giovedì 28 aprile 2016

LO SPIRITO PATRIOTTICO.


Art. Camerata Marco Affatigato. Possibile che lo spirito patriottico in Italia emerga solo di fronte alle gesta sportive della nazionale di calcio, della Ferrari e di Valentino Rossi ? Ma è proprio così infima la realtà culturale del nostro Paese ? Siamo veramente senza “sentimento nazionale”, espressione di civica virtù e di partecipazione politica ? Questa è la cruda verità? Ci fermiamo a “notti magiche” d’Italia 90 e al “grande sogno da attraversare” che si chiama Italia. Un Italia che è rimasta sempre disunita malgrado il disegno di Garibaldi, Mazzini e Cavour che s’inventarono l’Italia unita. Un Italia che non riesce a mettere insieme le popolazioni di Reggio Emilia e Reggio Calabria, di Cuneo e Napoli, di Treviso e Lamezia Terme. Ma non solo, un divario che esiste anche fra “centro” e “periferie” (per esempio, riguardo la città in cui sono nato, fra “Lucca drentro” e “Lucca fora” ) che è lo stesso tra Nord e Sud. E la domanda più naturale, che tuttavia nessuno si vuole porre “giocando” su questo divario, dovrebbe essere la seguente: come si risolve qusto “divario”? Per ridurre il divario tra Nord e Sud, è necessario intervenire con una radicale riforma della Pubblica amministrazione e della burocrazia. La spesa pubblica italiana è molto alta, e ciò è la causa dell’enorme pressione fiscale. Poiché la spesa è sistematicamente superiore alle entrate fiscali, si è prodotto negli anni un elevatissimo debito pubblico. La spesa è concentrata soprattutto sulle pensioni e gli interessi sul debito, ma è elevata anche in molti altri ambiti. Per esempio, rispetto alla Germania, l’Italia spende di più (in proporzione al Pil) nelle seguenti voci: difesa, ordine pubblico, organi legislativi, esecutivi e diplomatici, scuola primaria, scuola secondaria, e sovvenzioni a settori economici quali i trasporti senza però ottenere gli obiettivi ricercati . Complessivamente, le spese fuori linea rispetto alla Germania superano l’11% del PIL. La spesa pubblica è al contrario bassa, relativamente alla Germania, soltanto in una manciata di settori: l’assistenza ai disoccupati e alle famiglie, e la spesa universitaria. L’Italia è quindi caratterizzata da un’elevata spesa pubblica, essendo il primo paese in Europa per spesa pensionistica, e uno dei primi per spesa in interessi sul debito e per i costi della politica (organi legislativi, esecutivi e diplomatici). L’Italia spende inoltre relativamente più della Germania per la difesa, l’ordine pubblico, l’istruzione primaria e secondaria, le sovvenzioni alle imprese. Il risultato è un’elevata pressione fiscale, che disincentiva la produzione e diminuisce la competitività dell’economia. Inoltre la spesa pubblica in deficit ha portato al formarsi del terzo debito pubblico maggiore del mondo, con la conseguente instabilità finanziaria che caratterizza l’economia italiana, nonché l’elevata spesa per interessi. La soluzione: ridurre la spesa consentirebbe di ridurre la pressione fiscale, aumentando la competitività dell’economia, e ridurre il debito, aumentandone la stabilità nel lungo termine. Entrambe le misure sono fondamentali per la crescita; si può ridurre la spesa di oltre sei punti di PIL in cinque anni, anche in assenza di crescita reale; in particolare, occorre intervenire su tutte le voci di spesa nelle quali l’Italia spenda, in proporzione al Pil, più dei paesi comparabili. Tale intervento non deve consistere solo in un taglio dei finanziamenti, ma deve prevedere anche una forte riorganizzazione dei servizi pubblici, allo scopo di introdurre adeguati incentivi all’efficienza: per esempio con la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione oppure con riforme della giustizia, della sanità e del sistema educativo. Per ridurre la spesa per interessi è inoltre necessario abbattere il debito pubblico con una seria politica di privatizzazioni. La spesa per il personale pubblico può diminuire, per riduzione non degli stipendi nominali ma dei contributi a carico del datore di lavoro (riduzione nell’ambito della riforma fiscale). Ciò può essere ottenuto: riducendo il tasso di crescita dei salari nominali, che negli ultimi dieci anni sono cresciuti nel pubblico molto più che nel privato; riducendo il numero di dipendenti pubblici nei settori che appaiono sovradimensionati: l’amministrazione, la difesa, l’ordine pubblico, la scuola primaria e secondaria; riducendo il numero di uffici e gli incarichi dirigenziali; rivedendo al ribasso gli stipendi d’oro degli incarichi politici e della P.A. Gli altri consumi finali, essenzialmente consumi intermedi e acquisti sul mercato, sono cresciuti a un tasso doppio rispetto al PIL negli ultimi dieci anni. I dati sono troppo aggregati per una scomposizione significativa, ma inefficienze, sprechi e rendite di posizione tendono a essere frequenti. Sono in questa categoria le spese per le consulenze esterne, per esempio, che pure vanno affrontate con estrema attenzione e senza populismi. La spesa pensionistica può essere previdenziale o assistenziale (pensioni sociali, invalidi ecc). La seconda non viene toccata, come anche le altre spese sociali, che anzi devono essere rivalutate a un tasso pari alla crescita nominale. Solo la prima spesa pensionistica (previdenziale) deve essere invece ridotta ad un trattamento equo massimo, che al 2016 può essere calcolato in 3mila euro mensili. È così possibile ridurre la spesa previdenziale riducendo il tasso di rivalutazione con l’inflazione, oppure ricalcolando le pensioni erogate, soprattutto quelle di importo maggiore (solo gli assegni sopra i 3.000 € mensili costano circa due punti di PIL), quando sono stati calcolati col metodo retributivo o con legislazioni di favore (per esempio i vitalizi dei parlamentari, dei magistrati, dei consiglieri regionali ed equiparati). La spesa per interessi si può ridurre riducendo il costo del debito oppure il rapporto debito/PIL. La prima non è un’opzione di policy, anche se una politica fiscale credibile aiuterebbe ad abbassare i tassi di interesse pagati sul debito. Per ridurre il rapporto debito/PIL occorre sia ridurre il deficit sia vendere patrimonio, immobiliare e mobiliare.Ma , soprattutto, occore combattere seriamente (attraverso la confisca dei beni) il lavoro a nero, l’evasione fiscale e l’economia criminale (altro che inserirle nel Pil , esse sono un danno all’economia nazionale). Insomma, non basta la Riforma Madia. Bisogna fare molto di più. Paradossalmente, sono le politiche assistenziali a favorire il divario. Politiche che assumono un carattere diffusamente clientelare a beneficio esclusivo dei potentati locali, non già dei cittadini, che invece potrebbero alimentare le economie territoriali. Politiche che sono il motore della corruzione e del malgoverno, che producono impasse istituzionali, crisi di legalità e malessere sociale. Con le politiche assistenziali non si genera sviluppo ma si aumenta a dismisura l’indebitamento pubblico del Paese. Questa è la scommessa collettiva da vincere. Ricomporre quella frattura, che una volontà politica vuole mantenere per meglio gestire il potere, è difficile, soprattutto perché non vi sono progetti concreti e credibili in tal senso, ma non è impossibile.

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