È un morto dimenticato Emanuele Zilli. Militante e operaio. Ragazzo di 25 anni e padre. È un morto che si preferisce non ricordare. Perché se si andasse a grattare sotto la superficie, si scoprirebbe che la sua è una storia piena di incongr...uenze. Cominciamo dall’inizio. Pavia, inizio anni ’70. Emanuele è un giovane emigrato. È nato in provincia di Teramo. Cresciuto fra Roma e Torino. Ha frequentato perfino il seminario. Nella sua famiglia nessuno è di destra, sono tutti cattolici. Suo cugino è il direttore di Famiglia Cristiana. Si avvicina alla politica da adolescente grazie alla “Giovane Italia” che al sud toglie i ragazzi dalla strada offrendogli un’alternativa: lo sport (e un po’ di militanza). Però sa che a casa ci sono un sacco di problemi di soldi. Suo papà fa il pastore e arrivare a fine mese è durissima. Per non pesare sui suoi pensa anche di prendere i voti. Poi conosce Giuseppina, si innamorano. Sono poco più che due bambini, ma si sposano. Mettono su famiglia. Due figlie che sono quasi due gemelle, appena un anno di differenza. Patrizia e Vincenza. Dopo sua moglie e le piccole, il suo grande amore è la politica. Non l’ha mai messa da parte, la coltiva. È uno sfogo irrinunciabile per un giovane “terrone” trapiantato in una fredda città del Nord, non molto ospitale con chi viene da fuori. Per mettere il pane in tavola lavora in fabbrica, la Bertani, proprio a Pavia. È un ragazzo umile, senza grilli per la testa. A lui basta guadagnare quanto che serve per vivere. Appena ha un attimo libero scappa in sezione, al MSI.È una vittima abbandonata Emanuele. Una vittima che non si ha nemmeno il coraggio di definire tale. La sua condanna a morte viene scritta nell’inverno del 1972. La ricostruzione più accurata è quella di Telese in “Cuori Neri”. Zilli sta attaccando dei manifesti in Piazza Grande, insieme ad altri ragazzi del partito: Marco Noè, Romano Febbroni, Flavio Caretta (il responsabile del fronte della Gioventù). Mentre fanno attacchinaggio vengono aggrediti (dapprima verbalmente) da un gruppo di “compagni”. I missini rispondono. Si arriva alle mani in un attimo. All’inizio è solo una colluttazione. Ma quelli di sinistra sono di più. Noè, che ha solo 19 anni, si mette paura. Tira fuori una pistola ad aria compressa che si porta dietro per sicurezza. Spara. Prende al gomito un ragazzotto del Partito comunista marxista-leninista, Carlo Leva. Se la caverà senza alcun danno permanente, con qualche ora d’ospedale. Ad Emanuele va peggio. Lo ricoverano in gravi condizioni al Policlinico di Pavia. Non fanno in tempo a medicarlo che lo dimettono per trasferirlo a San Vittore. Dall’ospedale al carcere, sì, perché i compagni hanno accusato lui di aver sparato. In sé, l’episodio non è che poco più di un tafferuglio, se paragonato a ciò che saranno gli anni di piombo. Ma Pavia è una cittadina. Non certo abituata al grande clamore degli scontri politici che già impazzano a Roma e Milano. Gli abitanti sono preoccupati, turbati, perfino infastiditi. Il giorno dopo l’aggressione di Piazza Grande si scopre chi c’è dietro ai giovani provocatori di sinistra. Su La Provincia Pavese esce una dichiarazione di Guido Caniz, all’epoca portavoce di “Lotta Continua”. “Pestaggi? Rappresaglie? Lotta continua è un’organizzazione che fa politica. Degli avvenimenti siamo venuti a conoscenza solo dai giornali”. Quindi Caniz nega tutto. Ma i conti non tornano. Perché, una volta scagionato da tutte le accuse, Emanuele si candida alle comunali. “Sono state la sua rovina” racconta Giuseppina a Telese, la moglie, ricordando quegli anni pieni di angoscia. Sotto casa cominciano a comparire delle scritte: “ZILLI SEI IL PRIMO DELLA LISTA”. Sì, Lotta continua fa politica. Ma fa anche confusione quando si tratta di “puntare il dito” contro eventuali colpevoli. Negli stessi giorni, a Milano, sui muri sotto casa di Luigi Calabresi hanno impresso a caratteri di fuoco “CALABRESI ASSASSINO”. Il commissario viene ammazzato il 17 Maggio del 1972. Ad Emanuele concedono appena un anno in più. Ma la dinamica è la stessa: intimidazioni, insulti, minacce telefoniche, denunce che cadono nel vuoto, l’isolamento. Forse Zilli ha capito che rischia grosso, che Lotta Continua se l’è legata al dito la storia della rissa. Che potrebbe essere la vittima di una rappresaglia. O forse è solo un ragazzo previdente. Fatto sta che due giorni prima di morire stipula una polizza sulla vita. Giuseppina si arrabbia quando glielo dice. Pensa che porti male. Non sa che quell’ultimo gesto d’amore sarà l’aiuto che suo marito le darà quando non potrà più starle accanto.Il 2 Novembre del 1973 Emanuele va in fabbrica, come al solito. Alla fine del turno, intorno alle 18.30, i suoi colleghi lo vedono salire sul motorino e andare verso casa. Non ci arriverà mai. Viene ritrovato agonizzante sul prato che costeggia la strada. Lo trasportano d’urgenza in ospedale. Rimane in coma per tre giorni, senza mai riprendere conoscenza. Senza riuscire a rivedere la moglie o le bambine. Muore il 5 Novembre.È un morto scomodo Emanuele Zilli. Perché per più di trent’anni è stato detto che la sua vita era stata stroncata da un pirata della strada. Uno con la 500 che non si era fermato a soccorrerlo. Soltanto nel 1997, Stefano Vaglio Laurin pubblica un libro (“Sergio Ramelli, una storia che fa ancora paura”), in cui parla della morte di Zilli come di un omicidio. Vaglio ha sentito parlare di Emanuele per caso. Ma la sua vicenda lo appassiona da subito. Perché quel ragazzo non solo era del MSI, ma anche di Pavia, come lui. Stefano rilegge tutte le carte, studia il referto dell’autopsia e non si spiega il perché non sia mai stata aperta un’inchiesta. Come fa uno che è stato mandato fori strada ad avere un occhio nero? Come può avere un colpo dietro al collo? A nessuno sembra che interessi. Le 70 cartelle mediche sono piene di dubbi. “Si ritiene che il capo di Zilli sia stato sottoposto ad un’unica azione contusiva, pur non negandosi in assoluto la possibilità di diverse dinamiche ed in particolare la possibilità due distinte azioni contusive”. Ma anche “Il complesso delle lesioni si armonizza con la caduta dal ciclomotore, pur non escludendo eventualità diverse”. Si dice tutto e niente. E per non correre il rischio non si indaga. Giuseppina, rimasta vedova a 22 anni, Patrizia e Vincenza, cresciute senza il minimo ricordo del padre, non hanno mai avuto giustizia. Non hanno mai avuto neppure un po’ di verità. Emanuele Zilli è un morto, di destra, dimenticato troppo in fretta da tutti. Perfino dal suo partito. Però, questa volta, non sono riusciti a dire che era una faida interna tra fascisti.
lunedì 4 novembre 2013
EMANUELE ZILLI PRESENTE.
È un morto dimenticato Emanuele Zilli. Militante e operaio. Ragazzo di 25 anni e padre. È un morto che si preferisce non ricordare. Perché se si andasse a grattare sotto la superficie, si scoprirebbe che la sua è una storia piena di incongr...uenze. Cominciamo dall’inizio. Pavia, inizio anni ’70. Emanuele è un giovane emigrato. È nato in provincia di Teramo. Cresciuto fra Roma e Torino. Ha frequentato perfino il seminario. Nella sua famiglia nessuno è di destra, sono tutti cattolici. Suo cugino è il direttore di Famiglia Cristiana. Si avvicina alla politica da adolescente grazie alla “Giovane Italia” che al sud toglie i ragazzi dalla strada offrendogli un’alternativa: lo sport (e un po’ di militanza). Però sa che a casa ci sono un sacco di problemi di soldi. Suo papà fa il pastore e arrivare a fine mese è durissima. Per non pesare sui suoi pensa anche di prendere i voti. Poi conosce Giuseppina, si innamorano. Sono poco più che due bambini, ma si sposano. Mettono su famiglia. Due figlie che sono quasi due gemelle, appena un anno di differenza. Patrizia e Vincenza. Dopo sua moglie e le piccole, il suo grande amore è la politica. Non l’ha mai messa da parte, la coltiva. È uno sfogo irrinunciabile per un giovane “terrone” trapiantato in una fredda città del Nord, non molto ospitale con chi viene da fuori. Per mettere il pane in tavola lavora in fabbrica, la Bertani, proprio a Pavia. È un ragazzo umile, senza grilli per la testa. A lui basta guadagnare quanto che serve per vivere. Appena ha un attimo libero scappa in sezione, al MSI.È una vittima abbandonata Emanuele. Una vittima che non si ha nemmeno il coraggio di definire tale. La sua condanna a morte viene scritta nell’inverno del 1972. La ricostruzione più accurata è quella di Telese in “Cuori Neri”. Zilli sta attaccando dei manifesti in Piazza Grande, insieme ad altri ragazzi del partito: Marco Noè, Romano Febbroni, Flavio Caretta (il responsabile del fronte della Gioventù). Mentre fanno attacchinaggio vengono aggrediti (dapprima verbalmente) da un gruppo di “compagni”. I missini rispondono. Si arriva alle mani in un attimo. All’inizio è solo una colluttazione. Ma quelli di sinistra sono di più. Noè, che ha solo 19 anni, si mette paura. Tira fuori una pistola ad aria compressa che si porta dietro per sicurezza. Spara. Prende al gomito un ragazzotto del Partito comunista marxista-leninista, Carlo Leva. Se la caverà senza alcun danno permanente, con qualche ora d’ospedale. Ad Emanuele va peggio. Lo ricoverano in gravi condizioni al Policlinico di Pavia. Non fanno in tempo a medicarlo che lo dimettono per trasferirlo a San Vittore. Dall’ospedale al carcere, sì, perché i compagni hanno accusato lui di aver sparato. In sé, l’episodio non è che poco più di un tafferuglio, se paragonato a ciò che saranno gli anni di piombo. Ma Pavia è una cittadina. Non certo abituata al grande clamore degli scontri politici che già impazzano a Roma e Milano. Gli abitanti sono preoccupati, turbati, perfino infastiditi. Il giorno dopo l’aggressione di Piazza Grande si scopre chi c’è dietro ai giovani provocatori di sinistra. Su La Provincia Pavese esce una dichiarazione di Guido Caniz, all’epoca portavoce di “Lotta Continua”. “Pestaggi? Rappresaglie? Lotta continua è un’organizzazione che fa politica. Degli avvenimenti siamo venuti a conoscenza solo dai giornali”. Quindi Caniz nega tutto. Ma i conti non tornano. Perché, una volta scagionato da tutte le accuse, Emanuele si candida alle comunali. “Sono state la sua rovina” racconta Giuseppina a Telese, la moglie, ricordando quegli anni pieni di angoscia. Sotto casa cominciano a comparire delle scritte: “ZILLI SEI IL PRIMO DELLA LISTA”. Sì, Lotta continua fa politica. Ma fa anche confusione quando si tratta di “puntare il dito” contro eventuali colpevoli. Negli stessi giorni, a Milano, sui muri sotto casa di Luigi Calabresi hanno impresso a caratteri di fuoco “CALABRESI ASSASSINO”. Il commissario viene ammazzato il 17 Maggio del 1972. Ad Emanuele concedono appena un anno in più. Ma la dinamica è la stessa: intimidazioni, insulti, minacce telefoniche, denunce che cadono nel vuoto, l’isolamento. Forse Zilli ha capito che rischia grosso, che Lotta Continua se l’è legata al dito la storia della rissa. Che potrebbe essere la vittima di una rappresaglia. O forse è solo un ragazzo previdente. Fatto sta che due giorni prima di morire stipula una polizza sulla vita. Giuseppina si arrabbia quando glielo dice. Pensa che porti male. Non sa che quell’ultimo gesto d’amore sarà l’aiuto che suo marito le darà quando non potrà più starle accanto.Il 2 Novembre del 1973 Emanuele va in fabbrica, come al solito. Alla fine del turno, intorno alle 18.30, i suoi colleghi lo vedono salire sul motorino e andare verso casa. Non ci arriverà mai. Viene ritrovato agonizzante sul prato che costeggia la strada. Lo trasportano d’urgenza in ospedale. Rimane in coma per tre giorni, senza mai riprendere conoscenza. Senza riuscire a rivedere la moglie o le bambine. Muore il 5 Novembre.È un morto scomodo Emanuele Zilli. Perché per più di trent’anni è stato detto che la sua vita era stata stroncata da un pirata della strada. Uno con la 500 che non si era fermato a soccorrerlo. Soltanto nel 1997, Stefano Vaglio Laurin pubblica un libro (“Sergio Ramelli, una storia che fa ancora paura”), in cui parla della morte di Zilli come di un omicidio. Vaglio ha sentito parlare di Emanuele per caso. Ma la sua vicenda lo appassiona da subito. Perché quel ragazzo non solo era del MSI, ma anche di Pavia, come lui. Stefano rilegge tutte le carte, studia il referto dell’autopsia e non si spiega il perché non sia mai stata aperta un’inchiesta. Come fa uno che è stato mandato fori strada ad avere un occhio nero? Come può avere un colpo dietro al collo? A nessuno sembra che interessi. Le 70 cartelle mediche sono piene di dubbi. “Si ritiene che il capo di Zilli sia stato sottoposto ad un’unica azione contusiva, pur non negandosi in assoluto la possibilità di diverse dinamiche ed in particolare la possibilità due distinte azioni contusive”. Ma anche “Il complesso delle lesioni si armonizza con la caduta dal ciclomotore, pur non escludendo eventualità diverse”. Si dice tutto e niente. E per non correre il rischio non si indaga. Giuseppina, rimasta vedova a 22 anni, Patrizia e Vincenza, cresciute senza il minimo ricordo del padre, non hanno mai avuto giustizia. Non hanno mai avuto neppure un po’ di verità. Emanuele Zilli è un morto, di destra, dimenticato troppo in fretta da tutti. Perfino dal suo partito. Però, questa volta, non sono riusciti a dire che era una faida interna tra fascisti.
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