Di Vincenzo Scarpello
Fonte http://www.qelsi.it
E’ in uscita nelle sale cinematografiche italiane il nuovo film del regista padovano Antonello Belluco, il Segreto d’Italia, che segna, tra l’altro, il ritorno sui grandi schermi di Romina Power.
Fin qui potreste prenderlo come la premessa del solito “marchettone cinematografico” che si fa per pubblicizzare il cinepanettone di turno, oppure la cervellotica tortura genitale prodotta da qualche oscuro regista coreano o azero, o peggio ancora l’ennesima boiata dell’intoccabile venerato maestro dell’arte modernissima, peggio ancora se ammantata di quello che chiamano “impegno civile”, uno degli eufemismi dietro cui si nascondono i cattivi giornalisti per definire un film schierato palesemente a sinistra.
Del Segreto d’Italia non sentirete mai parlare, in realtà, perché è un film che non doveva nascere, altro che quell’immondizia che circola su youtube spesso intitolata “guardatelo prima che la censura di regime lo cancelli per sempre”. Qui la censura preventiva c’è stata eccome, dal momento che nel mondo del cinema, se non fai atto di sottomissione militante ai valori immortali del buonismo di sinistra, non lavori nemmeno.
Bontà loro, dimostrazione che le formule repressive di epoca renziana, cattocomunista, sono tributarie alle peggiori dittature dei metodi più infami e subdoli, che trovano sponde insolite soprattutto in quelle istituzioni, che dovrebbero essere a servizio di tutti, indipendentemente dal loro modo di pensare.
Il film di Belluco non ha avuto sovvenzionamenti pubblici, non è stato dichiarato film di interesse storico e culturale, non ha avuto l’alto patrocinio della Presidenza della Repubblica o di qualche Comune, o di qualche Ente pubblico, o di qualche oscuro film festival. Soldi pubblici, eh, che in nome della “cultura” vanno solitamente a finire nelle tasche dei soliti cineasti da pattumiera, le cui insignificanti elucubrazioni sono premiate dal prestigioso premio “0 spettatori” nelle sale cinematografiche.
Il film di Belluco probabilmente non riceverà premi cinematografici, assegnati da critici annoiati ed autoreferenziali, non lo inviteranno a pubbliche presentazioni, né nei pomeriggi di qualche festival estivo, né nelle noiose assemblee di istituto di qualche scuola superiore.
Il film di Belluco non doveva uscire, semplicemente, ma nonostante tutto è ugualmente uscito, a prezzo di sforzi sovraumani del regista stesso e della produzione che si sono autotassati pur di portare a termine un progetto veramente coraggioso. Tutto questo fuoco di sbarramento preventivo si capisce solo quando si legge la trama de “il segreto d’Italia”, che ha fatto inorridire tecnici, costumisti e società che lavorano a servizio delle produzioni cinematografiche, facendoli scappare a gambe levate, inorriditi come se si trovassero davanti ad un malato contagioso di una pericolosa epidemia.
L’epidemia, la malattia, in questo caso, si chiama Verità storica, perché il film di Belluco ha deciso di raccontare uno degli episodi sul quale sarebbe dovuto calare il silenzio, la damnatio memoriae che i vincitori impongono agli sconfitti. Ossia l’eccidio di Codevigo, avvenuto tra il 28 aprile 1945 ed il giugno dello stesso anno, a guerra ampiamente finita.
Gli autori della strage non furono feroci SS naziste della Totenkopfverbände né fu un regolamento di conti tra fascisti, espediente dozzinale, scorretto e miserabile, col quale certa pessima pubblicistica del dopoguerra cercava di giustificare le magagne compiute.
Gli autori furono Partigiani. E non solo i partigiani comunisti della brigata “Mario Gordini” i comunisti garibaldini comandati da una delle poche menti militarmente pensanti della resistenza, non a caso ex capomanipolo della Milizia fascista, quell’Arrigo Boldrini che, col nome di Bulow, portò la guerra dalle montagne alla pianura e alle aree metropolitane.
Non solo partigiani garibaldini, ma anche elementi dei soldati del gruppo di combattimento “Cremona”, quelli del Regno del sud, che a titolo personale si unirono alla mattanza, a guerra finita, di oltre 130 (ma alcune fonti parlano addirittura di 900 morti) appartenenti alla Guardia nazionale Repubblicana ed alle Brigate nere venete, che avevano commesso l’imperdonabile sbaglio di essersi arresi ai fratelli italiani, anziché al nemico angloamericano, pensando che la guerra fosse finalmente finita.
Ma l’odio fratricida doveva ancora consumarsi in maniera belluina e brutale, in modalità che non hanno nulla da invidiare ai barbari dell’ISIS, come dimostra la descrizione terribile e cruda dell’assassino della maestra elementare Corinna Doardo, prelevata dai partigiani e sottoposta a sevizie al punto che il medico poté accertare che solo un orecchio era rimasto intatto. Corinna fu poi fucilata e il suo cadavere fu abbandonato nudo nel cimitero. Se informazioni sul film possono essere assunte qui e sul massacro di Codevigo qui, quello che ci preme sottolineare è che ancora oggi si sta tentando di riesumare il metodo infame, proprio di certa cultura di “arco costituzionale”, di mettere a tacere i dissenzienti al sistema di marginalizzarli, dopo che la critica storica e la ricerca documentale negli archivi desecretati, quella seria, aveva, negli anni passati, messo in seria discussione i fondamenti stessi del mito della resistenza su cui si fonda l’altrettanto illogico ed irrazionale mito della genesi resistenziale della Repubblica e della Costituzione.
La reazione è stata violenta e comprensibilmente scorretta, posandosi su baroni universitari di regime, presentati come grandi storici, ma che ripetono allo sfinimento il mantra dei partigiani buoni, del fatto che questi eccidi a guerra finita furono episodi marginali, non comprendendone la portata e la loro funzionalità al preciso disegno politico che stava sotto, ossia eliminare preventivamente eventuali soggetti che si sarebbero un domani potuti opporre in armi al passaggio successivo della lotta di liberazione, così come immaginata dalla componente secchiana, maggioritaria delle brigate Garibaldi, ossia la trasformazione della guerra di liberazione in guerra rivoluzionaria, volta all’instaurazione in Italia di uno Stato comunista.
Alla ripetizione dogmatica, acritica della versione ufficiale, ripetuta nelle commemorazioni civili, anche quelle che con la guerra civile 1943-1945 non c’entrano nulla, si accompagna la denigrazione degli storici non allineati, sprezzantemente definiti revisionisti, quando non definiti fascisti mascherati da storici, e quando non si può proprio nemmeno negare l’evidenza, allora si impone la consegna del silenzio.
E’ un metodo ben congegnato che però contiene una falla significativa, quella del senso critico, della libertà e della coscienza, di chi non si fa influenzare da nessuna religione civile e da nessun dogma storico, dal momento che la libertà di ricerca storica non può essere ingabbiata in nessun altro recinto che non sia la metodologia scientifica. Vi è una pletora di cattedratici e sedicenti “operatori culturali” che in Italia campa grazie ai soldi elargiti a piene mani da istituzioni ed antistorici e costosi (al contribuente italiano) istituti storici, o da associazioni combattentistiche che per giustificare la propria esistenza ad oltre 70 anni dai fatti, cui sono sopravvissuti solo 90nni, tessera perfino i quattordicenni, a condizione che acriticamente accettino la versione univoca della storia, scritta e ripetuta in mala fede, perché non si può invocare il beneficio dell’ignoranza per personalità scientifiche che dovrebbero dare lustro alla cultura italiana, ma che ne costituiscono la più vergognosa ed inutile zavorra. E se poi ad una manifestazione in commemorazione ai caduti delle foibe qualche sprovveduto si mette a fare un gesto di archeologia politica, il saluto romano, interviene la solita Corte di Cassazione (che non è nuova, in tutti gli ambiti del diritto, a sentenze discutibilissime e ingiuste) con una sentenza le cui motivazioni, sorprendenti nella loro irrazionale cecità nei confronti dei principi basilari del diritto, addirittura si parla di un concreto pericolo attuale di ricostituzione del disciolto Partito Nazionale fascista. Che questi supremi giudici vivano in un iperuranio tutto loro, cercando di acchiappare fantasmi di un passato ormai morto e sepolto non è una spiegazione sufficiente. E’ doveroso criticare una Sentenza, rispettarla certo, quando essa è ingiusta secondo criteri sostanziali di diritto, ed è ancor più doveroso quando tale sentenza si inserisce in un clima infame di rappresaglia culturale a danno a chi non si allinea ancora oggi alla dogmatica resistenziale.
Ai dogmi si deve rispondere con la libertà, libertà di andare a vedere il film di Belluco, a sostenerlo e a diffonderlo, e a far conoscere i film scomodi per questo establishment istituzionale e culturale, come “Porzus” di Renzo Martinelli o “il sangue dei vinti” di Michele Soavi, e a non farsi intimidire dalle minacce, dai boicottaggi, dagli insulti mascherati da critiche, a maggior ragione quando vengono sputati da cattivi maestri, spacciati per luminari o addirittura per persone serie.
E’ una battaglia di libertà, è una battaglia di civiltà.
Fonte http://www.qelsi.it
E’ in uscita nelle sale cinematografiche italiane il nuovo film del regista padovano Antonello Belluco, il Segreto d’Italia, che segna, tra l’altro, il ritorno sui grandi schermi di Romina Power.
Fin qui potreste prenderlo come la premessa del solito “marchettone cinematografico” che si fa per pubblicizzare il cinepanettone di turno, oppure la cervellotica tortura genitale prodotta da qualche oscuro regista coreano o azero, o peggio ancora l’ennesima boiata dell’intoccabile venerato maestro dell’arte modernissima, peggio ancora se ammantata di quello che chiamano “impegno civile”, uno degli eufemismi dietro cui si nascondono i cattivi giornalisti per definire un film schierato palesemente a sinistra.
Del Segreto d’Italia non sentirete mai parlare, in realtà, perché è un film che non doveva nascere, altro che quell’immondizia che circola su youtube spesso intitolata “guardatelo prima che la censura di regime lo cancelli per sempre”. Qui la censura preventiva c’è stata eccome, dal momento che nel mondo del cinema, se non fai atto di sottomissione militante ai valori immortali del buonismo di sinistra, non lavori nemmeno.
Bontà loro, dimostrazione che le formule repressive di epoca renziana, cattocomunista, sono tributarie alle peggiori dittature dei metodi più infami e subdoli, che trovano sponde insolite soprattutto in quelle istituzioni, che dovrebbero essere a servizio di tutti, indipendentemente dal loro modo di pensare.
Il film di Belluco non ha avuto sovvenzionamenti pubblici, non è stato dichiarato film di interesse storico e culturale, non ha avuto l’alto patrocinio della Presidenza della Repubblica o di qualche Comune, o di qualche Ente pubblico, o di qualche oscuro film festival. Soldi pubblici, eh, che in nome della “cultura” vanno solitamente a finire nelle tasche dei soliti cineasti da pattumiera, le cui insignificanti elucubrazioni sono premiate dal prestigioso premio “0 spettatori” nelle sale cinematografiche.
Il film di Belluco probabilmente non riceverà premi cinematografici, assegnati da critici annoiati ed autoreferenziali, non lo inviteranno a pubbliche presentazioni, né nei pomeriggi di qualche festival estivo, né nelle noiose assemblee di istituto di qualche scuola superiore.
Il film di Belluco non doveva uscire, semplicemente, ma nonostante tutto è ugualmente uscito, a prezzo di sforzi sovraumani del regista stesso e della produzione che si sono autotassati pur di portare a termine un progetto veramente coraggioso. Tutto questo fuoco di sbarramento preventivo si capisce solo quando si legge la trama de “il segreto d’Italia”, che ha fatto inorridire tecnici, costumisti e società che lavorano a servizio delle produzioni cinematografiche, facendoli scappare a gambe levate, inorriditi come se si trovassero davanti ad un malato contagioso di una pericolosa epidemia.
L’epidemia, la malattia, in questo caso, si chiama Verità storica, perché il film di Belluco ha deciso di raccontare uno degli episodi sul quale sarebbe dovuto calare il silenzio, la damnatio memoriae che i vincitori impongono agli sconfitti. Ossia l’eccidio di Codevigo, avvenuto tra il 28 aprile 1945 ed il giugno dello stesso anno, a guerra ampiamente finita.
Gli autori della strage non furono feroci SS naziste della Totenkopfverbände né fu un regolamento di conti tra fascisti, espediente dozzinale, scorretto e miserabile, col quale certa pessima pubblicistica del dopoguerra cercava di giustificare le magagne compiute.
Gli autori furono Partigiani. E non solo i partigiani comunisti della brigata “Mario Gordini” i comunisti garibaldini comandati da una delle poche menti militarmente pensanti della resistenza, non a caso ex capomanipolo della Milizia fascista, quell’Arrigo Boldrini che, col nome di Bulow, portò la guerra dalle montagne alla pianura e alle aree metropolitane.
Non solo partigiani garibaldini, ma anche elementi dei soldati del gruppo di combattimento “Cremona”, quelli del Regno del sud, che a titolo personale si unirono alla mattanza, a guerra finita, di oltre 130 (ma alcune fonti parlano addirittura di 900 morti) appartenenti alla Guardia nazionale Repubblicana ed alle Brigate nere venete, che avevano commesso l’imperdonabile sbaglio di essersi arresi ai fratelli italiani, anziché al nemico angloamericano, pensando che la guerra fosse finalmente finita.
Ma l’odio fratricida doveva ancora consumarsi in maniera belluina e brutale, in modalità che non hanno nulla da invidiare ai barbari dell’ISIS, come dimostra la descrizione terribile e cruda dell’assassino della maestra elementare Corinna Doardo, prelevata dai partigiani e sottoposta a sevizie al punto che il medico poté accertare che solo un orecchio era rimasto intatto. Corinna fu poi fucilata e il suo cadavere fu abbandonato nudo nel cimitero. Se informazioni sul film possono essere assunte qui e sul massacro di Codevigo qui, quello che ci preme sottolineare è che ancora oggi si sta tentando di riesumare il metodo infame, proprio di certa cultura di “arco costituzionale”, di mettere a tacere i dissenzienti al sistema di marginalizzarli, dopo che la critica storica e la ricerca documentale negli archivi desecretati, quella seria, aveva, negli anni passati, messo in seria discussione i fondamenti stessi del mito della resistenza su cui si fonda l’altrettanto illogico ed irrazionale mito della genesi resistenziale della Repubblica e della Costituzione.
La reazione è stata violenta e comprensibilmente scorretta, posandosi su baroni universitari di regime, presentati come grandi storici, ma che ripetono allo sfinimento il mantra dei partigiani buoni, del fatto che questi eccidi a guerra finita furono episodi marginali, non comprendendone la portata e la loro funzionalità al preciso disegno politico che stava sotto, ossia eliminare preventivamente eventuali soggetti che si sarebbero un domani potuti opporre in armi al passaggio successivo della lotta di liberazione, così come immaginata dalla componente secchiana, maggioritaria delle brigate Garibaldi, ossia la trasformazione della guerra di liberazione in guerra rivoluzionaria, volta all’instaurazione in Italia di uno Stato comunista.
Alla ripetizione dogmatica, acritica della versione ufficiale, ripetuta nelle commemorazioni civili, anche quelle che con la guerra civile 1943-1945 non c’entrano nulla, si accompagna la denigrazione degli storici non allineati, sprezzantemente definiti revisionisti, quando non definiti fascisti mascherati da storici, e quando non si può proprio nemmeno negare l’evidenza, allora si impone la consegna del silenzio.
E’ un metodo ben congegnato che però contiene una falla significativa, quella del senso critico, della libertà e della coscienza, di chi non si fa influenzare da nessuna religione civile e da nessun dogma storico, dal momento che la libertà di ricerca storica non può essere ingabbiata in nessun altro recinto che non sia la metodologia scientifica. Vi è una pletora di cattedratici e sedicenti “operatori culturali” che in Italia campa grazie ai soldi elargiti a piene mani da istituzioni ed antistorici e costosi (al contribuente italiano) istituti storici, o da associazioni combattentistiche che per giustificare la propria esistenza ad oltre 70 anni dai fatti, cui sono sopravvissuti solo 90nni, tessera perfino i quattordicenni, a condizione che acriticamente accettino la versione univoca della storia, scritta e ripetuta in mala fede, perché non si può invocare il beneficio dell’ignoranza per personalità scientifiche che dovrebbero dare lustro alla cultura italiana, ma che ne costituiscono la più vergognosa ed inutile zavorra. E se poi ad una manifestazione in commemorazione ai caduti delle foibe qualche sprovveduto si mette a fare un gesto di archeologia politica, il saluto romano, interviene la solita Corte di Cassazione (che non è nuova, in tutti gli ambiti del diritto, a sentenze discutibilissime e ingiuste) con una sentenza le cui motivazioni, sorprendenti nella loro irrazionale cecità nei confronti dei principi basilari del diritto, addirittura si parla di un concreto pericolo attuale di ricostituzione del disciolto Partito Nazionale fascista. Che questi supremi giudici vivano in un iperuranio tutto loro, cercando di acchiappare fantasmi di un passato ormai morto e sepolto non è una spiegazione sufficiente. E’ doveroso criticare una Sentenza, rispettarla certo, quando essa è ingiusta secondo criteri sostanziali di diritto, ed è ancor più doveroso quando tale sentenza si inserisce in un clima infame di rappresaglia culturale a danno a chi non si allinea ancora oggi alla dogmatica resistenziale.
Ai dogmi si deve rispondere con la libertà, libertà di andare a vedere il film di Belluco, a sostenerlo e a diffonderlo, e a far conoscere i film scomodi per questo establishment istituzionale e culturale, come “Porzus” di Renzo Martinelli o “il sangue dei vinti” di Michele Soavi, e a non farsi intimidire dalle minacce, dai boicottaggi, dagli insulti mascherati da critiche, a maggior ragione quando vengono sputati da cattivi maestri, spacciati per luminari o addirittura per persone serie.
E’ una battaglia di libertà, è una battaglia di civiltà.
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