sabato 29 giugno 2013
giovedì 27 giugno 2013
Interessante articolo di Filippo Giannini.
Centro Documentazione Rsi
Interessante articolo di Filippo Giannini, il cui stile e penna non hanno bisogno di presentazioni.
26/04/2013
Sempre nel ricordo di Piazzale Loreto: Solite infamie
Questa volta ad opera di Paolo Mieli
di Filippo Giannini
Ė vero: ho un cara...tteraccio! Sarà che ho ancora dentro di me lo spirito del Balilla che non sopporta le vigliaccate. Mi riferisco alla trasmissione di Ballarò del 23 aprile 2013, quando in un intervento del direttore de Il Corriere della Sera, Paolo Mieli, commentando uno dei tanti inciuci riguardanti il connubio PD/PdL, ebbe a ricordare (cito a memoria): <D’altra parte anche nel 1944, Togliatti rientrato in Italia si alleò con la Democrazia Cristiana e nel 1976 Il Partito Comunista di Berlinguer si alleò con Aldo Moro>. Poi il signor Mieli non poteva mancare di ricordare (e te pare!?) che Mussolini portò l’Italia allo sfascio della Seconda Guerra mondiale e alle infami leggi razziali. Per prima cosa osservo: non è possibile che un simile personaggio non conosca la Storia vera, e quindi la falsità di quanto asserisce.
Proviamo a dimostrare quanto sostengo.
Come e perché si giunse alla Seconda Guerra mondiale. Lo storico Rutilio Sermonti attesta (L’Italia nel XX Secolo): <La risposta poteva essere una sola: perché esse volevano un generale conflitto europeo quale unica risorsa per liberarsi della Germania – formidabile concorrente economico – e, soprattutto dell’Italia. Questo è necessario comprendere se si aspira alla realtà storica: soprattutto dell’Italia>.
Nella Conferenza di Ginevra sul disarmo (febbraio 1932), alla quale parteciparono sessantadue Nazioni, l’Italia era rappresentata da Dino Grandi e da Italo Balbo. Grandi, a nome del popolo italiano, sostenne il progetto di una parificazione al livello più basso degli armamenti posseduti dalle singole Nazioni. Venne inoltre esposto il progetto mussoliniano tendente all’abolizione dell’artiglieria pesante, dei carri armati, delle navi da guerra, dei sottomarini, degli aerei da bombardamento, in altre parole la mes¬sa al bando di tutto ciò che avrebbe potuto portare ad una guerra di distruzione.
Di fatto, la Conferenza non trovò sbocco alcuno per le oppo¬sizioni di Francia e Germania.
Possibile che il signor Mieli non ricorda che Mussolini propose il Patto a Quattro (7 giugno 1933), proprio per integra¬re, con un patto politico, l’Europa, mediante un diretto¬rio delle quattro Potenze: Inghilterra, Francia, Germania e Italia. Il documento propositivo di Mussolini cominciò a circolare nei tre Stati interpellati. Il documento ebbe successo di siglatura, ma fallì quando, presentato per l’approvazione ai parlamenti inglese e francese la siglatura non fu rispettata e decadde definitivamente a Stresa nel 1935. Mussolini camminava nella tradizione romana, carolingia e cattolica: aspirazione antica sempre delusa. Mussolini aveva ammonito con lungimiranza: “Fare crollare la pace in Europa significa fare crollare l’Europa”>.
Visto che ci siamo, signor Mieli, perché non ricordare che Mussolini, quale Capo del Governo italiano si fece, ancora una volta, promo¬tore di un incontro che si svolse a Stresa, nei pressi del Lago Maggiore, tra l’11 e il 14 aprile 1935, con i rappresentanti delle tre Potenze alleate della prima guerra mondiale: l’Italia (Mussolini), Gran Bretagna (MacDonald, J. Simon) e Francia (Laval, Flandin).
Al termine dei lavori fu stilato un documento nel quale i tre Governi constatarono che il ripudio unilaterale posto in essere dal Governo tedesco, nei suoi obblighi per il disarmo, avrebbe potuto pregiudicare la pace in Europa e si dichiararono in perfetto accor¬do di opporsi con ogni mezzo a qualsiasi ulteriore disconosci¬mento unilaterale degli obblighi previsti nei Trattati e si impegna¬rono per una continuazione dei negoziati per il loro riesame. Rin¬novarono anche il loro impegno per la sicurezza e l’indipendenza dell’Austria. Signor Mieli, perché decaddero quegli acordi?
I detentori della maggior parte delle ricchezze della terra, Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, perché pretesero e ottennero le sanzioni contro l’Italia nel 1935? Per difendere l’Etiopia? Ma non ci faccia ridere; l’Etiopia, forse sobillata proprio da questi Paesi fu responsabile dell’attacco al consolato italiano di Gondar, l’11 novembre 1934 (dove rimase ucciso un militare di colore fedele all’Italia) e, come ricorda il giornalista e storico svizzero, Paul Gentizon (Difesa dell’Italia): <Ancora nel 1924 l’Italia che ha appoggiato lealmente l’accoglimento dell’Etiopia nella Società delle Nazioni riceve festosamente a Roma Ras Tafari, firma con lui un Patto di amicizia accompagnato dalla offerta di un aiuto finanziario. Tutto ciò non disarma la boria e la malvagità del governo abissino che respinge sistematicamente le domande di concessioni e turba il libero commercio tra Eritrea e Etiopia con una tacitamente organizzata guerriglia di rapina. Gli incidenti scoppiano a catena e non si sa più come giustificarli o come accettarne le giustificazioni. Dal maggio ’28 all’agosto ’35 si allineano 26 offese a rappresentanti diplomatici, 15 aggressioni a cittadini italiani, 51 razzie: tutto ciò avviene in territorio italiano e i morti italiani non mancano>.
La tensione nei rapporti italo-etiopici si aggravarono alla fine del 1934, quando un contingente abissino si accampò davanti al fortino di Ual-Ual difeso dai Dubat, soldati somali fedeli all’Ita¬lia, al comando del capitano Roberto Cimmaruta. Lo storico Rutilio Sermonti (L’Italia nel XX Secolo, Edizioni All’Insegna del Veltro, 2001) attesta che le truppe assalitrici erano al comando del colonnello inglese Clifford.
Ual-Ual era una località posta al confine, sin da allora incerto, fra Somalia ed Etiopia, ma mai rivendicato dal Governo Abissino.
II 5 dicembre di quell’anno, dopo che i Dubat rifiutarono la richiesta abissina di sgombero, questi scatenarono l’assalto e lo scontro si concluse all’alba del giorno seguente con la vittoria ita¬liana, ma le nostre truppe coloniali lasciarono sul terreno 120 morti. Si è scritto che dietro questo grave incidente ci fosse la mano di Londra e Parigi; ma questo non è provato.
Bruno Barrella su Il Giornale d’Italia del 18 luglio 1993, rammentando i fatti di Ual-Ual, scrive: <È l’ultimo di una catena di episodi di sangue che avvenivano lungo uno dei confini più la¬bili dell’epoca>.
Per risolvere pacificamente il dissidio creatosi a seguito degli incidenti di Ual-Ual, venne istituita una commissione arbitrale italo-etiopica, presieduta dallo specialista greco di diritto interna¬zionale, Nicolaos Politis. La commissione, il 3 settembre 1935, emetteva la sentenza attribuendo le cause degli scontri agli atteg¬giamenti ostili di alcune autorità locali abissine, escludendo, di conseguenza, ogni responsabilità italiana.
L’alleanza con il nazionalsocialismo? «Ades¬so che la politica inglese aveva forzato Mussolini a schierarsi nell’altro campo, la Germania non era più sola» (La Seconda Guerra Mondiale, di Winston Churchill, 1° volume, pag. 209). Quasi con le stesse parole George Trevelyan nella sua “Storia d’Inghilterra”, a pag. 834, ha scritto: <E l’Italia che per la sua posizione geografica poteva impedire i nostri contatto con l’Austria e i Paesi balcanici, fu gettata in braccio alla Germania>. E vogliamo dimenticare il più noto studioso del fascismo? Renzo De Felice (Storia degli Ebrei sotto il Fascismo, pag. 137): <Sulla ineluttabilità dell’alleanza con Hitler e quindi della necessità di eliminare tutti i motivi non solo di frizione, ma anche solo di disparità con la Germania>. Mussolini era conscio che l’antisemitismo occupava uno spazio preminente nell’ideologia nazionalsocialista, di conseguenza se voleva eliminare le ultime diffidenze tedesche, anche nel ricordo del “tradimento italiano del 1915” e giungere ad una reale alleanza militare, doveva adeguarsi alle circostanze. Riteniamo che fosse questa e non altre la ragione della scelta del Duce.
Tanto, ma tanto ancora avrei da scrivere e condannare i veri criminali dello scorso secolo, e mi riferisco a Franklin D. Roosevelt e Winston Churchill, personaggi abominevoli che galleggiano su un mare di sangue.
Passo ora a trattare l’argomento più infame: l’accusa di essere Mussolini la concausa della reale, o bugiarda accusa del massacro degli ebrei.
Signor Mieli, mi sa spiegare – e spiegarlo agli italiani – come mai negli anni 1938-1942 gli ebrei che fuggivano dai Paesi occupati dai tedeschi anziché rifugiarsi in Russia o in Inghilterra o negli Stati Uniti si rifugiavano in Italia ed erano decine di migliaia? Eppure in Italia vigevano le leggi razziali.
Proverò a spiegarlo io, ma se sbagliassi, mi corregga. Se può.
Gli inglesi non usarono solo le parole, ma la violenza contro gli israeliti. Rosa Paini (storica ebrea, Il cammino della speranza) riferisce che nel ’41 un folto nucleo di famiglie fuggito da Bratislava, imbarcato sul piroscafo “Pendeho”, composto da 510 profughi cechi e slovacchi, dopo aver navigato sul Danubio giunse nel Mar Nero. Qui, e precisamente a Sulina, salì a bordo il console britannico e informò i malcapitati che il suo governo li considerava immigranti illegali: di conseguenza, se si fossero avvicinati alle coste della Palestina, sarebbero stati silurati. Dovettero quindi ripartire e, superati diversi incidenti, giunsero all’isola disabitata di Camillanissi dove non c’era nemmeno acqua. Sbarcati, assistettero impotenti all’affondamento del battello. Dopo cinque giorni di sofferenze sopraggiunse una nave della Croce Rossa Italiana che imbarcò i profughi per trasferirli a Rodi, dove rimasero alcuni mesi e quindi imbarcati e trasferiti in Italia. Fra i tanti vale la pena di ricordare un altro dramma: nel febbraio del 1942 lo “Struma”, una nave di profughi proveniente dalla Romania, si vide rifiutare dagli inglesi il permesso di sbarcare, e, respinta anche dai turchi, affondò nel Mar Nero: settecentosettanta persone annegarono (Paul Johnson, Storia degli ebrei, pag. 582).
Lo storico israelita Léon Poliakov (“Il nazismo e lo sterminio degli ebrei”, pag. 63) accusa apertamente il governo britannico ricordando che qualche convoglio clandestino, formato con l’aiuto di Eichmann, tentò di discendere il Danubio su barche, mirando alla Palestina, ma le autorità inglesi rifiutarono il passaggio di questi viaggiatori perchè sprovvisti di visto. <Così si assiste al paradosso che la “Gestapo” spinge gli ebrei verso il luogo della salvezza, mentre il governo democratico di Sua Maestà britannica ne preclude l’accesso alle future vittime dei forni crematori>.
Oppure: L’esperto di sondaggi Elmo Roper osservò: <Gli Stati Uniti avrebbero certamente potuto accogliere un gran numero di profughi ebrei. Invece, durante il periodo bellico, ne furono ammessi soltanto 21 mila, il 10% del numero concesso secondo la legge delle quote. La ragione di questo fatto era l’ostilità dell’opinione pubblica. Tutti i gruppi patriottici, dall’American Legion ai Veterans of Foreign Wars, invocavano un divieto totale all’immigrazione. Ci fu più antisemitismo durante il periodo della guerra che in qualsiasi altro della storia americana (…). Negli anni 1942-44, ad esempio, tutte le sinagoghe di Washington Heights, New York, furono profanate>.
Un’altra testimonianza ci viene offerta dal “Neue Zürcher Zeitung”, il quale il 18 gennaio 2000 ha pubblicato una lettera a firma di Susi Weill che, fra l’altro, ha scritto: <I miei genitori avevano tentato invano di emigrare in America, ed oggi è un fatto stabilito che le rappresentanze diplomatiche americane in Europa avevano ricevuto l’ordine di respingere tali domande>.
Quando fu necessario, il governo americano usò la forza, come ricorda Franco Monaco (op. cit., pag.175): <Allorchè a un piroscafo carico di ebrei, partito da Amburgo, fu vietato l’attracco a New York, quei fuggiaschi vennero accolti in Italia e poi dislocati in varie zone della Francia, della Dalmazia e della Grecia>.
Non è sufficiente? E allora andiamo avanti.
Ha scritto Daniele Vicini su “L’Indipendente” del 20 luglio 1993: <Ebrei e comunisti sciamano verso il Brennero, frontiera che possono varcare senza visto a differenza di altre (americana, sovietica, ecc.) apparentemente più congeniali alle loro esigenze>. Dello stesso parere è Klaus Voigt che in “Rifugio precario” osserva quanto fosse strana la dittatura fascista. Infatti scrisse: <Fino all’entrata in guerra dell’Italia non risulta neppure un caso di condanna o allontanamento di un emigrante per attività politica (…). Eppure dal 1936, la Germania è il principale alleato e quegli “emigranti” sono suoi nemici. Polizia e carabinieri ricevevano disposizioni dal Duce, chiare ed essenziali, anzi ridotte ad una sola parola: “Sorvegliare”. Non arrestare>. Allora, Signor Mieli, come ripeto: in Italia vigevano le leggi razziali. Tutti pazzi?
Andiamo avanti, Signor Mieli? Volentieri, fino a che lo spazio me lo concede.
<Mentre, in generale, i governi filofascisti dell’Europa asservita non opponevano che fiacca resistenza all’attuazione di una rete sistematica di deportazioni capi del fascismo italiani manifestarono in questo campo un atteggiamento ben diverso. Ovunque penetrassero le truppe italiane, uno schermo protettore si levava di fronte agli ebrei (…). Un aperto conflitto si determinò tra Roma e Berlino a proposito del problema ebraico (…). È significativo il fatto che i tedeschi non sollevarono mai il problema degli ebrei in Italia. Certamente temevano di urtare la suscettibilità italiana (…). Appena giunte sui luoghi di loro giurisdizione, le autorità italiane annullavano le disposizioni decretate contro gli ebrei (…)> (Léon Poliakov, “Il nazismo e lo sterminio degli ebrei”, pagg. 219-220).
Andiamo avanti?
Poliakov scrive: <Mentre i Prefetti (francesi) ordinavano arresti e internamenti, allestivano convogli per la Gestapo, le autorità militari italiane, a dispetto delle minacce, ordinavano l’annullamento di tali ordini. Tra le autorità d’occupazione tedesche e il Governo di Berlino, tra il governo di Berlino e il Governo di Roma, tra le autorità di Vichy e i generali italiani vi era un continuo scambio di note nervose e impazienti. La Germania chiedeva all’Italia di agire nello spirito delle disposizioni tedesche. L’Italia rifiutava e resisteva>. Non solo, ma il Governo italiano ottenne che gli ebrei italiani residenti nelle zone occupate dall’esercito tedesco fossero esentati dall’obbligo di mostrare la stella gialla. Lo stesso accadeva nella Legazione di Bruxelles. Addirittura, secondo quanto scrive Martelli, che include un documento nel quale descrive come il Consolato Italiano di Bruxelles esigeva che venissero esentati dall’imporre la stella gialla e dai lavori forzati, anche gli ebrei greci perchè le truppe italiane occupavano parte del territorio greco. Questo, evidentemente era troppo, infatti un ordine del Conte Blanco Lanza d’Ajeta, del Ministero degli Esteri di Roma, con un telegramma datato agosto 1942, imponeva di <sospendere tutte le iniziative prese in merito ai cittadini ebrei greci>. http://motlc.wiesenthal.com/
Lo stesso docente dell’Università ebraica di Gerusalemme, George L. Mosse, nel suo libro “Il razzismo in Europa”, a pag. 245 ha scritto: <Il principale alleato della Germania, l’Italia fascista, sabotò la politica ebraica nazista nei territori sotto il suo controllo. Le leggi razziali introdotte da Mussolini nel 1938 impedivano agli ebrei di svolgere molte attività e si tentò anche di raccogliere gli ebrei in squadre di lavoro forzato; ma mentre in Germania Hitler restringeva sempre più il numero di coloro che potevano sottrarsi alla legge, in Italia avveniva il contrario: le eccezioni furono legioni. Come abbiamo già detto, era stato Mussolini stesso a enunciare il principio “discriminare non perseguire”. Tuttavia l’esercito italiano si spinse anche più in là, indubbiamente con il tacito consenso di Mussolini (…). Ovunque, nell’Europa occupata dai nazisti, le ambasciate italiane protessero gli ebrei in grado di chiedere e ottenere la nazionalità italiana. Le deportazioni degli ebrei cominciarono solo dopo la caduta di Mussolini, quando i tedeschi occuparono l’Italia>.
Vedo che lo spazio a mia disposizione si esaurisce, allora oso chiedere al signor Mieli: se quanto ho scritto risultasse vero, perché tanta vigliaccheria verso l’unico statista onesto e capace che l’Italia abbia avuto da secoli? Mi permetto di esporre la mia idea riferendomi a quanto ha scritto Rutilio Sermonti, e riportato all’inizio di queste pagine: <La risposta poteva essere una sola: perché esse volevano un generale conflitto europeo quale unica risorsa per liberarsi della Germania – formidabile concorrente economico – e, soprattutto dell’Italia. Questo è necessario comprendere se si aspira alla realtà storica: soprattutto dell’Italia>. E la risposta viene per bocca dello stesso Benito Mussolini; nel corso di una intervista che il Duce concesse nel suo studio presso la Prefettura di Milano a Gian Gaetano Cabella, direttore del Popolo di Alessandria, nel pomeriggio del 20 aprile 1945, cioè sei giorni prima del suo assassinio: <RICORDATEVI BENE: ABBIAMO SPAVENTATO IL MONDO DEI GRANDI AFFARISTI E DEI GRANDI SPECULATORI (…)>.
E quel mondo dei grandi affaristi e dei grandi speculatori, oggi sono i padroni e il mondo è una loro colonia.
E l’abbiamo voluto noi, salvo pochi…e fra questi pochi, non ci sono i vari Mieli, Augias, Minoli ecc.
26/04/2013
Sempre nel ricordo di Piazzale Loreto: Solite infamie
Questa volta ad opera di Paolo Mieli
di Filippo Giannini
Ė vero: ho un cara...tteraccio! Sarà che ho ancora dentro di me lo spirito del Balilla che non sopporta le vigliaccate. Mi riferisco alla trasmissione di Ballarò del 23 aprile 2013, quando in un intervento del direttore de Il Corriere della Sera, Paolo Mieli, commentando uno dei tanti inciuci riguardanti il connubio PD/PdL, ebbe a ricordare (cito a memoria): <D’altra parte anche nel 1944, Togliatti rientrato in Italia si alleò con la Democrazia Cristiana e nel 1976 Il Partito Comunista di Berlinguer si alleò con Aldo Moro>. Poi il signor Mieli non poteva mancare di ricordare (e te pare!?) che Mussolini portò l’Italia allo sfascio della Seconda Guerra mondiale e alle infami leggi razziali. Per prima cosa osservo: non è possibile che un simile personaggio non conosca la Storia vera, e quindi la falsità di quanto asserisce.
Proviamo a dimostrare quanto sostengo.
Come e perché si giunse alla Seconda Guerra mondiale. Lo storico Rutilio Sermonti attesta (L’Italia nel XX Secolo): <La risposta poteva essere una sola: perché esse volevano un generale conflitto europeo quale unica risorsa per liberarsi della Germania – formidabile concorrente economico – e, soprattutto dell’Italia. Questo è necessario comprendere se si aspira alla realtà storica: soprattutto dell’Italia>.
Nella Conferenza di Ginevra sul disarmo (febbraio 1932), alla quale parteciparono sessantadue Nazioni, l’Italia era rappresentata da Dino Grandi e da Italo Balbo. Grandi, a nome del popolo italiano, sostenne il progetto di una parificazione al livello più basso degli armamenti posseduti dalle singole Nazioni. Venne inoltre esposto il progetto mussoliniano tendente all’abolizione dell’artiglieria pesante, dei carri armati, delle navi da guerra, dei sottomarini, degli aerei da bombardamento, in altre parole la mes¬sa al bando di tutto ciò che avrebbe potuto portare ad una guerra di distruzione.
Di fatto, la Conferenza non trovò sbocco alcuno per le oppo¬sizioni di Francia e Germania.
Possibile che il signor Mieli non ricorda che Mussolini propose il Patto a Quattro (7 giugno 1933), proprio per integra¬re, con un patto politico, l’Europa, mediante un diretto¬rio delle quattro Potenze: Inghilterra, Francia, Germania e Italia. Il documento propositivo di Mussolini cominciò a circolare nei tre Stati interpellati. Il documento ebbe successo di siglatura, ma fallì quando, presentato per l’approvazione ai parlamenti inglese e francese la siglatura non fu rispettata e decadde definitivamente a Stresa nel 1935. Mussolini camminava nella tradizione romana, carolingia e cattolica: aspirazione antica sempre delusa. Mussolini aveva ammonito con lungimiranza: “Fare crollare la pace in Europa significa fare crollare l’Europa”>.
Visto che ci siamo, signor Mieli, perché non ricordare che Mussolini, quale Capo del Governo italiano si fece, ancora una volta, promo¬tore di un incontro che si svolse a Stresa, nei pressi del Lago Maggiore, tra l’11 e il 14 aprile 1935, con i rappresentanti delle tre Potenze alleate della prima guerra mondiale: l’Italia (Mussolini), Gran Bretagna (MacDonald, J. Simon) e Francia (Laval, Flandin).
Al termine dei lavori fu stilato un documento nel quale i tre Governi constatarono che il ripudio unilaterale posto in essere dal Governo tedesco, nei suoi obblighi per il disarmo, avrebbe potuto pregiudicare la pace in Europa e si dichiararono in perfetto accor¬do di opporsi con ogni mezzo a qualsiasi ulteriore disconosci¬mento unilaterale degli obblighi previsti nei Trattati e si impegna¬rono per una continuazione dei negoziati per il loro riesame. Rin¬novarono anche il loro impegno per la sicurezza e l’indipendenza dell’Austria. Signor Mieli, perché decaddero quegli acordi?
I detentori della maggior parte delle ricchezze della terra, Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, perché pretesero e ottennero le sanzioni contro l’Italia nel 1935? Per difendere l’Etiopia? Ma non ci faccia ridere; l’Etiopia, forse sobillata proprio da questi Paesi fu responsabile dell’attacco al consolato italiano di Gondar, l’11 novembre 1934 (dove rimase ucciso un militare di colore fedele all’Italia) e, come ricorda il giornalista e storico svizzero, Paul Gentizon (Difesa dell’Italia): <Ancora nel 1924 l’Italia che ha appoggiato lealmente l’accoglimento dell’Etiopia nella Società delle Nazioni riceve festosamente a Roma Ras Tafari, firma con lui un Patto di amicizia accompagnato dalla offerta di un aiuto finanziario. Tutto ciò non disarma la boria e la malvagità del governo abissino che respinge sistematicamente le domande di concessioni e turba il libero commercio tra Eritrea e Etiopia con una tacitamente organizzata guerriglia di rapina. Gli incidenti scoppiano a catena e non si sa più come giustificarli o come accettarne le giustificazioni. Dal maggio ’28 all’agosto ’35 si allineano 26 offese a rappresentanti diplomatici, 15 aggressioni a cittadini italiani, 51 razzie: tutto ciò avviene in territorio italiano e i morti italiani non mancano>.
La tensione nei rapporti italo-etiopici si aggravarono alla fine del 1934, quando un contingente abissino si accampò davanti al fortino di Ual-Ual difeso dai Dubat, soldati somali fedeli all’Ita¬lia, al comando del capitano Roberto Cimmaruta. Lo storico Rutilio Sermonti (L’Italia nel XX Secolo, Edizioni All’Insegna del Veltro, 2001) attesta che le truppe assalitrici erano al comando del colonnello inglese Clifford.
Ual-Ual era una località posta al confine, sin da allora incerto, fra Somalia ed Etiopia, ma mai rivendicato dal Governo Abissino.
II 5 dicembre di quell’anno, dopo che i Dubat rifiutarono la richiesta abissina di sgombero, questi scatenarono l’assalto e lo scontro si concluse all’alba del giorno seguente con la vittoria ita¬liana, ma le nostre truppe coloniali lasciarono sul terreno 120 morti. Si è scritto che dietro questo grave incidente ci fosse la mano di Londra e Parigi; ma questo non è provato.
Bruno Barrella su Il Giornale d’Italia del 18 luglio 1993, rammentando i fatti di Ual-Ual, scrive: <È l’ultimo di una catena di episodi di sangue che avvenivano lungo uno dei confini più la¬bili dell’epoca>.
Per risolvere pacificamente il dissidio creatosi a seguito degli incidenti di Ual-Ual, venne istituita una commissione arbitrale italo-etiopica, presieduta dallo specialista greco di diritto interna¬zionale, Nicolaos Politis. La commissione, il 3 settembre 1935, emetteva la sentenza attribuendo le cause degli scontri agli atteg¬giamenti ostili di alcune autorità locali abissine, escludendo, di conseguenza, ogni responsabilità italiana.
L’alleanza con il nazionalsocialismo? «Ades¬so che la politica inglese aveva forzato Mussolini a schierarsi nell’altro campo, la Germania non era più sola» (La Seconda Guerra Mondiale, di Winston Churchill, 1° volume, pag. 209). Quasi con le stesse parole George Trevelyan nella sua “Storia d’Inghilterra”, a pag. 834, ha scritto: <E l’Italia che per la sua posizione geografica poteva impedire i nostri contatto con l’Austria e i Paesi balcanici, fu gettata in braccio alla Germania>. E vogliamo dimenticare il più noto studioso del fascismo? Renzo De Felice (Storia degli Ebrei sotto il Fascismo, pag. 137): <Sulla ineluttabilità dell’alleanza con Hitler e quindi della necessità di eliminare tutti i motivi non solo di frizione, ma anche solo di disparità con la Germania>. Mussolini era conscio che l’antisemitismo occupava uno spazio preminente nell’ideologia nazionalsocialista, di conseguenza se voleva eliminare le ultime diffidenze tedesche, anche nel ricordo del “tradimento italiano del 1915” e giungere ad una reale alleanza militare, doveva adeguarsi alle circostanze. Riteniamo che fosse questa e non altre la ragione della scelta del Duce.
Tanto, ma tanto ancora avrei da scrivere e condannare i veri criminali dello scorso secolo, e mi riferisco a Franklin D. Roosevelt e Winston Churchill, personaggi abominevoli che galleggiano su un mare di sangue.
Passo ora a trattare l’argomento più infame: l’accusa di essere Mussolini la concausa della reale, o bugiarda accusa del massacro degli ebrei.
Signor Mieli, mi sa spiegare – e spiegarlo agli italiani – come mai negli anni 1938-1942 gli ebrei che fuggivano dai Paesi occupati dai tedeschi anziché rifugiarsi in Russia o in Inghilterra o negli Stati Uniti si rifugiavano in Italia ed erano decine di migliaia? Eppure in Italia vigevano le leggi razziali.
Proverò a spiegarlo io, ma se sbagliassi, mi corregga. Se può.
Gli inglesi non usarono solo le parole, ma la violenza contro gli israeliti. Rosa Paini (storica ebrea, Il cammino della speranza) riferisce che nel ’41 un folto nucleo di famiglie fuggito da Bratislava, imbarcato sul piroscafo “Pendeho”, composto da 510 profughi cechi e slovacchi, dopo aver navigato sul Danubio giunse nel Mar Nero. Qui, e precisamente a Sulina, salì a bordo il console britannico e informò i malcapitati che il suo governo li considerava immigranti illegali: di conseguenza, se si fossero avvicinati alle coste della Palestina, sarebbero stati silurati. Dovettero quindi ripartire e, superati diversi incidenti, giunsero all’isola disabitata di Camillanissi dove non c’era nemmeno acqua. Sbarcati, assistettero impotenti all’affondamento del battello. Dopo cinque giorni di sofferenze sopraggiunse una nave della Croce Rossa Italiana che imbarcò i profughi per trasferirli a Rodi, dove rimasero alcuni mesi e quindi imbarcati e trasferiti in Italia. Fra i tanti vale la pena di ricordare un altro dramma: nel febbraio del 1942 lo “Struma”, una nave di profughi proveniente dalla Romania, si vide rifiutare dagli inglesi il permesso di sbarcare, e, respinta anche dai turchi, affondò nel Mar Nero: settecentosettanta persone annegarono (Paul Johnson, Storia degli ebrei, pag. 582).
Lo storico israelita Léon Poliakov (“Il nazismo e lo sterminio degli ebrei”, pag. 63) accusa apertamente il governo britannico ricordando che qualche convoglio clandestino, formato con l’aiuto di Eichmann, tentò di discendere il Danubio su barche, mirando alla Palestina, ma le autorità inglesi rifiutarono il passaggio di questi viaggiatori perchè sprovvisti di visto. <Così si assiste al paradosso che la “Gestapo” spinge gli ebrei verso il luogo della salvezza, mentre il governo democratico di Sua Maestà britannica ne preclude l’accesso alle future vittime dei forni crematori>.
Oppure: L’esperto di sondaggi Elmo Roper osservò: <Gli Stati Uniti avrebbero certamente potuto accogliere un gran numero di profughi ebrei. Invece, durante il periodo bellico, ne furono ammessi soltanto 21 mila, il 10% del numero concesso secondo la legge delle quote. La ragione di questo fatto era l’ostilità dell’opinione pubblica. Tutti i gruppi patriottici, dall’American Legion ai Veterans of Foreign Wars, invocavano un divieto totale all’immigrazione. Ci fu più antisemitismo durante il periodo della guerra che in qualsiasi altro della storia americana (…). Negli anni 1942-44, ad esempio, tutte le sinagoghe di Washington Heights, New York, furono profanate>.
Un’altra testimonianza ci viene offerta dal “Neue Zürcher Zeitung”, il quale il 18 gennaio 2000 ha pubblicato una lettera a firma di Susi Weill che, fra l’altro, ha scritto: <I miei genitori avevano tentato invano di emigrare in America, ed oggi è un fatto stabilito che le rappresentanze diplomatiche americane in Europa avevano ricevuto l’ordine di respingere tali domande>.
Quando fu necessario, il governo americano usò la forza, come ricorda Franco Monaco (op. cit., pag.175): <Allorchè a un piroscafo carico di ebrei, partito da Amburgo, fu vietato l’attracco a New York, quei fuggiaschi vennero accolti in Italia e poi dislocati in varie zone della Francia, della Dalmazia e della Grecia>.
Non è sufficiente? E allora andiamo avanti.
Ha scritto Daniele Vicini su “L’Indipendente” del 20 luglio 1993: <Ebrei e comunisti sciamano verso il Brennero, frontiera che possono varcare senza visto a differenza di altre (americana, sovietica, ecc.) apparentemente più congeniali alle loro esigenze>. Dello stesso parere è Klaus Voigt che in “Rifugio precario” osserva quanto fosse strana la dittatura fascista. Infatti scrisse: <Fino all’entrata in guerra dell’Italia non risulta neppure un caso di condanna o allontanamento di un emigrante per attività politica (…). Eppure dal 1936, la Germania è il principale alleato e quegli “emigranti” sono suoi nemici. Polizia e carabinieri ricevevano disposizioni dal Duce, chiare ed essenziali, anzi ridotte ad una sola parola: “Sorvegliare”. Non arrestare>. Allora, Signor Mieli, come ripeto: in Italia vigevano le leggi razziali. Tutti pazzi?
Andiamo avanti, Signor Mieli? Volentieri, fino a che lo spazio me lo concede.
<Mentre, in generale, i governi filofascisti dell’Europa asservita non opponevano che fiacca resistenza all’attuazione di una rete sistematica di deportazioni capi del fascismo italiani manifestarono in questo campo un atteggiamento ben diverso. Ovunque penetrassero le truppe italiane, uno schermo protettore si levava di fronte agli ebrei (…). Un aperto conflitto si determinò tra Roma e Berlino a proposito del problema ebraico (…). È significativo il fatto che i tedeschi non sollevarono mai il problema degli ebrei in Italia. Certamente temevano di urtare la suscettibilità italiana (…). Appena giunte sui luoghi di loro giurisdizione, le autorità italiane annullavano le disposizioni decretate contro gli ebrei (…)> (Léon Poliakov, “Il nazismo e lo sterminio degli ebrei”, pagg. 219-220).
Andiamo avanti?
Poliakov scrive: <Mentre i Prefetti (francesi) ordinavano arresti e internamenti, allestivano convogli per la Gestapo, le autorità militari italiane, a dispetto delle minacce, ordinavano l’annullamento di tali ordini. Tra le autorità d’occupazione tedesche e il Governo di Berlino, tra il governo di Berlino e il Governo di Roma, tra le autorità di Vichy e i generali italiani vi era un continuo scambio di note nervose e impazienti. La Germania chiedeva all’Italia di agire nello spirito delle disposizioni tedesche. L’Italia rifiutava e resisteva>. Non solo, ma il Governo italiano ottenne che gli ebrei italiani residenti nelle zone occupate dall’esercito tedesco fossero esentati dall’obbligo di mostrare la stella gialla. Lo stesso accadeva nella Legazione di Bruxelles. Addirittura, secondo quanto scrive Martelli, che include un documento nel quale descrive come il Consolato Italiano di Bruxelles esigeva che venissero esentati dall’imporre la stella gialla e dai lavori forzati, anche gli ebrei greci perchè le truppe italiane occupavano parte del territorio greco. Questo, evidentemente era troppo, infatti un ordine del Conte Blanco Lanza d’Ajeta, del Ministero degli Esteri di Roma, con un telegramma datato agosto 1942, imponeva di <sospendere tutte le iniziative prese in merito ai cittadini ebrei greci>. http://motlc.wiesenthal.com/
Lo stesso docente dell’Università ebraica di Gerusalemme, George L. Mosse, nel suo libro “Il razzismo in Europa”, a pag. 245 ha scritto: <Il principale alleato della Germania, l’Italia fascista, sabotò la politica ebraica nazista nei territori sotto il suo controllo. Le leggi razziali introdotte da Mussolini nel 1938 impedivano agli ebrei di svolgere molte attività e si tentò anche di raccogliere gli ebrei in squadre di lavoro forzato; ma mentre in Germania Hitler restringeva sempre più il numero di coloro che potevano sottrarsi alla legge, in Italia avveniva il contrario: le eccezioni furono legioni. Come abbiamo già detto, era stato Mussolini stesso a enunciare il principio “discriminare non perseguire”. Tuttavia l’esercito italiano si spinse anche più in là, indubbiamente con il tacito consenso di Mussolini (…). Ovunque, nell’Europa occupata dai nazisti, le ambasciate italiane protessero gli ebrei in grado di chiedere e ottenere la nazionalità italiana. Le deportazioni degli ebrei cominciarono solo dopo la caduta di Mussolini, quando i tedeschi occuparono l’Italia>.
Vedo che lo spazio a mia disposizione si esaurisce, allora oso chiedere al signor Mieli: se quanto ho scritto risultasse vero, perché tanta vigliaccheria verso l’unico statista onesto e capace che l’Italia abbia avuto da secoli? Mi permetto di esporre la mia idea riferendomi a quanto ha scritto Rutilio Sermonti, e riportato all’inizio di queste pagine: <La risposta poteva essere una sola: perché esse volevano un generale conflitto europeo quale unica risorsa per liberarsi della Germania – formidabile concorrente economico – e, soprattutto dell’Italia. Questo è necessario comprendere se si aspira alla realtà storica: soprattutto dell’Italia>. E la risposta viene per bocca dello stesso Benito Mussolini; nel corso di una intervista che il Duce concesse nel suo studio presso la Prefettura di Milano a Gian Gaetano Cabella, direttore del Popolo di Alessandria, nel pomeriggio del 20 aprile 1945, cioè sei giorni prima del suo assassinio: <RICORDATEVI BENE: ABBIAMO SPAVENTATO IL MONDO DEI GRANDI AFFARISTI E DEI GRANDI SPECULATORI (…)>.
E quel mondo dei grandi affaristi e dei grandi speculatori, oggi sono i padroni e il mondo è una loro colonia.
E l’abbiamo voluto noi, salvo pochi…e fra questi pochi, non ci sono i vari Mieli, Augias, Minoli ecc.
domenica 23 giugno 2013
Centro Documentazione Rsi.
Ministero dell'educazione nazionale e non dell'educazione multiculturale: una Nazione, pur accogliente e tollerante, ha il dovere di proteggere le proprie Tradizioni, la propria Cultura, la propria lingua, i propri dialetti, la propria religione, i propri usi e costumi. Le scuole, pur aperte e accoglienti, devono tutelare quegli aspetti storici, linguistici, letterari, geografici, che fanno parte della specificità e sono quindi base per promuovere cultura italiana.Solo la equilibrata conoscenza di ciò che è "nostro" permetterà di conoscere, valutare, rispettare e tollerare ciò che non è nostro, in un mutuo interscambio, che non significa cedere il passo all'ospite. Una commistione confusa non è multicultura.
mercoledì 19 giugno 2013
giovedì 13 giugno 2013
Siria, le estreme destre europee marciano su Roma: “Sostegno ad Assad”
Alla manifestazione del Fronte Europeo per la Siria parteciperanno diverse organizzazioni che hanno legami con l'eversione nera e dei cosiddetti "rossobruni" (che mescolano fascismo a icone bolsceviche"
Sostegno e solidarietà al dittatore siriano Bashar al Assad. E’ con questo spirito che sabato 15 giugno diverse organizzazioni dell’estrema destra europea parteciperanno alla manifestazione del Fronte Europeo per la Siria. Si tratta di associazioni con legami con l’eversione nera, e dei cosiddetti rossobruni (coloro che mischiano fascismo delle origini a icone bolsceviche, frullate a sentimenti mistici). Sarà un’occasione, soprattutto, per compattare dietro la bandiera siriana tutti i vari gruppuscoli dell’estrema destra europea – razzista, omofoba e antisemita – nel nome di una comune battaglia contro l’imperialismo degli Stati Uniti e di Israele, il vecchio nemico di sempre. Nonostante gli organizzatori abbiano assicurato a ilfattoquotidiano.it di voler organizzare “una festa per donne e bambini”, quello che traspare è un vero e proprio tentativo di superare divisioni interne tra questi gruppi dell’estrema destra nella costruzione di una rete a livello continentale.
A promuovere la manifestazione romana del FES è l’Associazione Culturale Zenit, il cui responsabile Matteo Caponetti al telefono con ilfattoquotidiano.it ha rifiutato di prendere alcuna posizione politica. Eppure l’appartenenza alla galassia dell’estrema destra è evidente. Zenit, che sul suo sito dice di “ispirarsi al fascismo”, organizza spesso conferenze a “difesa del popolo siriano” con Casa Pound Italia e Forza Nuova. Invita personaggi come Mario Merlino, ex leader dei nazi-maoisti, e domenica scorsa sul profilo Facebook ha condiviso un orrido post di solidarietà a Esteban M, il neonazista francese sospettato di aver ucciso il diciannovenne antifascista Clement Meric. Inoltre, siccome la manifestazione avrebbe dovuto tenersi a Ponte Milvio, ma la questura di Roma non ha concesso l’autorizzazione, ecco che è stata spostata in un luogo imprecisato di Via dei Colli della Farnesina, dove casualmente si trova Area 19, un’occupazione dell’estrema destra romana.
Negli ultimi anni in Europa sono state diverse le organizzazioni di estrema destra che attraverso il Fes o a titolo personale hanno appoggiato Assad, considerato come l’ultimo baluardo di resistenza al sionismo. Questa settimana sia il leader di Forza Nuova Roberto Fiore che il leader del British National Party Nick Griffin sono stati in visita ufficiale a Damasco, invitati dal ministro degli Esteri del governo di Assad. E stasera Forza Nuova nella sua sede romana organizza un convegno, cui partecipano Caponetti di Zenit e un militante di Casa Pound, a sostegno della Siria. Una concomitanza di eventi che farebbero pensare che dietro il Fes e la sua capacità organizzativa in tutta Europa, ci sia qualcosa di molto simile a un sostegno diretto del governo siriano. Una concomitanza di persone che dimostra invece con certezza che anime assai diverse della galassia nera italiana ed europea sono pronte a superare divisioni interne per confluire sul comune obiettivo.
Lo scrittore e giornalista Guido Caldiron, noto studioso del fenomeno dell’estrema destra da posizioni di sinistra, e il cui ultimo libro è “Estrema destra: viaggio nella nuova internazionale nera”, ha spiegato a ilfattoquotidiano.it come sia “palese la volontà di trovare un coordinamento, dietro una battaglia di politica estera, per superare divisioni interne e creare un’organizzazione a livello internazionale dei gruppi dell’estrema destra europea”. Non solo. Caldiron ha raccontato come negli ultimi due anni abbiano partecipato a vario titolo a manifestazioni di sostegno alla Siria – tra l’altro con i medesimi slogan, simboli, loghi e video – gruppi tra loro anche molto diversi, come il Nuovo Solidarismo Alternativo belga, la Patria Hellas greca, la Nuova Rinascita Polacca e il Movimento Social Repubblicano spagnolo. Per non parlare di Fn e Cpi in Italia, di personaggi come Ruben Rosiers, portavoce europeo del FES che ha forti legami con i suprematisti bianchi sudafricani. O di Jnr/Troisieme Voie in Francia, proprio il gruppo sospettato del barbaro assassino del militante antifascista Clement Meric.
Una variegata accozzaglia di nomi e sigle, riunita dietro il concetto di “solidarismo” (su cui nacque la collaborazione nordeuropea col nazismo), che permette di disegnare all’ombra della bandiera siriana una vera e propria mappa dell’estrema destra europea, che ha cominciato in maniera preoccupante a mescolarsi, tramite inviti incrociati e partecipazioni a conferenze sul tema Siria, con la volontà di trovare un punto comune politico. Unione di intenti che potrebbe trovare la sua realizzazione concreta – è la preoccupazione espressa dalle associazioni italiane antifasciste, dalla comunità Lgbt della comunità ebraica romana per bocca del suo portavoce Pacifici – a margine della manifestazione del FES indetta per sabato 15 giugno a Roma. Con la capitale che proprio il giorno in cui ospita il Gay Pride rischia di essere invasa da neonazisti, omofobi e antisemiti provenienti da tutta Europa: nel nome della Siria e della costruzione una nuova internazionale nera.
Sostegno e solidarietà al dittatore siriano Bashar al Assad. E’ con questo spirito che sabato 15 giugno diverse organizzazioni dell’estrema destra europea parteciperanno alla manifestazione del Fronte Europeo per la Siria. Si tratta di associazioni con legami con l’eversione nera, e dei cosiddetti rossobruni (coloro che mischiano fascismo delle origini a icone bolsceviche, frullate a sentimenti mistici). Sarà un’occasione, soprattutto, per compattare dietro la bandiera siriana tutti i vari gruppuscoli dell’estrema destra europea – razzista, omofoba e antisemita – nel nome di una comune battaglia contro l’imperialismo degli Stati Uniti e di Israele, il vecchio nemico di sempre. Nonostante gli organizzatori abbiano assicurato a ilfattoquotidiano.it di voler organizzare “una festa per donne e bambini”, quello che traspare è un vero e proprio tentativo di superare divisioni interne tra questi gruppi dell’estrema destra nella costruzione di una rete a livello continentale.
A promuovere la manifestazione romana del FES è l’Associazione Culturale Zenit, il cui responsabile Matteo Caponetti al telefono con ilfattoquotidiano.it ha rifiutato di prendere alcuna posizione politica. Eppure l’appartenenza alla galassia dell’estrema destra è evidente. Zenit, che sul suo sito dice di “ispirarsi al fascismo”, organizza spesso conferenze a “difesa del popolo siriano” con Casa Pound Italia e Forza Nuova. Invita personaggi come Mario Merlino, ex leader dei nazi-maoisti, e domenica scorsa sul profilo Facebook ha condiviso un orrido post di solidarietà a Esteban M, il neonazista francese sospettato di aver ucciso il diciannovenne antifascista Clement Meric. Inoltre, siccome la manifestazione avrebbe dovuto tenersi a Ponte Milvio, ma la questura di Roma non ha concesso l’autorizzazione, ecco che è stata spostata in un luogo imprecisato di Via dei Colli della Farnesina, dove casualmente si trova Area 19, un’occupazione dell’estrema destra romana.
Negli ultimi anni in Europa sono state diverse le organizzazioni di estrema destra che attraverso il Fes o a titolo personale hanno appoggiato Assad, considerato come l’ultimo baluardo di resistenza al sionismo. Questa settimana sia il leader di Forza Nuova Roberto Fiore che il leader del British National Party Nick Griffin sono stati in visita ufficiale a Damasco, invitati dal ministro degli Esteri del governo di Assad. E stasera Forza Nuova nella sua sede romana organizza un convegno, cui partecipano Caponetti di Zenit e un militante di Casa Pound, a sostegno della Siria. Una concomitanza di eventi che farebbero pensare che dietro il Fes e la sua capacità organizzativa in tutta Europa, ci sia qualcosa di molto simile a un sostegno diretto del governo siriano. Una concomitanza di persone che dimostra invece con certezza che anime assai diverse della galassia nera italiana ed europea sono pronte a superare divisioni interne per confluire sul comune obiettivo.
Lo scrittore e giornalista Guido Caldiron, noto studioso del fenomeno dell’estrema destra da posizioni di sinistra, e il cui ultimo libro è “Estrema destra: viaggio nella nuova internazionale nera”, ha spiegato a ilfattoquotidiano.it come sia “palese la volontà di trovare un coordinamento, dietro una battaglia di politica estera, per superare divisioni interne e creare un’organizzazione a livello internazionale dei gruppi dell’estrema destra europea”. Non solo. Caldiron ha raccontato come negli ultimi due anni abbiano partecipato a vario titolo a manifestazioni di sostegno alla Siria – tra l’altro con i medesimi slogan, simboli, loghi e video – gruppi tra loro anche molto diversi, come il Nuovo Solidarismo Alternativo belga, la Patria Hellas greca, la Nuova Rinascita Polacca e il Movimento Social Repubblicano spagnolo. Per non parlare di Fn e Cpi in Italia, di personaggi come Ruben Rosiers, portavoce europeo del FES che ha forti legami con i suprematisti bianchi sudafricani. O di Jnr/Troisieme Voie in Francia, proprio il gruppo sospettato del barbaro assassino del militante antifascista Clement Meric.
Una variegata accozzaglia di nomi e sigle, riunita dietro il concetto di “solidarismo” (su cui nacque la collaborazione nordeuropea col nazismo), che permette di disegnare all’ombra della bandiera siriana una vera e propria mappa dell’estrema destra europea, che ha cominciato in maniera preoccupante a mescolarsi, tramite inviti incrociati e partecipazioni a conferenze sul tema Siria, con la volontà di trovare un punto comune politico. Unione di intenti che potrebbe trovare la sua realizzazione concreta – è la preoccupazione espressa dalle associazioni italiane antifasciste, dalla comunità Lgbt della comunità ebraica romana per bocca del suo portavoce Pacifici – a margine della manifestazione del FES indetta per sabato 15 giugno a Roma. Con la capitale che proprio il giorno in cui ospita il Gay Pride rischia di essere invasa da neonazisti, omofobi e antisemiti provenienti da tutta Europa: nel nome della Siria e della costruzione una nuova internazionale nera.
“VERGOGNOSI”: così la Gazzetta definisce gli striscioni in ricordo dei martiri delle foibe
“Nel ricordo non li hanno uccisi. Onore ai martiri delle foibe”. E’ lo striscione esposto, poco più di un mese fa, dai tifosi della Lazio in Curva Nord in occasione della partita di Europa League contro il Borussia Mönchengladbach. Tutto normale, niente di scandaloso, anzi. Da qualche anno, in Italia, c’è pure una giornata dedicata a quei connazionali rapiti, torturati e gettati (spesso vivi) nelle cavità carsiche dai partigiani di Tito. Per la Gazzetta dello Sport, però, quello striscione è qualcosa di osceno.
I responsabili PD dell’immigrazione: una clandestina e un estremista islamico
Nel PD le figure più attive sul fronte dell’immigrazione sono Cecile Kyenge e Khalid Chaouki: ovvero una clandestina e un estremista islamico. Della prima, congolese, ormai si conoscono vita morte e miracoli. Si sa per esempio che la stessa arrivò in Italia in maniera irregolare e rimase come clandestina fino a che non fu aiutata a regolarizzarsi da alcune organizzazioni religiose. Lo ha ammesso lei stessa durante la trasmissione “In mezz’ora” aggiungendo che però lei non sapeva di essere irregolare. Sarà, ma se non lo sapeva come mai si attivò per regolarizzarsi?
Figura molto meno conosciuta è invece Khalid Chaouki. Marocchino, trent’anni, eletto deputato alle ultime elezioni politiche, è comparso in varie trasmissioni televisive per perorare la causa dello ius soli. Nel suo passato però non c’è solo il PD. Fu infatti responsabile fino al 2011 dei Giovani Musulmani italiani, la sezione giovanile dell’Unione Comunità Islamiche d’Italia (UCOII). L’UCOII ha da sempre tenuto un comportamento ambiguo nei confronti dello stato: da una parte mostrava un atteggiamento aperto al dialogo, dall’altra alcune sue azioni lasciavano molto perplessi sulla sua volontà di integrazione, come ad esempio il rifiuto a firmare la Carta d’intenti dell’Islam italiano con la motivazione che nella Carta si faceva riferimento “all’uguaglianza fra uomo e donna”. Da quanto si evince da una interrogazione parlamentare l’UCOII è stata spesso accusata di contiguità ideologica con l’organizzazione dei Fratelli musulmani, una organizzazione islamica estremista che predica uno stato governato dalla legge islamica. Il loro motto, tanto per gradire, è: “Allah è il nostro obiettivo. Il Profeta è il nostro capo. Il Corano è la nostra legge. La jihad è la nostra via. Morire nella via di Allah è la nostra suprema speranza”.
La deputata PDL Souad Sbai aveva in passato criticato aspramente Chaouki, accusandolo appunto di essere un estremista: “sul caso di Khalid Chaouki consiglio ai dirigenti del Pd di non cadere nella trappola dei fratelli musulmani che, praticando la Taqiya (in arabo ‘dissimulazione’), affermano di non far parte di questo movimento pur condividendone i fini e le idee… pericoli dell’estremismo islamico… I rappresentanti delle comunità religiose e non solo musulmana – conclude – conoscono bene questi estremisti dal comportamento ambiguo e ne hanno già preso le distanze”. La Sbai aveva pronunciato quelle parole in riferimento alla candidatura per le comunali di Roma del 2008 di Chaouki nella lista sostenuta dal PD. Chaouki non l’aveva presa bene e aveva denunciato per diffamazione la Sbai, che però pochi giorni fa è stata assolta con formula piena.
La candidatura di Chaouki aveva scatenato proteste a dicembre del 2012 all’interno del PD stesso, con tanto di tessere strappate dai militanti. Si chiedevano rappresentanti più moderati, e si accusava Chaouki di non aver “rinnegato certe sue discutibili appartenenze”. Insomma, Chaouki non gode di unanime consenso nemmeno nella sua stessa parte politica.
Se questi sono i rappresentanti del PD sul tema dell’immigrazione, dovremo attenderci sorprese non certo positive dalle prossime azioni del governo.
Figura molto meno conosciuta è invece Khalid Chaouki. Marocchino, trent’anni, eletto deputato alle ultime elezioni politiche, è comparso in varie trasmissioni televisive per perorare la causa dello ius soli. Nel suo passato però non c’è solo il PD. Fu infatti responsabile fino al 2011 dei Giovani Musulmani italiani, la sezione giovanile dell’Unione Comunità Islamiche d’Italia (UCOII). L’UCOII ha da sempre tenuto un comportamento ambiguo nei confronti dello stato: da una parte mostrava un atteggiamento aperto al dialogo, dall’altra alcune sue azioni lasciavano molto perplessi sulla sua volontà di integrazione, come ad esempio il rifiuto a firmare la Carta d’intenti dell’Islam italiano con la motivazione che nella Carta si faceva riferimento “all’uguaglianza fra uomo e donna”. Da quanto si evince da una interrogazione parlamentare l’UCOII è stata spesso accusata di contiguità ideologica con l’organizzazione dei Fratelli musulmani, una organizzazione islamica estremista che predica uno stato governato dalla legge islamica. Il loro motto, tanto per gradire, è: “Allah è il nostro obiettivo. Il Profeta è il nostro capo. Il Corano è la nostra legge. La jihad è la nostra via. Morire nella via di Allah è la nostra suprema speranza”.
La deputata PDL Souad Sbai aveva in passato criticato aspramente Chaouki, accusandolo appunto di essere un estremista: “sul caso di Khalid Chaouki consiglio ai dirigenti del Pd di non cadere nella trappola dei fratelli musulmani che, praticando la Taqiya (in arabo ‘dissimulazione’), affermano di non far parte di questo movimento pur condividendone i fini e le idee… pericoli dell’estremismo islamico… I rappresentanti delle comunità religiose e non solo musulmana – conclude – conoscono bene questi estremisti dal comportamento ambiguo e ne hanno già preso le distanze”. La Sbai aveva pronunciato quelle parole in riferimento alla candidatura per le comunali di Roma del 2008 di Chaouki nella lista sostenuta dal PD. Chaouki non l’aveva presa bene e aveva denunciato per diffamazione la Sbai, che però pochi giorni fa è stata assolta con formula piena.
La candidatura di Chaouki aveva scatenato proteste a dicembre del 2012 all’interno del PD stesso, con tanto di tessere strappate dai militanti. Si chiedevano rappresentanti più moderati, e si accusava Chaouki di non aver “rinnegato certe sue discutibili appartenenze”. Insomma, Chaouki non gode di unanime consenso nemmeno nella sua stessa parte politica.
Se questi sono i rappresentanti del PD sul tema dell’immigrazione, dovremo attenderci sorprese non certo positive dalle prossime azioni del governo.
Delitto Matteotti. Parla il figlio: “Dietro la morte di mio padre c’era il Re” – FU UNO SPORCO AFFARE DI PETROLIO
Delitto Matteotti. Parla il figlio: “Dietro la morte di mio padre c’era il Re”
FU UNO SPORCO AFFARE DI PETROLIO
“L’assassinio di Giacomo Matteotti non fu un delitto politico, ma affaristico. Mussolini non aveva alcun interesse a farlo uccidere” dice il figlio del deputato socialista. “Sotto c’era uno scandalo di petrolio e la longa manus della corona. La verità verrà presto a galla”.
Intervista di MARCELLO STAGLIENO- da Storia Verità
Ciò che sembra più degno d’attenzione del libro di memorie di Matteo Matteotti (Quei vent’anni. Dal fascismo all’Italia che cambia, edito da Rusconi) è l’ultimo capitolo. Capitolo che, sulla base di nuovi elementi (ricollegabili a cose che vennero scritte nel 1924 e in anni successivi), sembra aprire inquietanti interrogativi sull’assassinio di Giacomo Matteotti. Questi: Vittorio Emanuele III ebbe una parte decisiva nel delitto? Il Re era implicato in quello “scandalo dei petroli” (l’affare Sinclair) di cui parlò e straparlò la stampa del tempo e, scoperto da Matteotti, manovrò per assassinarlo?
In proposito, l’ultimo capitolo del libro è reticente: si limita a collegare (sempre naturalmente sul piano dell’ipotesi) l’uccisione di Giacomo Matteotti allo scandalo Sinclair. Invito Matteo Matteotti ad essere più esplicito.
“Procediamo con ordine. Un pomeriggio del marzo 1978, m’incontro qui in Roma”, dice Matteo Matteotti, “con un anziano mutilato di guerra venuto apposta da Firenze, Antonio Piron. Da lui ricevo un documento, trovato in aperta campagna a Reggello presso Firenze, dentro un tubo di stufa. Si tratta del testo autografo (i periti l’hanno definito assolutamente autentico e come tale l’ho riprodotto nell’appendice del libro su carta intestata “Camera dei deputati” e a firma Giacomo Matteotti) d’un articolo comparso – anonimo – sulla rivista “Echi e Commenti” del 5 giugno 1924, ma in edicola due giorni dopo. L’articolo contiene riferimenti, brevissimi, a due scandali: bische e petroli”.
D. Parliamo dei petroli?
R. Sì, lasciamo stare le bische, il cui decreto regolamentare era stato approvato da poco alla Camera. Il riferimento ai petroli è assai più interessante. Riguarda il regio decreto legge n. 677, in data 4 maggio 1924, nel quale l’articolo primo afferma: “E’ approvata e resa esecutiva la convenzione stipulata nella forma di atto pubblico, numero di repertorio 285, in data 29 aprile 1924, fra il ministero dell’economia nazionale e la Sinclair Exploration Company”. Le firme sono quattro: Vittorio Emanuele, Corbino, De Stefani, Ciano. Ma io ritengo che, da tener d’occhio, sia proprio Vittorio Emanuele…
D. Sia più esplicito.
R. Nel 1924, dopo l’uccisione di mio padre, i giornali – ma non soltanto quelli – parlarono della denuncia che avrebbe dovuto essere portata da Giacomo Matteotti davanti alla Camera, riferendosi in particolare ad un dossier, contenuto nella sua cartella il giorno del rapimento, che riguardava appunto, assieme alle bische, i petroli.
D. Suo padre, aveva realmente con sé quel dossier?
R. Non ne ho le prove materiali. Però uno storico serio come Renzo De Felice afferma che le insistenti voci di un delitto affaristico “non possono essere lasciate cadere a priori” (Mussolini il fascista – La conquista del potere 1921-1925. Einaudi 1966, p. 626 n.d.a.). Ed esistono due documenti, sempre citati da De Felice: 1) un rapporto “riservatissimo” di polizia per De Bono, nel quale si afferma che Turati sarebbe stato in possesso di copia dei documenti sulla Sinclair che aveva mio padre e dove si precisa che Filippo Filippelli del Corriere Italiano aveva contribuito all’uccisione per rendere un servizio all’onorevole Aldo Finzi e al fascismo; 2) un rapporto dell’ambasciata tedesca a Roma inviato a Berlino (10 settembre 1924) che parla di quei tali documenti pervenuti nelle mani di mio padre.
D. E dove sarebbero finiti, quei documenti?
R. Forse nelle mani del Re. In appendice al mio libro intendevo aggiungere a puro titolo d’ipotesi come del resto faccio ora parlandone, tre articoli. Ma l’editore mi sconsigliò. Il primo era stato pubblicato su Stampa Sera il 2 gennaio 1978. Era a firma di Giancarlo Fusco, una cara persona purtroppo scomparsa che aveva fama di spararle grosse. Però nessuno s’è mai sognato di smentire le affermazioni gravissime di quel suo articolo. In sintesi, eccole: nell’autunno del 1942, Aimone di Savoia duca d’Aosta, scriveva Fusco, raccontò a un gruppo di ufficiali che nel 1924 Matteotti si recò in Inghilterra dove fu ricevuto, come massone d’alto grado, dalla loggia The Unicorn and the Lion. E venne casualmente a sapere che in un certo ufficio della Sinclair, ditta americana associata all’Anglo Persian Oil, la futura BP, esistevano due scritture private. Dalla prima risultava che Vittorio Emanuele III, dal 1921, era entrato nel register degli azionisti senza sborsare nemmeno una lira; dalla seconda risultava l’impegno del Re a mantenere il più possibile ignorati (coverei) i giacimenti nel Fezzan tripolino e in altre zone del retroterra libico.
D. E il secondo e il terzo articolo?
R. Al tempo Ancora riguardo al primo (per restare sul piano di quest’avventurosa ipotesi, un po’ piduista avanti-lettera), esso potrebbe spiegare anche come sia “passato” così rapidamente quel decreto-legge, citato da me poco fa, sullo sfruttamento da parte della Sinclair del petrolio reperibile nel sottosuolo italiano, in Emilia e in Sicilia. Un decreto-legge che non diventò mai esecutivo: una commissione, appositamente per valutare quell’accordo Italia-Sinclair, il 3 dicembre 1924, lo bocciò. Ma torniamo al giugno 1924.
D. Parliamo di Vittorio Emanuele III?
R. Sempre sul piano dell’ipotesi. Ai primi di giugno a De Bono si sarebbe presentato un informatore, un certo Thirshwalder, con una notizia preziosa: Matteotti aveva un dossier non solo sui brogli elettorali fascisti nel ’24, ma anche sulle collusioni tra il re e la Sinclair. De Bono (forse saltando Finzi, sottosegretario agli interni) interpellò il fido Filippelli che a sua volta chiese ad Amerigo Dumini di organizzare la “spedizione” contro Matteotti. Mussolini ne venne al corrente solo due giorni dopo anche se all’indomani del discorso dello stesso Matteotti aveva esclamato: “Che cosa fa la Ceka, che cosa fa Domuni!…”e Dumini agì, probabilmente ignorando chi davvero lo muoveva.
D. Benito Mussolini non aveva alcun interesse a fare uccidere suo padre…
R. Mussolini voleva – fin dal 1922, subito dopo la marcia su Roma – riavvicinarsi ai socialisti. Il 7 giugno 1924, quando già il delitto era in piena fase di progettazione, pronunciò un discorso che era un appello alla collaborazione rivolto proprio ai socialisti. Per questo l’attacco fattogli da mio padre pochi giorni prima fece infuriare il duce: è un fatto innegabile. Ma è altrettanto vero che quel 7 giugno Mussolini pensava – nonostante mio padre – di poter avere i socialriformisti, D’Aragona e forse Turati, al governo. Ci sono in proposito due testimonianze: quella di Giunta e quella di Carlo Silvestri. Anzi a quest’ultimo, come risultava da una sua deposizione al processo Matteotti rifatto nel 1947, fu proprio Mussolini in persona a dichiararlo, aggiungendo che Matteotti era stato vittima di loschi interessi. No, il duce non aveva alcun interesse a farlo uccidere: si sarebbe alienato per sempre la possibilità di un’alleanza con i suoi vecchi compagni., che non finì mai di rimpiangere…Del resto, per citare De Felice, possiamo leggere nel suo saggio che “l’azione contro Matteotti non fu realizzata a caldo, come, per esempio, era stata quella contro Misuri. Tutti gli elementi emersi in occasione dei tre procedimenti connessi al delitto (…) provano che la preparazione del delitto cominciò il 31 maggio, all’indomani del discorso di Matteotti alla Camera. E’ possibile”, si chiede De Felice, “pensare che, se anche Mussolini avesse impartito l’ordine, in undici giorni la collera non gli sarebbe sbollita e non si sarebbe reso conto di un simile atto?”. Lo stesso Pietro Nenni, nel 1929, affermò che quello era stato un delitto affaristico. Mio padre, aggiungo io, venne assassinato in modo precipitoso…
D. E cioè?
R. Dumini e gli altri della Ceka fascista non avevano con sé neppure una pala; erano su un’auto del Corriere taliano di Filippo Filippelli, che era l’uomo di Aldo Finzi. Ma anche a non voler sospettare di Finzi, sono indubbi i legami di Filippelli con De Bono…L’azione, comunque, fu precipitosa. La tesi del delitto preterintenzionale non mi convince: ad assassinare mio padre fu, con una lima, Amleto Poveruomo. Con la certezza di farla franca: all’auto la polizia risalì solo per caso. Il delitto comunque fu compiuto subito dopo la pubblicazione di quel tale articolo di Giacomo Matteotti su Echi e Commenti.
D. Con quali obiettivi?
R. Continuando nella nostra ipotesi, gli uomini della Ceka erano convinti d’agire in nome di Mussolini; in realtà allontanavano la possibilità d’un governo con i socialisti, possibilità che doveva spaventare molto la corona e la borghesia industriale italiana; dall’altra parte davano soddisfazione al fascismo più intransigente, quello farinacciano; e, infine, sottraendo quei tali documenti – supposto che esistessero, ed io ci credo – salvavano (ma senza saperlo: l’unico al corrente era De Bono) la corona dalla faccenda Sinclair. E’ quanto si legge anche in un articolo pubblicato dall’Avanti! Nel gennaio 1978, pochi giorni dopo quello di Fusco. Anche esso avrebbe dovuto trovare spazio nell’Appendice, assieme ad una lunga lettera di Giorgio Spini (riprodotta a pag. 58n.d.r.), indirizzata alla Stampa nel 1978. Questa lettera spiega che genere di farabutto fosse Sinclair. Ma chi voglia maggiori dettagli sulla vicenda, anzi su quello sporco affare in cui erano coinvolti ministri come Mario Corbino e De Stefani, assieme all’onorevole Jung, all’ambasciatore Castani e a moltri altri, legga con attenzione il capitolo che alla Sinclair e al delitto Matteotti ha dedicato Matteo Pizzigallo nell’eccellente saggio pubblicato nel 1981 da Giuffrè col titolo Alle origini della politica petrolifera italiana 1920-1925. Per parte mia, sono convinto che altri importanti documenti, ad avvalorare l’ipotesi del delitto affaristico con la longa manus della corona, verranno presto alla luce
Il re, una compagnia petrolifera e i giacimenti in Libia
QUEL PATTO SEGRETO CON SINCLAIR
Per chiarire meglio alcuni retroscena del delitto Matteotti, legati alla cosiddetta “pista del petrolio”, pubblichiamo il testo integrale di una lettera che lo storicoGiorgio Spini inviò nel 1978 a “La Stampa” di Torino, in risposta ad un articolo di Giancarlo Fusco sul “caso” Matteotti. La lettera non venne mai pubblicata dal quotidiano torinese.
Sulla Stampa dello scorso 2 gennaio (1978, n.d.r.) Giancarlo Fusco ha rivelato le confidenze intorno al delitto Matteotti fatte da Aimone di Savoia ad un gruppo di suoi ufficiali nell’autunno del 1942. Secondo queste confidenze, Matteotti era entrato in possesso di documenti i quali provavano che Vittorio Emanuele III aveva fatto un losco patto con una compagnia petrolifera straniera: “La potentissima Sinclair Oil, affiliata alla Anglo Persian Oil, la futura British Petroleum”. La Sinclair aveva fatto entrare il re tra i suoi azionisti gratuitamente: in cambio il sovrano si era impegnato ad esercitare la propria autorità per impedire che venissero sfruttati i giacimenti petroliferi in Libia.
Dopo il discorso di Matteotti alla Camera del 30 maggio 1924, in cui il deputato socialista aveva denunciato i crimini commessi dai fascisti durante le elezioni di quell’anno, Mussolini aveva ordinato alla banda Dumini di aggredirlo: però avrebbe dovuto trattarsi di una delle solite manganellature soltanto. Invece, giusto allora, Emilio De Bono venne a sapere, in qualità di capo della polizia, che Matteotti era in possesso di questi documenti compromettenti per il re e che li portava sempre con sé in una borsa. De Bono volò da Vittorio Emanuele III a raccontargli la cosa e i due si accordarono sulla necessità di sopprimere addirittura Matteotti, anziché bastonarlo soltanto, e di asportare dalla sua borsa i famigerati documenti. L’8 giugno 1924 De Bono convinse Dumini ad eseguire tutto ciò, mediante una somma di denaro, e due giorni dopo Matteotti fu rapito ed assassinato. Né si sentì più parlare dei documenti riguardanti il patto fra il re e la Sinclair.
Giancarlo Fusco conclude il suo articolo dicendo di non sapere fino a che punto questo racconto del Duca di Aosta possa essere un’alternativa attendibile alla versione “storica” dei fatti. Neppure io lo so: e non pretendo di aggiungere altre rivelazioni a quella di Fusco. Ma posso almeno indicare chi era il petroliere Sinclair perché lo sa chiunque abbia letto un manuale di storia americana. Era uno dei protagonisti del leggendario affare del Tea Pot Dome, cioè uno dei più clamorosi scandali dell’America del primo novecento.
Nel 1921, il segretario agli Interni dell’amministrazione repubblicana Harding, Albert G. Fall, concesse con procedura del tutto irregolare alla Mammoth Oil Co., di cui era presidente H. F. Sinclair e ad altre compagnie, lo sfruttamento di alcuni giacimenti petroliferi, tra cui uno nel Wyoming chiamato Tea Pot Dome, che invece avrebbero dovuto restare a disposizione della marina americana per eventuali esigenze belliche. La cosa si riseppe e venne usata dai democratici per montare una clamorosa campagna contro l’amministrazione Herding. Fall fu processato sotto l’accusa di essersi fatto corrompere e finì in galera. Altre complicate vertenze giudiziarie seguirono, fra cui un processo per corruzione nel 1928 contro Sinclair, da cui il petroliere uscì assolto benché la stampa sostenesse a gran voce la sua colpevolezza.
L’affare Sinclair ed i suoi strascichi giudiziari si chiusero infine nel 1932, ma restano ancora oggi proverbiali in America come esempio di losca connessione tra affaristi e politicanti. Dunque, laddove Aimone di Savoia parlava della Sinclair come di una compagnia inglese connessa con l’Anglo Persian Oil, si trattava in realtà di un magnate americano del petrolio già avvezzo a combinarne delle belle con personaggi politicamente altolocati.
Forse è inesatto altresì che si trattasse di impedire lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi in Libia. Come vedremo fra un momento, H. F. Sinclair voleva ottenere l’esclusiva per la ricerca del petrolio sul territorio stesso dell’Italia a favore della Standard Oil. Fusco ne è stato il primo – per quanto almeno ne so – a fare il nome di Vittorio Emanuele III in connessione con quello di Sinclair. Ma già al tempo dell’affare Matteotti qualcosa trapelò di questo intrigo, sia pure senza che si parlasse mai di sua maestà il re.
A quel tempo, infatti, una parte della stampa, cioè quella filofascista, mise in circolazione la voce che Matteotti era stato ucciso non già per colpa di Mussolini, ma per impedirgli di rivelare gli affari sporchi in cui erano coinvolti Finzi, Filippelli e la banda che ruotava intorno al Corriere Italiano. E fra l’altro fu detto che costoro erano stati pagati da H. F. Sinclair per ottenere quella esclusiva alla Standard Oil delle ricerche petrolifere in Italia, cui sopra si è accennato.
Fra gli altri nomi che vennero fatti, v’era quello dell’Onorevole Guido Jung. Jung era stato in America nel 1922, come esperto finanziario dell’ambasciata italiana a Washington: poteva dunque avere conosciuto Sinclair colà. Nel 1924 era stato eletto deputato nel “listone” fascista; e fu poi denunciato durante l’affare Matteotti, come complice dell’intrallazzo Sinclair. Può essere interessante ricordare che per l’appunto un periodico filo-fascista di New York, Il Carroccio, diretto dall’italo-americano De Biase, fu particolarmente violento nell’accusare Jung e la Sinclair di essere i veri colpevoli dell’uccisione del leader socialista. Tuttavia Jung superò questo incidente senza danni: tanto è vero che fece poi una bellissima carriera, prima come sperto del governo fascista in varie trattative con banche degli Stati Uniti e poi come ministro delle Finanze.
La stampa antifascista respinse le dicerie sull’affare Sinclair considerandole come un’espediente per deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle responsabilità di Mussolini e dalla reale natura politica del delitto. Anche gli storici che si sono occupati dell’affare Matteotti sono stati indotti da ciò a trascurare questo episodio.
Solo Giuseppe Rossigni, nel suo libro Il delitto Matteotti tra il Viminale e l’Aventino, ne dice qualcosa. Anche egli, però, come Aimone di Savoia, mostra di non sapere chi fosse con precisione Sinclair. Questo atteggiamento si spiega bene col fatto che nessuno, fino all’articolo di Fusco sulla Stampa, aveva mai subdorato che lo stesso Vittorio Emanuele III potesse avere tenuto il sacco a Sinclair. Ma dopo l’articolo di Fusco, viene da chiedersi se la stampa filo-fascista, tirando fuori il nome di Sinclair, non lo facesse proprio per minacciare il re di vuotare il sacco, qualora sua maestà non avesse sostenuto fino in fondo Mussolini.
Un altro nome che venne fuori in connessione con l’affare Sinclair fu quello di un giornalista avvezzo ad avere mano in ogni specie di pasticci: Filippo Naldi. Oltre ad essere stato il direttore del Resto del Carlino, Naldi era stato uno dei padrini del mussoliniano Popolo d’Italia. Al tempo dell’affare Matteotti stava continuando a fare intrallazzi giornalistici: aveva fondato un giornale – Il Tempo – ed aveva comprato da Filippelli il pacchetto di azioni del Corriere Italiano. Fu detto anche che aveva altresì lavorato per conto di Sinclair onde chiudere la bocca ai giornalisti sull’affare dell’esclusiva delle ricerche petrolifere a favore della Standard Oil. Come si sa fu accusato di avere celato il famoso memoriale Filippelli e fu arrestato per questo. Ma fu presto liberato e sparì dalla circolazione. L’affare Sinclair venne investigato durante l’istruttoria giudiziaria sull’assassinio di Matteotti, ma senza risultati. Il giudice istruttore giunse alla conclusione che la concessione petrolifera era nell’interesse di un gruppo finanziario antagonistico a quello del Corriere Italiano. E tutto cadde nell’oblio.
Vorrei però aggiungere un curioso codicillo a questa storia. Nell’autunno 1943, quando Vittorio Emanuele III scappò a Brindisi insieme con Badoglio, ricomparve al suo fianco Filippo Naldi, in veste di Ninfa Egeria politica. E chi ha voglia di avere ulteriori particolari, può trovarli nel libro del compianto Agostino Degli Espinosa, Il Regno del Sud. Il re e Badoglio erano nei guai perché avevano bisogno di mostrare agli Alleati di avere un qualche supporto politico, laddove i partiti del c.l.n. rifiutavano di avere a che fare con loro. Avevano inoltre bisogno di mettere insieme un governo purchessia, avendo lasciato a Roma i loro ministri al momento della fuga. Naldi li cavò da queste difficoltà, mettendo insieme un finto partito, formato di avanzi del vecchio trasformismo meridionale, sotto il nome di Partito Democratico Liberale, ed aiutandoli a formare su tale base un ministero.
Questo ministero “liberal-democratico” era composto di personaggi talmente oscuri che non si osò dare loro il titolo di ministri; e quindi ebbero solo quello di sotto-segretari. Ma uno almeno di loro aveva un nome ben noto: Guido Jung. In quanto ebreo era stato cacciato dal governo nel 1938 e quindi poté tornare a galla nella seducente veste di vittima del fascismo.
Non so se Naldi e Jung abbiano avuto altri rapporti con petrolieri dopo l’affare Matteotti. Ignoro altresì in che modo essi abbiano potuto ricomparire a fianco di Vittorio Emanuele III dopo l’8 settembre. So però che a quel tempo, nell’Italia meridionale, non si muoveva una foglia senza il permesso degli alleati. Non mi meraviglierei se in qualche archivio britannico od americano esistesse una pratica “top secret” intitolata a loro.
Come Fusco, sono anch’io ben lontano dall’affermare che la vera causa del delitto Matteotti vada cercata in questo pasticcio maleodorante di petrolio. Penso però che si debba riconoscere a Fusco ed alla Stampa il merito di avere ricordato agli storici una pista finora trascurata, sulla quale varrebbe invece la pena di fare qualche altra ricerca.
Giorgio Spini
Il delitto Matteotti e la pista economico-finanziaria
Il caso è ancora aperto
Fino a che punto è credibile la “pista del petrolio” come movente del delitto Matteotti? Lo abbiamo chiesto ad uno storico e a un giornalista, autori di due libri che affrontano questo tema in modo diverso. Uno è Giuseppe Rossigni, autore di Il delitto Matteotti fra il Viminale e l’Aventino (un saggio fondamentale edito nel 1966 da Il Mulino) e l’altro è Franco Scalzo, autore di Matteotti, L’altra verità (editore Savelli). Queste le loro opinioni:
Se da un lato non penso di trarne conclusioni diverse dal passato sulle responsabilità dirette di Mussolini nell’evento del giugno 1924, non ho elementi nuovi per modificare la valutazione che detti del ruolo svolto dall’ambiente affaristico del fascismo.
Il cosiddetto momento affaristico del governo Mussolini, per comune ammissione dei testimoni (alcuni dei quali, quando completai la mia ricerca, erano ancora vivi, ne parlai con Cesarino Rossi), pare debba essere ricondotto all’interno del gruppo Finzi, interessato alla vicenda petrolifera. Si parlò infatti di una attenzione tutta particolare di Filippelli e di Naldi che di quel gruppo erano l’ala più intraprendente. In una nota della direzione generale della PS, del 14 giugno, si leggono una serie di informazioni tratte da un colloquio con un non meglio precisata “personalità liberale”. Di sicuro si può dire che Naldi organizzò il silenzio giornalistico sull’affare Sinclair che, invece, fu approfondito nei suoi possibili risvolti giudiziari durante il processo di Chieti.
Matteo Matteotti cita (facendo riferimento allo storico De Felice) un primo documento “riservatissimo” diretto a De Bono senza data: tale documento, che anch’io avevo citato nel mio volume, porta la data del 14 giugno e se ne ricava una sola notizia: che Turati fosse la persona in grado di possedere una parte della documentazione, di cui disponeva Matteotti in merito alla Sinclair. Gli studiosi sono informati del viaggio a Londra di Matteotti: invece, non ho mai saputo alcunché della scrittura privata che consentirebbe di liberare Vittorio Emanuele III, socio della Anglo-Persian-Oil e quindi interessato alla scomparsa di certi documenti. Questa responsabilità diretta del re potrà consolidarsi solo se una ricognizione negli archivi inglesi darà dei frutti, che al presente non sono in grado di prevedere: bisognerebbe bene capire perché la Sinclair aveva difficoltà ad agire sul mercato italiano, questa Sinclair che, in fondo, era “una staffetta indipendente” nella lotta tra le compagnie petrolifere.
Le indicazioni di Giancarlo Fusco, le lettere di Giorgio Spini ed il saggio di Pizzigallo sulla politica petrolifera tendono ad approfondire questa controversa interpretazione, ma non ci forniscono una risposta definitiva. Per cui resta ancora in piedi l’interpretazione storiografica corrente che, per ragioni diverse, i fascisti e gli antifascisti ortodossi accreditano: il movente politico e null’altro.
Giuseppe Rossigni
Intrigo internazionale
Un’altra tesi che va contro la storiografia ufficiale
D. Nel suo libro Matteotti, l’altra verità lei sostiene una tesi totalmente opposta a quella della storiografia ufficiale. Qual è, in sostanza, questa diversa verità?
R. Lo svolgimento della vicenda passa attraverso due nodi fondamentali. L’origine del delitto (più affaristica che politica) ed i mandanti della Ceka che con la soppressione di Matteotti si prefiggono un duplice obiettivo:eliminare un testimone scomodo e costringere Mussolini a gettare la spugna. L’operazione riesce solo a metà, come tutti sanno.
D. Com’è arrivato a questa conclusione clamorosa?Come ha impostato la sua tesi?
R. Semplicemente, servendomi delle tessere di cui sono entrato in possesso nel corso della mia ricerca e poi sistemandole secondo un ordine che non fosse condizionato e dominato da posizioni preconcette. Alla base di questo complesso gioco ad incastro ci sono stati, comunque, due interrogativi. Primo: che interesse poteva avere Mussolini a macchiare la propria reputazione con un delitto infame dopo appena due mesi dall’apoteosi elettorale del Pnf? Secondo: perché proprio Matteotti, quando tutti i partiti dell’opposizione avevano manifestato il sospetto che il successo dei fascisti fosse dipeso, almeno in parte, da brogli e dalla violenza squadristica? Una volta preso atto della legittimità di tali domande, la distanza dalle risposte si accorcia sensibilmente, e la si può riempire soltanto ricorrendo a materiale di prima mano. Immune cioè sia dalla propaganda che dalle distorsioni ideologiche. Ma in questo spazio si è, appunto, inserita la lunga sequenza di documenti che provano diverse cose: che Matteotti fu ucciso per impedire che facesse rivelazioni. Rivelazioni sul coinvolgimento di alcuni ambienti (legati alla Banca Commerciale) in certi loschi affari riguardanti i petroli, il gioco d’azzardo ed il traffico d’armi; che gli ispiratori e gli esecutori del delitto erano già da diverso tempo in rotta di collisione coi vertici del Pnf, sebbene si fossero infiltrati nell’entourage di Mussolini; che l’immobilismo statuario dell’Aventino era un atteggiamento indotto dalla paura delle opposizioni di dover rendere conto al Pese degli appoggi forniti, da dietro le quinte, all’ala revisionista del partito fascista, che è poi quella nel cui seno matura la decisione di fare fuori Matteotti; che i processi del ’25 e del ’47 sono stati poco meno o poco più che delle orribili farse…
D. Parrebbe di capire che il delitto Matteotti non era compiuto da, ma contro Mussolini…
R. Proprio così. Mussolini si assume, per intero, la responsabilità del crimine perché, altrimenti, sarebbe costretto a denunciare quella del gotha finanziario che ha foraggiato la marcia su Roma e che dopo avergli dato il potere minaccia di riprenderselo per trasferirlo a gente più maneggevole se lui non si rassegna a fungere da parafulmine e da capro espiatorio. E’ una partita difficile, giocare sul filo del bluff, che finisce in pareggio. Mussolini resta al suo posto, ma deve rinunciare al progetto di disfarsi di certe regole, di certi condizionamenti. Li subisce fino a Salò dove vuota il sacco col giornalista Silvestri, ma è troppo tardi, ormai, per ristabilire la verità. Le forze alle quali avevano fatto capo gli istigatori della Ceka sopravvivono al 25 luglio, come sopravvivranno, più tardi, alla caduta del regime monarchico. Nel ’47, in riferimento al caso Matteotti la situazione non è molto dissimile da quella del ’25, e questo spiega il carattere aleatorio del processo conclusivo di Roma: un atto dovuto, un rito.
D. Che differenza c’è fra la sua tesi e quella avanzata da Matteo Matteotti?
R. Lui esclude che la massoneria abbia avuto un ruolo nel predisporre il piano dell’11 giugno, e non so da che tragga questo convincimento, visto che tutti gli indiziati del delitto (da Naldi a De Bono, a Dumini, a Bazi, a Rossi, a Finzi) erano iscritti, a vario titolo, alla setta. Lui afferma che è il mandante di Mussolini, ed io no. Lui dice che il duce copriva le responsabilità della corona ed io trovo strano che Mussolini a Salò non abbia colto l’opportunità per convogliare in questa direzione almeno una parte delle colpe che si era addossato fino alla giubilazione del luglio ’43. Lui insiste sulla Sinclair (mentre risulta dai documenti della compagnia petrolifera americana con cui avevano brigato i manutengoli della “Commerciale”) che era la Standard Oil, e che tale società era anche fortemente interessata al business delle bische.
D. Perché, secondo lei, per tanto tempo a nessuno o quasi è venuto in mente di indagare più a fondo su questo capitolo di storia?
R. Sono incline a ritenere che una certa classe politica e certi settori della cultura italiana preferiscano soprassedere. La demonizzazione acritica del fascismo ha fatto leva soprattutto sul falso scenario del delitto Matteotti: ora tornare indietro con la moviola, ritrattare, ricredersi costituisce una fatica improba per chi, a mio giudizio, si è immesso, più o meno in buona fede, sulla direttrice sbagliata.
g.b.
FU UNO SPORCO AFFARE DI PETROLIO
“L’assassinio di Giacomo Matteotti non fu un delitto politico, ma affaristico. Mussolini non aveva alcun interesse a farlo uccidere” dice il figlio del deputato socialista. “Sotto c’era uno scandalo di petrolio e la longa manus della corona. La verità verrà presto a galla”.
Intervista di MARCELLO STAGLIENO- da Storia Verità
Ciò che sembra più degno d’attenzione del libro di memorie di Matteo Matteotti (Quei vent’anni. Dal fascismo all’Italia che cambia, edito da Rusconi) è l’ultimo capitolo. Capitolo che, sulla base di nuovi elementi (ricollegabili a cose che vennero scritte nel 1924 e in anni successivi), sembra aprire inquietanti interrogativi sull’assassinio di Giacomo Matteotti. Questi: Vittorio Emanuele III ebbe una parte decisiva nel delitto? Il Re era implicato in quello “scandalo dei petroli” (l’affare Sinclair) di cui parlò e straparlò la stampa del tempo e, scoperto da Matteotti, manovrò per assassinarlo?
In proposito, l’ultimo capitolo del libro è reticente: si limita a collegare (sempre naturalmente sul piano dell’ipotesi) l’uccisione di Giacomo Matteotti allo scandalo Sinclair. Invito Matteo Matteotti ad essere più esplicito.
“Procediamo con ordine. Un pomeriggio del marzo 1978, m’incontro qui in Roma”, dice Matteo Matteotti, “con un anziano mutilato di guerra venuto apposta da Firenze, Antonio Piron. Da lui ricevo un documento, trovato in aperta campagna a Reggello presso Firenze, dentro un tubo di stufa. Si tratta del testo autografo (i periti l’hanno definito assolutamente autentico e come tale l’ho riprodotto nell’appendice del libro su carta intestata “Camera dei deputati” e a firma Giacomo Matteotti) d’un articolo comparso – anonimo – sulla rivista “Echi e Commenti” del 5 giugno 1924, ma in edicola due giorni dopo. L’articolo contiene riferimenti, brevissimi, a due scandali: bische e petroli”.
D. Parliamo dei petroli?
R. Sì, lasciamo stare le bische, il cui decreto regolamentare era stato approvato da poco alla Camera. Il riferimento ai petroli è assai più interessante. Riguarda il regio decreto legge n. 677, in data 4 maggio 1924, nel quale l’articolo primo afferma: “E’ approvata e resa esecutiva la convenzione stipulata nella forma di atto pubblico, numero di repertorio 285, in data 29 aprile 1924, fra il ministero dell’economia nazionale e la Sinclair Exploration Company”. Le firme sono quattro: Vittorio Emanuele, Corbino, De Stefani, Ciano. Ma io ritengo che, da tener d’occhio, sia proprio Vittorio Emanuele…
D. Sia più esplicito.
R. Nel 1924, dopo l’uccisione di mio padre, i giornali – ma non soltanto quelli – parlarono della denuncia che avrebbe dovuto essere portata da Giacomo Matteotti davanti alla Camera, riferendosi in particolare ad un dossier, contenuto nella sua cartella il giorno del rapimento, che riguardava appunto, assieme alle bische, i petroli.
D. Suo padre, aveva realmente con sé quel dossier?
R. Non ne ho le prove materiali. Però uno storico serio come Renzo De Felice afferma che le insistenti voci di un delitto affaristico “non possono essere lasciate cadere a priori” (Mussolini il fascista – La conquista del potere 1921-1925. Einaudi 1966, p. 626 n.d.a.). Ed esistono due documenti, sempre citati da De Felice: 1) un rapporto “riservatissimo” di polizia per De Bono, nel quale si afferma che Turati sarebbe stato in possesso di copia dei documenti sulla Sinclair che aveva mio padre e dove si precisa che Filippo Filippelli del Corriere Italiano aveva contribuito all’uccisione per rendere un servizio all’onorevole Aldo Finzi e al fascismo; 2) un rapporto dell’ambasciata tedesca a Roma inviato a Berlino (10 settembre 1924) che parla di quei tali documenti pervenuti nelle mani di mio padre.
D. E dove sarebbero finiti, quei documenti?
R. Forse nelle mani del Re. In appendice al mio libro intendevo aggiungere a puro titolo d’ipotesi come del resto faccio ora parlandone, tre articoli. Ma l’editore mi sconsigliò. Il primo era stato pubblicato su Stampa Sera il 2 gennaio 1978. Era a firma di Giancarlo Fusco, una cara persona purtroppo scomparsa che aveva fama di spararle grosse. Però nessuno s’è mai sognato di smentire le affermazioni gravissime di quel suo articolo. In sintesi, eccole: nell’autunno del 1942, Aimone di Savoia duca d’Aosta, scriveva Fusco, raccontò a un gruppo di ufficiali che nel 1924 Matteotti si recò in Inghilterra dove fu ricevuto, come massone d’alto grado, dalla loggia The Unicorn and the Lion. E venne casualmente a sapere che in un certo ufficio della Sinclair, ditta americana associata all’Anglo Persian Oil, la futura BP, esistevano due scritture private. Dalla prima risultava che Vittorio Emanuele III, dal 1921, era entrato nel register degli azionisti senza sborsare nemmeno una lira; dalla seconda risultava l’impegno del Re a mantenere il più possibile ignorati (coverei) i giacimenti nel Fezzan tripolino e in altre zone del retroterra libico.
D. E il secondo e il terzo articolo?
R. Al tempo Ancora riguardo al primo (per restare sul piano di quest’avventurosa ipotesi, un po’ piduista avanti-lettera), esso potrebbe spiegare anche come sia “passato” così rapidamente quel decreto-legge, citato da me poco fa, sullo sfruttamento da parte della Sinclair del petrolio reperibile nel sottosuolo italiano, in Emilia e in Sicilia. Un decreto-legge che non diventò mai esecutivo: una commissione, appositamente per valutare quell’accordo Italia-Sinclair, il 3 dicembre 1924, lo bocciò. Ma torniamo al giugno 1924.
D. Parliamo di Vittorio Emanuele III?
R. Sempre sul piano dell’ipotesi. Ai primi di giugno a De Bono si sarebbe presentato un informatore, un certo Thirshwalder, con una notizia preziosa: Matteotti aveva un dossier non solo sui brogli elettorali fascisti nel ’24, ma anche sulle collusioni tra il re e la Sinclair. De Bono (forse saltando Finzi, sottosegretario agli interni) interpellò il fido Filippelli che a sua volta chiese ad Amerigo Dumini di organizzare la “spedizione” contro Matteotti. Mussolini ne venne al corrente solo due giorni dopo anche se all’indomani del discorso dello stesso Matteotti aveva esclamato: “Che cosa fa la Ceka, che cosa fa Domuni!…”e Dumini agì, probabilmente ignorando chi davvero lo muoveva.
D. Benito Mussolini non aveva alcun interesse a fare uccidere suo padre…
R. Mussolini voleva – fin dal 1922, subito dopo la marcia su Roma – riavvicinarsi ai socialisti. Il 7 giugno 1924, quando già il delitto era in piena fase di progettazione, pronunciò un discorso che era un appello alla collaborazione rivolto proprio ai socialisti. Per questo l’attacco fattogli da mio padre pochi giorni prima fece infuriare il duce: è un fatto innegabile. Ma è altrettanto vero che quel 7 giugno Mussolini pensava – nonostante mio padre – di poter avere i socialriformisti, D’Aragona e forse Turati, al governo. Ci sono in proposito due testimonianze: quella di Giunta e quella di Carlo Silvestri. Anzi a quest’ultimo, come risultava da una sua deposizione al processo Matteotti rifatto nel 1947, fu proprio Mussolini in persona a dichiararlo, aggiungendo che Matteotti era stato vittima di loschi interessi. No, il duce non aveva alcun interesse a farlo uccidere: si sarebbe alienato per sempre la possibilità di un’alleanza con i suoi vecchi compagni., che non finì mai di rimpiangere…Del resto, per citare De Felice, possiamo leggere nel suo saggio che “l’azione contro Matteotti non fu realizzata a caldo, come, per esempio, era stata quella contro Misuri. Tutti gli elementi emersi in occasione dei tre procedimenti connessi al delitto (…) provano che la preparazione del delitto cominciò il 31 maggio, all’indomani del discorso di Matteotti alla Camera. E’ possibile”, si chiede De Felice, “pensare che, se anche Mussolini avesse impartito l’ordine, in undici giorni la collera non gli sarebbe sbollita e non si sarebbe reso conto di un simile atto?”. Lo stesso Pietro Nenni, nel 1929, affermò che quello era stato un delitto affaristico. Mio padre, aggiungo io, venne assassinato in modo precipitoso…
D. E cioè?
R. Dumini e gli altri della Ceka fascista non avevano con sé neppure una pala; erano su un’auto del Corriere taliano di Filippo Filippelli, che era l’uomo di Aldo Finzi. Ma anche a non voler sospettare di Finzi, sono indubbi i legami di Filippelli con De Bono…L’azione, comunque, fu precipitosa. La tesi del delitto preterintenzionale non mi convince: ad assassinare mio padre fu, con una lima, Amleto Poveruomo. Con la certezza di farla franca: all’auto la polizia risalì solo per caso. Il delitto comunque fu compiuto subito dopo la pubblicazione di quel tale articolo di Giacomo Matteotti su Echi e Commenti.
D. Con quali obiettivi?
R. Continuando nella nostra ipotesi, gli uomini della Ceka erano convinti d’agire in nome di Mussolini; in realtà allontanavano la possibilità d’un governo con i socialisti, possibilità che doveva spaventare molto la corona e la borghesia industriale italiana; dall’altra parte davano soddisfazione al fascismo più intransigente, quello farinacciano; e, infine, sottraendo quei tali documenti – supposto che esistessero, ed io ci credo – salvavano (ma senza saperlo: l’unico al corrente era De Bono) la corona dalla faccenda Sinclair. E’ quanto si legge anche in un articolo pubblicato dall’Avanti! Nel gennaio 1978, pochi giorni dopo quello di Fusco. Anche esso avrebbe dovuto trovare spazio nell’Appendice, assieme ad una lunga lettera di Giorgio Spini (riprodotta a pag. 58n.d.r.), indirizzata alla Stampa nel 1978. Questa lettera spiega che genere di farabutto fosse Sinclair. Ma chi voglia maggiori dettagli sulla vicenda, anzi su quello sporco affare in cui erano coinvolti ministri come Mario Corbino e De Stefani, assieme all’onorevole Jung, all’ambasciatore Castani e a moltri altri, legga con attenzione il capitolo che alla Sinclair e al delitto Matteotti ha dedicato Matteo Pizzigallo nell’eccellente saggio pubblicato nel 1981 da Giuffrè col titolo Alle origini della politica petrolifera italiana 1920-1925. Per parte mia, sono convinto che altri importanti documenti, ad avvalorare l’ipotesi del delitto affaristico con la longa manus della corona, verranno presto alla luce
Il re, una compagnia petrolifera e i giacimenti in Libia
QUEL PATTO SEGRETO CON SINCLAIR
Per chiarire meglio alcuni retroscena del delitto Matteotti, legati alla cosiddetta “pista del petrolio”, pubblichiamo il testo integrale di una lettera che lo storicoGiorgio Spini inviò nel 1978 a “La Stampa” di Torino, in risposta ad un articolo di Giancarlo Fusco sul “caso” Matteotti. La lettera non venne mai pubblicata dal quotidiano torinese.
Sulla Stampa dello scorso 2 gennaio (1978, n.d.r.) Giancarlo Fusco ha rivelato le confidenze intorno al delitto Matteotti fatte da Aimone di Savoia ad un gruppo di suoi ufficiali nell’autunno del 1942. Secondo queste confidenze, Matteotti era entrato in possesso di documenti i quali provavano che Vittorio Emanuele III aveva fatto un losco patto con una compagnia petrolifera straniera: “La potentissima Sinclair Oil, affiliata alla Anglo Persian Oil, la futura British Petroleum”. La Sinclair aveva fatto entrare il re tra i suoi azionisti gratuitamente: in cambio il sovrano si era impegnato ad esercitare la propria autorità per impedire che venissero sfruttati i giacimenti petroliferi in Libia.
Dopo il discorso di Matteotti alla Camera del 30 maggio 1924, in cui il deputato socialista aveva denunciato i crimini commessi dai fascisti durante le elezioni di quell’anno, Mussolini aveva ordinato alla banda Dumini di aggredirlo: però avrebbe dovuto trattarsi di una delle solite manganellature soltanto. Invece, giusto allora, Emilio De Bono venne a sapere, in qualità di capo della polizia, che Matteotti era in possesso di questi documenti compromettenti per il re e che li portava sempre con sé in una borsa. De Bono volò da Vittorio Emanuele III a raccontargli la cosa e i due si accordarono sulla necessità di sopprimere addirittura Matteotti, anziché bastonarlo soltanto, e di asportare dalla sua borsa i famigerati documenti. L’8 giugno 1924 De Bono convinse Dumini ad eseguire tutto ciò, mediante una somma di denaro, e due giorni dopo Matteotti fu rapito ed assassinato. Né si sentì più parlare dei documenti riguardanti il patto fra il re e la Sinclair.
Giancarlo Fusco conclude il suo articolo dicendo di non sapere fino a che punto questo racconto del Duca di Aosta possa essere un’alternativa attendibile alla versione “storica” dei fatti. Neppure io lo so: e non pretendo di aggiungere altre rivelazioni a quella di Fusco. Ma posso almeno indicare chi era il petroliere Sinclair perché lo sa chiunque abbia letto un manuale di storia americana. Era uno dei protagonisti del leggendario affare del Tea Pot Dome, cioè uno dei più clamorosi scandali dell’America del primo novecento.
Nel 1921, il segretario agli Interni dell’amministrazione repubblicana Harding, Albert G. Fall, concesse con procedura del tutto irregolare alla Mammoth Oil Co., di cui era presidente H. F. Sinclair e ad altre compagnie, lo sfruttamento di alcuni giacimenti petroliferi, tra cui uno nel Wyoming chiamato Tea Pot Dome, che invece avrebbero dovuto restare a disposizione della marina americana per eventuali esigenze belliche. La cosa si riseppe e venne usata dai democratici per montare una clamorosa campagna contro l’amministrazione Herding. Fall fu processato sotto l’accusa di essersi fatto corrompere e finì in galera. Altre complicate vertenze giudiziarie seguirono, fra cui un processo per corruzione nel 1928 contro Sinclair, da cui il petroliere uscì assolto benché la stampa sostenesse a gran voce la sua colpevolezza.
L’affare Sinclair ed i suoi strascichi giudiziari si chiusero infine nel 1932, ma restano ancora oggi proverbiali in America come esempio di losca connessione tra affaristi e politicanti. Dunque, laddove Aimone di Savoia parlava della Sinclair come di una compagnia inglese connessa con l’Anglo Persian Oil, si trattava in realtà di un magnate americano del petrolio già avvezzo a combinarne delle belle con personaggi politicamente altolocati.
Forse è inesatto altresì che si trattasse di impedire lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi in Libia. Come vedremo fra un momento, H. F. Sinclair voleva ottenere l’esclusiva per la ricerca del petrolio sul territorio stesso dell’Italia a favore della Standard Oil. Fusco ne è stato il primo – per quanto almeno ne so – a fare il nome di Vittorio Emanuele III in connessione con quello di Sinclair. Ma già al tempo dell’affare Matteotti qualcosa trapelò di questo intrigo, sia pure senza che si parlasse mai di sua maestà il re.
A quel tempo, infatti, una parte della stampa, cioè quella filofascista, mise in circolazione la voce che Matteotti era stato ucciso non già per colpa di Mussolini, ma per impedirgli di rivelare gli affari sporchi in cui erano coinvolti Finzi, Filippelli e la banda che ruotava intorno al Corriere Italiano. E fra l’altro fu detto che costoro erano stati pagati da H. F. Sinclair per ottenere quella esclusiva alla Standard Oil delle ricerche petrolifere in Italia, cui sopra si è accennato.
Fra gli altri nomi che vennero fatti, v’era quello dell’Onorevole Guido Jung. Jung era stato in America nel 1922, come esperto finanziario dell’ambasciata italiana a Washington: poteva dunque avere conosciuto Sinclair colà. Nel 1924 era stato eletto deputato nel “listone” fascista; e fu poi denunciato durante l’affare Matteotti, come complice dell’intrallazzo Sinclair. Può essere interessante ricordare che per l’appunto un periodico filo-fascista di New York, Il Carroccio, diretto dall’italo-americano De Biase, fu particolarmente violento nell’accusare Jung e la Sinclair di essere i veri colpevoli dell’uccisione del leader socialista. Tuttavia Jung superò questo incidente senza danni: tanto è vero che fece poi una bellissima carriera, prima come sperto del governo fascista in varie trattative con banche degli Stati Uniti e poi come ministro delle Finanze.
La stampa antifascista respinse le dicerie sull’affare Sinclair considerandole come un’espediente per deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle responsabilità di Mussolini e dalla reale natura politica del delitto. Anche gli storici che si sono occupati dell’affare Matteotti sono stati indotti da ciò a trascurare questo episodio.
Solo Giuseppe Rossigni, nel suo libro Il delitto Matteotti tra il Viminale e l’Aventino, ne dice qualcosa. Anche egli, però, come Aimone di Savoia, mostra di non sapere chi fosse con precisione Sinclair. Questo atteggiamento si spiega bene col fatto che nessuno, fino all’articolo di Fusco sulla Stampa, aveva mai subdorato che lo stesso Vittorio Emanuele III potesse avere tenuto il sacco a Sinclair. Ma dopo l’articolo di Fusco, viene da chiedersi se la stampa filo-fascista, tirando fuori il nome di Sinclair, non lo facesse proprio per minacciare il re di vuotare il sacco, qualora sua maestà non avesse sostenuto fino in fondo Mussolini.
Un altro nome che venne fuori in connessione con l’affare Sinclair fu quello di un giornalista avvezzo ad avere mano in ogni specie di pasticci: Filippo Naldi. Oltre ad essere stato il direttore del Resto del Carlino, Naldi era stato uno dei padrini del mussoliniano Popolo d’Italia. Al tempo dell’affare Matteotti stava continuando a fare intrallazzi giornalistici: aveva fondato un giornale – Il Tempo – ed aveva comprato da Filippelli il pacchetto di azioni del Corriere Italiano. Fu detto anche che aveva altresì lavorato per conto di Sinclair onde chiudere la bocca ai giornalisti sull’affare dell’esclusiva delle ricerche petrolifere a favore della Standard Oil. Come si sa fu accusato di avere celato il famoso memoriale Filippelli e fu arrestato per questo. Ma fu presto liberato e sparì dalla circolazione. L’affare Sinclair venne investigato durante l’istruttoria giudiziaria sull’assassinio di Matteotti, ma senza risultati. Il giudice istruttore giunse alla conclusione che la concessione petrolifera era nell’interesse di un gruppo finanziario antagonistico a quello del Corriere Italiano. E tutto cadde nell’oblio.
Vorrei però aggiungere un curioso codicillo a questa storia. Nell’autunno 1943, quando Vittorio Emanuele III scappò a Brindisi insieme con Badoglio, ricomparve al suo fianco Filippo Naldi, in veste di Ninfa Egeria politica. E chi ha voglia di avere ulteriori particolari, può trovarli nel libro del compianto Agostino Degli Espinosa, Il Regno del Sud. Il re e Badoglio erano nei guai perché avevano bisogno di mostrare agli Alleati di avere un qualche supporto politico, laddove i partiti del c.l.n. rifiutavano di avere a che fare con loro. Avevano inoltre bisogno di mettere insieme un governo purchessia, avendo lasciato a Roma i loro ministri al momento della fuga. Naldi li cavò da queste difficoltà, mettendo insieme un finto partito, formato di avanzi del vecchio trasformismo meridionale, sotto il nome di Partito Democratico Liberale, ed aiutandoli a formare su tale base un ministero.
Questo ministero “liberal-democratico” era composto di personaggi talmente oscuri che non si osò dare loro il titolo di ministri; e quindi ebbero solo quello di sotto-segretari. Ma uno almeno di loro aveva un nome ben noto: Guido Jung. In quanto ebreo era stato cacciato dal governo nel 1938 e quindi poté tornare a galla nella seducente veste di vittima del fascismo.
Non so se Naldi e Jung abbiano avuto altri rapporti con petrolieri dopo l’affare Matteotti. Ignoro altresì in che modo essi abbiano potuto ricomparire a fianco di Vittorio Emanuele III dopo l’8 settembre. So però che a quel tempo, nell’Italia meridionale, non si muoveva una foglia senza il permesso degli alleati. Non mi meraviglierei se in qualche archivio britannico od americano esistesse una pratica “top secret” intitolata a loro.
Come Fusco, sono anch’io ben lontano dall’affermare che la vera causa del delitto Matteotti vada cercata in questo pasticcio maleodorante di petrolio. Penso però che si debba riconoscere a Fusco ed alla Stampa il merito di avere ricordato agli storici una pista finora trascurata, sulla quale varrebbe invece la pena di fare qualche altra ricerca.
Giorgio Spini
Il delitto Matteotti e la pista economico-finanziaria
Il caso è ancora aperto
Fino a che punto è credibile la “pista del petrolio” come movente del delitto Matteotti? Lo abbiamo chiesto ad uno storico e a un giornalista, autori di due libri che affrontano questo tema in modo diverso. Uno è Giuseppe Rossigni, autore di Il delitto Matteotti fra il Viminale e l’Aventino (un saggio fondamentale edito nel 1966 da Il Mulino) e l’altro è Franco Scalzo, autore di Matteotti, L’altra verità (editore Savelli). Queste le loro opinioni:
Se da un lato non penso di trarne conclusioni diverse dal passato sulle responsabilità dirette di Mussolini nell’evento del giugno 1924, non ho elementi nuovi per modificare la valutazione che detti del ruolo svolto dall’ambiente affaristico del fascismo.
Il cosiddetto momento affaristico del governo Mussolini, per comune ammissione dei testimoni (alcuni dei quali, quando completai la mia ricerca, erano ancora vivi, ne parlai con Cesarino Rossi), pare debba essere ricondotto all’interno del gruppo Finzi, interessato alla vicenda petrolifera. Si parlò infatti di una attenzione tutta particolare di Filippelli e di Naldi che di quel gruppo erano l’ala più intraprendente. In una nota della direzione generale della PS, del 14 giugno, si leggono una serie di informazioni tratte da un colloquio con un non meglio precisata “personalità liberale”. Di sicuro si può dire che Naldi organizzò il silenzio giornalistico sull’affare Sinclair che, invece, fu approfondito nei suoi possibili risvolti giudiziari durante il processo di Chieti.
Matteo Matteotti cita (facendo riferimento allo storico De Felice) un primo documento “riservatissimo” diretto a De Bono senza data: tale documento, che anch’io avevo citato nel mio volume, porta la data del 14 giugno e se ne ricava una sola notizia: che Turati fosse la persona in grado di possedere una parte della documentazione, di cui disponeva Matteotti in merito alla Sinclair. Gli studiosi sono informati del viaggio a Londra di Matteotti: invece, non ho mai saputo alcunché della scrittura privata che consentirebbe di liberare Vittorio Emanuele III, socio della Anglo-Persian-Oil e quindi interessato alla scomparsa di certi documenti. Questa responsabilità diretta del re potrà consolidarsi solo se una ricognizione negli archivi inglesi darà dei frutti, che al presente non sono in grado di prevedere: bisognerebbe bene capire perché la Sinclair aveva difficoltà ad agire sul mercato italiano, questa Sinclair che, in fondo, era “una staffetta indipendente” nella lotta tra le compagnie petrolifere.
Le indicazioni di Giancarlo Fusco, le lettere di Giorgio Spini ed il saggio di Pizzigallo sulla politica petrolifera tendono ad approfondire questa controversa interpretazione, ma non ci forniscono una risposta definitiva. Per cui resta ancora in piedi l’interpretazione storiografica corrente che, per ragioni diverse, i fascisti e gli antifascisti ortodossi accreditano: il movente politico e null’altro.
Giuseppe Rossigni
Intrigo internazionale
Un’altra tesi che va contro la storiografia ufficiale
D. Nel suo libro Matteotti, l’altra verità lei sostiene una tesi totalmente opposta a quella della storiografia ufficiale. Qual è, in sostanza, questa diversa verità?
R. Lo svolgimento della vicenda passa attraverso due nodi fondamentali. L’origine del delitto (più affaristica che politica) ed i mandanti della Ceka che con la soppressione di Matteotti si prefiggono un duplice obiettivo:eliminare un testimone scomodo e costringere Mussolini a gettare la spugna. L’operazione riesce solo a metà, come tutti sanno.
D. Com’è arrivato a questa conclusione clamorosa?Come ha impostato la sua tesi?
R. Semplicemente, servendomi delle tessere di cui sono entrato in possesso nel corso della mia ricerca e poi sistemandole secondo un ordine che non fosse condizionato e dominato da posizioni preconcette. Alla base di questo complesso gioco ad incastro ci sono stati, comunque, due interrogativi. Primo: che interesse poteva avere Mussolini a macchiare la propria reputazione con un delitto infame dopo appena due mesi dall’apoteosi elettorale del Pnf? Secondo: perché proprio Matteotti, quando tutti i partiti dell’opposizione avevano manifestato il sospetto che il successo dei fascisti fosse dipeso, almeno in parte, da brogli e dalla violenza squadristica? Una volta preso atto della legittimità di tali domande, la distanza dalle risposte si accorcia sensibilmente, e la si può riempire soltanto ricorrendo a materiale di prima mano. Immune cioè sia dalla propaganda che dalle distorsioni ideologiche. Ma in questo spazio si è, appunto, inserita la lunga sequenza di documenti che provano diverse cose: che Matteotti fu ucciso per impedire che facesse rivelazioni. Rivelazioni sul coinvolgimento di alcuni ambienti (legati alla Banca Commerciale) in certi loschi affari riguardanti i petroli, il gioco d’azzardo ed il traffico d’armi; che gli ispiratori e gli esecutori del delitto erano già da diverso tempo in rotta di collisione coi vertici del Pnf, sebbene si fossero infiltrati nell’entourage di Mussolini; che l’immobilismo statuario dell’Aventino era un atteggiamento indotto dalla paura delle opposizioni di dover rendere conto al Pese degli appoggi forniti, da dietro le quinte, all’ala revisionista del partito fascista, che è poi quella nel cui seno matura la decisione di fare fuori Matteotti; che i processi del ’25 e del ’47 sono stati poco meno o poco più che delle orribili farse…
D. Parrebbe di capire che il delitto Matteotti non era compiuto da, ma contro Mussolini…
R. Proprio così. Mussolini si assume, per intero, la responsabilità del crimine perché, altrimenti, sarebbe costretto a denunciare quella del gotha finanziario che ha foraggiato la marcia su Roma e che dopo avergli dato il potere minaccia di riprenderselo per trasferirlo a gente più maneggevole se lui non si rassegna a fungere da parafulmine e da capro espiatorio. E’ una partita difficile, giocare sul filo del bluff, che finisce in pareggio. Mussolini resta al suo posto, ma deve rinunciare al progetto di disfarsi di certe regole, di certi condizionamenti. Li subisce fino a Salò dove vuota il sacco col giornalista Silvestri, ma è troppo tardi, ormai, per ristabilire la verità. Le forze alle quali avevano fatto capo gli istigatori della Ceka sopravvivono al 25 luglio, come sopravvivranno, più tardi, alla caduta del regime monarchico. Nel ’47, in riferimento al caso Matteotti la situazione non è molto dissimile da quella del ’25, e questo spiega il carattere aleatorio del processo conclusivo di Roma: un atto dovuto, un rito.
D. Che differenza c’è fra la sua tesi e quella avanzata da Matteo Matteotti?
R. Lui esclude che la massoneria abbia avuto un ruolo nel predisporre il piano dell’11 giugno, e non so da che tragga questo convincimento, visto che tutti gli indiziati del delitto (da Naldi a De Bono, a Dumini, a Bazi, a Rossi, a Finzi) erano iscritti, a vario titolo, alla setta. Lui afferma che è il mandante di Mussolini, ed io no. Lui dice che il duce copriva le responsabilità della corona ed io trovo strano che Mussolini a Salò non abbia colto l’opportunità per convogliare in questa direzione almeno una parte delle colpe che si era addossato fino alla giubilazione del luglio ’43. Lui insiste sulla Sinclair (mentre risulta dai documenti della compagnia petrolifera americana con cui avevano brigato i manutengoli della “Commerciale”) che era la Standard Oil, e che tale società era anche fortemente interessata al business delle bische.
D. Perché, secondo lei, per tanto tempo a nessuno o quasi è venuto in mente di indagare più a fondo su questo capitolo di storia?
R. Sono incline a ritenere che una certa classe politica e certi settori della cultura italiana preferiscano soprassedere. La demonizzazione acritica del fascismo ha fatto leva soprattutto sul falso scenario del delitto Matteotti: ora tornare indietro con la moviola, ritrattare, ricredersi costituisce una fatica improba per chi, a mio giudizio, si è immesso, più o meno in buona fede, sulla direttrice sbagliata.
g.b.
Rachele Guidi Mussolini
In memoria di Rachele Guidi Mussolini (Predappio Alta, 11 aprile 1890 – Forlì, 30 ottobre 1979) , detta Donna Rachele, colei che ebbe una pensione di reversibilità solo nel 1975, ma dignitosamente visse e morì.
domenica 9 giugno 2013
Forteto, Forza Nuova in piazza a Firenze sabato 8 giugno
«Al Forteto i rapporti eterosessuali erano chiaramente osteggiati e l’ omosessualità era non solo permessa ma addirittura incentivata, un percorso obbligato verso quella che Fiesoli definiva “liberazione dalla materialità": lì gli unici rapporti che erano permessi tra i sessi erano di tipo omosessuale» Queste le parole del Rapporto della Commissione d’Inchiesta sull’affidamento dei minori della Regione Toscana che provano, assieme alle numerose e schiaccianti testimonianze ed ai racconti delle vittime, la strettissima connessione tra omosessualità e pedofilia. "Forza Nuova sarà promotrice il prossimo sabato 8 Giugno a Firenze di una nuova manifestazione contro il Forteto, scandalo che proprio grazie a Forza Nuova sta acquisendo sempre maggiore rilevanza mediatica, nonostante i continui tentativi di insabbiare, nascondere o minimizzare", dichiara il Segretario Nazionale di Forza Nuova Roberto Fiore, che continua: "Saremo in piazza a Firenze per denunciare che dietro ai terribili abusi del Forteto c’è una rete pericolosa quanto la mafia, che finanzia e promuove progetti come questo in Italia e in Europa con la copertura di magistrati, A.S.L. e politici". "Chiediamo al governo e alle istituzioni di intervenire comminando pene esemplari nei processi in corso, contestando l'associazione a delinquere ai pedofili e ai politici che in periodi successivi alle condanne impartite ai capi del Forteto, continuavano a promuoverne l'immagine della struttura e a cercare, ed ottenere, finanziamenti per la stessa", afferma l'Onorevole già Eurodeputato Roberto Fiore, che prosegue: "Uno Stato sano, non può affidare i propri figli a pedofili e criminali che ne distruggono la vita, e non può tollerare che vi siano "educatori", magistrati e politici che sostengono questi scandalosi laboratori del male". "La mobilitazione di Forza Nuova a Firenze, sarà anche l'inizio di una forte campagna forzanovista contro il Ddl Galan e Bondi sulla disciplina delle unioni omoaffettive", asserisce il Leader di Forza Nuova, che conclude: "Quello che succedeva nella struttura toscana è una prova del collegamento fra omosessualità e pedofilia, ed è una delle ragioni per cui non possiamo permettere che passino dei provvedimenti del genere in Italia: l'Italia oggi ha bisogno di figli e non di unioni omoaffettive". Forza Nuova - già quest'estate - aveva iniziato ad indagare sul caso Forteto, oggi, mediaticamente, portato alla ribalta: difatti a luglio ponemmo uno striscione (qui il video: http://www.youtube.com/watch?v=heb-fjiD4TE) con la schietta dicitura "morte al pedofilo", in un luogo non scelto a caso, ovvero a Rosignano, il paese dove in quel momento era ai domiciliari il Fiesoli, per l'appunto il pedofilo a capo del Forteto; inoltre, siamo stati i primi, il 13 febbraio scorso, ad andare sotto il Tribunale dei Minori a Firenze, con il nostro stesso Segretario Nazionale, Roberto Fiore, che ottenne d'esser ricevuto dai magistrati per chiedere chiarezza sulla vicenda, ed infine, questo 11 maggio, abbiamo manifestato proprio sotto il Forteto. Forza Nuova fa presente che al corteo forzanovista parteciperà anche il Magistrato Paolo Ferraro, un uomo che già si è trovato a dare battaglia contro simili casi paramassonici: un uomo proveniente dall'estrema sinistra ma che ha trovato l'appoggio politico, per continuare a lottare contro questi poteri occulti, solo in Forza Nuova. La manifestazione è aperta a tutti gli uomini e le donne, di buona volontà, che sul Forteto vogliono tutta la verità, vogliono Giustizia, senza distinzioni tra destra e sinistra, perché Forza Nuova va oltre essendo realmente una Forza Nuova: chi non è con noi è contro di noi, chi è contro di noi sta con i pedofili. Ufficio Stampa Forza Nuova Toscana Recapito telefonico del Segretario Regionale di FN Toscana, Claudio Cardillo: 3398225690
Forza Nuova e antifascisti in corteo, tensione e lanci di pietre
Un centinaio di manifestanti di Forza Nuova provenienti da diverse regioni d'Italia sono radunati questo pomeriggio all'angolo tra viale Manfredo Fanti e viale Paoli per denunciare le presunte omissioni sul caso giudiziario del Forteto. Presente anche il leader di Fn Roberto Fiore.Il corteo si sarebbe inizialmente dovuto tenere davanti al Palazzo di Giustizia di Novoli ma vista l'alta partecipazione e il controcorteo indetto dagli antifascisti la questura di Firenze lo ha fatto spostare in zona Stadio. Durante il corteo si sono vissuti momenti di tensione fra le due opposte fazioni. Appena saputo del cambio di programma un gruppo di antagonisti si è infatti spostato da Novoli e ha raggiunto lo stadio cercando in più occasioni di forzare il cordone delle forze dell'ordine. All'altezza del Palazzetto dello Sport in venti hanno cercato di superare le forze dell'ordine scatenando anche la reazione di un manipolo di esponenti di Forza Nuova che si sono avvicinati in modo minaccioso sfoderando cinghie e alcuni impugnando sassi. Il tempestivo intervento degli uomini della Digos ha scongiurato il contatto. Durante il corteo degli antagonisti sono stati lanciate alcune pietre nei confronti dei cronisti (Foto di LUCA SERRANO')
mercoledì 5 giugno 2013
Redipuglia
Il Sacrario militare di Redipuglia è un monumentale cimitero militare, costruito in epoca fascista e dedicato alla memoria di oltre 100.000 soldati italiani caduti durante la Prima Guerra mondiale. È il più grande Sacrario militare d'Italia e uno dei più grandi al mondo.
La maestosa scalinata, formata da 22 gradoni su cui sono allineate le tombe dei caduti, sormontate dal ripetuto grido di “Presente” scolpito nella pietra carsica. Tutta l’area è stata convertita a parco della “rimembranza” comprese gallerie, trincee, crateri, munizioni inesplose e nidi di mitragliatrice che sono stati conservati a ricordo delle dure battaglie che costarono la vita a 689.000 soldati italiani. L’intero sito, che dipende dal Ministero degli Interni, subisce da tempo un degrado a cui le autorità governative non intendono porre rimedio.
Noi di Memento abbiamo così organizzato una prima visita di gruppo cui hanno partecipato più di 50 volontari, che rientra tra le finalità formative della onlus, ma che serve anche a prendere atto di cosa potrà essere praticamente realizzato nel futuro.
Basovizza
Il 10 febbraio di ogni anno si celebra, per legge dello Stato, il Giorno del Ricordo dei martiri delle Foibe e dell’esodo di 350.000 italiani dall’Istria, dalla Dalmazia e dalla Venezia Giulia.
Le Foibe sono cavità carsiche nelle quale furono buttati i corpi di oltre 10.000 italiani uccisi dall’odio etnico e politico dei partigiani comunisti jugoslavi tra il 1943 e il 1945. Colpevoli solo di essere italiani e di amare la loro Patria, questi martiri sono stati ignorati per oltre 60 anni e così pure i luoghi in cui furono uccise che, oltretutto, si trovano per lo più in territori che ora appartengono alle repubbliche di Slovenia e di Croazia.
Tra questi. Il più celebre, è la Foiba di Basovizza, sulla quale è stato eretto un monumento. Anche questo monumento però, come molti altri cippi, lapidi e monumenti funebri che ricordano gli italiani uccisi sul confine orientale sono stati quasi totalmente abbandonati dalle autorità italiane, quando non divelti o distrutti dalle quelle slovene e croate.
Per questo Memento, aderisce alle iniziative promosse dall’associazione degli esuli Ades (delegazione di Monza e Brianza) non solo per mantenere vivo il Ricordo, ma anche per far conoscere e,possibilmente, per ripristinare i luoghi in cui fu perpetrato il genocidio delle popolazioni italiane.
martiri di Gorla
I “piccoli martiri di Gorla” sono il simbolo più bruciante delle centinaia di migliaia di vittime civile uccise dai bombardamenti terroristici perpetrati dagli anglo-americani sulle città italiane.
Il 20 ottobre 1944, 36 bombardieri americani che non erano riusciti a sganciare le loro bombe sugli stabilimenti della Breda, perché respinti dalla contraerea, scaricarono il loro carico di morte sulle case di Gorla e Precotto, alla periferia di Milano. 342 bombe da 500 libre devastarono le abitazioni: una centrò in pieno il vano scale della scuola elementare "Francesco Crispi" di Gorla, raggiungendo il rifugio sotterraneo dell'edificio e causando la morte di 184 bambini e dell'intero corpo docente.
Un monumento, eretto nel dopoguerra, ricorda quei piccoli martiri sterminati dalla colpevole negligenza, dalla superficialità e dall’inciviltà degli aviatori alleati e, di fronte a esso, ogni anno, si celebrano momenti commemorativi. Noi di Memento ereditiamo dall’associazione Lealtà Azione il compito e l’onore di intraprendere iniziative atte a non cancellare la memoria di questa tragedia della nostra Patria.
dorsali alpine
Sulle dorsali alpine, dalla Lombardia al Trentino, dal Veneto al Friuli, si snodano chilometri e chilometri di fortificazioni lungo le quali si fronteggiarono per anni soldati italiani e austro-ungarici.
Oltre ai musei all'aperto e alle opere di difesa che oggi si possono visitare, le trincee sono la testimonianza più significativa della Grande Guerra 1915-18. Costruite con il sudore, difese con il sangue, esse furono anche la “casa” dei soldati, il luogo dove vissero per mesi tra un bombardamento e un assalto, in condizioni climatiche e ambientali spesso estreme. Ogni pietra racconta di eroi che combatterono strenuamente per difendere sé stessi e la propria Nazione, per riunire all’Italia le Terre irredente, per rompere una secolare schiavitù.
Memento, anche in collaborazione con l’associazione Lupi delle Vette, intende organizzare non solo escursioni e visite ai luoghi storici della Grande Guerra, ma pensa anche di realizzare campi di lavoro estivo, per collaborare al restauro e alla riscoperta di questi autentici monumenti all’eroismo e all’abnegazione del soldato italiano.
Oltre ai musei all'aperto e alle opere di difesa che oggi si possono visitare, le trincee sono la testimonianza più significativa della Grande Guerra 1915-18. Costruite con il sudore, difese con il sangue, esse furono anche la “casa” dei soldati, il luogo dove vissero per mesi tra un bombardamento e un assalto, in condizioni climatiche e ambientali spesso estreme. Ogni pietra racconta di eroi che combatterono strenuamente per difendere sé stessi e la propria Nazione, per riunire all’Italia le Terre irredente, per rompere una secolare schiavitù.
Memento, anche in collaborazione con l’associazione Lupi delle Vette, intende organizzare non solo escursioni e visite ai luoghi storici della Grande Guerra, ma pensa anche di realizzare campi di lavoro estivo, per collaborare al restauro e alla riscoperta di questi autentici monumenti all’eroismo e all’abnegazione del soldato italiano.
Milano Campo 10
L’Associazione Memento è nata per dare organizzazione stabile, continuità organizzativa e un più sicuro orizzonte di crescita alle decine e decine di giovani volontari che, da ormai 6 anni, si impegnano per la pulizia, la manutenzione e il decoro del Campo 10 del Cimitero di Musocco: “Campo militare dell’Onore”.
In esso sono sepolti quasi mille degli oltre seimila fascisti uccisi a Milano e dintorni nel corso della Guerra civile. In particolare i caduti qui sepolti furono quasi tutti uccisi dopo il 25 aprile, a guerra finita, vittime quindi dell’odio e della vendetta dei partigiani comunisti e non uccisi in leale combattimento.
Tra essi, oltre ai militari, anche alcune donne e civili, che sono però accomunati in questo Campo dall’unico comune denominatore dell’aver amato e difeso l’Onore della Patria a costo della propria vita. Campo 10 rientra tra i Campi militari tutelati da Onorcaduti (Ministero della Difesa) e in esso sono sepolti anche 3 medaglie d’oro al V.M. e alcuni fulgidi eroi della Seconda guerra mondiale, come il maggiore Visconti.
Eppure, né il Ministero né il Comune di Milano si sono mai presi cura del Campo che rischiava il degrado se non fossero intervenuti i volontari coordinati oggi da Memento in turni regolari di lavoro, anche in vista delle due celebrazioni che, ogni anno, ad aprile e a novembre, vengono organizzate insieme alle associazioni di ex-combattenti e dei familiari delle vittime.
Nettuno
Volontari per la tutela dei luoghi Sacri alla Patria
Si pensa che i ladri siano zingari, visto che l’ottone è ben pagato sul mercato nero. Cosa può importare a degli zingari del valore simbolico di quel luogo e di quei nomi? Cento giovani e giovanissimi, sei di loro ignoti, i cui resti sono stati cercati e trovati nell’Agro pontino da Raffaella Duelli, Ausiliaria del medesimo battaglione.
Disegnato dall’architetto Alessandro Tognoloni (sottotenente di vascello, dato per disperso in combattimento nel tentativo di arrestare con il suo plotone l’avanzata americana, insignito di Medaglia d’oro al VM) il Campo della Memoria, per anni, è stato un luogo “privato” dove i reduci della RSI celebravano messe in ricordo dei caduti, finché gli è stato riconosciuto lo status di Sacrario di guerra.
I Volontari di Memento si impegnano sin d’ora a intervenire per il ripristino delle lapidi e il pieno restauro di questo Campo militare.
cimitero di Monza .
Esiste un angolo del cimitero di Monza (il Campo 62) che, fino a una decina di anni fa, era completamente coperto da erbacce che ne nascondevano tombe e lapidi. Solo un monumento marmoreo emergeva sul vertice, ormai corrotto dal tempo, dopo essere stato deturpato dalle mani vigliacche dei partigiani, nel dopoguerra. Rappresenta, infatti, un console generale della Milizia, fieramente poggiato su un fascio che schiaccia un serpente. Di quel monumento e di quel campo poco o nulla si sapeva.
Poi, alcuni volontari iniziarono a ripulire l’area e, anno dopo anno, il lavoro di un numero sempre maggiore di giovani portò a scoprire, su un lato del Campo, le tombe di martiri fascisti uccisi prima del 1922 e, sull’altro, quelle di soldati della Repubblica Sociale morti tra il 1943 e il 1945.
Il monumento, invece, è quello ad Aldo Tarabella, ardito della Grande guerra, decorato con 3 medaglie d’argento e 3 di bronzo al valor militare, quindi il soldato più decorato sepolto a Monza… ma totalmente dimenticato dalle autorità per quel suo aver aderito al fascismo ricoprendo anche cariche di rilievo.
Oggi, il monumento e il Campo sono stati completamente ripuliti e restaurati dai volontari e Memento, oggi, si impegna a mantenere intatto e incorrotto anche questo frammento di storia patria.
martedì 4 giugno 2013
...PERCHE' NOI NON DIMENTICHIAMO!
Onore ai Camerati caduti
strage di Acca Larentia, 7-01-1978
" (…) Mentre siamo in riunione arriva la notizia che nella sede di Acca Larenzia i compagni hanno sparato di nuovo. (…) Quella sera del 7 gennaio, presi dalla rabbia per la morte di Franco Ciavatta e Stefano Bigonzetti i ragazzi iniziano gli slogan di protesta contro carabinieri e celere che sono lì davanti alla sezione per prevenire incidenti. Quella loro presenza di controllo è inaccettabile. (…). Il tono delle grida aumenta e dalla parte dei carabinieri iniziano a sparare lacrimogeni. La distanza tra noi missini e i carabinieri è minima e non si capisce perché ci sparino addosso. Indietreggio. Mi giro e vedo a terra quel ragazzo biondo con cui stavo parlando poco prima. E' Stefano Recchioni e torno indietro per aiutarlo a rialzarsi. Gli metto una mano dietro la testa per sollevargliela e gli occhi azzurri gli roteano all'indietro. Sulla mano ho una strana sensazione di caldo: provo a tirarlo su, ma quando la macchia di sangue si allarga sui miei jeans, capisco che non è stato colpito da un lacrimogeno ma da un proiettile alla nuca. Da una parte i carabinieri, dall'altra chi ha cercato riparo verso la sezione e si aspetta un'altra carica. Sulla strada è rimasto il corpo di Stefano che continuo a tenere tra le braccia. Non darà più segni di vita e il mio grido di aiuto non basterà a fermare quel sangue e a salvargli la vita. Non verso nessuna lacrima, ma niente da quel momento sarà più come prima ".
da "Nel cerchio della prigione" - Francesca Mambro
strage di Acca Larentia, 7-01-1978
" (…) Mentre siamo in riunione arriva la notizia che nella sede di Acca Larenzia i compagni hanno sparato di nuovo. (…) Quella sera del 7 gennaio, presi dalla rabbia per la morte di Franco Ciavatta e Stefano Bigonzetti i ragazzi iniziano gli slogan di protesta contro carabinieri e celere che sono lì davanti alla sezione per prevenire incidenti. Quella loro presenza di controllo è inaccettabile. (…). Il tono delle grida aumenta e dalla parte dei carabinieri iniziano a sparare lacrimogeni. La distanza tra noi missini e i carabinieri è minima e non si capisce perché ci sparino addosso. Indietreggio. Mi giro e vedo a terra quel ragazzo biondo con cui stavo parlando poco prima. E' Stefano Recchioni e torno indietro per aiutarlo a rialzarsi. Gli metto una mano dietro la testa per sollevargliela e gli occhi azzurri gli roteano all'indietro. Sulla mano ho una strana sensazione di caldo: provo a tirarlo su, ma quando la macchia di sangue si allarga sui miei jeans, capisco che non è stato colpito da un lacrimogeno ma da un proiettile alla nuca. Da una parte i carabinieri, dall'altra chi ha cercato riparo verso la sezione e si aspetta un'altra carica. Sulla strada è rimasto il corpo di Stefano che continuo a tenere tra le braccia. Non darà più segni di vita e il mio grido di aiuto non basterà a fermare quel sangue e a salvargli la vita. Non verso nessuna lacrima, ma niente da quel momento sarà più come prima ".
da "Nel cerchio della prigione" - Francesca Mambro
29 Settembre - Santo Arcangelo Michele. Nel solco della Legione
Inno della gioventù legionaria
“Santa giovinezza legionaria
petti d’acciaio e spirito in fior
prode impeto di primavera
purezza di profondo lago alpin
nel sole alziamo con le braccia
altari per l’eternità
li alziam di roccia, fuoco e mare
col sangue degli eroi li aspergiam.
Rit. L’aspra, l’aspra lotta
fa di noi falchi d’acciaio
l’aspra, l’aspra lotta
per la santa Tradizion.
E’ la morte, morte legionaria
lo sposalizio che più sospiriam.
Per la santa Croce, per la Patria
vinciamo boschi e monti soggioghiam
non c’è prigion che ci spaventi,
nè pena nè tempesta ostil
se cadiam colpiti sulla fronte
bella è la morte per la Tradizion
Rit. L’aspra, l’aspra lotta
fa di noi falchi d’acciaio
l’aspra, l’aspra lotta
per la santa Tradizion.
Santa giovinezza legionaria
innalziam templi e fieri siamo in prigion
nella più crudel persecuzione
cantiamo e ai nostri eroi ci ispiriam
portiamo nel vento e nel sole
le luci per i vincitor
per i prodi costruiamo altari
e piombo abbiamo per i traditor!”
RSI - L’UNICA E VERA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA
Domenica 2 giugno a Civitavecchia, in concomitanza con la fasulla festa della Repubblica fondata sull’usura, la comunità di Azione punto Zero ha voluto riconfermare la sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana, in difesa di Verità e Giustizia. Lo si è fatto incontrando le persone che la Repubblica Sociale l’hanno creata, vissuta e fino all’ultimo, difesa. Presenti molti combattenti, un caro saluto viene rivolto in special modo ad Antonio Pedrini, impossibilitato a raggiungere la sala. Molti, coloro che sono giunti da Roma, Santa Marinella, Cerveteri e Civitavecchia. Da ricordare la presenza dei camerati del Fascio Etrusco e di alcuni esponenti di Socialismo Nazionale. Simili appuntamenti, che anche questa volta ha avuto luogo come di consueto presso l’Ultimo Avamposto, rappresentano per noi delle occasioni uniche per rinsaldare il legame con i Combattenti e riaccendere il fuoco, che il mondo moderno tenta si spegnere ogni giorno, con le scintille che hanno alimentato questi uomini affinché l’onore dell’Italia non fosse andato perduto.
Dopo i saluti iniziali del responsabile di Azione punto zero e una breve introduzione per rinnovare l’importanza e la funzione dell’incontro - che non doveva essere inteso come una celebrazione sterile del passato, né come una discussione in cui perdersi in ciance - la parola è passata subito a Stelvio Dal Piaz che ha spinto a riflettere sui paradossi dell’attuale ordinamento costituzionale e sui fini ambigui di coloro che l’hanno creato. Infatti, molti sono coloro che ancora continuano a credere che l’Italia abbia vinto la guerra, nonostante il bombardamenti a tappeto del Paese e il Trattato di pace inizi per ogni frase con “L’Italia rinuncia a…” . A ciò si aggiunge il fatto che la Costituente, istituita nel 1946, non poteva in alcun modo introdurre una normativa che non fosse vagliata dagli anglo-americani e che potesse scontrarsi con l’ideologia dei vincitori. Per concludere, Dal Piaz ha sottolineato di essere onorato in qualità di fautore della Delegazione del Lazio del Raggruppamento RSI (che svolge l’importante funzione di mantenere il contatto tra i militanti di oggi ed i Combattenti). Inoltre ha scandito, come lo scoprirsi uniti a combattere sullo stesso fronte sia ora più che mai di fondamentale importanza, visto che la crisi di una democrazia che ha palesemente fallito tenderà ad attuare un opera di sempre maggiore soppressione di quei movimenti che vorranno ribellarsi al sistema. Egli ha come sempre ribadito come i Combattenti si sentano tuttora “in trincea” perché durante tutti questi anni non hanno mai perso la fede nei Valori Sacri ed eterni, e con essi non hanno mai perso la speranza di un risveglio di quelle potenzialità che gli Italiani portano nel cuore, per la difesa della amata terra natia.
A seguire, Roberta Di Casimirro ci ha ricordato come nell’armistizio firmato da Badoglio non ci fosse alcun riferimento ad una ipotetica liberazione ma che la motivazione di fondo del vile atto, fosse solo ed esclusivamente quello di sottrarsi dalla guerra scendendo a patti col nemico. La Dottoressa Di Casmirro ha poi affermato (partendo da dichiarazioni di persone che giungono persino a negare l’esistenza delle Foibe) come nell’Italia spaccata in due, la parte traditrice attaccasse, e attacchi tutt’oggi, la propria Patria senza alcun appello a Valori autentici ma utilizzando falsità e ipocrisia come mezzo per infangare la propria gente. Solo più tardi, la macchina propagandistica degli alleati trasformò la guerra contro l’Italia in una guerra di liberazione, sì, ma da se stessa! Il Prof. Mario Michele Merlino e il Combattente Mario Cohen, hanno infine chiuso la serie di interventi di riflessione invitandoci a uno studio approfondito di quella che è la nostra storia e sulle nuove sembianze assunte dalla sovversione nell’attuale mondo moderno. Il movimento che caratterizzò la RSI fu infatti avanguardia che seppe sempre analizzare il mondo circostante e agire di conseguenza facendosi trovare sempre pronto senza rimanere radicato in forme ormai superate, ancorate al passato e nostalgiche. Il professor Merlino ha posto l’accento sul fatto che sui libri di storia d’oggi, tutto è falsato e mistificato e le porte per approcciarsi alla Verità sono oramai poche, in un’informazione totalmente manipolata dalla Sovversione ed inquinata dalla falsità dei vincitori. Il combattente Cohen in un intervento molto appassionato, dopo essersi immerso nel ricordo del momento dell’annuncio della resa, non ha esitato ad esaltare questi incontri. Essi, sono simbolo di quella lotta di cui loro si sono presi carico, attraversando sofferenze immense. Grazie a loro, ancor oggi la lotta vive nel cuore di giovani che non vogliono vedere un’Italia schiava e succube delle infami e assassine democrazie. Fondamentale quindi, per Mario Cohen, è il lavoro che svolgono i militanti. Con lo sforzo quotidiano, attuando per mezzo di saldi valori, quei Principi in grado di contrastare e arginare la marea montante del mondo moderno
In conclusione, il momento più importante della giornata. Ha avuto luogo la trasmissione del testimone e il riconoscimento simbolico da parte di Stelvio Dal Piaz - a nome di tutti i Combattenti R.S.I. - al responsabile di Azione Punto Zero – in rappresentanza di tutti i militanti della Continuità Ideale - affinchè la neonata Delegazione del Lazio possa operare con legittimità a difesa dei 18 punti di Verona e per l’affermazione degli ideali della Repubblica Sociale Italiana. Questo simbolico gesto, non solo onora ma fa sentire ancora di più la responsabilità donataci: è attraverso la tenuta nel tempo della nostra militanza, che si sente il dovere di continuare l’azione di trasmissione dell’immensa eredità del fascismo repubblicano. Seguendo il solco di quei sacri valori, marciamo compatti per l’onore dei combattenti della Repubblica Sociale Italiana.
Dopo i ringraziamenti e i saluti finali è seguito il pranzo legionario, occasione per parlare e conoscersi meglio anche con chi è arrivato da lontano o magari è venuto per la prima volta ad un simile appuntamento, familiarizzando in uno spirito comunitario e condividendo questo momento di gioia.
La Delegazione Laziale del Raggruppamento può essere raggiunta alla mail: rsilazio@gmail.com, a breve realizzeremo una pagina su facebook e creeremo un blog e una mailing list per tenere aggiornati tutti i sostenitori.
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