LA NUOVA MATEMATICA: IPOCRISIA FARISAICA+IGNORANZA CAPRINA = LEGGE ANTI-“NEGAZIONISTA”
Di Carlo Mattogno
L'11 ottobre Il Fatto Quotidiano ha pubblicato in rete un articolo dal titolo Negazionismo, Nitto Palma: “Tutti d’accordo, introdurre reato al più presto”, che riferisce:
«Un iter accelerato per introdurre il reato di negazionismo. Ad annunciarlo nel giorno della morte dell’ex ufficiale delle Ss Erich Priebke è Francesco Nitto Palma, presidente della commissione Giustizia (Pdl). “D’intesa con i capigruppo del Partito democratico, del Popolo della libertà, di Scelta civica e del Gal, sentito il vice presidente Buccarella del M5S, comunico che martedì 15 ottobre la Commissione procederà alla discussione generale, alla fase emendativa e, se possibile, alla votazione dei singoli emendamenti sul disegno di legge concernente il reato di negazionismo, sì da poter licenziare il provvedimento nella serata stessa di martedì”.
“Con l’occasione – aggiunge Nitto Palma – ritenendo di interpretare anche il pensiero dei colleghi della commissione Giustizia, manifesto tutto il mio sdegno per le affermazioni di Erich Priebke, rese note dopo la sua morte, ancor più gravi se si pensa che di qui a qualche giorno cadrà il 70esimo anniversario del rastrellamento operato al ghetto di Roma”[1].
Dunque il pretesto della riesumazione della proposta di legge è lo «sdegno per le affermazioni di Erich Priebke»: che cosa tali affermazioni abbiano a che fare con la ricerca scientifica revisionistica, lo sa soltanto il signor Nitto Palma. Che consolazione, però, vedere tutte queste forze politiche, che già hanno devastato economicamente e socialmente l'Italia e ora, al servizio dell'usurocrazia europea, si accingono a infliggerle il colpo di grazia, così lietamente concordi e unite quando si tratta di correre in soccorso di Israele, alla faccia della costituzione italiana e delle libertà che garantisce!
Dopo la morte di Priebke, il porcaio mediatico ha aperto i suoi cancelli, diffondendo per ogni dove i suoi mefitici miasmi. Esso è il prodotto di una commistione di ipocrisia farisaica e di ignoranza caprina. La furia parlamentare è stata vieppiù scatenata dal suddetto porcaio mediatico, secondo il quale Priebke fu «il responsabile delle Fosse Ardeatine», o, più idilliacamente, «il boia delle Fosse Ardeatine».
È bene delineare sommariamente la vicenda processuale di Priebke, facendo parlare le sentenze, le quali, ci spiegano i nostri onorevoli Garanti (a chiacchiere) della costituzione, vanno “sempre rispettate”, ma anche commentate.
L'ex SS-Obersturmbannführer Herbert Kappler fu processato per la fucilazione delle Fosse Ardeatine dal Tribunale Militare territoriale di Roma, che emise la sua sentenza il 21 luglio 1948. Ne cito gli stralci che mi sembrano particolarmente degni di rilievo (i corsivi sono miei).
«Sul luogo rimanevano uccisi, oltre ai militari tedeschi, due civili dei quali uno (un bambino), si è accertato, dato il particolare laceramento del corpo, che la morte avvenne a seguito dello scoppio della bomba» (p. 38).
«Nel marzo 1944 il movimento partigiano aveva assunto proporzioni di largo rilievo ed una discreta organizzazione, ma non aveva ancora acquistata quella fisionomia atta ad attribuirle la qualifica di legittimo organo belligerante» (p. 93).
«Secondo il diritto internazionale (art. 1 della Convenzione dell'Aia del 1907) un atto di guerra materialmente legittimo può essere compiuto solo dagli eserciti regolari ovvero da corpi volontari, i quali ultimi rispondano a determinati requisiti, cioè abbiano alla loro testa una persona responsabile per i suoi subordinati, abbiano un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza e portino apertamente le armi.
Ciò premesso, si può senz'altro affermare che l'attentato di via Rasella, qualunque sia la sua materialità, è un atto illegittimo di guerra per essere stato compiuto da appartenenti ad un corpo di volontari il quale, nel marzo 1944, non rispondeva ad alcuno degli accennati requisiti.
Stabilito che l'attentato di via Rasella costituì un atto illegittimo di guerra occorre ancora accertare, per le diverse conseguenze giuridiche che ne derivano, quale era la posizione degli attentatori nei confronti dello Stato italiano» (pp. 94-95).
Gli attentatori «facevano parte di una organizzazione militare inquadrata nella Giunta Militare» che, al pari del Comitato di Liberazione Nazionale, «si poneva come organo legittimo, almeno di fatto, dello Stato italiano» (p. 95), rendendo in tal modo giuridicamente valida la rappresaglia contro cittadini italiani.
«L'istituto della rappresaglia è stato oggetto di accurato esame da parte della dottrina internazionalista, la quale, sulla base delle pratiche invalse, ne ha formulato il fondamento, il contenuto e i limiti.
Il fondamento della rappresaglia è dato dalla necessità di attribuire allo Stato offeso un mezzo di autotutela in conseguenza e in relazione ad un atto illecito di uno Stato straniero. L'esercizio di essa è strettamente collegato alla esistenza di una responsabilità a carico dello Stato cui si riporta quell'atto. È sulla base di questo presupposto che allo Stato offeso è dato colpire, per rappresaglia, un qualunque interesse dello Stato offensore.
Quanto al contenuto è principio unanimemente accolto che la rappresaglia deve essere proporzionata all'atto illecito contro cui si dirige, ma non necessariamente della stessa natura. Il principio della proporzione caratterizza l'istituto della rappresaglia. Questa deve avere scopo repressivo, non vendicativo. Con la rappresaglia si vuole fare cessare un'attività illecita ovvero si agisce perché non si ripeta un atto lesivo» (pp. 96-98).
«Dall'accennato rapporto sussistente fra il movimento partigiano e lo Stato italiano deriva che, in conseguenza dell'atto illegittimo di Via Rasella, lo Stato occupante aveva il diritto di agire in via di rappresaglia. La questione, quindi, si risolve nell'accertare se la fucilazione di 335 persone alle Fosse Ardeatine costituisca una rappresaglia ovvero un'azione diversa. Prima di dare una risposta al quesito è necessario premettere che nell'esecuzione delle Fosse Ardeatine si devono distinguere due momenti ben distinti, come si è chiarito nella esposizione del fatto.
Difatti, mentre la fucilazione di 320 persone si riporta all'ordine dato dal Gen. Maeltzer, la fucilazione di altre dieci persone, in relazione alla morte di un trentatreesimo soldato tedesco dopo la trasmissione di quell'ordine, costituisce un'attività diretta del Kappler. La fucilazione, infine, di altre cinque persone dipende da un errore di cui in seguito saranno valutate le conseguenze» (pp. 104-105).
«Distinta la fucilazione delle Fosse Ardeatine negli accennati due momenti, ne viene come conseguenza che il quesito postosi dal Collegio si riferisce solo alla fucilazione di 320 persone, che si riporta ad un ordine emanato dalla autorità competente a disporre la rappresaglia, non alla fucilazione delle altre dieci persone, la quale, essendo stata disposta da un organo incompetente ad ordinare la rappresaglia, costituisce un'attività che, sotto il lato oggettivo è senz'altro fuori dell'orbita della rappresaglia. Al quesito per il Collegio deve darsi risposta negativa» (pp. 105-106).
«Fra l'attentato di Via Rasella e la fucilazione delle Cave Ardeatine vi è una sproporzione enorme sia in relazione al numero delle vittime sia in relazione al danno determinato» (107).
«Stabilito che la rappresaglia, nella maniera nella quale fu disposta, deve considerarsi illegittima...» (p. 108).
«Dimostrata infondata la tesi della rappresaglia collettiva, la fucilazione delle Cave Ardeatine assume la qualificazione di omicidio continuato» (p. 119).
«L'atto di Via Rasella giustificava, come si è detto, un'azione di rappresaglia o di repressione collettiva, a seconda della qualificazione giuridica che l'esercito occupante avesse attribuito all'attentato, condotta nel modo voluto dalle norme e dalle consuetudini internazionali, ma, dato che furono fucilate persone in numero di gran lunga sproporzionato
a quello dei militari tedeschi uccisi nell'attentato e senza che avessero alcun supporto di solidarietà con gli attentatori a quello, l'esecuzione delle Cave Ardeatine rimane scissa dalla causa giustificatrice» (p. 124).
«Ciò premesso, il Collegio ritiene che l'ordine di uccidere dieci italiani per ogni tedesco morto nell'attentato di Via Rasella concretatosi, attraverso il Gen. Maeltzer, nell'ordine di uccidere 320 persone in relazione a 32 morti, pur essendo illegittimo in quanto quelle fucilazioni costituivano per le considerazioni esposte degli omicidi, non può affermarsi con sicura coscienza che tale sia apparso al Kappler» (p. 130).
Tutti gli elementi esaminati
«fanno ritenere al Collegio non possa affermarsi con sicurezza che il Kappler abbia avuto coscienza e volontà di obbedire ad un ordine illegittimo.
Diversa, invece, è la posizione dell'imputato per la fucilazione di 10 ebrei, da lui disposta, come si è visto, per aver appreso che era morto un altro soldato tedesco e senza che in merito avesse avuto alcun ordine» (pp. 131-132).
«Le dieci fucilazioni, pertanto, concretano dieci omicidi volontari i quali, essendo stati commessi in conseguenza di uno stesso disegno criminoso, devono farsi rientrare nella figura giuridica dell'omicidio continuato.
La fucilazione delle altre cinque persone fu dovuta, come si è detto nella esposizione dei fatti, ad un errore che, per l'occasione in cui si manifestò, dimostra come in Kappler e nei suoi collaboratori più vicini sia mancato il più elementare senso di umanità» (p. 137).
Quanto ai subordinati di Kappler:
«Sulla base di questi elementi, considerato che gli imputati appartenevano ad un'organizzazione dalla disciplina rigidissima, dove assai facilmente si acquistava un abito mentale portato alla obbedienza pronta, tenuto presente che il timore di una denunzia ai Tribunali Militari delle SS. quanto mai rigidi ed ossequienti ai voleri di Himmler non poteva non diminuire la loro libertà di giudizio, valutata infine la circostanza che gli imputati erano ignari della esatta situazione che portava alla fucilazione delle Cave Ardeatine mentre erano a conoscenza che ordini aventi lo stesso contenuto di quello ad essi impartito dal Kappler spesso erano stati eseguiti in zone d'operazioni, il Collegio ritiene debba escludersi che essi avessero coscienza e volontà di eseguire un ordine illegittimo.
Il dubbio sulla colpevolezza, relativamente alla fucilazione di 320 persone, sussiste nei confronti del Kappler che ha potuto avere una tenue libertà di giudizio stante la conoscenza dei fatti inerenti all'attentato, non sussiste per l'esecuzione in genere relativamente a questi imputati, che furono all'ultimo momento chiamati ad eseguire un ordine e non seppero che il numero delle vittime, dopo l'ordine ricevuto, era aumentato. Essi, pertanto, vanno assolti dal reato loro ascritto in rubrica per aver agito nell'esecuzione di un ordine» (pp.142-143).
Ed ecco l'epilogo. Il Tribunale Militare
«DICHIARA Kappler Herbert responsabile del reato di omicidio continuato... e lo condanna alla pena dell'ergastolo per il primo reato e ad anni quindici di reclusione per il secondo reato [l'imposizione del tributo dell'oro agli Ebrei di Roma] ...
ASSOLVE Domizlaff Borante, Clemens Hans, Quapp Johannes, Schutze Kurt e Wiedner Karl del reato di omicidio continuato indicato nel primo capo d'imputazione in quanto agirono per ordine di un superiore» (pp. 153-154).
Riassumendo:
1) Nell'attentato di via Rasella morirono 32 «militari tedeschi» e due civili italiani, tra cui un bambino, successivamente un altro militare tedesco. In realtà le vittime tedesche furono almeno 42.
2) Gli attentatori erano combattenti illegittimi, ossia terroristi o banditi, e appunto per questo «l'attentato di via Rasella costituì un atto illegittimo di guerra».
3) Per questo motivo (e in virtù del fatto che gli attentatori «si ponevano come organo legittimo, almeno di fatto, dello Stato italiano») la rappresaglia tedesca era legittima, ma, secondo il Tribunale, «sproporzionata», nel senso che il rapporto di 1:10 fu considerato spropositato.
4) L'ordine proveniente dagli alti comandi tedeschi era pertanto illegittimo, ma non è certo che Kappler se ne rese conto.
5) Kappler fu condannato non già per la fucilazione delle 320 persone calcolate in base al suddetto rapporto di 1:10 (32 vittime tedesche = 320 vittime italiane), ma per le 10 persone che fece fucilare arbitrariamente, di sua iniziativa, senza ordini superiori, a causa del decesso del trentatreesimo soldato tedesco, e per le 5 persone fucilate per errore.
6) Tutti i subordinati di Kappler presenti al processo furono assolti da ogni imputazione.
Qui si impone qualche riflessione.
Se la legge è uguale per tutti, se la fucilazione da parte dei Tedeschi di 320 persone costituì un «omicidio continuato», l'attentato di via Rasella, in quanto «atto illegittimo di guerra» perpetrato da attentatori che non possedevano «la qualifica di legittimo organo belligerante», fu a maggior ragione un «omicidio continuato», che coinvolse anche almeno due civili, tra cui un bambino. Le vittime furono dunque non meno di 44. Che cosa fece la “giustizia” italiota?
Lascio la parola a Mario Spataro:
«Quattro degli esecutori della strage di via Rasella ricevettero medaglie. Nel settembre 1949, con decreto del presidente della repubblica, Carla Capponi venne decorata con medaglia d'oro al valor militare. Poco dopo, il 13 marzo 1950, Rosario Bentivegna, Mario Fiorentini e Franco Calamandrei, con decreto del presidente del consiglio Alcide De Gasperi, ottennero medaglie d'argento e di bronzo al valor militare: due medaglie a Bentivegna, due a Calamandrei e una a Fiorentini. Nelle motivazioni ritornavano, insistenti, le parole “intrepido ardimento”, “audacia”, e “decisione”. La Capponi fu poi eletta alla Camera dei deputati»[2] (corsivo mio).
Dunque, per lo stato italiota, un «omicidio continuato» perpetrato dall'odiato nazista è una atto di esecrabile barbarie, meritevole dell'ergastolo; lo stesso «omicidio continuato», commesso da partigiani, è un atto di «intrepido ardimento» meritevole di medaglia «al valor militare», il che, è evidente, contrasta non poco con la pronunciazione del Tribunale Militare che lo definì un «atto illegittimo di guerra», dunque né “valoroso”, né “militare”.
La sentenza del Tribunale Militare di Roma, nel procedimento penale a carico di Priebke del 1° agosto 1996, ribadì che l'attentato di via Rasella «dal punto di vista del diritto internazionale fu un atto di guerra materialmente illegittimo (art. 1 della Convenzione dell'Aia, del 1907)» (p. 55).
In merito alla questione «se siano stati affissi o pubblicati bandi militari che, qualche tempo prima della strage, avvertivano la popolazione romana della ineluttabilità di rappresaglie, con uccisione anche di civili nel rapporto di 10:1» (p. 58), il Tribunale dichiarò che
«è storicamente accertato che lo Stato Maggiore della Wehrmacht aveva emanato un ordine generale di rappresaglia, stabilendo un rapporto di 10 ad 1 per le zone di operazione del fronte occidentale (in quello orientale il rapporto era ancora più grande).
A tale direttiva dei massimi vertici militari tedeschi si raccorda, dunque, il problema dell'eventuale esistenza di bandi militari affissi sui muri di Roma prima della strage.
Non possono ignorarsi al riguardo alcune testimonianze che affiorano dai verbali del dibattimento Kappler: quella del questore Presti Umberto (15.6.1948, p. 412): “ricordo che, verso gennaio o febbraio 1944, venne messo un manifesto con il quale si avvertiva la popolazione che in caso di attentato ci sarebbero state rappresaglie di 1 : 10”; o quella di Frigenti Emilio (28.6.1948): “ci furono altri attentati; ricordo quello di via Tomacelli dove furono colpiti due ragazzi; dopo fu messo un bando il quale diceva che per ogni soldato tedesco ucciso sarebbero stati fucilati 10 italiani; ciò fu il 19 marzo”» (pp. 58-59).
Poi, contraddittoriamente, il Tribunale sentenzia che «è pacifico che nessun avvertimento della imminente strage pervenne in alcun modo agli attentatori di via Rasella»! (p. 60). È chiaro che queste anime candide si aspettavano che i Tedeschi avrebbero portato un numero di civili italiani dieci volte superiore a quello dei morti loro inflitti coll'attentato in alberghi di lusso sulle Alpi bavaresi, per una amena vacanza tra canti e balli. Poi, con supina quanto aberrante prosternazione ai miti resistenzialisti, il Tribunale afferma:
«Ma anche se questa minaccia [cioè l'avvertimento della imminente strage] fosse stata rivolta ai partigiani, non può ritenersi che questi avessero il dovere, quanto meno morale, di presentarsi per evitare il barbaro massacro» (p. 60) (corsivo mio).
C'è da restare allibiti: i perpetratori di un «atto di guerra materialmente illegittimo» non avevano neppure il “dovere morale” di presentarsi ai Tedeschi per evitare la strage di 320 civili!
Qui il fariseismo italiota assurge ad una delle sue più alte vette. Il conferimento della medaglia d'oro al vice brigadiere dei Carabinieri Salvo d'Acquisto in data 25 febbraio 1945 (alcuni anni prima che altre medaglie fossero concesse ai gloriosi attentatori) recava la seguente motivazione:
«Esempio luminoso di altruismo, spinto fino alla suprema rinunzia della vita, sul luogo stesso del supplizio, dove, per barbara rappresaglia, era stato condotto dalle orde naziste, insieme con 22 ostaggi civili del territorio della sua stazione, pur essi innocenti, non esitava a dichiararsi unico responsabile d'un presunto attentato contro le forze armate tedesche. Affrontava così, da solo, impavido la morte, imponendosi al rispetto dei suoi stessi carnefici e scrivendo una nuova pagina indelebile di purissimo eroismo nella storia gloriosa dell'Arma»[3].
Salvo d'Acquisto, innocente, sacrificò la propria vita per salvare quella delle vittime innocenti designate della rappresaglia, gli attentatori di via Rasella, colpevoli, sacrificarono la vita delle vittime innocenti designate della rappresaglia da essi provocata per salvare la propria: quale nobilissimo sentire morale! Quale «intrepido ardimento»! Quale straordinaria «audacia»! Si resta ammirati e orgogliosi che uno di cotanti eroi abbia fatto il suo trionfale ingresso nella Camera dei deputati italiota.
Qualche maligno potrebbe insinuare che siffatti eroi furono dei miserabili vigliacchi: grave errore. Essi avevano realmente il “dovere morale” di non presentarsi per evitare il massacro di civili innocenti, ovviamente secondo la “morale” staliniana. Lo scopo dell'attentato era infatti appunto quello di provocare la strage, sicché, se si fossero presentati salvando le vittime predestinate della rappresaglia tedesca, avrebbero mancato al loro obiettivo primario, sarebbero stati degli immorali.
Nel marzo 1944 il partigiano monarchico Massimo De Massimi ospitò nella sua casa uno degli autori del massacro, Franco Calamandrei. Successivamente egli, nel quadro di una causa civile contro i responsabili dell'attentato, riferì:
«La sera stessa del 23 marzo ebbi il sospetto che gli autori dell'attentato fossero i miei ospiti. Quando Franco Calamandrei venne a coricarsi lo investii a bruciapelo.
– Siete stati voi?
Egli mi guardò sorridendo.
– Sì, vuoi denunciarci?
– Non si tratta di denuncia, replicai, ma la cosa non finisce qui. Ci sarà una rappresaglia sanguinosa.
– A la guerra comme à la guerre! motteggiò il giovane.
– Ma come si può parlare con tanta leggerezza?, gridai. Vite umane saranno sacrificate per voi, innocenti saranno uccisi senza una ragione. Perché non dimostrate il vostro coraggio, costituendovi? Non potrete mai vantarvi di un'azione simile finché vivrete. Cercherete di farvi dimenticare e sarete tormentati dal rimorso. Sacrificandovi, invece, ogni italiano ricorderà il vostro nome.
– Retorica, sentimentalismo! Sono un marxista, caro mio, e come tale devo conservare la mia vita per la causa. Quella degli altri conta sino ad un certo punto»[4].
Di fronte a una tale nobiltà d'animo, la commozione prorompe e fa sgorgare dagli occhi mute lacrime di ringraziamento e di gioia. Che orgoglio avere nelle nostra storia italiota siffatti eroi!
Don Angelo Fagiolo, sacerdote, ex partigiano ed eroe della resistenza, nel 1996 dichiarò:
«Rosario Bentivegna dice che il suo fu un atto di guerra. Sconcertante: non ho intenzione di difendere i tedeschi, ma a Roma non si facevano azioni di guerra. Si svolgevano solo attività civili. Quelli uccisi nell'attentato di via Rasella erano militari che facevano solo servizi di guardia. I partigiani sulle montagne, loro sì che combattevano a viso aperto e rischiavano di persona. Non ci si traveste da spazzini per compiere un atto di guerra. Chi sostiene che via Rasella fu un atto di guerra non si rende conto di contraddirsi, perché in quel modo è costretto a giustificare anche la rappresaglia tedesca: se via Rasella fu un atto di guerra, allora anche le Ardeatine sono giustificabili come atto di guerra»[5].
Non meno lucida è l'analisi del generale Franco Calissoni, che dirigeva l'autocentro del Viminale:
«Quella bomba [di via Rasella] non aveva alcun senso dal punto di vista militare. Chi ebbe l'idea dell'attentato volle tendere un tranello al comando tedesco che ci cascò in pieno. Si voleva provare la reazione dei romani, ben sapendo della rappresaglia. Gli esempi c'erano già stati. Il sacrificio di Salvo d'Acquisto era già avvenuto. Qualche tempo prima nella zona c'era stato un altro attentato, senza vittime. E il comando tedesco aveva affisso manifesti in cui si annunciava il ricorso a rappresaglie. Rappresaglie che, si badi bene, non facevano solo i tedeschi ma anche gli altri eserciti. Ciò che è sicuramente contrario alle convenzioni internazionali è definire l'attentato di via Rasella un atto di guerra: fino a quel momento i tedeschi avevano sostanzialmente rispettato a Roma la qualifica di città aperta»[6].
In pratica, gli attentatori sapevano della rappresaglia (avevano perpetrato l'attentato proprio affinché fosse messa in atto!), ma, come si dice volgarmente, se ne fregarono altamente delle vite delle vittime, perché, nobilmente, dovevano «conservare la loro vita per la causa».
Non senza ragione Marco Pannella, ad un convegno radicale che si svolse il 31 marzo 1979, dichiarò:
«Se il terrorismo [delle Brigate Rosse] va denunciato e colpito, assieme al terrorismo di oggi dobbiamo denunciare, come corresponsabile, l'intera storia della violenza di sinistra. Se Renato Curcio è colpevole, allora anche l'azione di via Rasella configura una forma, da condannare, di violenza omicida»[7].
Chiarita la questione della legittimità e del valore militare e morale dell'attentato, resta da esaminare, tornando alla sentenza del 1948, la condanna della rappresaglia tedesca come “sproporzionata”, per aver i Tedeschi adottato un rapporto di 1:10. In una relazione datata 17 giugno 1997, il prof. Franz W. Seidler, all'epoca titolare della cattedra di storia sociale e militare presso l'Università di Monaco di Baviera, mostrò che gli Alleati, contro i Tedeschi nella Germania invasa, adottarono rapporti di gran lunga superiori. Qualche esempio:
«A Stoccarda il generale francese Lattre de Tassigny minacciò l'uccisione di ostaggi tedeschi nel rapporto di 25:1 se fossero stati uccisi soldati francesi. A Marktdorf erano previste fucilazioni di ostaggi nel rapporto di 30:1. [...]. Ad Harz le forze americane minacciarono esecuzioni punitive nel rapporto di 200:1. Quando il generale americano Rose, nel marzo 1945, rimase vittima di una imboscata, gli americani fecero fucilare per rappresaglia 110 cittadini tedeschi. [...]. A Berlino l'Armata Rossa minacciò fucilazione di ostaggi nel rapporto di 50:1. [...]. A Soldin, Neumark, furono fucilati dai russi 120 cittadini tedeschi perché un maggiore russo era stato ucciso nottetempo da una guardia tedesca»[8].
Nei due casi sopra contemplati in cui la rappresaglia fu inflitta effettivamente, il rapporto fu di 1:110 e 1:120. Nessun Tribunale Militare ebbe alcunché da ridire al riguardo, il che significa che una rappresaglia con un rapporto di 1:10 effettuata dai Tedeschi è esecrabilmente sproporzionata, ma una rappresaglia con un rapporto di 1:110 o 1:120 compiuta dagli Alleati è un atto di sacrosanta giustizia!
Dopo aver esposto questo luminoso episodio di eroismo, mi permetto un ovviamente irriverente confronto tra gli atti degli “intrepidi arditi” e del “boia” Priebke. Quale fu il suo ruolo nella tragica vicenda delle Fosse Ardeatine? Lascio di nuovo la parola alla sentenza del Tribunale Militare di Roma:
«La partecipazione dell'imputato alla preparazione delle liste contenenti i nominativi degli sventurati da mandare a morte, il controllo dell'identità delle vittime che man mano scendevano dagli autocarri che giungevano alle Cave, la personale fucilazione di due persone con un colpo sparato alla nuca, costituiscono evidenze processuali incontestabili. [...]. La colpevolezza del Priebke va riferita, a titolo di responsabilità oggettiva, anche alle cinque persone erroneamente [...] fucilate in eccedenza al numero di 330» (pp. 67-68).
Priebke si rese dunque colpevole di «omicidio aggravato» di due persone che «è divenuto punibile con la pena della reclusione non inferiore ad anni ventuno [...] e questa, sulla base degli argomenti finora esplicitati, sarebbe stata la pena da infliggere all'imputato se egli fosse stato sottoposto a giudizio a pochi anni di distanza dai fatti, e non mezzo secolo dopo. Ciò non è possibile [...] per la prescrizione del reato di omicidio» (pp. 120-122).
La prescrizione era valida per il caso in oggetto in quanto
«quello addebitato al Priebke, infatti, almeno formalmente, è un crimine di guerra e non può essere qualificato come “crimine contro l'umanità” al solo fine di renderlo imprescrittibile» (p. 122).
Non è chiaro, se non in base all'adozione del principio dei due pesi e delle due misure, per quale ragione per gli stessi atti da essi commessi (la fucilazione di due persone), tutti gli ufficiali SS presenti alle Fosse Ardeatine furono considerati esenti da pena. Priebke stesso ricordò:
«Le esecuzioni cominciarono a partire dagli ufficiali di grado più alto. Immediatamente prima di me aveva fatto fuoco Domizlaff, in un gruppo forse comandato dallo stesso Kappler. Il primo gruppo in assoluto era agli ordini di Schütz, proprio perché lui aveva il comando dell'intera operazione. Io ero dovuto entrare nelle cave quasi subito, forse con il terzo gruppo. Fu il capitano Clemens, altro ufficiale conosciuto per essere un duro, a dare l'ordine di fuoco. Sparai con il mitra nella posizione di tiro singolo. Per triste ironia della sorte, le armi usate alle Ardeatine furono proprio quei mitra Beretta che io stesso avevo salvato dal saccheggio del deposito dell'Aeronautica Militare Italiana, nel settembre del 1943. Io non avevo mai ucciso prima di quel giorno e non l'ho, grazie a Dio, mai più dovuto fare. L'essere la guerra fatta di massacri e di morte, non può alleviare il dramma di chi ha una coscienza e deve sopprimere una vita: a quel modo per di più. Se avessi potuto evitare quell'orrore lo avrei di certo fatto»[9].
Qui vale la pena di ricordare che la sentenza del processo Kappler assolse Domizlaff, Clemens e Schutze [Schütz] dal «reato di omicidio continuato indicato nel primo capo d'imputazione in quanto agirono per ordine di un superiore». Dunque gli altri capitani SS che parteciparono all'eccidio furono assolti in quanto obbedirono a un ordine superiore, mentre Priebke, per la stessa imputazione, era passibile di punizione «con la pena della reclusione non inferiore ad anni ventuno»! Misteri della giustizia italiota. Se Priebke si fosse per avventura trovato tra gli imputati del processo del 1948, sarebbe stato assolto al pari dei suoi colleghi capitani SS e forse sarebbe stato al riparo dalle vicende giudiziarie successive. Dico “forse”, perché, sebbene nella repubblica italiota delle banane non si possa processare due volte la stessa persona per lo stesso reato, probabilmente per Priebke sarebbe stata escogitata una porcata giudiziaria per processarlo ugualmente, come fu fatta col suo riarresto illegale ed arbitrario dopo la sentenza di assoluzione, di cui parlerò sotto.
Ciò premesso, confrontiamo: gli attentatori di via Rasella provocarono la morte di almeno 44 persone in un atto di «violenza omicida», di loro arbitrio (come Kappler fece per i 10 fuciliati in più rispetto ai 320 ordinati dai suoi superiori), senza alcun ordine superiore; Priebke dovette uccidere 2 persone, se non altro per «il timore di una denunzia ai Tribunali Militari delle SS. quanto mai rigidi ed ossequienti ai voleri di Himmler» che «non poteva non diminuire la sua libertà di giudizio»; ma gli uni sono gloriosi esempi di alte virtù italiote, l'altro un bieco “criminale nazista”.
Sul piano morale, il porcaio mediatico cui accennavo sopra, ha sempre sottolineato con sdegno che Priebke “non si è mai pentito”: come può pentirsi chi sia costretto a compiere un atto che, avendo libertà di scelta, non commetterebbe? Egli invece fece l'unica cosa che poteva fare: espresse raccapriccio per l'orrore che aveva dovuto commettere.
Viceversa, nessuno mai si è sognato di chiedere il pentimento agli attentatori di via Rasella, sebbene avessero piena libertà di scelta e avessero scientemente compiuto il loro atto criminale. E si è anche visto quanto questi fulgidi eroi si siano pentiti da soli: «Sono un marxista, caro mio, e come tale devo conservare la mia vita per la causa. Quella degli altri conta sino ad un certo punto».
La vita degli altri conta sino ad un certo punto: questa massima, da allora, è diventata il principio di tutte le grandi “democrazie” occidentali, che hanno massacrato e massacrano a destra e a manca in tutti i teatri mondiali senza battere ciglio migliaia e migliaia di civili innocenti (per determinata volontà omicida o per “effetti collaterali”), salvo stracciarsi le vesti e mandare alti lai e “sdegnarsi” quando viene colpito “uno dei nostri ragazzi” (ossia un americano, un israeliano, un italiano ...). Un'altra applicazione del principio dei due pesi e delle due misure che è in realtà una tacita forma di razzismo: le razze inferiori (palestinesi, afgani, irakeni ecc. ecc.) possono pure crepare; di loro non importa a nessuno.
Riprendo le fila del caso Priebke. La sentenza del Tribunale di Roma del 1996
«DICHIARA non doversi procedere a carico di Priebke Erich in ordine al reato ascrittogli in epigrafe, tenuto conto delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62 bis C.P. e 59 n. 1, C.P.M.P., equivalenti alle contestate aggravanti, essendo il reato stesso estinto per intervenuta prescrizione; ORDINA la scarcerazione immediata dell'imputato, se non detenuto per altra causa» (p. 123) (corsivo mio).
Ciò che accadde dopo, è tipico della repubblica italiota dove “le sentenze vanno sempre rispettate”.
Ridiamo la parola a Spataro:
«Alle 18,00 la sentenza. [...]. Quasi secondo un copione, in prima fila i teppisti. Dietro, a mo' di alibi, i familiari delle vittime e gli estremisti del ghetto con sul capo lo zucchetto kippah e al collo il fazzoletto biancoazzurro dei deportati. [...]. Nel frattempo un centinaio di giovani giunti dal ghetto e da altre parti di Roma invadevano le scale e le stanze... Non ce ne andiamo, urlava Riccardo Pacifici, dirigente dei giovani della comunità ebraica. [...]. Il rabbino capo di Roma, Elio Toaff, per telefono dall'isola d'Elba, soffiava sul fuoco: “Chi in coscienza ritiene di non dover lasciare uscire Priebke, rimanga pure lì”. E ancora, ribadendo il concetto: “Chi secondo coscienza ritiene giusto restare dentro il tribunale è giusto che rimanga per impedire a Priebke di uscire... Ve lo ripeto, agite secondo coscienza. Se volete, restate!”.».
In pratica la marmaglia ebraica sequestrò il tribunale. E che cosa fecero i dirigenti della italiota repubblica delle banane? Questo:
«Nel cuor della notte, dopo una lauta (e, è lecito supporre, bene annaffiata) cena, arrivava in tribunale, scortatissimo, il ministro [di Grazia e Giustizia] Giovanni Maria Flick che verso le 2,00 ordinava (e ne dava notizia alla teppa precisando che il detenuto sarebbe stato tradotto “in un carcere non militare”) il nuovo e illegale arresto di un uomo che, se debitamente protetto dallo stato, già da otto ore sarebbe stato legittimamente libero. In cambio, Flick otteneva che venisse tolto l'assedio al tribunale.
Così, con un atto d'imperio degno di una dittaturella terzomondista, il potere politico strappava l'imputato dalle mani della giustizia che lo aveva reso libero e lo affidava a quelle (forse più allineate politicamente) di un altro ramo della giustizia: sicché l'ottantatreenne Priebke si ritrovava ammanettato e scaraventato, sgomento, nella bolgia del carcere di regina Coeli, in mezzo ai delinquenti comuni»[10].
L'unica cosa che stupisce, in questo porcaio politico, è che Flick non abbia abbandonato Priebke alla teppaglia ebraica affinché fosse linciato pubblicamente e appeso da qualche parte a testa in giù.
Questo episodio insegna inoltre che nella repubblica italiota delle banane il reato commesso da membri del “popolo eletto” non è reato, o, se si vuole, costoro sono al di sopra delle leggi della repubblica.
Riprendo il discorso dall'inizio. Francesco Nitto Palma è un esponente del Pdl, partito che, è noto a tutti, si batte con veemenza a favore di Silvio Berlusconi, che considera ingiustamente perseguitato dalla magistratura. Dall'altra parte, il PD e gli altri partiti di contorno affermano che la magistratura ha agito correttamente (se è così, allora bisogna proclamare apertamente che Berlusconi, per il numero impressionante di processi che ha subìto, è un criminale interplanetario e tutti i suoi elettori devono essere bollati come suoi complici) e che, comunque, “le sentenze vanno sempre rispettate”.
Ora Priebke da un lato è stato sottoposto a un processo ingiusto (perché i suoi colleghi capitani SS erano stati assolti per lo stesso reato al processo Kappler), sicché questo fatto dovrebbe essere condannato dal Pdl, dall'altro la sua sentenza di assoluzione fu vergognosamente dileggiata dal massimo rappresentante della giustizia repubblicana, e questo fatto dovrebbe essere condannato dal PD... se non ci trovassimo nella repubblica italiota delle banane, dove gli sforzi concentrici dei parlamentari mirano a salvaguardare i loro privilegi e a crearne di nuovi; quanto alla povera gente, essa, come sempre, «conta sino ad un certo punto», cioè niente.
E questi sono i personaggi che osano proporre una legge anti-”negazionista” per l' “orrore” suscitato loro dalle dichiarazioni del “boia delle Fosse Ardeatine”!
Anche il porcaio clericale (non dico “religioso” perché questa pretaglia dissacra e profana questo termine) merita un commento. Il Messaggero, in data 14 ottobre, riporta la seguente informazione:
«CITTÀ DEL VATICANO - “Non sono previste esequie per Erich Priebke in una chiesa di Roma”.
La voce che aveva diffuso l'avvocato del criminale nazista, Paolo Giachini, che si sarebbe celebrata una funzione funebre nella Capitale ha trovato l’immediata smentita da parte del portavoce del Vicariato, don Walter Insero. La posizione della Chiesa è netta ed è frutto di una meditata riflessione tenendo conto dei motivi di opportunità e probabilmente anche per non creare sconcerto tra i fedeli, visto che Priebke fino all'ultimo, sia negli scritti che ha lasciato, che nelle affermazioni raccolte poco prima di morire, non ha dato segni di pentimento, non ha arretrato di un millimetro dalle sue tesi negazioniste»[11] (corsivo mio).
Dunque, a detta del quotidiano, la salma di Priebke non viene ammessa in una chiesa cattolica per due motivi:
1) «non ha dato segni di pentimento»: ho già chiarito sopra quanto questa affermazione sia insulsa e ipocrita; 2) «non ha arretrato di un millimetro dalle sue tesi negazioniste», dal che si desume che un “negazionista” non merita funerali religiosi e magari dev'essere seppellito in terra sconsacrata.
Quale sublime esempio di pietà cristiana! Quale commovente e fedele applicazione del principio evangelico “amate i vostri nemici”!
Ammetto il colpo basso: il Novum testamentum graece et latine di Augustinus Merk riporta. in riferimento a Matteo 5,44, una glossa della Recensio Licinianea che dice: «agapàte tous ekhthroùs umòn: ei me èi oùtoi nazistòi eisìn», «amate i vostri nemici: a meno che costoro non siano nazisti».
Così anche la Chiesa è servita, coll'assordante silenzio di papa Francesco su una tale ignobile decisione pretesca.
Sembra una tragica allucinazione collettiva; sembra che il porcaio mediatico, nelle sue deliranti farneticazioni, abbia preso un insignificante capitano delle SS per Himmler in persona.
Finora ho parlato di ipocrisia farisaica. L'ignoranza caprina è evidentissima. I nostri parlamentari non hanno la più vaga idea neppure della storiografia olocaustica, figuriamoci del revisionismo storico. Essi giudicano e decidono a scatola chiusa.
Se qualcuno avesse almeno la curiosità (non si può pretendere l'onestà) intellettuale di aprire la scatola, può dare un'occhiata allo studio revisionistico di oltre 1500 pagine apparso di recente in pdf col titolo The “Extermination Camps” of “Aktion Reinhardt”[12] (I “campi di sterminio” dell' “Azione Reinhardt”), che è stato redatto da Thomas Kues, Jürgen Graf e Carlo Mattogno.
Il revisionismo olocaustico è questo, non la ridicola parodia che ne presenta il porcaio mediatico da cui tutti traggono le loro incrollabili, vuote certezze.
Carlo Mattogno
14 ottobre 2013
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