Il 28 ottobre 1922 alcune decine di migliaia di fascisti marciarono su Roma per rivendicare al sovrano Vittorio Emanuele III la guida politica del Regno d’Italia. In caso contrario, se cioè il Savoia non avesse acconsentito alle loro richieste, le camicie nere si sarebbero dette pronte a prendere il potere con la forza. Il preludio alla calata fascista sulla capitale si era consumato alcuni giorni prima a Napoli. Il 24 di ottobre si tenne una grande manifestazione nel capoluogo campano durante la quale Benito Mussolini scandì bene il concetto: “O ci daranno il governo, oppure ce lo prenderemo calando a Roma”. Ma la minacciosa frase del duce non fece perdere il sonno ai governanti romani. Anzi, il presidente del Consiglio Luigi Facta, piemontese di Pinerolo, nell’occasione pronunciò le famose parole che gli valsero di li a breve il suo indelebile soprannome, e cioé: “Nutro fiducia”. D’altronde, il ribattezzato “nutro fiducia”, nel corso della vita aveva impostato tutte le fortune della sua carriera politica sull’attendismo. E proprio in quei tumultuosi giorni non poteva certo essere quel tipo d’uomo al quale chiedere azioni risolute. Liberale, seguace di Giovanni Giolitti, non passò mai per un Cuor di Leone. Anche per questo più volte fu vittima di giudizi fin troppo velenosi da parte dei giornalisti. Giovanni Ansaldi, per esempio, fascista, a proposito della scelta ripetuta che Giolitti fece in favore di Facta quale ministro, spiegò: “Spesso la mediocrità è una voragine per la quale anche gli spiriti eletti provano una cupa attrazione”.
Il nuovo capo del governo, da subito, non ottenne come abbiamo visto una collaborazione unanime, ma molti grandi personaggi diedero comunque la propria approvazione al nuovo ordine. In quei giorni, sul finire dell’ottobre del 1922, il parlamentarismo non venne del tutto archiviato dal fascismo che si avviava a trasformarsi in regime. Ma la minaccia era già stata lanciata.
Così, quando a Montecitorio un drappello di parlamentari affrontò Facta per dirgli che Mussolini andava fermato, rinchiuso, il presidente del Consiglio replicò loro quasi stupito: “Mussolini arrestato? E come si fa?”. Il capo del governo era già caduto nella rete, e cioè in un raggiro ordito dal duce che gli aveva mosso avances fingendo di accontentarsi di quattro ministeri per il Pnf in un ipotetico nuovo esecutivo. Fu per quella falsa consapevolezza che Facta si prese la briga di scrivere al re con toni rassicuranti in merito alle minacce dei fascisti che per lui erano “in parte un bluff”. Alla luce di una cattiva interpretazione della realtà delle cose, la preparazione del golpe fascista procedette rapidamente. Dopo i due discorsi alla borghesia al Teatro San Carlo e alla folla in piazza del Plebiscito, Benito Mussolini riunì il consiglio del partito all’Hotel Vesuvio e in quel frangente si stabilirono le direttive da seguire.
La mattina dopo, il 25 ottobre, Michele Bianchi avrebbe lanciato ai suoi uomini il segnale convenuto: “Insomma, fascisti, a Napoli ci piove. Allora, che ci state a fare qui?”. Fu inoltre deciso che a condurre la marcia sarebbe stato un quadrumvirato composto da Italo Balbo, potente ras ferrarese, sin da subito volto di primo piano del fascismo, Emilio De Bono, già comandante della milizia, Michele Bianchi, segretario del partito e Cesare Maria De Vecchi, generale che non dispiaceva alla monarchia. Sul quadrumvirato, poi, avrebbe svettato la figura di Dino Grandi, nominato capo di stato maggiore delle operazioni che avrebbe sovrainteso dal quartier generale posto nell’hotel Bufrani, a Perugia. Per quanto riguarda invece Benito Mussolini, era stato convenuto che al momento dell’ora x sarebbe prudentemente andato ad attendere a Milano gli sviluppi successivi.
Tutto era ormai pronto. Le squadracce nere sarebbero partite da Foligno, Santa Marinella, Monterotondo e Tivoli per confluire nella capitale. Il 26 di ottobre Antonio Salandra, che aveva avuto modo di ascoltare i leader fascisti, comunicò a Facta che presto la marcia sarebbe partita con l’obiettivo finale di chiedere le dimissioni del suo governo. Il presidente del Consiglio, però, sempre cauto e fedele al suo attendismo, non volle credere a quelle che pensava essere le solite voci a mo’ di megafono di un ingiustificato allarmismo. Così Luigi Facta scivolò tranquillo nelle lenzuola la notte tra il 27 e il 28 di ottobre quando, però, poco dopo, venne svegliato di soprassalto dalla notizia che i fascisti erano partiti davvero e puntavano diritto sulla città. Il re Vittorio Emanuele III, di ritorno dalla tenuta di San Rossore, era già impegnato a consultare i militari per fare il punto sulla situazione. Alle 8.30 della mattina del 28 di ottobre il primo ministro si presentò al Quirinale per chiedere al sovrano la ratifica del proclama sullo stato di assedio deciso poche ore prima. Ma con grande sorpresa di Facta, il monarca si rifiutò di firmare il foglio pronunciando le seguenti parole: “Queste decisioni spettano solo a me. Dopo lo stato d’assedio non resta che la guerra civile. Ora bisogna che uno tra noi si sacrifichi”.
Alle 9 della stessa mattina l’Italia era senza un governo. Si rincorsero allora le voci di un possibile esecutivo formato da Antonio Salandra e Benito Mussolini. Ma il duce, nonostante i fascisti fossero già entusiasti per quel successo politico inaspettato, li freddò: “Non ho fatto quello che ho fatto per provocare la resurrezione di Salandra”. E mentre la politica era in subbuglio nella capitale si consumava anche il momento dell’azione. Era previsto che a circa 30mila camicie nere avrebbero dovuto opporsi poco più di 28mila soldati regi. Nella realtà, tuttavia, i fascisti faticavano non poco a raggiungere l’accesso alla Città Eterna. Il governo aveva dato ordine di paralizzare il traffico ferroviario generando il caos e rallentando la marcia a tal punto che Leo Longanesi, parafrasando il motto Garibaldino “o Roma o morte”, per sottolineare la quasi impossibilità di procedere verso la capitale, riportò un buffo e più modesto obiettivo finale: “O Roma o Orte”.
Disordini e attacchi fascisti si susseguivano a getto continuo ma con esito alterno in molte città d’Italia. Per esempio a Milano, dove rimaneva in attesa degli eventi Benito Mussolini, visto che non erano riusciti gli assalti alla Prefettura e alla Questura, finì nel mirino la sede dell’”Avanti!” di via Settala, difesa in quel caso dai reparti dell’Esercito regio. Il direttore del quotidiano socialista, Pietro Nenni, commentò in seguito l’episodio con amarezza: “Il destino, di sovente ironico, fece sì che l’ultimo atto di energia di un regime agonizzante fosse per difendere il giornale del proletariato”. Poco dopo il primo tentativo, però, una seconda orda fascista si gettò alla carica del giornale riuscendo questa volta a espugnare la redazione e a farne scempio. La mattina seguente i tumulti, era il 29 ottobre, il re Vittorio Emanuele III decise e comunicò che avrebbe conferito l’incarico di formare il governo a Benito Mussolini. Il duce partì alle 20 da Milano per raggiungere Roma. Dopo un rocambolesco e interminabile viaggio arrivò solo la mattina del 30. Verso le 11.30 il leader del fascismo varcò la soglia del Quirinale. Anche se oggi pare appurato si tratti di un falso, allora si raccontò che il duce si presentò al monarca in camicia nera annunciando: “Maestà, vi porto l’Italia di Vittorio Veneto”. Tuttavia, se quest’ultimo episodio rientrasse a far parte delle storielle create ad arte dalla propaganda, poco importa. La storia registra che alle ore 18 del 30 ottobre il governo fascista era pronto.
La formazione fu chiamata ministero nazionale. Benito Mussolini, oltre alla presidenza del Consiglio, assunse anche personalmente gli Interni e l’interim agli Esteri. In tutto, nella compagine di governo, erano presenti altri tre ministri e nove sottosegretari fascisti. Molti esponenti di primo piano del Pnf erano lividi di livore per essere stati estromessi da incarichi istituzionali. Con De Bono, per esempio, il duce ebbe uno scontro frontale. “Ascolta”, disse Mussolini. “Tu vuoi subito il bastone di maresciallo? Bene. Adesso non te lo do. Mi hai capito bene? Non te lo do. Accontentati di una cannuccia. Addio”. Quando il re diede il suo avallo il prossimo capo dell’esecutivo si presentò in Parlamento con toni sprezzanti: “Mi sono rifiutato di stravincere. E potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti… Io potevo castigare tutti”. Proseguì: “Potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo di soli fascisti. Potevo, ma almeno in questo primo momento, non ho voluto”. Nel clima già teso ed elettrico dell’Aula di Montecitorio, al discorso del bivacco, secca fu l’opposizione dei socialisti: “Quest’olio di ricino noi non lo beviamo”, replicò duro Filippo Turati. E per tutta risposta, a seguito di quel primo e irremovibile no, gli avversari presero ad appellarlo dai loro scranni come “vecchia baldracca”.
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