venerdì 5 aprile 2013

“L’ARCANGELO MONDANO”


Giganteggia avanti ad ognuno, la realtà dello Stato educatore, che fa coscienti le masse, che le fa elemento creatore della storia, che le orienta verso il raggiungimento di quei fini, nel cui ambito si giustificano parimenti la vita e il lavoro degli umili e dei grandi.
Giuseppe Bottai

Lo Stato fascista ha, di una Chiesa, il vincolo mistico e propriamente religioso. Esso esalta i principi del sacrificio e della rinuncia; professa una filosofia eroica della vita, un'etica antiedonistica, una concezione del mondo antiintellettualista e antimaterialista; lavora per l'avvento di un ordine nuovo di carattere essenzialmente spirituale. Di una Chiesa, inoltre, lo Stato si attribuisce la missione edificante, educatrice, apostolica e caritativa. Esso si consacra ad un'opera di costante apostolato fra i tiepidi e gli ignoranti. Come il cattolicismo, con i suoi ordini e congregazioni, lo Stato moltiplica le opere destinate ad aiutare i suoi membri o a conquistare quelli che esitano ancora a credere nei benefici del regime. Il partito ha il ruolo fondamentale di assicurare allo Stato questa «ecclesiasticità» adempiendo alla duplice funzione di elemento dinamico e zelatore dello Stato.
Marcel Prelot



Dopo la «marcia su Roma», il fascismo accentuò il suo carattere di religione laica, sia nella definizione ideologica che nel modo di vivere e praticare l'esperienza politica attraverso miti, riti e simboli. Nello stesso tempo, però, cercò anche di servirsi della religione tradizionale per spianare la strada alle sue ambizioni di dominio, presentandosi come restauratore dei valori dello spirito e del prestigio della religione cattolica dopo un'epoca di agnosticismo, di ateismo e di materialismo. Fin dal 1921, accantonando certi atteggiamenti anticlericali, iconoclasti e paganeggianti del primo fascismo, Mussolini aveva esaltato l'importanza storica della religione cattolica come «l'unica idea universale che oggi esista a Roma» (1), una potenza spirituale mondiale di cui gli italiani dovevano essere orgogliosi e che poteva essere «utilizzata per l'espansione nazionale» (2). Giunto al potere, Mussolini citò fra i suoi alti meriti di non aver toccato né diminuito la Chiesa, «un altro dei pilastri della società nazionale», perché la religione «è patrimonio sacro dei popoli» (3). Ma non per questo i fascisti smisero di parlare del fascismo come di una religione: anzi non esitarono a fare frequenti confronti fra il loro movimento e il cristianesimo, con l'intento di far riverberare sul fascismo il crisma della religione tradizionale, sublimando le loro pretese religiose, per orientare verso il culto del littorio, con la suggestione dell'analogia, la devozione di un popolo in larghissima maggioranza cattolico. Il fascismo — affermava «Il Popolo d'Italia» — «è una fede civile e politica, ma è anche una religione, una milizia, una disciplina dello spirito che ha avuto, come il Cristianesimo, i suoi confessori, i suoi testimoni, i suoi santi» (4). La fede nel fascismo, proclamava Mussolini, «la mia fede, è qualche cosa che va al di là del semplice partito, della semplice idea e della sua necessaria struttura militare, del suo necessario sindacalismo, del suo tesseramento politico. Il fascismo è un fenomeno religioso di vaste proporzioni storiche ed è il prodotto di una razza» (5).

La religione rivelata
La rapidità clamorosa dell'ascesa al potere di un movimento che aveva poco più di tre anni di vita si prestava facilmente ad essere rappresentata come un miracolo dovuto alla nuova fede, predicata da Mussolini e dai suoi primi, esigui seguaci, che l'avevano diffusa col sacrificio e con la lotta in un'Italia devastata dalla «bestia trionfante» del bolscevismo, moltiplicandosi poi in legioni di virili e virtuosi crociati che, dediti anima e corpo alla patria, con la fede della religione fascista avevano sconfitto e ucciso il «drago rosso» salvando non solo l'Italia dal pericolo del bolscevismo, ma recando una parola di salvezza per l'intera umanità, pronti a nuove lotte e a nuovi sacrifici. La trasfigurazione sacralizzante dell'origine del fascismo è già compiuta nel 1925, delineata nei suoi motivi essenziali in un articolo dell'organo dei Fasci italiani all'estero:

Il misticismo del Fascismo è il crisma del suo trionfo. Il ragionamento non si comunica, l'emozione sì. Il ragionamento convince, non attrae. Il sangue è più forte del sillogismo. La scienza pretende di spiegare il miracolo, ma agli occhi della folla il miracolo resta, seduce e crea neofiti. Forse, fra un secolo, si dirà nelle storie che dopo la guerra nurse in Italia un Messia, che cominciò a parlare a cinquanta persone e finì per evangelizzarne un milione: che questi illuminati si sparsero in Italia e con la fede, con la devozione, col sacrificio conquistarono il cuore delle masse: che le loro parole erano desuete, venivano da così lontano che erano dimenticate, dicevano di doveri quando tutti parlavano di diritti, di disciplina quando tutti si davano alla licenza, di famiglia quando trionfava l'individualismo, di proprietà, mentre la ricchezza diveniva anonima, di patria allora che l'odio covava tra i cittadini e l'interesse scavalcava le frontiere, di religione e tutti la negavano per paura del giudice supremo. Ma finirono per vincere, perché rendevano bene per male, perché proteggevano i loro stessi nemici; perché compievano ogni giorno miracoli d'amore, perché ogni ora raccontava gli umili loro eroismi, perché al loro contatto gli uomini divenivano migliori e con la loro azione l'Italia più ordinata, più tranquilla, più prospera, più grande, perché avevano nel canto la letizia della loro bontà e negli occhi la luce del loro sacrificio, perché cadevano con un grido di fede e per uno che cadeva cento ne sorgevano, perché infine quando il vero sfolgora da ogni parte, neppure i gufi possono negarlo. Così ha vinto il Fascismo, per opera della sua milizia La coppa del sacrificio è tesa ai «migliori» e noi dobbiamo berla. Poi diremo con Cristo quando bevve alla spugna intrisa di aceto e di fiele: «Consummatum est». Il suo sacrificio è la salvezza altrui. Che importa l'individuo? È la Stirpe che conta, è il suo rinnovamento che è necessario per il bene della Patria e del mondo. Il Duce parlato [ ... ] Il suo comandamento è la nostra legge o meglio ancora è la rivelazione della nostra legge, la quale è già in noi. La lotta continua ed è aspra. D'ogni donde si guarda all'Italia come al faro di luce, che guida l'umanità al salvamento [ ... ] Noi siamo i principi e i triari delle nuove legioni di civiltà. (6)


Il carattere religioso del fascismo fu enfatizzato notevolmente durante la prima fase di governo, fra il 1923 e il 1926, principalmente per legittimare il monopolio del patriottismo e per rivendicare, di conseguenza, il diritto al monopolio del potere. Ogni avversario del fascismo diventava così un nemico della «religione della patria». Da qui , la pretesa del governo fascista di avere il diritto di perseguitare e bandire chi non si convertiva al culto nazionale, cioè, in altri termini, chi non accettava la versione fascista di questa religione, e di considerare l'adesione al fascismo un atto di dedizione totale e definitivo:

chi viene a noi, o diventa nostro, anima e corpo, spirito e carne, o sarà inesorabilmente stroncato — ammoniva Dario Lupi all'inizio del 1923 —. Perché noi sappiamo e sentiamo di essere nel vero; perché tra tutte le ideologie, del presente e del passato [ ... ] noi sentiamo e sappiamo che la nostra sola è intonata meravigliosamente al momento storico che si attraversa, al domani storico che si prepara; così come è quella sola che rispecchia fedelmente i più profondi strati dell'anima e della sensibilità della stirpe.(7)

Era già operante l'impulso della nuova religione politica all'integralismo:

I fascisti hanno ragione di scomunicare gli eretici della Patria — affermava «Critica fascista» del 15 luglio 1923 —, come la Chiesa ebbe sempre ragione quando scacciò dalla comunione dei veri credenti gli eretici della sua fede, mentre, anche questi, pretendevano di possederla. Così il Cristo che taluni si raffigurano tutto mansueto e quasi in veste di un liberale, si armò un giorno d'aspri flagelli per discacciare dal tempio di Dio i barattieri e i profanatori [ ... ] Il fascismo non è un partito chiuso politicamente, ma religiosamente. Esso non può accettare che gli uomini i quali credono nelle sue verità di fede [ ... ] Come la Chiesa ha i suoi dogmi religiosi, così il Fascismo ha i suoi dogmi di fede nazionale. ( 8 )

Con queste premesse, le illusioni sulla possibilità di istituire una religione civile, tale da conciliare il culto della nazione con il culto della libertà, come era stato negli ideali dei patrioti risorgimentali, svanirono mentre cresceva l'intolleranza della religione fascista e, insieme con la fascistizzazione dello Stato, veniva avviato il processo della sua sacralizzazione. La fede fascista — scriveva nel 1925 Ettore Lolini, un noto esperto di problemi della burocrazia convertito al fascismo — era una «santa follia» che «si sente e si accetta col cuore e collo spirito in tutta la sua sublime grandezza irrazionale, o si respinge e si odia e si combatte con pari fede»: ma solo «quando della fede e dell'idea fascista saranno compenetrate tutte le istituzioni dello Stato italiano, solo allora avrà raggiunto il suo pieno sviluppo la Rivoluzione Fascista» (9).

Una teologia politica per lo Stato nuovo
In origine, la religione fascista era stata, come si è detto, in larga parte espressione spontanea, ad un certo livello di massa, soprattutto dello squadrismo e ne rifletteva le caratteristiche di spontaneità ribelle, di immediato emozionalismo aggressivo e anarchicheggiante, d'un sentimento della fede comune non ancora subordinata alle regole di una chiesa. La religione fascista, prima della «marcia su Roma», non era ancora vincolata dall'obbedienza alla infallibilità di un capo. Ma salito il fascismo al potere, questa situazione divenne incompatibile con la necessità della disciplina e dell'unità, capisaldi della concezione fascista dello Stato nuovo. Non solo il ribellismo squadrista doveva essere domato e debellato ovunque fosse ancora attivo, ma anche la spontaneità dei simboli e dei riti doveva ora cedere alla istituzionalizzazione del sistema di credenze e di valori espressi dal fascismo. Al «tempo eroico» della lotta e della distruzione del vecchio ordine liberale, seguiva ora il «tempo della costruzione», il lavoro per edificare il nuovo ordine. Si passava, per così dire, dalla religione come sentimento di immediata esperienza vissuta, alla religione come sistema di credenze, come fede definita e regolata secondo i dogmi di una teologia politica codificata. «La religione rivelata è venuta al punto di scrivere i suoi codici e di costruire i suoi tempi. Occorrono dottori e costruttori», scriveva Bottai (10). Era necessario «sistematizzare la fede», dichiarava «Il Popolo d'Italia»: «ricondurla a compiti precisi e a determinati obiettivi è l'unico mezzo per fondare gli ordini nuovi della società. Ma, per questo, occorre non concedere nulla agli egoismi e inquadrare fermissimamente le gerarchie nelle funzioni» (11). L'istituzionalizzazione della religione fascista avvenne attraverso il contributo decisivo apportato alla elaborazione della sua teologia politica dagli intellettuali di formazione idealista, che da anni predicavano una crociata culturale per la spiritualizzazione della politica. Eredi dello statalismo etico della Destra o reduci da travagliate esperienze democratiche, questi intellettuali erano concordi nel voler conferire allo Stato un carattere di laica religiosità, attribuendogli quindi primarie funzioni pedagogiche nella educazione delle masse per la formazione di una coscienza nazionale (12). Ad essi il fascismo apparve come la rivelazione della nuova religione politica, da anni agognata e a lungo cercata:

Nel Partito fascista — scriveva uno di questi intellettuali, capo dell'Ufficio propaganda e vice segretario del partito fascista nel 1925 — sono entrato per dovere e per impeto religioso. Mi ha fatto agire non solo il pericolo della Patria e l'amore della nostra civiltà, ma la speranza di uno Stato italiano, che fosse il soggetto della Storia, che mi apparve sempre come la stessa vita di Dio, Io ho la religione della storia: la mia fede è stata sempre quella dell'idealismo romantico, quella del nostro Risorgimento, di che si è alimentato il Fascismo. (13)

Romolo Murri, già sacerdote promotore della «democrazia cristiana» e poi militante radicale per un rinnovamento democratico-religioso dello Stato, vide nel fascismo la risposta al «problema spirituale, antico e profondo, della vita italiana: cercare una fede che sia intima suscitatrice di storia, una azione che dia alla storia coscienza e valore di spiritualità e di universalità [ ... ] Oggi come nel Risorgimento si tratta di fare degli italiani una Nazione e uno Stato [ ... ] cercando e saldamente istituendo una visione, operosa nell'interno delle coscienze medesime, di unità nazionale» e di «validità etica dello Stato» (14). Murri confidava nell'azione del governo fascista per l'attuazione di una riforma religiosa della politica italiana verso la creazione di un nuovo Stato nazionale, perché riconosceva al fascismo la vitalità e la fede di un movimento che aveva «agito sulle coscienze e sulla storia con le caratteristiche di entusiasmo, disciplina volontaria, di dedizione eroica che sono proprie della fede e dello spirito religioso», non solo, ma era anche «una dimostrazione ed una esperienza viva notevolissima di talune qualità ed esigenze della coscienza religiosa contemporanea» perché il fascismo aveva la tendenza «ad investire la politica di un affiato mistico», muovendo guerra ideale contro l'ottimismo e l'individualismo romantico, l'ideologia illuminista e lo scientismo materialista. Perciò, concludeva Murri, il fascismo, conservando il carattere di «una rivoluzione non tanto politica quanto spirituale», avrebbe avviato «quella intima rinnovazione religiosa che tutta la storia italiana, da cinque secoli, invoca e prepara» (15). E, come Murri, molti altri protagonisti della contestazione culturale del radicalismo nazionale e dell'avanguardia modernistica degli anni giolittiani videro nel fascismo il movimento più prossimo al loro ideale di religione secolare che doveva finalmente formare l'«anima» della nazione, un movimento, per di più, dotato della forza, della volontà e dell'uomo che non solo aveva saputo interpretare la «nuova aspirazione religiosa della nostra coscienza politica» (16), ma si mostrava anche capace di realizzarla nella creazione di uno Stato nuovo. Non è coincidenza casuale che, come vedremo più avanti, il mito di Mussolini-duce abbia avuto la sua prima manifestazione proprio nell'ambito di questi gruppi culturali, e che alcuni di questi intellettuali abbiano dato una mano alla trasformazione del mito in culto. Decisivo per l'elaborazione della teologia politica del fascismo, fu l'apporto di Giovanni Gentile e di molti suoi seguaci, che diedero alla primitiva religiosità dello squadrismo un più robusto sostegno culturale, convinti che il fascismo fosse la ripresa della rivoluzione morale sognata da Mazzini. Convertito al fascismo nel 1923, il filosofo fu, almeno fino agli anni Trenta, il principale teologo dello Stato nuovo: ma anche quando la sua egemonia culturale nel regime cominciò a declinare, rimase forte ed evidente la sua impronta sulla visione fascista dello Stato (17). Gentile, che dall'epoca dell'interventismo si sentiva impegnato, come erede spirituale dei «profeti del Risorgimento» ad operare politicamente per dare una fede e un'anima allo Stato italiano, vide nel fascismo una vera religione perché i fascisti avevano «il sentimento religioso per cui si prende sul serio la vita» ( 18 ), «come culto reso da tutta l'anima alla nazione» (19). Il fascismo realizzava la religione politica di Mazzini nelle forme adatte all'Italia moderna, che aveva affrontato e superato la prova del sacrificio rigenerandosi col sangue versato nella Grande guerra; «figlio della guerra» (20) era «la coscienza viva e operosa della nuova anima nazionale, della giovane Italia [ ... ] che fece la guerra» (21). Dalla sua religiosità Gentile derivava il carattere totalitario della dottrina fascista, espressione di una «politica integrale, la quale non si distingue così dalla morale, dalla religione e da ogni concezione della vita» (22). E al fascismo e al suo capo, Gentile affidava il compito di risolvere «il problema religioso» che aveva tormentato gli spiriti del Risorgimento, portando a compimento la rivoluzione incompiuta con la creazione di uno Stato nuovo in cui realizzare, in modo totalitario, l'integrazione delle masse nella nazione: «La quale deve a grado a grado accogliere in sé effettivamente e non solo nominalmente, nella storia e nello stato civile, tutti gli italiani, e tutti educarli, tutti stringerli nella nuova fede» (23).
Lo Stato, nella concezione gentiliana fatta propria dal fascismo, non solo era l'educatore delle masse, ma era anzi il creatore stesso della nazione come unità morale del popolo. In quanto tale, era uno Stato che ripudiava l'agnosticismo e la neutralità di fronte ai cittadini in materia di valori e credenze, e si poneva di fronte ad essi come un divino demiurgo «che vuol rifare non le forme della vita umana, ma il contenuto, l'uomo, il carattere, la fede» (24). In forma più prosaica, «Il Popolo d'Italia» sosteneva che il fascismo prima che partito «è soprattutto religione della Patria e del dovere», che si prefiggeva di raccogliere le masse ancora assenti dalla politica per «fare gli italiani» (25). Nel regime, la definizione del fascismo come religione dello Stato divenne formalmente uno dei fondamenti della sua cultura, e la ritroviamo ovunque, continuamente ribadita e ripetuta come formula rituale in tutte le autorappresentazioni, colte o ingenue, del fascismo; divulgata a tutti i livelli della propaganda, da ogni grado della gerarchia. La religione fascista, scriveva nel 1925 un popolare giornalista del regime, era una forza morale che dava agli italiani «ordine, disciplina, armonia di sforzi, volontà di lavoro e di potenza, spirito di sacrificio, amore mistico della patria, obbedienza cieca ad uno solo, coraggio di riforme», e come tale era una fede salvifica per tutto il mondo, perché offriva un rimedio «ai mali della società moderna, senza distruggerla come il bolscevismo nelle sue fondamenta millenarie» (26). Il coraggio del fascista di fronte alla morte, scriveva nel 1928 Salvatore Gatto, un giovane giornalista, fascista dal 1919 e squadrista, divenuto nel 1941 vicesegretario del PNF, era la prova che il fascismo era una vera religione, come il cristianesimo:

Il Fascismo è religione, politica e civile, perché ha una propria concezione dello Stato e un modo originale di concepire la vita [ ... ] i martiri cristiani e gli eroi giovinetti della Rivoluzione Fascista hanno confermato, attraverso i tempi, una luminosa realtà: solo una religione può negare ed annullare l'attaccamento alla vita mondana.
(27)

Nel 1932 Mussolini sentenziò definitivamente nella Dottrina del fascismo: «Il Fascismo è una concezione religiosa della vita, in cui l'uomo è veduto nel suo immanente rapporto con una legge superiore, con una volontà obiettiva, che trascende l'individuo particolare e lo eleva a membro consapevole di una società spirituale» ( 28 ). E questa società trovava la sua organizzazione nello Stato totalitario, in cui l'idea fascista doveva perennemente concretizzarsi, diventando istituzione e fede collettiva.

Il «vero paradiso»

L'idea fascista, aveva scritto il federale di Milano Giampaoli nel 1929, «è, come l'idea cristiana, un dogma in perpetuo divenire» (29). Alla luce di questa definizione, risultava facile giustificare le contraddizioni o i cambiamenti di taluni orientamenti dell'ideologia fascista, perché, spiegava il filosofo Balbino Giuliano, ministro dell'Educazione nazionale, la religione fascista non era irrigidita in una teologia definitiva:


noi non riusciamo a determinare nella sua esplicita interezza l'idea fascista in un concetto, perché essa ha tutti i caratteri della grande idea religiosa, che come il sole è sempre se stessa e sempre diversa, non è contenuta in nessun concetto, perché produce dal suo seno teorie di concetti, perché, ripeto, è religione e non teologia. (30)

Il sincretismo dell'ideologia fascista accoglieva orientamenti diversi al suo interno, ma nessuno di questi, in realtà, poteva aspirare a presentarsi come una interpretazione autentica della «fede», né mettere in discussione i capisaldi della religione fascista. Questa, in effetti, non lasciava affatto in uno stadio vaporoso o fluido le determinazioni dell'«idea fascista»: in teoria e in pratica esse convergevano tutte verso la sacralizzazione dello Stato, di fronte al quale la fluidità della religione si irrigidiva in un dogma che non consentiva elasticità di interpretazioni. Le dichiarazioni della dottrina fascista, stilata da Mussolini con la collaborazione di Gentile, erano perentorie sulla sacralità dello Stato di fronte all'individuo: per il fascista «tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato. In tal senso il fascismo è totalitario, e lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo» (31): «[ ... ] lo Stato è un assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo»32. Del resto, lo stesso Giuliano aveva affermato, parlando ai giovani della Scuola di mistica fascista, che «c'è nello Stato una maestà divina a cui è dolce per noi obbedire» (33). Nella sacralizzazione dello Stato totalitario come suprema autorità politica, spirituale e morale, e come sommo ed unico educatore della collettività si manifestavano i principi costitutivi e il massimo ideale della cultura fascista e la sua visione della politica: una visione che, nella concezione dello Stato, poteva anche formalmente riconoscere, fra i suoi antenati, J.-J. Rousseau (34). Camillo Pellizzi, uno dei più sensibili interpreti dei miti fascisti, immaginava lo Stato quasi come «un soggetto mistico, un arcangelo mondano», e considerava il più grave problema italiano quello di «ricostituire in noi un senso religioso dello Stato» (35). La tradizione statalista italiana e persino lo statalismo neoassolutista di Alfredo Rocco, che pure era l'architetto dello Stato fascista, quasi impallidivano di fronte ai più spericolati panegirici della sacralità dello Stato, disseminati da politici e intellettuali del regime: «Lo stato fascista — scriveva Paolo Orano — non può essere concepito e creduto e servito e glorificato che religiosamente», e nell'«adesione al fascismo c'è una vocazione mistica che traduce in missione religiosa la condotta civile». Anche il cattolicismo, per Orano, doveva contribuire a rafforzare la convinzione che lo Stato è «onnipossente e fonte d'ogni bene e d'ogni ascensivo destino nazionale»: «tutto ciò che il cattolicismo ha di fattivo, il fascismo lo assorbe e se ne alimenta e della nazione-stato fa il più glorioso regno di Dio in terra» (36). Bottai stesso, che pure sovente polemizzava con il dogmatismo dei fascisti più intransigenti, fu uno dei più appassionati assertori del culto dello Stato, in cui vedeva, gentilianamente, il valore supremo della vita sociale, la più alta e completa manifestazione della spiritualità dell'uomo, perché nello Stato

l'uomo realizza i più alti valori morali della sua vita e perciò supera tutto quello che vi è in lui di particolare: convenienze personali, interessi, la vita stessa, se è necessario. Nello Stato noi vediamo l'attuazione dei massimi valori spirituali: continuità oltre il tempo, grandezza morale, missione educatrice di sé e degli altri. (37)

Per Bottai, lo «Stato potente non è il braccio secolare del divino, che vive nel pensiero, ma è il segno d'una sacra autenticità del pensiero. Uno Stato eroico è la terrena espressione d'un pensiero eroico» ( 38 ). E dalla sacralità dello Stato discendeva, naturalmente, la relatività dell'individuo, «transeunte elemento, partecipe di un'opera immensa, che lo trascende: egli porta il suo contributo e scompare. Il suo dovere è di dare la sua opera alla costruzione della vita collettiva nazionale, alla costruzione dello Stato, dovere che non viene meno mai» (39). Ci siamo finora imbattuti in filosofi, intellettuali e gerarchi del regime, per i quali l'esaltazione dello Stato poteva essere anche un rituale atto di dedizione compiuto per dovere burocratico. Ma la sacralizzazione dello Stato non rimaneva affatto confinata nel cerchio dei dottrinari e dei burocrati del regime: essa pervadeva e dominava tutto l'universo simbolico fascista, permeava le istituzioni attraverso le quali Stato e partito operavano per il controllo e la trasformazione della coscienza collettiva, si introduceva in ogni aspetto della vita pubblica e dell'educazione, onnipresente, come una divinità che tutti assorbe, annichilendoli nella subordinazione alla sua propria superiore essenza collettiva. Il partito fascista insegnava che fin «dai più teneri anni l'idea dello Stato deve operare sulle giovani anime con la suggestione di un mito che, crescendo l'età, si attua in forme di disciplina civile o di operante milizia» (40). Lo Stato, dichiarava ancora Bottai nelle vesti di ministro dell'Educazione, aveva la sua morale che «investe di necessità tutte le attività umane e finanche i pensieri», continuando, «giorno per giorno, nella sua opera di rifacimento del carattere degli Italiani» (41). Agli alunni delle scuole elementari veniva insegnato che «il vero paradiso è ove si fa la volontà di Dio, che viene sentita anche attraverso la volontà dello Stato» (42). Un giovane antifascista, cresciuto nel regime, ha lasciato una testimonianza eloquente del clima in cui erano educate le nuove generazioni:

[Il fascismo] mi veniva presentato e mi si presentava come una concezione totale, come una religione, con un suo nume: lo Stato, con un suo supremo atto di culto: la guerra, con una sua ascesi: la volontà di uccidere e di farsi uccidere, con un suo stile onnicomprensivo di vita: lo «stato di alta tensione ideale», cioè la disposizione perenne al «sacrificio supremo» [ ... ] Lo Stato è tutto. Esso era il nume cui tutto doveva sacrificarsi. (43)

Alla sacralizzazione dello Stato educatore e alla propaganda della fede partecipavano tutte le istituzioni del regime, dalla scuola ai sindacati, ma il ruolo principale spettava al partito, cui era affidato il compito di alimentare «nel popolo il culto dello stato» per mutare «il gelido rapporto fra il sovrano e il popolo, in un rapporto religioso di devozione», al fine di trasformare «i sudditi in fedeli» (44).

L'ordine militare religioso

L'ideologia fascista, come teologia politica dello Stato, fu facilmente cristallizzata nei comandamenti di un «credo». Ciò consentii al fascismo di non esporsi ai rischi di conflitti dottrinari. L 'unica interpretazione «vera» era la pratica quotidiana della fede, vissuta come dedizione religiosa e totale — almeno per quanto riguardava i fini supremi della vita in questo mondo — alla volontà dello Stato. Per sublimare il significato di questa militanza politica fondata esclusivamente sull'obbedienza e la dedizione, i fascisti definivano il partito come «un Ordine religioso e militare. È religioso perché ha la sua fede propria, nella sua coscienza; è militare, perché obbedendo al suo imperativo interiore difende la sua fede ed incontra il sacrificio per essa. Questo è il carattere mistico del Fascismo, milizia di credenti in un mondo sfiduciato ed imbelle» (45). E il fascismo non nascondeva che la sua politica mirava a realizzare un tipo di organizzazione simile alla Chiesa cattolica, eletta a modello per la costruzione dello Stato totalitario:

Una delle novità essenziali dello Stato fascista — affermò Alfredo Rocco —, che esso ha sotto qualche punto di vista comune con un'altra grande istituzione dalla vita millenaria, la Chiesa cattolica, è quella di possedere, accanto alla normale organizzazione dei poteri pubblici, un'altra organizzazione comprendente una infinità di istituzioni, le quali hanno per scopo di avvicinare lo Stato alle masse, di penetrare profondamente in esse, di organizzarle, di curarne più da vicino la vita economica e spirituale, di farsi tramite ed interprete dei loro bisogni e delle loro aspirazioni. (46)

Ma l'analogia con la Chiesa andava, per i fascisti totalitari, oltre gli aspetti organizzativi e sociali, investendo la natura religiosa di questa analogia. L'organizzazione dello Stato fascista, scriveva «Critica fascista», «ripete in qualche modo taluni caratteri più salienti della organizzazione cattolico-romana: potere che assomma ed unifica le attività dei consociati, le imprime il suo carattere, fa dei suoi fini i fini più alti della loro vita civile, non tollera tentativi di scismi o di eresie civili» (47). Come idea religiosa, scriveva nel 1931 Carlo Scorza, allora segretario dei Fasci giovanili di combattimento, alla vigilia di capeggiare una violenta campagna contro l'Azione cattolica, il fascismo doveva trarre insegnamento dalla «più grande e saggia maestra che la storia rammenti: la Chiesa Cattolica», non quella dei poveri e umili santi, ma «quella degli imperituri pilastri, dei grandi Santi, dei grandi Pontefici, dei grandi Vescovi, dei grandi Missionari: politici e guerrieri che impugnavano la spada come la croce e usavano indifferentemente il rogo e la scomunica, la tortura e il veleno: s'intende, non in funzione di potere temporale o personale, ma sempre in funzione della potenza e della gloria della Chiesa». E come «nuova grande religione civile della Patria» il fascismo doveva «ispirarsi a questa grande scuola di intransigenza e di fierezza» ( 48 ). Per Scorza, il partito, tramite le sue organizzazioni giovanili, doveva diventare sempre più «un, ordine religioso armato» sul modello della Compagnia di Gesù, consacrato al «mito mussoliniano» (49). Una parte importante per la istituzionalizzazione della religione fascista fu svolta dai segretari del PNF. Roberto Farinacci, segretario dal 1925 al 1926, giustificò con la «fede domenicana» del fascismo la politica integralista del partito, che aiutò l'instaurazione del regime. Ma si deve soprattutto ad Augusto Turati (1926-1930) la definizione delle forme istituzionali del culto del littorio. Nei suoi discorsi alle masse e soprattutto ai giovani fascisti, il «nuovo apostolo della religione della Patria» (50) predicò «il bisogno di credere in maniera assoluta; di credere nel Fascismo, nel Duce, nella Rivoluzione, come si crede nella divinità [ ... ] noi accettiamo la Rivoluzione con orgoglio, noi accettiamo con orgoglio questi dogmi, anche se ci si dimostri che sono sbagliati, e li accettiamo senza discutere» (51). Nel 1929, Turati fece pubblicare un catechismo di «dottrina fascista» per fissare l'interpretazione ortodossa della «fede fascista» contro «storture di concezioni e di espressioni», riaffermando che il fascismo si fondava sulla «subordinazione di tutti alla volontà di un Capo» (52). Il suo successore Giovanni Giuriati (1930-1931) intensificò il senso fideistico e dogmatico del fascismo soprattutto fra i giovani, sviluppando la loro organizzazione per formare i missionari e i soldati della religione fascista secondo il comandamento del duce — «credere, obbedire, combattere» — coniato nel 1930 come viatico per i Fasci giovanili allora costituiti. Infine, durante la lunga segreteria di Achille Starace (1931-1939), la formalizzazione della religione fascista, attraverso una moltiplicazione piuttosto automatica dei riti del culto del littorio, con una definizione meticolosa delle regole di vita per il fascista, raggiunse il culmine, travalicando spesso anche il limite del ridicolo nella esasperata ricerca di un conformismo di atti diretto a produrre un conformismo di coscienze e di credenze. Tutto questo non era privo di una sua logica. Il partito probabilmente non si peritava di sfidare anche il ridicolo, nella convinzione che, alla fine, l'abito, o meglio, lo stile, la regola di comportamento morale e di costume civile, fissata entro i rigidi parametri di una ordinata scansione dei momenti della vita pubblica, come altrettante occasioni di esercizio di virtù civile e testimonianza di fede, avrebbe determinato un cambiamento del carattere portando alla nascita dell'«italiano nuovo». Nel 1938 fu anche pubblicato, a cura del PNF, un nuovo catechismo della religione fascista, che, sotto forma di domande e risposte, intendeva dare ai fascisti una «semplice guida, necessaria per la cultura dello spirito come per i quotidiani rapporti dell'esistenza» (53). Ogni generazione, ammoniva «Critica fascista», doveva abituarsi a considerarlo come «il sillabario della sua fede politica» (54).

In principio è la fede

Tutto il processo di istituzionalizzazione della religione fascista accentuò la formalizzazione della partecipazione politica dei militanti del PNF nei termini di una adesione fideistica e nell'adozione di uno stile di vita conforme ai dettami della precettistica emanata dal duce e, in suo nome, dal partito. Il fondamento, l'essenza e il fine dello stile di vita del militante del PNF si riassumevano nella fede, parola chiave nel linguaggio politico del fascismo: «Bisogna accendere tutta l'anima ai focolari della Fede: bisogna credere nella Patria come si crede in Dio [ ... ] bisogna divinizzare negli spiriti questa Italia nostra già tanto divina, come Dio ce l'ha data», proclamava «Il Popolo d'Italia» all'indomani delle celebrazioni del primo anniversario della «marcia su Roma» (55). Il nuovo statuto del PNF del 1926 recava un preambolo intitolato La fede, in cui era solennemente ribadito che il fascismo «è soprattutto una fede che ha avuto i suoi confessori». La identificazione del partito con un ordine religioso militare o con una chiesa (56), servi anche per reprimere i dissensi all'interno del partito stesso, per espellere i ribelli come «traditori della fede» ed imporre l'obbedienza assoluta ai gregari. L'iscrizione al PNF era non un semplice atto di adesione ad un programma politico, ma comportava un atto di dedizione totale, consacrato dal giuramento. Durante il regime, viene introdotta una modifica molto importante nella formula del giuramento, per cui la dedizione è rivolta non alla patria, come all'epoca dello squadrismo, ma specificamente alla causa del fascismo: «Giuro di eseguire senza discutere gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e, se è necessario, col mio sangue la causa della Rivoluzione Fascista» (57). Successivamente, anche in seguito alle polemiche con la Chiesa, venne aggiunto che il fascista giurava «nel nome di Dio e dell'Italia» ( 58 ). La variazione di per sé era significativa, non solo per il fatto di accostare l'Italia a Dio come garante del giuramento, ma per la definitiva conferma dalla istituzionalizzazione della militanza fascista come impegno religioso di tutta l'esistenza, fondato sulla fede e praticato attraverso l'obbedienza assoluta. Il giuramento fascista, spiegava il “Dizionario di politica”, «non è nel suo contenuto adesione platonica a un sistema ideologico, ma è espressione volitiva di fedeltà intransigente ad una dottrina intesa non come 'esercitazione di parole ma come concezione di vita. È un 'credo' politico e nello stesso tempo è un 'comandamento' d'azione animata da profondo contenuto ideale». Giurando, il fascista «compie un atto di fede: accettazione cosciente ed integrale dell'ordine fascista con tutte le conseguenze che ne derivano» (59). Chi infrangeva il giuramento era un traditore e veniva espulso dalla «comunità fascista». Nel 1926 il nuovo statuto del PNF decretò che il fascista espulso, come «traditore della causa» doveva «essere messo al bando dalla vita politica». Un nuovo statuto del 1929 aggravò questa sanzione, che era l'equivalente della scomunica nella Chiesa cattolica: l'espulso dal partito era messo «al bando dalla vita pubblica» (60).
Il tipo ideale dell'«uomo fascista» era il credente-combattente di una religione, e questo modello veniva proposto fin dall'infanzia alle nuove generazioni inquadrate nelle organizzazioni del partito. L'ideale della pedagogia fascista era un «Balilla di 6 anni che giura fedeltà al Duce, che sfila inquadrato al ritmo dei tamburi, che non si aggrappa più alle gonnelle della mamma, impaurito, ma sogna di combattere e morire per la patria» (61). I giovani fascisti erano esortati soprattutto a credere ciecamente nel duce: «Abbi sempre fede. La fede te l'ha data Mussolini, perciò e cosa sacra [ ... ] Tutto quello che il Duce afferma, è vero. La parola del Duce non si discute [ ... ] Dopo il 'Credo' in Dio recita, ogni mattina, il 'Credo' in Mussolini» (62). L'organo dei Fasci giovanili proclamava nel 1932 che «Il Fascismo è una forma di vita, e perciò è una religione: un buon fascista è un religioso. Noi crediamo in una mistica fascista, perché è una mistica che ha i suoi martiri, che ha i suoi devoti, che tiene e umilia tutto un popolo intorno a un'idea» (63). Il fascismo considerava la «fede» il valore primario della militanza politica, la principale qualità dell'«uomo fascista», al di là delle capacità intellettuali. Cultura e intelligenza contavano meno della dedizione ai dogmi della religione fascista. Negli anni del regime, almeno in linea di principio, si stabilì che la «fede» doveva avere la precedenza sulla «competenza» perché «la fede è un valore integrale» (64). Il testo ufficiale di dottrina fascista, per i corsi di preparazione politica del PNF dove si formavano i nuovi dirigenti, insegnava che «solo una fede può creare realtà nuove» (65). Tutto ciò, del resto, era coerente con la concezione del partito come «ordine religioso-militare». Il partito era il seminario dove venivano allevati gli apostoli e i combattenti della religione fascista, e i nuovi dirigenti dello Stato-chiesa. La somiglianza della militanza fascista con la militanza cattolica è evidente nei principali riti del partito. Dalla liturgia cattolica, per esempio, era ripreso il rito della «Leva fascista», istituita nel 1927: un «rito di passaggio» simile alla cresima, con cui i giovani provenienti dall'organizzazione giovanile, confermando la loro fede nel fascismo, venivano «consacrati fascisti» diventando membri del partito. Il rito si svolgeva con solenne cerimonia pubblica in tutte le città ma la cerimonia più solenne si svolgeva a Roma, alla presenza del duce. Ai giovani veniva simbolicamente consegnata la tessera e un moschetto: «La prima è il simbolo della fede; il secondo è lo strumento della nostra forza», proclamò Mussolini in occasione della prima «Leva» (66). I nuovi fascisti, dopo l'appello ai caduti fascisti, giuravano di «eseguire senza discutere gli ordini del Duce» e di servire con tutte le forze, e se necessario «col sangue», la causa della rivoluzione fascista. Il segretario del PNF, che conferiva l'«altissimo crisma fascista» (67), era «il sacerdote che parla con voce mistica, con appello vivificatore» ( 68 ): «domani — disse ai nuovi fascisti — io vi posso chiedere conto per la vita e per la morte di ogni vostro atteggiamento, di ogni vostro gesto, sia buono sia cattivo» (69).

Il custode della fiamma sacra

La partecipazione del partito all'istituzionalizzazione della religione fascista, al di là delle personali convinzioni dei sommi sacerdoti del regime, fu ispirata anche da considerazioni più pragmatiche, perché fu un modo per affermare e legittimare il primato del partito nei confronti delle altre organizzazioni del regime. Solo il partito, sotto gli ordini del duce, aveva il compito di custodire «la fiamma della rivoluzione», per agire, nello Stato fascista, come «lievito spirituale, come fiamma alimentata dal sangue dei Caduti» (70) secondo quanto affermavano i testi ufficiali per i corsi di preparazione politica del PNF. Il culto dei caduti, che aveva avuto, come abbiamo visto, una parte fondamentale nella nascita della liturgia squadrista, conservò un posto d'onore nel culto del littorio, per i militanti e per le masse. Il martirio per la «Causa» è al vertice della scala dei valori dell'etica fascista. Come tutte le religioni, il fascismo dava a suo modo una risposta al problema della morte, attraverso l'esaltazione del senso comunitario che integra l'individuo nel gruppo. Chi moriva con la fede nel fascismo entrava nel suo universo mitico ed acquistava l'immortalità nella memoria collettiva, attraverso la celebrazione liturgica del culto degli eroi e dei caduti:

tutte le grandi imprese hanno i loro eroi, tutte le fedi hanno i loro santi — scriveva il vicesegretario del PNF Arturo Marpicati —. Il culto degli eroi ha certo radice nel fatto che essi, anche dopo la morte, vivono come forze operanti beneficamente per la causa per la quale sono caduti. Chi affronta la morte per una causa, ha la certezza della continuità della sua opera oltre il limite della vita mortale; e per questa certezza, sigillata dal martirio, egli veramente vive, come forza immateriale, ma di una potenza senza limiti, nella continuità delle generazioni.

Nel Palazzo littorio, sede della segreteria nazionale del PNF, vi era una «cappella votiva» dove «arde una fiamma che mai si spegnerà. E stata accesa dal Duce col fuoco offertogli da un Balilla»:

La fiamma illumina le parole con cui Mussolini ha tramandato all'eternità la gloria dei martiri. Vigila in alto il monito: credere, obbedire, combattere. Splendono da un lato le parole: Caddero per il Fascismo — vivranno — nel cuore del popolo — perennemente. Di fronte, solenne, risponde la sicura promessa: Il sacrificio delle Camicie nere consacra — la Rivoluzione del Littorio — nella certezza del futuro — nella gloria della Patria. (71)

In ogni sede del Fascio vi era un «sacrario» dove si venerava la memoria dei caduti erano custoditi il gagliardetto, i cimeli del «tempo eroico», le reliquie dei martiri. Per ricordare «nei secoli il sacrificio eroico dei caduti per la rivoluzione delle camicie nere», come recitava l'epigrafe dedicatoria, era stata eretta nel 1926 sul Campidoglio un'ara, che, insieme all'Altare della patria, fu la meta spirituale di tutte le cerimonie che si svolgevano in piazza Venezia. Il ricordo dei martiri era periodicamente rinnovato, con il rito dell'appello, in occasione di tutti gli anniversari del regime. Nella ricorrenza della morte, i fascisti compivano un pellegrinaggio sul luogo dove questa era avvenuta, segnalato da una lapide o da un monumento. A Milano, sul luogo dove erano caduti tre fascisti, fu eretta una «fontana votiva», simbolo del perenne zampillare di nuove energie dalla memoria dei martiri. Frequente era il rito di dedicare al nome di un martire le nuove opere compiute dal regime. Anche frequente era l'usanza di dedicare al caduto un albero, simbolo di vita, di saldo radicamento nel suolo natio e di ascensione al cielo. Ai caduti fascisti venivano talvolta dedicati speciali sacrari monumentali, come a Bologna, per raccogliere le loro salme in un unico luogo di culto. Le salme dei caduti fascisti fiorentini furono traslate nel 1934 nel sacrario loro dedicato in Santa Croce, con una solenne cerimonia radiodiffusa: «Il nuovo sacrario — scriveva l'organo dei Fasci giovanili — ha in sé la suggestione che esalta la bella morte» (72). La funzione sacerdotale del partito, esaltata soprattutto dai suoi dirigenti, era svolta anche attraverso un'intensa rappresentazione simbolica che mirava a rivestire di «sacralità» la sua presenza nella vita civile. Per esempio, le sedi locali del PNF, le Case del Fascio erano considerate le «chiese della nostra fede», «gli altari della religione della Patria», dove «coltiveremo il religioso ricordo dei nostri morti» ed «opereremo a purificare l'anima» (73). Come propri «luoghi santi», il partito venerava i locali e le piazze delle prime adunate, come il «covo», prima sede del giornale di Mussolini, piazza S. Sepolcro, e la piazza Belgioioso. Nel quadro di questa attività sacerdotale rientrava anche la custodia e la venerazione dei simboli del partito. Dall'epoca dello squadrismo, come abbiamo visto, la benedizione dei gagliardetti era uno dei più «sacri» riti fascisti. Il gagliardetto, benedetto sempre in nome dei martiri fascisti, veniva santificato come simbolo della comunione spirituale della squadra nei suoi componenti vivi e morti. Citiamo, in proposito, un episodio singolare di cui fu protagonista Carlo Scorza, allora segretario federale di Lucca. Nel 1928 durante una cerimonia a Valdottavo al momento della benedizione dei gagliardetti, poiché era mancata la partecipazione del prete, Scorza prese tre gagliardetti e li benedisse lui stesso in nome dei martiri fascisti:

I nostri gagliardetti — disse nella sua orazione — li abbiamo benedetti noi perché quando andavamo a farci scannare non chiedevamo mai una benedizione, non perché volessimo compiere qualcosa di irreligioso. Dopo che abbiamo ridato la dignità ai sacerdoti, dopo aver messo il crocifisso nelle scuole laddove era stato scacciato, abbiamo il diritto di infischiarci della benedizione di quel Dio che tutti abbiamo nel cuore. Alla nostra benedizione si unisce quella di tutte le mamme, di tutte le spose, di tutti gli orfani della doppia guerra: la benedizione di tanto sangue versato che se si potessero versare tutte le pile di acqua santa non potremmo avere un lavacro più santo. Le bandiere potranno sventolare al sole sicure di essere non meno nobili delle altre. Quando di fronte a tutte le fiamme nere dei Balilla e degli Avanguardisti si troveranno gli stracci bianchi dei circoli cattolici dei quali non è noto il programma non certo le nostre lance si piegheranno.

E concluse ricordando i caduti: «Valdottavo deve divenire un Altare Fascista [ ... ] Due morti e quattro feriti hanno santificato Valdottavo, voi gente dovete esserne degne» (74). Le insegne del partito conservarono nel regime questa funzione simbolica sacralizzante, ad ogni livello dell'organizzazione, con il crisma di un culto ufficiale istituzionalizzato all'interno del partito ma reso obbligatorio per tutti gli italiani (75). Norme particolarmente severe vennero emanate per l'uso del fascio littorio, dei distintivi e della «camicia nera» al fine di proteggerne la «sacralità» come simboli della fede fascista. Il gagliardetto, stabiliva lo statuto del 1929, era «il simbolo della fede». Ai gagliardetti dei Fasci spettavano nelle cerimonie ufficiali una scorta d'onore della MVSN comandata da un ufficiale; al gagliardetto del Direttorio nazionale e delle Federazioni provinciali erano dovuti anche gli onori militari (76). Alto significato simbolico veniva attribuito al labaro della Segreteria generale e al labaro del duce, cui erano tributati onori speciali durante le «uscite» per le grandi adunate di massa o per le riunioni dei gerarchi del PNF. Con la devozione particolare dovuta ad una santa reliquia era custodito anche il primo gagliardetto, quello del Fascio di Milano. Nel 1932, per la ricorrenza del 23 marzo, si svolse nella «sacra e storica» piazza S. Sepolcro, una cerimonia per la sostituzione del vecchio vessillo con una nuova insegna. L'oratore, ripiegando «il drappo glorioso», invocò i «nostri Caduti» che «qui convenuti a riceverne la simbolica consegna, lo sollevano lassù, ove, come la luce vivida del loro sacrificio, risplenderà per sempre, ad alimentare eternamente la nostra fede». Quando la nuova insegna venne sciolta al vento, la folla salutò «il vecchio gagliardetto mentre la pattuglia eroica lo trasporta in alto, insegna eterna del suo olocausto e della nostra fede» (77). L'intensificazione del ruolo sacerdotale del PNF nel culto del littorio, specialmente durante la segreteria di Starace, accompagnò la silenziosa strategia del partito per espandere il suo potere all'interno dello Stato. Nel 1932 Starace volle rendere, per così dire, più risonante la presenza simbolica del partito, come centro spirituale del regime, decretando che ogni Casa del Fascio doveva avere una «torre littoria» munita di campane, da suonare in occasione dei riti del regime. Ancora una volta, all'origine di una iniziativa rituale del partito, si trova il pungolo dell'emulazione della tradizione cattolica. Col suono delle campane, strumento «ad un tempo mistico e popolare», spiegò l'organo dei Fasci giovanili, il fascismo evocava una plurisecolare tradizione religiosa e civile, rendendo più espressivo «il suo originario e più che mai vivo carattere di religione. Religione politica, risultato di una virile, romana educazione dello spirito, che non può non integrarsi mirabilmente con la religione del 'divino'» ( 78 ). Anche in questo modo, il partito rivendicava la sua funzione di custode dell'idea e propagatore della fede fascista.

Il fascio e la croce

Nelle pagine di dottrina fascista, in cui affermava la totalità spirituale dello Stato, Mussolini aveva aggiunto che lo Stato fascista non pretendeva affatto di mettere sugli altari un suo nuovo dio, come aveva fatto Robespierre, ma riconosceva «il Dio degli asceti, dei santi, degli eroi e anche il Dio così com'è visto e pregato dal cuore genuino e primitivo del popolo». Lo Stato fascista, aggiungeva Mussolini, non aveva una teologia, ma aveva una morale. Tuttavia, per il fatto stesso di rivendicare allo Stato la sua propria morale, il fascismo si arrogava in realtà la funzione propria della religione, la prerogativa di definire il significato e il fine ultimo dell'esistenza per milioni di uomini e donne, secondo la propria concezione totalitaria della politica, che poneva lo Stato come valore supremo e assoluto. Nello Stato fascista, spiegava un giurista, «è il principio etico che determina la sua religiosità e non la religione che determina la sua impronta etica» (79). Gentile ricordava che lo Stato controllava la religione «sempre e soltanto per i suoi fini e per questo rispetto la governa, per modo che lo Stato può, in un dato momento, contraddire alla religione, specialmente per quel che riguarda l'ideale della pace e la necessità della guerra» (80). Il fascismo, in effetti, non si limitò affatto a venerare il Dio della tradizione, patrimonio della «religione dei padri», ma intervenne nella dimensione religiosa, come abbiamo visto, costruendo un proprio universo di miti, di riti e di simboli incentrato sulla sacralizzazione dello Stato. E, per questo, rivaleggiò con la Chiesa cattolica per il controllo e la formazione delle coscienze, anche se, reso cauto dall'esperienza fallimentare di altri esperimenti di religioni laiche antagoniste della religione tradizionale, evitò di avventurarsi in una guerra di religione con il cattolicismo. Verso la Chiesa l'atteggiamento del fascismo fu ispirato più dal realismo politico che dal fanatismo ideologico, mettendo in atto quella che potremmo chiamare una strategia sincretica di convivenza, mirante ad associare il cattolicismo nel proprio progetto totalitario. Mussolini, come osservò Armando Carlini, della religione comprendeva «soltanto il lato umano e storico» perché egli era «un laico, un purissimo laico», e rimaneva sempre «il seguace di Nietzsche»: di conseguenza «la morale del Fascismo da lui fondato è tutta un'esaltazione di principi fondamentalmente pagani» (81). Mussolini aveva anche una grande considerazione per il valore e la potenza della religione nella vita collettiva, in quanto fede e tradizione mitico-simbolica che hanno forti radici nella coscienza delle masse. Perciò era convinto che il fascismo, pur rivendicando il primato della politica e l'eticità dello Stato fascista ( che «è Cattolico, ma è Fascista, anzi soprattutto, esclusivamente, essenzialmente Fascista» (82) ), doveva evitare una guerra di religione perché su questo campo la sconfitta sarebbe stata altamente probabile. In un rapporto segreto ai dirigenti federali, tenuto all'inizio del 1930 e rimasto inedito (83), Mussolini diede direttive chiare in proposito:

Non bisogna imbottigliarsi nell'antireligiosità per non dare motivo ai cattolici di turbarsi. Bisogna invece intensificare l'azione educativa, sportiva, culturale. Finché i preti fanno tridui, processioni ecc., non si può fare nulla: in una lotta su questo terreno fra religione e Stato perderebbe lo Stato. Un'altra cosa è però l'Azione cattolica e lì è nostro dovere fronteggiare; quindi nel campo religioso il massimo rispetto, come del resto ha sempre fatto il Fascismo; l'azione di accaparramento degli individui fronteggiarla con altri mezzi adatti, non però esagerando i pericoli e non deprimendoci noi stessi rappresentandoceli troppo gravi. Guerra santa in Italia, mai; i preti non porteranno mai i contadini contro lo Stato [ ... ] in linea di massima, consentire, e mostrarsi deferenti anche, per tutto ciò che riguarda manifestazioni religiose processioni ecc. tutto ciò che riguarda la salvezza delle anime; nel Protestantesimo ognuno si salva da sé; ma noi siamo cattolici e li lasciamo fare. Li combattiamo invece senz'altro non appena tentano di sconfinare nel campo politico, sociale, sportivo.

Attenendosi a questa realistica linea di orientamento, quattro anni dopo il duce ribadì la sua convinzione sulla questione dei rapporti fra Stato e religione, lasciandosi andare anche, per meglio chiarire il suo pensiero, ad una allusione ironica sulle correnti di religiosità neopagana che proliferavano nella Germania nazista. Il nazismo non godeva allora le simpatie del duce. Per fare le sue dichiarazioni, Mussolini scelse una tribuna straniera:

Nel concetto fascista di Stato totalitario, la religione è assolutamente libera e, nel suo ambito, indipendente. Non ci è mai passato per l'anticamera del cervello la bislacca idea di fondare una nuova religione di Stato o di asservire allo Stato la religione professata dalla totalità degli italiani. Il compito dello Stato non consiste nel tentare di creare nuovi vangeli o altri dogmi, di rovesciare le vecchie divinità per sostituirle con altre, che si chiamano sangue, razza, nordismo e simili. Lo Stato fascista non trova che sia suo dovere intervenire nella materia religiosa, e se ciò accade è solo nel caso in cui il fatto religioso tocchi l'ordine politico e morale dello Stato [ ... ] Uno Stato che non voglia seminare il turbamento spirituale e creare la divisione fra i suoi cittadini, deve guardarsi da ogni intervento in materia strettamente religiosa. (84)

Si è tuttavia legittimati, dopo quanto abbiamo visto in merito alle dichiarazioni sulla religione fascista e la sacralità dello Stato, ad avanzare riserve sulle affermazioni mussoliniane. Al di là della volontà di evitare guerre di religione per meditate e realistiche valutazioni dei rischi che tale eventualità comportava, esse apparivano chiaramente troppo reticenti, se non semplicemente ipocrite, se confrontate con altre e più impegnative asserzioni mussoliniane in merito alla religione fascista. Certo, l'interesse del fascismo per la religione cattolica era esclusivamente politico, non teologico, nel senso almeno che non sfiorava nessuno dei fascisti la tentazione di interferire nelle questioni dottrinali cattoliche e tanto meno la pretesa di avanzare una propria interpretazione della teologia cattolica con intenti più o meno riformatori. I riconoscimenti privilegiati alla Chiesa con gli accordi del Laterano, come pure la volontà di non aprire contese religiose, erano dettati dal proposito di utilizzare la religione tradizionale come instrumentum regni. Ma non per questo il fascismo desistette dal ripetere enfaticamente, in ogni circostanza e in ogni sede, di essere movimento religioso, di avere una concezione religiosa della politica, che postulava l'assoluto dello Stato di fronte al relativo degli individui, né cessò mai di rivendicare, in relazione a questa religiosità dello Stato, il diritto indiscutibile di definire la morale del cittadino e il fine ultimo della sua esistenza. Alle dichiarazioni di principio corrispose in modo del tutto coerente l'enorme dispiego di energie e di impegno che il regime profuse per intensificare la conquista totalitaria delle coscienze, dando maggior impulso alla continua elaborazione delle proprie forme di culto e di religiosità laiche, intervenendo quotidianamente, con meticolosità quasi ossessiva, in materia di comportamento, di costume, di morale civile, di stile, per accelerare il processo di trasformazione del carattere nazionale attraverso l'azione pedagogica dello Stato, onnipresente e dominante in ogni momento della vita del cittadino. Per tutto il periodo del regime, soprattutto nei momenti di particolare tensione, il fascismo, governo e partito, condusse contro la Chiesa e le associazioni cattoliche una serrata «guerra dei simboli», vietando ai cattolici l'uso di bandiere, stendardi o insegne con i simboli della Chiesa come nel caso della diffusione della campana civica sulla «torre littoria» delle Case del Fascio. Il regime, insomma, non rinunciava a propagandare la «sua» religione. E ciò lasciava inevitabilmente aperta la via a potenziali conflitti fra Stato totalitario e Chiesa. Risulta particolarmente impegnativo quanto veniva dichiarato in proposito dal Dizionario di politica del PNF. La Chiesa, scriveva uno dei principali curatori del dizionario, «operando sulle coscienze per tradurre in esse il proprio patrimonio ideale come continuità» viene «inevitabilmente [ ... ] ad incontrarsi con l'azione dello Stato, che, quando abbia un contenuto morale da tradurre in atto, deve esso pure agire profondamente sulle coscienze. Il dissidio, dunque, fra la Chiesa e lo Stato, quando questo sia animato da una propria volontà morale, è nella realtà stessa delle cose». E tale dissidio può esser risolto o con compromessi che riconoscano i valori reciproci e le specifiche sfere di azione o con una convergenza, quando entrambi «siano espressione diversa di un'identica coscienza umana storicamente determinata, quale si manifesta su due piani diversi». In questo caso «la religione assume nel quadro della politica e dello Stato come forma concreta di questa», un valore come «un mezzo di elevamento spirituale delle masse» ed «elemento essenziale della nazione» per le forme storiche in cui si è determinata: «le forme concrete della religione, l'organizzazione della Chiesa, i riti, l'etica dell'azione terrena, riflettono la storia del popolo in cui si sono create» (85). Per la sua natura totalitaria, affermando il primato della politica come una esperienza di vita integrale, il fascismo era spinto a confondere i confini fra dimensione politica e dimensione religiosa. Esso poneva così un grave dilemma al connubio tra fascismo e cattolicismo, per l'inevitabile ambiguità insita nel rapporto fra due fedeltà, che investivano, ciascuna nella sua dimensione, il significato e il fine ultimo dell'esistenza. Per esempio, non tutti i fascisti erano propensi ad interpretare in senso radicale il principio totalitario della sacralizzazione dello Stato, al punto da renderlo incompatibile con la fede cattolica. Alcuni, pur consentendo a considerare il fascismo una religione politica e civile, ribadivano il primato della religione cattolica. Altri, invece, ebbero verso questo problema atteggiamenti contraddittori, elusivi, ambigui, e cercarono di conciliare la loro sincera fede nel fascismo come religione politica con la personale devozione al cattolicismo. Questi ultimi pensavano, forse, di risolvere il dilemma insistendo sulla necessità di un'unione simbiotica tra fascismo e cattolicismo, considerati entrambi come religioni, a loro modo, totalitarie e italiane, vagheggiando un congiungimento delle loro forze per perseguire il comune obiettivo dell'affermazione di una «nuova civiltà» che avesse centro nella città sacra alla «religione dei padri» e al culto del littorio. Tipica in questo senso la posizione di Bottai. Superato un giovanile anticlericalismo mazziniano, aveva riscoperto fin al 1922 che «il sostrato spirituale di nostra razza, nelle sue più alte espressioni di pensiero e nelle sue più umili manifestazioni di vita» era «innegabilmente cattolico», il che rendeva la Chiesa di Roma «fattore di vita nazionale non trascurabile da parte di chi della vita nazionale voglia farsi rigeneratore», per risolvere «il problema d'una più elevata sistemazione di vita singola e collettiva», che la «moralità nuova nata dalla guerra» aveva «angosciosamente riposto» dinnanzi alle giovani generazioni italiane (86). Nello stesso senso, però, mirando alla rigenerazione degli italiani, Bottai sviluppò, in modo coerente con la sua personale visione totalitaria, la sua concezione religiosa del fascismo, «che non è solo mera azione fisica, è anche qualche cosa di più di una dottrina. È una religione politica e civile, che non esclude, anzi integra, quella ecclesiastica, conferendole profonda sostanza di vita, continua aderenza alla vita stessa, in tutto quanto questa ha di più degno e di più nobile. Da questo punto di vista, il fascismo è semplice, limpido, lineare; è la religione dell'Italia» (87). Sul versante del cattolicesimo, nonostante compromessi, intese, sintonie e convergenze, alla sensibilità delle coscienze cattoliche più refrattarie ai corteggiamenti del fascismo e alle seduzioni del connubio, non sfuggiva affatto l'insidia essenziale che si celava nelle proposte di simbiosi fra totalitarismo laico e totalitarismo religioso. Fin dal 1924 un focoso polemista cattolico aveva messo in guardia contro un «cattolicismo» inquadrato nella «religione fascista» e contro le «capziose suggestioni e manifestazioni manovrate» per far credere «l'esistenza di connubi [ ... ] tra il cristianesimo universale e il paganesimo nazionalista», perché, in realtà, il fascismo, per «la sua anima totalitaria, egocentrica, assorbente, non tollera forze isolate, incontrollate, fuori del suo geloso serraglio; vede di malumore una Chiesa, procedente libera per sue chiare tranquille vie protese verso l'eternità», e vuole che anche «la Chiesa ha da cospirare alla rinascita, all'èra, alle parate e alle sparate, al decoro ducesco» ( 88 ). Ed ancora qualche anno dopo, Luigi Sturzo, costretto all'esilio dal fascismo, ammoni che la dottrina fascista era «fondamentalmente pagana e in contrasto col cattolicesimo. Si tratta di statolatria e di deificazione della nazione», perché il fascismo «non ammette discussioni e limitazioni: vuole essere adorato per sé, vuole arrivare a creare lo Stato fascista» (89). Al vertice stesso della Chiesa restava il sospetto, mai fugato neppure nei momenti di maggior cordialità dei rapporti, che la rivendicazione del primato totalitario dello Stato e il sincretismo politico della religione fascista comportassero potenziali rischi per il primato religioso della Chiesa, per la sua autonomia e per la sua universalità. Pio XI dovette intervenire con una enciclica, nel 1931, per esprimere la ferma condanna contro la «religiosità» fascista, la formula del giuramento del partito, la statolatria del regime, la pretesa di monopolio dell'educazione delle nuove generazioni e del dominio delle coscienze (90). Muovendosi nell'ottica del connubio sincretico, la religione fascista evitò di porsi come antagonista diretta della religione cattolica — salvo che nelle posizioni estreme dei fascisti più anticlericali o nei fautori di una religiosità che si richiamava ad un tradizionalismo pagano, come Julius Evola (91) — perché valutava tutti i rischi che un simile atteggiamento avrebbe comportato per la stabilità del regime, ma tentò di integrarla nel proprio universo mitico. Il cattolicismo poteva essere sincreticamente innestato nella religione fascista come «religione dei padri», in quanto, cioè, creazione e componente della tradizione della «stirpe italiana», e non in quanto universale «religione dell'uomo» rivelata da Dio. Per Mussolini, il cattolicesimo, nato come setta orientale, aveva acquistato universalità soltanto trapiantandosi a Roma e ponendo le basi per il suo sviluppo sulla tradizione imperiale. A Roma si era «realizzato uno dei miracoli religiosi della storia, per cui una idea che avrebbe dovuto distruggere la grande forza di Roma è stata da Roma assimilata e convertita in dottrina della sua grandezza» (92). Forse il duce si augurava di veder compiere, dalla Roma fascista, lo stesso tipo di miracolo. La Chiesa non era venerata dal fascismo in quanto depositaria di una verità divina rivelata, ma era riconosciuta e rispettata come una ierofania della romanità, creazione della stirpe italiana e patrimonio essenziale della sua tradizione. Una particolare interpretazione della romanità del cattolicesimo, in questo senso, fu proposta da Giovanni Gentile in un articolo intitolato Roma eterna (93) scritto in forma quasi oracolare, ma molto significativo, secondo noi, per capire il posto che, nella religione dello Stato, il fascismo intendeva assegnare al cattolicesimo, per trarre da questo sostegno e conferma nell'aspirazione a conquistare, come religione, un frammento di eternità nella storia umana. Universalità e eternità erano i caratteri della romanità, spiegava Gentile. La «prima Roma eterna» era la Roma imperiale «creatrice dello Stato [ ... ] che comincia ad essere lo Stato, come il Tutto degli uomini, fuori del quale l'uomo nulla trova che abbia valore». A «questa Roma dello Stato s'appoggiò e ne trasse vigore e forma una nuova Roma», quella del cristianesimo, che però portò alla svalutazione dello Stato e alla sua subordinazione alla Chiesa, facendo del Vescovo di Roma il nuovo Cesare e creando un «nuovo impero: che è politico ma è anche e soprattutto religioso» e «crea pertanto una religione politica nell'atto stesso che innalza i rapporti politici al livello della religiosità». Per questo la «nuova Roma» è «la stessa Roma imperiale, spiritualizzata e innalzata all'altezza della forma religiosa», confermando la sua «effettiva eternità», anche se la Roma politica decade e si disgrega, perché la civiltà romana continuava a parlare alle genti del mondo, diffondendo nel mondo lo spirito della romanità. Il risorgimento politico dell'Italia si trovò di fronte alla necessità di abbattere la Roma papale per creare la nuova Roma dell'Italia unita, ma sentì nello stesso tempo l'angoscia di perdere in tal modo il senso di universalità di Roma, ridotta «a semplice sede del Governo di uno Stato particolare», e perdendo così l'autorità di parlare «e farsi ascoltare da tutti i popoli civili». La «terza Roma cercava il suo verbo per salvare Roma eterna, e salvare se stessa». Solo con il fascismo questa ricerca fu esaudita, perché, affermava Gentile, «Mussolini ha sentito la grandezza del passato immanente ed eterno dell'Italia romana e cristiana», facendo risorgere e ricongiungendo il culto della «Roma dello Stato» con il culto della «Roma della Chiesa», conferendo agli italiani una missione universale. Con questa visione del rapporto fra romanità, cattolicesimo e fascismo, Gentile indicava al fascismo la via per conquistare, come religione dello Stato, eternità e universalità, proponendogli di fondere in sé la «Roma dello Stato» con la «Roma della Chiesa», per trarre da questa sintesi le fondamenta di una nuova civiltà universale, considerando il cattolicesimo parte costitutiva e inseparabile dell'identità italiana, nel comune richiamo alla romanità.

I romani della modernità
L'ideale fascista di religione politica si richiamava, in realtà, al modello della religione della «Città antica», alla religione romana soprattutto, che sacralizzava l'ordine politico nel culto dello Stato, consentendo la pratica di altri culti solo a patto che questi non fossero in contrasto con la religione dello Stato. Il mito della romanità, prima ancora di essere esaltato dal fascismo per dar lustro alle sue conquiste coloniali, si era introdotto nella cultura fascista principalmente per legittimare le sue aspirazioni totalitarie a istituire una nuova religione dello Stato (94). Un dotto romanista, e principale cultore e propagandista del mito della romanità nel fascismo, spiegava che l'essenza dello Stato romano era «una concezione etico-religiosa in cui sono state innalzate a simboli di fede le ragioni essenziali dell'esistenza e della forza dello Stato» (95). La civiltà romana aveva fondato la sua grandezza «sulla viva consapevolezza dell'esistenza di un ordine al quale deve sottomettersi ogni momento dell'esistenza [ ... ] ordine in cui la preminenza è riservata ai valori politici, nel senso che qualunque siano gli aspetti della vita e della storia, non esclusi quelli della religione e dell'etica, il momento dominante [ ... ] il fine essenziale è quello della loro organizzazione in vista di un interesse e di una elevazione comune. Precetti religiosi, norme etiche, principi giuridici non sono che lo sviluppo di questo motivo politico, originario e fondamentale» (96). Il fascismo voleva far rivivere «lo spirito della potenza creatrice di Roma che nella famiglia, nella religione, nell'educazione militare, nelle leggi seppe infondere un sacro rispetto al principio della subordinazione del singolo alla collettività» (97), per ricreare nello Stato totalitario quell'«intimo nesso spirituale fra famiglia e stato, fra stato e religione, in perfetto equilibrio», che aveva dato «alla coscienza romana un fondo di virtù, di consapevolezza, di disciplina, segreto di grandezza» ( 98 ). Il mito di Roma fu, insieme col mito del duce, la credenza mitologica più pervasivi di tutto l'universo simbolico fascista (99). Quando celebrò il «Natale di Roma» come festa del fascismo, Mussolini esaltò la romanità come mito che doveva animare il fascismo: «Roma è il nostro punto di partenza e di riferimento; è il nostro simbolo o, se si vuole, il nostro mito» (100). Il culto fascista per la romanità non era condizionato dall'amore e dal rispetto archeologico per una originale identità del passato da recuperare e restaurare. La stessa passione fascista per l'archeologia non era animata dalla scienza né rispettava sempre le esigenze della scienza, non arrestandosi infatti neppure di fronte a distruzioni ed arbitrarie restaurazioni e innovazioni, come nel caso della costruzione del piazzale Augusto imperatore (101), pur di «creare la monumentale Roma del ventesimo secolo» (102). Il fascismo praticò una «archeologia simbolica», una ricerca attualizzante delle vestigia della romanità, ispirata al richiamo mitico del «centro sacro» per entrare in comunione con la «potenza magica» della romanità, al fine di creare, anche arbitrariamente, uno scenario urbanistico e monumentale tale da visualizzare la simbiosi fra romanità e fascismo entro nuovi «spazi sacri», misto di antico e moderno, per celebrare il culto del littorio nella città eterna, presentando il fascismo erede culmine della tradizione romana. Un esempio importante del culto fascista della romanità, usata a beneficio del culto del littorio, fu la mostra realizzata nel 1937 nel quadro delle celebrazioni per il bimillenario di Augusto, inaugurata da Mussolini il 23 settembre, in coincidenza con la riapertura della mostra dedicata alla rivoluzione fascista (103) , come a voler sottolineare la simbiosi fra romanità e fascismo. L'intento politico della mostra augustea, al di là dell'accurata organizzazione scientifica, era la celebrazione dell'eternità e della universalità di Roma «che sotto la guida del duce [ ... ] ha ripreso la sua fatale missione» di civiltà nel mondo moderno (104) : «in tutta la mostra — disse il professor Giulio Quirino Giglioli, ideatore e organizzatore, il giorno dell'apertura rivolgendosi a Mussolini — l'opera Vostra di civis romanus è presente e animatrice: non solo in Vostri detti, ma nello spontaneo inevitabile riavvicinamento di tante Vostre azioni a quelle dei più grandi Romani di duemila e più anni fa», e soprattutto a Cesare e ad Augusto, simbolicamente ricongiunti nella figura mussoliniana (105). I visitatori — circa un milione fino al giorno della chiusura, il 7 novembre 1938 — compivano «un viaggio attraverso la storia della civiltà di Roma» (106), illustrata da un'imponente esibizione documentaria — plastici, fotografie, riproduzioni di monumenti e statue, modelli, disegni, copie di pitture, sculture e mosaici — accompagnati da iscrizioni di autori latini alternate con iscrizioni mussoliniane, proseguendo poi con l'illustrazione della sua eredità nel cristianesimo e nel medioevo per culminare, a conclusione della visita, nel fascismo (107). Il fascismo, in tal modo, per dirla con Bottai, operava una trasvalutazione della romanità «nel nostro mondo e nel nostro tempo», rendendola idea viva ed operante «nel tempo, secondo il nostro tempo, col nostro tempo» e non «idea cristallizzata in questa o in quella forma tradizionale, ma viva e continua [...] aderente alla nostra coscienza attuale della storia e della politica»: «Il ritorno a Roma, provocato dalla Rivoluzione delle Camicie Nere è [ ... ] un rinnovarsi dell'idea di Roma nella coscienza dell'italiano moderno; non una restaurazione, ma una rinnovazione, una rivoluzione dell'idea di Roma», imprimendo «al nome eterno di Roma il sigillo 'fascista'; perché ne accettiamo l'idea rifacendola nostra, conferendole nuova originalità nel mondo moderno» ( 108 ). Il fascismo si considerava una ripresa della romanità nel XX secolo, ed aspirava a conquistare, come la «Roma dello Stato» e la «Roma della Chiesa», un suo frammento di eternità lasciando nella storia le vestigia della Roma di Mussolini. La mitologia fascista evocava l'eternità di Roma a garanzia spirituale per l'Italia fascista, collocando la romanità all'inizio della sua rappresentazione mitica della storia italiana, dove la breve storia del fascismo appariva come una nuova ierofania della romanità, avvenuta dopo i secoli della «eclissi della nostra stirpe che si squarcia nel 1915» (109), in una visione ciclica millenaristica delle stagioni della civiltà italiana, proveniente da un mitico passato di grandezza e di potenza per proiettarsi, con il fascismo, verso un nuovo futuro di grandezza e di potenza. Nella religione fascista, il mito di Roma assunse la funzione dell'archetipo paradigmatico, rappresentava il tempo mitico (110) della stirpe italiana, continuamente rievocato e rinnovato attraverso miti, simboli e riti per attingervi il modello pedagogico per la formazione dell'«italiano nuovo»: «tutta la pratica delle virtù latine mi sta dinanzi — dichiarava Mussolini —. Esse rappresentano un patrimonio ch'io cerco d'utilizzare. Il materiale è lo stesso. E là, fuori, è sempre ancora Roma» (111). Il culto della romanità nasceva dal «mistero della continuità di Roma» (112). «Il suolo storico sul quale si agisce — asseriva Mussolini riferendosi al fascino che su di lui esercitava Roma — ha una potenza magica» (113). Le vestigia monumentali conferivano ancora un'aura di sacralità al luogo prediletto dal destino, dove per la prima volta si era manifestato il miracolo della grandezza dello «spirito latino», dove si era nuovamente verificato, con il cattolicesimo, il miracolo di una nuova ierofania della romanità, e dove ancora, con il fascismo, si compiva il terzo miracolo della «resurrezione della nostra razza» (114). Roma era «centro d'ispirazione, fondamento di costruzioni, suggestione senza intermittenze, simbolo creante realtà e realtà assurgente a simbolo, commercio ininterrotto con una divinità terrestre, mistero che si celebra nel più intimo della coscienza mussoliniana» (115). La celebrazione del «Natale di Roma» era interpretata dai fascisti come un rito iniziatico per entrare in comunione con la romanità: attraverso questo rito, animato «da una 'volontà solare', da una volontà imperiale, da una volontà di potenza [ ... ] l'Italiano nuovo riprende contatto spiritualmente con il romano antico» (116). Associato al mito della romanità, quindi, anche il mito dell'«uomo nuovo» acquistava significato religioso, simbolo della metanoia del popolo italiano che il fascismo voleva forgiare per renderlo degno erede spirituale dei romani, pronto, come i romani, a sfidare il destino per costruire una «nuova civiltà», modellata sullo spirito dei romani, combattenti invitti, ma anche «costruttori formidabili che potevano sfidare, come hanno sfidato, il tempo» (117). Il fascismo aveva l'ossessione del tempo. La religione, ha scritto Mircea Eliade, è un'aspirazione all'immortalità che nasce dalla «nostalgia dell'eternità», dal desiderio di poter vivere «mediante la trasfigurazione della durata in un istante eterno» ( 118 ). Anche nel fascismo troviamo tracce consistenti di questa aspirazione, tradotta nei termini propri di una cultura che identificava l'immortalità di un popolo con il mito della civiltà, cioè con la sua capacità a vincere la sfida del destino imprimendo il suo segno nella storia. Il comandamento mussoliniano «durare», più che mettere a nudo una politica opportunistica che viveva alla giornata, rivela l'impulso di una volontà di potenza che vuole sfidare il tempo. L'atteggiamento verso la morte, il culto dei caduti, lo slancio futuristico verso l'azione e il mito della «rivoluzione continua», come pure la stessa smania di protagonismo nella politica del mondo, sono altrettante manifestazioni di una volontà di potenza in lotta contro il tempo e di un desiderio di immortalità. E la stessa insistenza del fascismo sulla necessità della fede derivava da questa volontà di sfida, considerando la fede stessa una forza contro il destino e una scintilla di eternità. Il «destino» è un'immagine importante nell'universo simbolico fascista: nel contesto della «storia sacra» della religione fascista, evoca una oscura divinità che sovrasta le vicende della storia, mettendo alla prova con le sue sfide cicliche la capacità dei popoli di lasciare una impronta duratura nella storia dando vita ad una civiltà. La storia, per il fascismo, era una perpetua lotta fra il destino e la volontà, una lotta che scandiva il ciclico sorgere e tramontare delle civiltà. Il destino era una divinità imprevedibile e inesorabile, ma la volontà poteva, in straordinarie circostanze, sostenere la sfida. Il duce, intimamente persuaso di possedere il dono di indovinare il proprio secolo, era convinto di vivere in una delle cicliche svolte epocali, in cui il destino offriva al popolo italiano l'occasione di provare ancora la sua virtù. Dopo una eclissi di secoli di decadenza, gli italiani avevano l'occasione di creare una nuova civiltà. Ma la sfida poteva essere vinta solo con la fede nella religione fascista e con la totale sottomissione alla guida del duce, che plasmava il carattere degli italiani per creare una razza di dominatori e di conquistatori:

La grande ora non batte a tutte le ore e a tutti gli orologi. La ruota del destino passa. È sapiente colui che, essendo vigilante, la afferra nel minuto in cui trascorre dinnanzi a lui. [ ... ] Se mi riuscirà, e se riuscirà al Fascismo di sagomare così come io voglio il carattere degli italiani, state tranquilli e certi e sicuri che quando la ruota del destino passerà a portata delle nostre mani noi saremo pronti ad afferrarla ed a piegarla alla nostra volontà. (119)

Il progetto pedagogico dello Stato totalitario si potrebbe compendiare nell'aspirazione a foggiare gli italiani come «romani della modernità», capaci di vincere la sfida del tempo e di imprimere il segno del littorio sul corso degli eventi. Nella visione di questo assurdo esperimento si riassume il significato e la funzione che il fascismo attribuiva alla sacralizzazione della politica. E per realizzare il suo esperimento totalitario, rigenerare il carattere degli italiani e creare un «italiano nuovo» integralmente fascista, il regime non esitò ad entrare in conflitto con la Chiesa, come accadde prima della Conciliazione e subito dopo questa, e ancora, successivamente, nel 1931 e nel 1938. Il motivo del conflitto fu sempre lo stesso: lo Stato fascista rivendicava il monopolio dell'educazione delle nuove generazioni, come di tutta la collettività, secondo i valori della propria etica nazionalista e guerriera, e non ammetteva condizionamenti e limiti alla totale fedeltà e dedizione dei cittadini verso lo Stato (120).

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