All’alba del 10 luglio 1943, su 150 km. di spiagge siciliane iniziarono a sbarcare la 7° Armata americana e l’8° inglese. Vorrei precisare che è una bufala storica quella che vorrebbe che il Regio Esercito non abbia opposto alcuna resistenza agli invasori. I reparti italiani combatterono e, talvolta, lo fecero in condizioni drammatiche. Bisognerebbe chiederlo ai superstiti degli equipaggi dei carri L3 o addirittura dei FIAT 3000 che affrontarono, a bordo di modeste cingolette o vetusti carri armati, i mastodontici Sherman.
Alle ore 17,00 di sabato 24 luglio seguente, si riunì il Gran Consiglio del Fascismo, supremo consesso del Regime. I 28 membri del Consiglio e il Duce, avrebbero discusso quello che sarebbe passato alla storia come “Ordine del Giorno Grandi”. La seduta terminò all’alba con la sfiducia a Mussolini e la richiesta al Re del “ripristino di tutte le funzioni statali” e di “assumere l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria”.
Era la crisi del Regime. Il giorno dopo il Duce fu arrestato, mentre Capo del nuovo Governo venne nominato Pietro Badoglio.
Alla notizia della caduta del regime, la folla si riversò in piazza esultando per la fine della guerra. Il peggio, invece, stava appena per iniziare. Sganciarsi dall’alleanza con i tedeschi non era cosa che si potesse fare facilità e Badoglio si diede da fare per convincere Hitler che “La guerra continua” e che “L’Italia duramente colpita nelle sue province invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni”.
In realtà, il Re e il suo nuovo Capo del Governo stavano lavorando da tempo per tirarsi fuori da quel conflitto in qualsiasi modo. Mentre si tentava di tenere buoni i tedeschi, furono avviati contatti con gli angloamericani, prendendo una serie di iniziative che mano mano sarebbero passate dalla farsa alla tragedia. Il 12 di agosto, il generale Giuseppe Castellano arrivò nella penisola iberica per incontrare il rappresentante inglese e gli inviati del gen. Eisenhower.
Gli incontri con i delegati stranieri portarono, il 3 settembre, a Cassibile - Sicilia, dove fu firmato quello che, contrabbandato come Armistizio, fu realtà una resa senza condizioni per le armi italiane.
A resa già firmata, i soldati italiani avrebbero però continuato a combattere contro gli Alleati fino all’8 settembre. E’ da evidenziare come, da parte delle gerarchie nazionali, vi fosse il vero e proprio terrore che i tedeschi potessero scoprire come l’Italia si era sganciata da quella guerra.
Nella mattinata dell’8 settembre, il generale Badoglio, incontrando l’incaricato d’affari tedesco, gli avrebbe confermato la volontà italiana di continuare nella lotta, dicendogli: “Sono uno dei tre più vecchi marescialli d’Europa: Mackensen, Pétain, Badoglio: potete pensare che con me si possa mancare ad una parola d’onore?” Peraltro, il tedesco, poco prima, era stato ricevuto e rassicurato dallo stesso Re.
Tanto per confermare il valore della parola del Re e di Badoglio, nella serata dello stesso giorno 8, intorno alle ore 19,00, il programma di canzonette mandato in onda dall’E.I.A.R. fu interrotto dalla voce del Capo del Governo, incisa su di un disco, che diffondeva l’annuncio della resa: “Il Governo Italiano riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo - americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo - americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse, però, reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.” .
La radiodiffusione E.I.A.R. diede origine a scene di tripudio, tra i molti che credevano che la guerra fosse veramente conclusa.
In realtà, i tedeschi non potevano permettersi, per motivi squisitamente strategici, di lasciare il territorio italiano. L’abbandono della Penisola da parte loro, avrebbe avvicinato notevolmente il fronte alle loro frontiere e con questo i bombardieri Alleati alle loro città.
Alla data dell’8 settembre erano presenti sul territorio nazionale 14 Divisioni e una Brigata da Montagna tedesche, alle quali, già dal giorno successivo si aggiunse la 71° Divisione. Queste Unità diedero avvio al “Piano Alarico”, disarmando delle Forze Armate Italiane e depredandole di armamenti, equipaggiamenti, veicoli e depositi di rifornimenti.
Nel caos più completo, molti militari risposero con le armi alla richiesta di resa, ma interi reparti si arresero e cedettero le armi senza reagire. Un emblematico esempio della situazione che si venne creare ci è stato proposto, dalla cinematografia nazionale, nel film “Tutti a casa”. Il giovane tenente Alberto Innocenzi (Alberto Sordi), trovandosi, al momento dell’annuncio della resa, con il reparto in marcia si accorge che i tedeschi stanno sparando addosso agli italiani e, non riuscendo a capire che cosa stia accadendo, telefona in caserma e comunica al suo comandante : “signor colonnello è successa una cosa incredibile. I tedeschi si sono alleati con gli americani”. La frase dell’ingenuo ufficiale di fanteria è emblematica della situazione di confusione creatasi quel giorno.
Tra i pochi ad avere un chiaro quadro di quale fosse il pericolo del momento, furono Badoglio e il Re che il 9 settembre lasciarono Roma per imbarcarsi a Ortona sulla corvetta Baionetta. Assieme al Re, su quella unità navale, tentarono inutilmente di imbarcasi numerosi alti ufficiali allo sbando. Il fallimentare tentativo di salire a bordo fatto da generali e colonnelli si trasformò in una vergognosa ressa che sarebbe passato alla storia come “l’ultimo assalto alla baionetta”.
Fin qui i fatti di quella tristissima estate del 1943, fatti che ho voluto raccontare anche a favore di chi poco sa, o poco vuol sapere della nostra storia.
Su quei fatti sono state scritte migliaia di pagine e ognuno che ha trattato l’argomento ne ha inteso dipanare un aspetto. In merito alla tristissima resa senza condizioni dell’8 settembre io vorrei, invece, porre l’accento sulla frase con la quale iniziava l’annuncio alla Nazione che la guerra era persa: “Il Governo Italiano riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria…”
Circa la presunta incapacità di continuare la lotta da parte dell’Italia, il lettore deve necessariamente sapere che esiste un rapporto del Capo di Stato Maggiore tedesco, Generale Alfred Jodl, datato 7 novembre, nel quale l’alto ufficiale germanico riferiva che le Divisioni italiane “sicuramente disarmate” erano state 51, ed altre 29 Grandi Unità italiane erano state “probabilmente disarmate”. In totale, i tedeschi disarmarono 1.007.000 militari italiani, internandone circa 725.000.
Oltre al materiale d‘armamento sottratto alle predette Divisioni, il rapporto di Jodl elencava il seguente bottino di guerra fatto a spese degli italiani: “fucili 1.225.660; mitragliatrici 38.383; pezzi d’artiglieria di vario calibro, 9.988; carri armati, 970; automezzi, 15.500; aerei (compresi quelli in riparazione) 4.553; torpediniere e cacciatorpediniere,10; naviglio minore, 51 unità; vestiario per numero di capi, 500.000; cavalli e muli 67.600; automezzi 15.500, carburante 123.114 metri cubi; “
Inoltre, il Comando Superiore Tedesco del Sud Italia comunicò le seguenti prede belliche: “40.000 tonnellate di munizioni, 13.400 tonnellate di esplosivi, 24.500 tonnellate di materiali del Genio, 50.000 tonnellate di apparati vari, 2.500 metri cubi di lubrificanti per motori, 12.119 tonnellate di prodotti chimici, 1.600 tonnellate di metalli non ferrosi oltre a numerose migliaia di tonnellate di materiali sanitari, vestiario e viveri”.
Per meglio dettagliare almeno i soli materiali di vestiario catturati dai tedeschi, visto che il nostro era noto come l’Esercito con “le scarpe di cartone”, riferiremo che tra questi vi erano: 672.000 giubbe a vento, 783.000 farsetti a maglia (maglioncini di lana n.d.a.), 592.100 paia di pantaloni, 2.064.100 camicie, 3.338.200 paia di scarpe, 5.251.500 paia di calze.
Insomma, all’8settembre 1943, vi erano i reparti, vi erano le armi e non si può dire che le condizioni fossero tali da far combattere gli uomini in braghe di tela.
Al Regio Esercito andava poi aggiunta la flotta, praticamente integra. Le squadra, uscita da La Spezia nelle prime ore del giorno 9, era composta da tre corazzate (la Roma, la Vittorio Veneto e l’Italia - ex Littorio), tre incrociatori (Eugenio di Savoia, Montecuccoli a Attilio Regolo) e otto cacciatorpediniere. A questa si unì a quella uscita dal porto di Genova, composta da tre incrociatori (Duca D’aosta, Duca degli Abruzzi e Garibaldi) e cinque torpediniere.
Tanto meno si può dire che l’industria italiana fosse completamente messa a terra dai bombardamenti Alleati e incapace di fornire alcunché, soprattutto se si considera che la stessa industria, dopo il settembre 1943, precettata dai tedeschi fu ancora in grado di fornire allo sforzo bellico germanico centinaia autocarri, carri armati, velivoli da trasporto e da caccia, naviglio militare e civile.
Quindi, i numeri, dimostrano che le Forze armate italiane non erano certamente nell’impossibilità di ”continuare l’impari lotta”.
Una volta che gli italiani ebbero ceduto, i soli tedeschi furono capaci di bloccare l’avanzata degli angloamericani lungo la Penisola per oltre 19 mesi. Immagini un poco il lettore che cosa sarebbe accaduto se, a fianco delle divisioni germaniche, avessero continuato a combattere anche i soldati italiani. Questi ultimi, peraltro, sarebbero stati ampiamente motivati dal fatto che questa volta si combatteva in casa propria, a difesa della propria Patria e che ogni centimetro di terra era un nuovo Piave del quale arroccarsi a difesa.
Invece, si preferì arrendersi a un nemico che non aveva ancora la partita completamente dalla sua. Da quella guerra le gerarchie delle Regie Forze armate non uscirono certamente bene. Si arresero quando la partita non era ancora persa e poi, per anni, ci avrebbero raccontato la favola bella della guerra perduta perché mancavano le armi. La realtà, come visto, fu ben diversa, e ciò che non predarono i tedeschi subì l’estremo oltraggio. Mi riferisco alla flotta che, in ottemperanza alle clausole armistiziali, si consegnò a Malta. Fu l’ultima ingiuria perché a Scapa Flow, anni prima, la flotta tedesca si era autoaffondata, identica cosa avevano fatto i francesi a Tolone. Gli italiani, invece, erano gli unici, nella storia della marineria a consegnare la flotta al nemico.
Il nostro popolo non voleva perdere quella guerra ma qualcuno, ai posti di comando, pur di conservare prebende e benifici legati alla propria carica, decise di saltare a piè pari sul carro del nemico. Così facendo, non si perse la guerra, ma qualcosa di molto più importante, ovvero la dignità.
Alla fine, i cosiddetti “Liberatori” si sono dimostrati peggiori degli Ateniesi che erano soliti infierire sugli sconfitti. Agli Egineti fu amputato il pollice perché non potessero più maneggiare l’arco e la spada ma potessero continuare a remare, mentre agli abitanti di Samo fu imposto col ferro rovente sulla fronte il disegno di un piede perché sapessero che avrebbero continuato a vivere sotto il tallone di Atene.
Benito Mussolini, in uno dei suoi discorsi, vaticinò che “Chi non è capace di portare le proprie armi finirà per portare le armi del nemico” .
Da sessant’anni siamo sotto il tallone dei nuovi ateniesi e di questi siamo i portatori delle armi. Non si spiegano altrimenti alcune campagne militari (stranamente definite missioni di pace) nelle quali siamo attualmente coinvolti senza sapere né il come né il perché.
DANIELE LEMBO
CISTERNA DI LATINA
Alle ore 17,00 di sabato 24 luglio seguente, si riunì il Gran Consiglio del Fascismo, supremo consesso del Regime. I 28 membri del Consiglio e il Duce, avrebbero discusso quello che sarebbe passato alla storia come “Ordine del Giorno Grandi”. La seduta terminò all’alba con la sfiducia a Mussolini e la richiesta al Re del “ripristino di tutte le funzioni statali” e di “assumere l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria”.
Era la crisi del Regime. Il giorno dopo il Duce fu arrestato, mentre Capo del nuovo Governo venne nominato Pietro Badoglio.
Alla notizia della caduta del regime, la folla si riversò in piazza esultando per la fine della guerra. Il peggio, invece, stava appena per iniziare. Sganciarsi dall’alleanza con i tedeschi non era cosa che si potesse fare facilità e Badoglio si diede da fare per convincere Hitler che “La guerra continua” e che “L’Italia duramente colpita nelle sue province invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni”.
In realtà, il Re e il suo nuovo Capo del Governo stavano lavorando da tempo per tirarsi fuori da quel conflitto in qualsiasi modo. Mentre si tentava di tenere buoni i tedeschi, furono avviati contatti con gli angloamericani, prendendo una serie di iniziative che mano mano sarebbero passate dalla farsa alla tragedia. Il 12 di agosto, il generale Giuseppe Castellano arrivò nella penisola iberica per incontrare il rappresentante inglese e gli inviati del gen. Eisenhower.
Gli incontri con i delegati stranieri portarono, il 3 settembre, a Cassibile - Sicilia, dove fu firmato quello che, contrabbandato come Armistizio, fu realtà una resa senza condizioni per le armi italiane.
A resa già firmata, i soldati italiani avrebbero però continuato a combattere contro gli Alleati fino all’8 settembre. E’ da evidenziare come, da parte delle gerarchie nazionali, vi fosse il vero e proprio terrore che i tedeschi potessero scoprire come l’Italia si era sganciata da quella guerra.
Nella mattinata dell’8 settembre, il generale Badoglio, incontrando l’incaricato d’affari tedesco, gli avrebbe confermato la volontà italiana di continuare nella lotta, dicendogli: “Sono uno dei tre più vecchi marescialli d’Europa: Mackensen, Pétain, Badoglio: potete pensare che con me si possa mancare ad una parola d’onore?” Peraltro, il tedesco, poco prima, era stato ricevuto e rassicurato dallo stesso Re.
Tanto per confermare il valore della parola del Re e di Badoglio, nella serata dello stesso giorno 8, intorno alle ore 19,00, il programma di canzonette mandato in onda dall’E.I.A.R. fu interrotto dalla voce del Capo del Governo, incisa su di un disco, che diffondeva l’annuncio della resa: “Il Governo Italiano riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo - americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo - americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse, però, reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.” .
La radiodiffusione E.I.A.R. diede origine a scene di tripudio, tra i molti che credevano che la guerra fosse veramente conclusa.
In realtà, i tedeschi non potevano permettersi, per motivi squisitamente strategici, di lasciare il territorio italiano. L’abbandono della Penisola da parte loro, avrebbe avvicinato notevolmente il fronte alle loro frontiere e con questo i bombardieri Alleati alle loro città.
Alla data dell’8 settembre erano presenti sul territorio nazionale 14 Divisioni e una Brigata da Montagna tedesche, alle quali, già dal giorno successivo si aggiunse la 71° Divisione. Queste Unità diedero avvio al “Piano Alarico”, disarmando delle Forze Armate Italiane e depredandole di armamenti, equipaggiamenti, veicoli e depositi di rifornimenti.
Nel caos più completo, molti militari risposero con le armi alla richiesta di resa, ma interi reparti si arresero e cedettero le armi senza reagire. Un emblematico esempio della situazione che si venne creare ci è stato proposto, dalla cinematografia nazionale, nel film “Tutti a casa”. Il giovane tenente Alberto Innocenzi (Alberto Sordi), trovandosi, al momento dell’annuncio della resa, con il reparto in marcia si accorge che i tedeschi stanno sparando addosso agli italiani e, non riuscendo a capire che cosa stia accadendo, telefona in caserma e comunica al suo comandante : “signor colonnello è successa una cosa incredibile. I tedeschi si sono alleati con gli americani”. La frase dell’ingenuo ufficiale di fanteria è emblematica della situazione di confusione creatasi quel giorno.
Tra i pochi ad avere un chiaro quadro di quale fosse il pericolo del momento, furono Badoglio e il Re che il 9 settembre lasciarono Roma per imbarcarsi a Ortona sulla corvetta Baionetta. Assieme al Re, su quella unità navale, tentarono inutilmente di imbarcasi numerosi alti ufficiali allo sbando. Il fallimentare tentativo di salire a bordo fatto da generali e colonnelli si trasformò in una vergognosa ressa che sarebbe passato alla storia come “l’ultimo assalto alla baionetta”.
Fin qui i fatti di quella tristissima estate del 1943, fatti che ho voluto raccontare anche a favore di chi poco sa, o poco vuol sapere della nostra storia.
Su quei fatti sono state scritte migliaia di pagine e ognuno che ha trattato l’argomento ne ha inteso dipanare un aspetto. In merito alla tristissima resa senza condizioni dell’8 settembre io vorrei, invece, porre l’accento sulla frase con la quale iniziava l’annuncio alla Nazione che la guerra era persa: “Il Governo Italiano riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria…”
Circa la presunta incapacità di continuare la lotta da parte dell’Italia, il lettore deve necessariamente sapere che esiste un rapporto del Capo di Stato Maggiore tedesco, Generale Alfred Jodl, datato 7 novembre, nel quale l’alto ufficiale germanico riferiva che le Divisioni italiane “sicuramente disarmate” erano state 51, ed altre 29 Grandi Unità italiane erano state “probabilmente disarmate”. In totale, i tedeschi disarmarono 1.007.000 militari italiani, internandone circa 725.000.
Oltre al materiale d‘armamento sottratto alle predette Divisioni, il rapporto di Jodl elencava il seguente bottino di guerra fatto a spese degli italiani: “fucili 1.225.660; mitragliatrici 38.383; pezzi d’artiglieria di vario calibro, 9.988; carri armati, 970; automezzi, 15.500; aerei (compresi quelli in riparazione) 4.553; torpediniere e cacciatorpediniere,10; naviglio minore, 51 unità; vestiario per numero di capi, 500.000; cavalli e muli 67.600; automezzi 15.500, carburante 123.114 metri cubi; “
Inoltre, il Comando Superiore Tedesco del Sud Italia comunicò le seguenti prede belliche: “40.000 tonnellate di munizioni, 13.400 tonnellate di esplosivi, 24.500 tonnellate di materiali del Genio, 50.000 tonnellate di apparati vari, 2.500 metri cubi di lubrificanti per motori, 12.119 tonnellate di prodotti chimici, 1.600 tonnellate di metalli non ferrosi oltre a numerose migliaia di tonnellate di materiali sanitari, vestiario e viveri”.
Per meglio dettagliare almeno i soli materiali di vestiario catturati dai tedeschi, visto che il nostro era noto come l’Esercito con “le scarpe di cartone”, riferiremo che tra questi vi erano: 672.000 giubbe a vento, 783.000 farsetti a maglia (maglioncini di lana n.d.a.), 592.100 paia di pantaloni, 2.064.100 camicie, 3.338.200 paia di scarpe, 5.251.500 paia di calze.
Insomma, all’8settembre 1943, vi erano i reparti, vi erano le armi e non si può dire che le condizioni fossero tali da far combattere gli uomini in braghe di tela.
Al Regio Esercito andava poi aggiunta la flotta, praticamente integra. Le squadra, uscita da La Spezia nelle prime ore del giorno 9, era composta da tre corazzate (la Roma, la Vittorio Veneto e l’Italia - ex Littorio), tre incrociatori (Eugenio di Savoia, Montecuccoli a Attilio Regolo) e otto cacciatorpediniere. A questa si unì a quella uscita dal porto di Genova, composta da tre incrociatori (Duca D’aosta, Duca degli Abruzzi e Garibaldi) e cinque torpediniere.
Tanto meno si può dire che l’industria italiana fosse completamente messa a terra dai bombardamenti Alleati e incapace di fornire alcunché, soprattutto se si considera che la stessa industria, dopo il settembre 1943, precettata dai tedeschi fu ancora in grado di fornire allo sforzo bellico germanico centinaia autocarri, carri armati, velivoli da trasporto e da caccia, naviglio militare e civile.
Quindi, i numeri, dimostrano che le Forze armate italiane non erano certamente nell’impossibilità di ”continuare l’impari lotta”.
Una volta che gli italiani ebbero ceduto, i soli tedeschi furono capaci di bloccare l’avanzata degli angloamericani lungo la Penisola per oltre 19 mesi. Immagini un poco il lettore che cosa sarebbe accaduto se, a fianco delle divisioni germaniche, avessero continuato a combattere anche i soldati italiani. Questi ultimi, peraltro, sarebbero stati ampiamente motivati dal fatto che questa volta si combatteva in casa propria, a difesa della propria Patria e che ogni centimetro di terra era un nuovo Piave del quale arroccarsi a difesa.
Invece, si preferì arrendersi a un nemico che non aveva ancora la partita completamente dalla sua. Da quella guerra le gerarchie delle Regie Forze armate non uscirono certamente bene. Si arresero quando la partita non era ancora persa e poi, per anni, ci avrebbero raccontato la favola bella della guerra perduta perché mancavano le armi. La realtà, come visto, fu ben diversa, e ciò che non predarono i tedeschi subì l’estremo oltraggio. Mi riferisco alla flotta che, in ottemperanza alle clausole armistiziali, si consegnò a Malta. Fu l’ultima ingiuria perché a Scapa Flow, anni prima, la flotta tedesca si era autoaffondata, identica cosa avevano fatto i francesi a Tolone. Gli italiani, invece, erano gli unici, nella storia della marineria a consegnare la flotta al nemico.
Il nostro popolo non voleva perdere quella guerra ma qualcuno, ai posti di comando, pur di conservare prebende e benifici legati alla propria carica, decise di saltare a piè pari sul carro del nemico. Così facendo, non si perse la guerra, ma qualcosa di molto più importante, ovvero la dignità.
Alla fine, i cosiddetti “Liberatori” si sono dimostrati peggiori degli Ateniesi che erano soliti infierire sugli sconfitti. Agli Egineti fu amputato il pollice perché non potessero più maneggiare l’arco e la spada ma potessero continuare a remare, mentre agli abitanti di Samo fu imposto col ferro rovente sulla fronte il disegno di un piede perché sapessero che avrebbero continuato a vivere sotto il tallone di Atene.
Benito Mussolini, in uno dei suoi discorsi, vaticinò che “Chi non è capace di portare le proprie armi finirà per portare le armi del nemico” .
Da sessant’anni siamo sotto il tallone dei nuovi ateniesi e di questi siamo i portatori delle armi. Non si spiegano altrimenti alcune campagne militari (stranamente definite missioni di pace) nelle quali siamo attualmente coinvolti senza sapere né il come né il perché.
DANIELE LEMBO
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