costretto a vivere da ben 2 anni all’interno del proprio camper, con la moglie e due bambini piccoli…
L’indifferenza delle istituzioni del vicinato è davvero sconvolgente.. Buona lettura!
“Via Lami: una normalissima strada di città che corre lungo la ferrovia dello Statuto, delimitata da un muro completamente imbrattato che evoca un forte senso di degrado, di ghetto. Dall’altro lato della strada eleganti palazzine residenziali. Ha da poco smesso di piovere. Auto e motorini sfrecciano indifferenti lungo la via. Basta percorrere pochi metri dall’imbocco della strada per intravedere un camper, vecchio e po’ malconcio, ricoperto di appelli scritti con pennarelli colorati che iniziano a sbiadire.
Arrivati di fronte alla casa mobile, troviamo ad accoglierci un bel bimbo biondo che gioca sul marciapiede, rincorrendo la sorellina di quattro anni. I bambini sorridono e ci dicono che il “nonno” è dentro con il fratellino più piccolo, Siro. L’uomo sulla settantina, accortosi della nostra presenza, spunta fuori dal camper, in braccio a lui un neonato dagli immensi occhi blu, con una voce rauca richiama i fratellini verso la casa mobile e ci saluta, chiedendoci chi cerchiamo. Maurizio Villani, il papà e proprietario del camper tornerà a momenti con Rita, la mamma dei bambini.
Durante la breve attesa, cerchiamo di metabolizzare le immagini che ci scorrono davanti. L’avevamo letto sui giornali e visto nei TG ma l’impatto è comunque surreale. I piccoli sono incredibilmente sereni: il camper è un gioco e poi, in quella buffa casa, ci vive il babbo, che incontrano solo nei fine settimana. Loro vivono fino al giovedì con mamma a “Casa Speranza” una struttura d’accoglienza di Settignano che ospita solo madri e figli. Giocano per tutto il tempo, corrono intorno a noi, ci fanno qualche buffa domanda, senza smettere un secondo di ridere, nessun capriccio, nemmeno un velo di tristezza nei loro occhi. Si rincorrono fino al bordo della strada, tanto da suscitare la nostra preoccupazione ma Jacopo, tre anni, ci rassicura sorridendo “No, no !Non ci andiamo sulla strada, è pericolosa, poi ci arrotano”.
Dopo una decina di minuti arrivano mamma e papà. Sono sorpresi della nostra presenza. I bambini corrono verso i genitori e gli saltano in braccio. Ci presentiamo e iniziamo a chiacchierare.
“Io avevo una ditta con diversi dipendenti, lavoravo nel campo edile – dice Maurizio con voce sicura – purtroppo, da quando le cose hanno iniziato ad andare male, i soldi guadagnati in una vita sono finiti con incredibile rapidità: il lavoro diminuiva, aumentavano i ritardi nei pagamenti, da parte di privati ma anche di committenti pubblici e così, nemmeno io ero in grado di saldare tutti i conti- ammette l’uomo – poi è arrivato lo sfratto, mentre Rita aveva appena scoperto di aspettare il nostro terzo bambino. Siamo in attesa di un alloggio popolare che sembra non arrivare mai. Io vivo nel camper da un anno e mezzo e da poco, ho invitato a stare con noi il “nonno”, non c’è nessun legame di parentela, era un vecchio conoscente finito in disgrazia dopo gravi problemi di salute, anche lui aveva perso la casa, dormiva al pronto soccorso ed abbiamo deciso di ospitarlo, i bambini gli vogliono un gran bene”.
I membri delle istituzioni non hanno fatto niente per loro, solo qualche vana promessa. In oltre un anno di permanenza solo un paio di persone gli hanno fatto visita. Anche il vicinato è completamente indifferente. Qualche vicino di casa, talvolta, porta un po’ di pane o una fetta di torta ma per la maggior parte, girano alla larga da quel camper e spesso negano addirittura il saluto alla famiglia. I negozianti della via in cui vivevano in precedenza, fanno credito a Maurizio, lo conoscono da una vita e si fidano di lui. Hanno anche subito due tentativi di furto: dei Rom hanno tentato di entrare nel camper.
Ci facciamo avanti e chiediamo a Maurizio se le numerose associazioni di volontariato abbiano fatto qualcosa o se abbiano mai valutato l’ipotesi di affidarsi a “uno di quei movimenti che lottano per la casa” ma la risposta è sempre la stessa: “Quelli a noi, non ci pensano proprio, hanno altre priorità, trattano solo con gli immigrati – dice Maurizio – io non voglio scavalcare nessuno, non pretendo che qualcuno dia la precedenza al nostro caso, cercate di capirmi, voglio solo riunire la mia famiglia”. Nell’ultimo bando per l’alloggio popolare, avevano incluso nel nucleo famigliare il nonno, che con una pensione da qualche centinaio di euro, aveva abbassato il loro punteggio in graduatoria.
“Siamo in attesa delle graduatorie di luglio, ora il nostro punteggio è molto alto, siamo a 15 punti adesso, questa è l’unica speranza per tornare a vivere. Il Comune è sempre molto puntuale quando si tratta di vedersi pagare le multe o le tasse, peccato che tutta questa puntualità non vi sia quando tocca a loro dare qualcosa ai cittadini”.
Maurizio non è remissivo, non si è fatto schiacciare dalla sua condizione, anzi: “Spesso mi chiedo cosa farò quando riuscirò a sollevarmi da questa situazione, e penso proprio che mi batterò per i diritti di tutti i fiorentini in difficoltà, sono più di quanti se ne possano vedere. Bisogna davvero toccare il fondo per riuscire ad ammetterlo. Siamo un popolo orgoglioso. Conosco molte famiglie che campano una settimana con un kg di riso ma si vergognano di ammetterlo, lo considerano un fallimento”.


Il suo caso ci fa comunque pensare che il comune, solerte nella cura di migliaia di immigrati, stia dimenticando quella parte della popolazione che dopo aver pagato ogni contributo al comune per generazioni, per anni, ora, complice la crisi economica, si trova in completa povertà. Il discorso si sposta infatti sulle condizioni in cui versa il paese, sulle ditte fallite, sulle bancarotte e sugli innumerevoli suicidi.
“Sapete perché non mi suicido? – dice Maurizio – ho imparato a mettere la dignità in tasca, per la mia famiglia. Non sono solo i debiti, ma anche la mortificazione ad uccidere. Trovarsi a 47 anni, in un camper, senza poter offrire nulla ai propri figli è terribile ma ho imparato a convivere con questa sensazione. Sono qui e resterò qui, per mia moglie, i miei bambini, per il “nonno” e per tutto quello che spero di poter fare per la comunità, una volta uscito da questa situazione”.
Ho fatto più di un appello a Renzi, ma quello pensa solo a Roma. Le istituzioni sono lontanissime. Anche mia moglie, con il bambino piccolo, si è più volte presentata in Palazzo Vecchio e a risponderle solo un citofono e ore di attesa sotto il caldo estivo con un neonato. Nessuno si è nemmeno degnato di aprirle la porta, di chiederle se voleva aspettare dentro all’ufficio: una situazione scandalosa.”
Noi chiediamo cosa possiamo fare per loro, se hanno bisogno di qualcosa e la loro risposta, in tono mesto, è: “Abbiamo bisogno di tutto, non abbiamo niente, davvero niente”.
Mentre i bambini sorridono per il vasetto di Nutella trovato nei sacchetti della spesa e ci salutano con la manina, noi ci dirigiamo verso la macchina, in silenzio. Ogni persona dovrebbe avere la possibilità di guardare da vicino questa famiglia e le tante altre che versano in queste condizioni. Mentre le varie associazioni di volontariato non fanno altro che pensare a immigrati e clandestini, mentre la tv chiede l’ 8×1000 per i missionari, il supermercato, alla cassa, raccoglie fondi per i pozzi in Africa e le famiglie adottano bambini a distanza, sotto casa, a pochi metri dal portone, i loro connazionali patiscono il freddo e la fame in un camper.
Ci sentiamo in colpa per l’indifferenza di una città che si sta disumanizzando, che sta perdendo il contatto umano, sta dimenticando la solidarietà e l’amicizia che stringevano i rapporti tra concittadini, tra vicini. In una società in cui il primato non spetta mai ai nostri fratelli ma alla beneficenza mediatica, teniamo a ricordare ad ogni fiorentino, che la famiglia Villani, era quella che comprava frutta e verdura da voi, che mangiava la pizza nel vostro ristorante, che si riforniva nel vostro negozio, che pagava i contributi al nostro comune. Adesso, sono loro ad aver bisogno di noi, con la dovuta precedenza su chi, in questa città non è nato e vissuto”.