Zona grigia (Vincenzo Vinciguerra)
Opera, 2 marzo 2012
La verità l’aveva intuita uno scrittore che non era uno storico, anzi era una singolare figura di artista che aveva aderito al Partito Comunista Italiano pur conservando il ricordo del fratello, Guido, partigiano della brigata “Osoppo”, ucciso a Porzus il 7 febbraio 1945, dai partigiani comunisti della brigata “Garibaldi”: Pier Paolo Pasolini.
Il 10 giugno 1974, sulle pagine de “Il Corriere della sera”, in un articolo intitolato “Gli italiani non sono più quelli”, Pier Paolo Pasolini scriveva:
“Il fascismo delle stragi è dunque un fascismo nominale, senza un’ideologia propria e, inoltre, artificiale: esso è cioè voluto da quel Potere, che dopo aver liquidato, sempre pragmaticamente, il fascismo tradizionale e la Chiesa, ha poi deciso di mantenere in vita delle forze da opporre – secondo una strategia mafiosa e da Commissariato di pubblica sicurezza – all’eversione comunista”.
Se Pier Paolo Pasolini attribuiva lucidamente al potere la responsabilità del ”fascismo delle stragi”, la storia dimostra che, fin dalle sue origini, quello che è stato definito il “neo-fascismo”, in realtà, è stato creato dallo stesso potere che lo ha utilizzato per i propri fini in veste di alleato, oppositore, nemico secondo le convenienze del momento.
È storia ancora non scritta quella delle origini del Movimento sociale italiano, ritenuto il simbolo del presunto “neo-fascismo” post-bellico.
È storia che nessuno vuole scrivere perché essa, quando conosciuta, fa crollare certezze e luoghi comuni, leggende e miti creati ad arte nel corso dell’intero dopoguerra per rendere credibile che, negli anni Settanta, il “neo-fascismo” ha partorito quel nemico dello Stato e della democrazia che è stato definito “terrorismo nero”.
Per comprendere come quest’ultimo sia stato, in realtà, terrorismo di Stato e di regime non si deve iniziare a scrivere la sua tragica storia dalla data del convegno dell’Istituto “A. Pollio” sulla “guerra rivoluzionaria” del 3-5 maggio 1965, o dall’affissione dei “manifesti cinesi” ad opera dei militanti di Avanguardia nazionale per conto della divisione Affari riservati del ministero degli Interni il 5-6 gennaio 1966, né dalla data della strage di Piazza Fontana, a Milano, il 12 dicembre 1969.
Bisogna, viceversa, percorrere a ritroso la via che ha seguito fin dal suo sorgere quello che, ancora oggi, viene definito impropriamente “neofascismo”.
Per farlo, però, dobbiamo fare un breve cenno a quella che è stata l’esperienza della Repubblica sociale italiana di cui il Movimento sociale italiano si è, ufficialmente quanto strumentalmente, proclamato erede e continuatore ideale.
La Repubblica sociale italiana non è stata un blocco ideologico monolitico, al contrario ha raccolto sotto la sua bandiera, depurata dello stemma sabaudo, fascisti delusi dal regime, a-fascisti, antifascisti di estrazione liberale, come Concetto Pettinato, e comunista, come Nicola Bombacci.
Oggi l’onore non è più di moda, ma a quei tempi sia quello individuale che collettivo, nazionale, era avvertito dalla grande maggioranza degli italiani che vissero l’8 settembre 1943 come un momento di vergogna.
Lo testimonia un antifascista, Piero Calamandrei, che alla data del 10 settembre 1943, nel suo diario annota:
“Rimango sorpreso di sentire come è potente anche nella gente umile la vergogna dell’armistizio”.
Non è, pertanto, contrario al vero affermare che tanti, fra coloro che aderirono alla Rsi, non erano fascisti e che, nel dopoguerra, conservarono la loro libertà di scegliere in quali partiti politici militare senza nulla dovere rinnegare.
Su quanti, viceversa, erano e si sentivano fascisti, la Repubblica sociale ebbe un’influenza decisiva nell’indirizzarli verso una battaglia ad oltranza contro il capitalismo e la borghesia.
Protesi a liberarsi dall’eredità del Ventennio, della sua retorica, dei suoi compromessi, i fascisti repubblicani riscoprono quelle origini socialiste che erano state dimenticate ma mai ripudiate, così che si collocano decisamente a sinistra individuando nella destra il nemico da combattere e da sconfiggere, nel presente e nel futuro.
È una realtà storica inconfutabile che l’ultimo fascismo, il fascismo combattente legionario, si colloca a sinistra e non a destra o al centro.
Il 17 settembre 1943, in un discorso radiofonico alla Nazione, il segretario del Partito fascista repubblicano, Alessandro Pavolini, afferma che questo “sarà soprattutto un partito di lavoratori, partito proletario, animatore di un nuovo ciclo sociale, senza più remore plutocratiche”.
È all’Italia “proletaria e fascista” che Benito Mussolini si rivolge per proseguire la guerra al fianco dell’alleato germanico divenuto, per ragioni evidenti, il reale detentore del potere.
Così, il 5 novembre 1943, ancora Alessandro Pavolini dispone che siano costituite squadre di polizia che indossino come uniforme “la camicia nera, la tuta blu scura dell’operaio”.
A sua volta, il 15 novembre 1943, il segretario dell’Unione provinciale dei lavoratori dell’industria di Milano, Secondo Amadio, afferma:
“Occorre una buona volta a parlare chiaramente di fallimento del sistema capitalistico e non di generica lotta alla plutocrazia… La demagogia ostentata da numerosi industriali italiani conferma che il sistema capitalistico è maturo per essere soppiantato da un sistema più sano…”.
I fascisti non accettano di essere collocati dagli avversari a destra laddove, tradizionalmente, sono ubicate le forze della reazione e della borghesia.
Il trentun ottobre 1944, un rapporto informativo inviato a Benito Mussolini, riferito a un articolo pubblicato da “Il Terzo Fronte”, segnala la presenza in esso di un errore che, scrive l’estensore, “potrebbe definirsi classico”: quello di scambiare “il fascismo con un movimento di destra”.
E se l’errore viene segnalato direttamente al fondatore e capo del fascismo, coloro che nel dopoguerra hanno ritenuto coerente la scelta di collocarsi alla destra dello schieramento politico da parte dei dirigenti del Movimento sociale italiano, dovrebbero per onestà intellettuale rivedere le loro posizioni.
La destra è, per il fascismo repubblicano, il nemico.
Il 22 aprile 1945, a Milano, su “Repubblica fascista”, Enzo Pezzato scriveva:
“Il Duce ha chiamato la Repubblica italiana sociale non per gioco; i nostri programmi sono decisamente rivoluzionari; le nostre idee appartengono a quelle che in regime democratico si chiamerebbero ‘di sinistra’… Il nostro ideale è lo Stato del lavoro. Su ciò non può esservi dubbio; noi siamo i proletari in lotta, per la vita e per la morte. Siamo i rivoluzionari alla ricerca di un ordine nuovo… Lo spauracchio vero, il pericolo autentico, la minaccia contro cui lottiamo senza sosta viene da destra”.
Non erano parole vane.
La legge sulla socializzazione delle imprese non si prestava a favorire gli industriali, la co-gestione delle imprese, la parità fra capitale e lavoro erano e sono proposte che minano, quando attuate, la stabilità e l’esistenza del sistema capitalistico.
Con queste idee e questi convincimenti, l’incognita per i partiti antifascisti, dopo la fine della guerra, era quella di vedere dove si sarebbero collocati centinaia di migliaia di fascisti che, inevitabilmente, sarebbero stati riassorbiti nel tessuto sociale della Nazione, avrebbero riacquistato i loro diritti civili e politici, avrebbero pertanto assunto un ruolo significativo nella vita del Paese.
Le idee e le premesse indicavano che i fascisti si sarebbero posti a sinistra.
Le avvisaglie non mancavano.
Il 17 giugno 1944, a Firenze, sull’ultimo numero di “Italia e civiltà”, nella rubrica “Cantiere”, in un articolo a firma di “Impresa”, si scrive:
“E sappiano finalmente Roosevelt e Churchill, e tutti i loro compari, che i fascisti più consapevoli, i quali hanno sempre riconosciuto nel comunismo la sola forza viva contraria alla propria, non tanto nella Russia quanto nella plutocratica Inghilterra e nella plutocratica America hanno individuato il vero nemico. Sempre essi hanno sentito di discordare, sì, dai comunisti su molti punti, ma anche di concordare su ciò che non vogliono. Vale a dire, noi e i comunisti concordiamo nel non volere più, né gli uni né gli altri, la vecchia società liberale, borghese e capitalistica. E sappiano anche, i Roosevelt, i Churchill e i loro compari, che quando la vittoria non toccasse al Tripartito, i più dei fascisti veri che scampassero al flagello passerebbero al comunismo, con esso farebbero blocco. Sarebbe allora varcato il fosso che oggi separa le due rivoluzioni. Avverrebbe tra esse uno scambio e un’influenza reciproca, fino alla fatale armonica fusione”.
Nel dopoguerra, infatti, saranno decine di migliaia i fascisti che confluiranno nei Partiti comunista e socialista, mentre i sindacalisti fascisti costituiranno i quadri della Cgil.
A sinistra, infine, guarda lo stesso Benito Mussolini.
Il 22 aprile 1945, il Duce consegna personalmente all’esponente socialista Carlo Silvestri una lista di fascisti che “egli considera idealmente e sostanzialmente socialisti e che raccomanda” perché siano difesi dinanzi al Comitati di liberazione nazionale, e per i quali lo stesso Silvestri avrebbe potuto rendersi garante nel caso che avessero richiesto l’iscrizione al Partito socialista di unità proletaria (Psiup), diretto da Pietro Nenni.
Certo, i massacri della primavera del 1945, lo stillicidio di omicidi di reduci repubblicani rientrati dalla prigionia, scaveranno un solco profondo fra tanti fascisti ed i comunisti ma, poiché i partigiani delle formazioni anticomuniste non si comporteranno in modo diverso e migliore, la grande maggioranza dei fascisti continua a guardare a sinistra con grande disappunto e viva preoccupazione degli esponenti anticomunisti.
La leggenda, creata a posteriori, di Pino Romualdi, ex vicesegretario nazionale del Pfr, che ottiene un’attenuazione della persecuzione contro i fascisti vantandosi di controllare una forza di migliaia di uomini in armi pronti a tutto, non regge all’esame della storia.
Tutte le forze politiche, in realtà, si pongono il problema del recupero politico dei fascisti.
In un Paese in cui sono ancora presenti le armate alleate, non è la paura dei fascisti in armi ma la ricerca del loro consenso, che in una democrazia parlamentare si traduce in voti, quello che tutti i partiti politici aspirano ad ottenere da quanti sono ancora di idee e sentimenti fascisti.
Per questa ragione, è il socialista Pietro Nenni che si incarica di liquidare l’Alto commissariato per l’epurazione.
Non è trascorso un anno dalla fine della guerra che, l’8 aprile 1946, Pietro Nenni può dichiarare all’agenzia Ansa:
“L’epurazione ha avuto termine il 31 marzo nelle province centrali e meridionali mentre, per quanto riguarda le province settentrionali, il termine di scadenza è stato prorogato, su richiesta dei delegati dell’alto commissariato… al 30 aprile… Non si prevede di concedere ulteriori proroghe”.
I fascisti sono di sinistra e, come Pietro Nenni sa, sono decisamente repubblicani e la data delle elezioni referendarie è ormai prossima.
A mettere la firma sul più famoso decreto di amnistia della storia d’Italia è il comunista Palmiro Togliatti, il 22 giugno 1946, nella sua veste di ministro di Grazia e giustizia.
Il provvedimento rimetterà in libertà migliaia di fascisti, e Palmiro Togliatti dovrà affrontare le critiche durissime della base e degli ex partigiani, ma il fine giustifica il mezzo.
Se la sinistra si attiva per recuperare i giovani reduci della Repubblica sociale, nutriti di ideali e sentimenti anti-borghesi e anticapitalisti, le forze anticomuniste predispongono le adeguate contromisure.
La guerra fredda, nel 1946, è già iniziata.
Il 22 febbraio 1946, da Mosca, l’incaricato d’affari americano George Kennan, invia al segretario di Stato, James Byrnes, un rapporto redatto in forma telegrafica di ottomila parole, nel quale denuncia la minaccia rappresentata dall’Unione sovietica e dal comunismo per gli interessi e la sicurezza degli Stati Uniti.
Il 5 marzo 1946, tocca al segretario alla Difesa,, James Forrestal redigere insieme al suo segretario particolare, Max Leva, un memoriale che, dopo averlo sottoposto all’esame del consigliere presidenziale Clarck Clifford, invia al presidente Harrry Truman.
In esso, Forrestal denuncia “l’esistenza di una seria, immediata e straordinariamente grave minaccia alla sopravvivenza del nostro Paese”; afferma che “il pericolo attuale davanti al quale si trova il Paese è grande almeno quanto quello che dovemmo fronteggiare durante la guerra con la Germania e il Giappone”; ricorda che “dei campi strategici della presente battaglia abbiamo già perduto la Polonia, la Jugoslavia, la Romania, la Bulgaria e un gran numero di altri Paesi; dopo la Grecia potrebbero seguire l’Italia, la Gran Bretagna, il Sud America e il nostro stesso Paese”; conclude rilevando che “questo Paese non può permettersi il lusso ingannevole di una guerra difensiva. Come avvenne per la guerra del 1941-1945, la nostra vittoria e la nostra sopravvivenza dipendono esclusivamente da come e da dove attaccheremo”.
Lo stesso giorno, a Fulthon, mutuando una definizione del ministro della propaganda del Terzo Reich, Joseph Goebbels, Winston Churchill denuncia che da Stettino a Trieste è calata una “cortina di ferro” che divide in due l’Europa.
Le democrazie anglo-sassoni riprendono, quindi, le armi, stavolta contro l’ex alleato sovietico, che usa il comunismo come arma contro la loro leadership in Occidente.
Il primo campo di battaglia sul quale Stati Uniti ed Unione sovietica si affrontano è l’Europa, in particolare due Nazioni, Italia e Francia, che hanno un problema comune che le rende particolarmente vulnerabili all’attacco comunista.
Un problema che affonda le sue radici nel loro recentissimo passato, rappresentato dalla frattura verticale nella società e nelle Forze armate derivata dall’adesione di milioni di cittadini alla battaglia della Germania nazionalsocialista.
La Francia, difatti, ha avuto la Repubblica di Vichy, guidata dal maresciallo Philippe Pétain, e l’Italia ha vissuto l’esperienza della Repubblica di Salò diretta da Benito Mussolini.
In entrambe le Nazioni, il problema politico, sociale e militare che rappresentano non si può risolvere solo nel campo penale, con epurazioni, condanne alla reclusione e fucilazioni, e di questo sono consapevoli i governi dei due Paesi ed i loro alleati che cercheranno di risolverlo con identiche soluzioni che facilitino la ricostruzione, non solo materiale, del tessuto unitario che la contrapposizione determinatasi durante la guerra ha lacerato.
Inoltre, la frattura ha riguardato in modo massiccio le Forze armate ed i corpi di polizia senza il cui apporto uno Stato non può esistere.
È necessario, pertanto, ristabilire come primo obiettivo l’unità delle Forze armate.
Per prima cosa è giocoforza scindere le responsabilità di quanti hanno fatto parte delle Forze armate regolari della Repubblica sociale agli ordini del maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, da quanti hanno, viceversa, militato nelle formazioni combattenti del Partito fascista repubblicano.
Ai primi viene, di conseguenza, riconosciuto lo status di prigionieri di guerra protetti dalla Convenzione di Ginevra, i secondi sono considerati dei fuorilegge sui quali si può abbattere la scure dei tribunali del popolo, di quelli straordinari e, infine, ordinari.
Inizia, in questo modo, con il decisivo apporto della magistratura che nelle sue sentenze si premura di distinguere fra Forze armate regolari e Brigate nere, ritenendo gli ufficiali delle prime non imputabili di “collaborazionismo” con i tedeschi, a configurarsi l’immagine della “Salò tricolore”, distinta se non proprio contrapposta a quella della “Salò nera”.
La prima formata dai militari che per amor di Patria e senso dell’onore hanno formalmente aderito alla Rsi, la seconda dai fascisti che vi hanno militato per convinzione ideologica. Nel tempo, la “Salò tricolore” sarà ampliata fino a comprendere tutti coloro che, civili, dichiareranno di avere aderito loro malgrado alla Rsi per frenare l’ira germanica, limitare i danni all’apparato economico e produttivo dell’Italia, aiutare le formazioni partigiane o per malinteso senso dell’onore ritenendo preminente il rispetto dell’alleanza con la Germania che non il giuramento fatto a Vittorio Emanuele III.
Ultimo in ordine di tempo ad arruolarsi, con quasi un trentennio di ritardo nelle file della “Salò tricolore” sarà il segretario nazionale del Movimento sociale italiano-Destra nazionale Giorgio Almirante che in un libro autobiografico, edito nei primi anni Settanta, rivelerà di aver aderito alla Rsi dopo aver ascoltato l’appello in tal senso lanciato dal maresciallo Rodolfo Graziani, nel suo discorso al teatro Adriano di Roma il 1° ottobre 1943, escludendo in tal modo di aver compiuto una scelta ideologica.
La “Salò tricolore” è la versione italiana della tesi francese dello scudo e della spada, ovvero della Repubblica di Vichy che sotto il comando del maresciallo Philippe Pétain protegge la Francia dalla brutalità ed invadenza germaniche operando come uno scudo mentre la “France libre” agli ordini del generale Charles de Gaulle si configura come la spada che trafigge gli invasori.
Il fine unico, pertanto, degli appartenenti alla “Salò tricolore” in Italia, e allo “scudo” in Francia è la difesa della patria in sintonia con le forze della Resistenza.
La frattura, determinatasi l’8 settembre 1943, all’interno delle Forze armate può quindi essere ricomposta riconoscendo sia a coloro che hanno combattuto sotto la bandiera della Rsi che a quanti hanno militato sotto quella del Regno del Sud il fine ultimo della difesa della Patria oppressa dall’invasore germanico.
L’uomo simbolo della “Salò tricolore”, non ideologicamente fascista, è il principe Junio Valerio Borghese, Medaglia d’oro al V. M., comandante fino all’8 settembre 1943 della X^ Flottiglia mas, poi della divisione di fanteria di marina Decima.
Nel gennaio del 1946, il contrammiraglio B. Inglis, capo del servizio segreto navale della Marina americana, nel bollettino riservato agli ufficiali della U.S. Navy security of the O.n.i. Review, riferendosi agli uomini della Decima, scriveva:
“Quello che è certo è che essi non furono favorevoli agli alleati; ma sarebbe scorretto affermare che essi furono delle formazioni più favorevoli ai tedeschi e più filofasciste delle forze armate italiane. La maggior parte di essi sentì che l’armistizio era stato un vergognoso tradimento al suo alleato da parte del re e di Badoglio e decisero di ‘redimere l’onore d’Italia’ ”.
È il riconoscimento ufficiale, sebbene espressa in forma riservata, che l’adesione alla Repubblica sociale italiana non rende inevitabilmente nemici degli Alleati tutti coloro che l’hanno compiuta e che esistono, pertanto, due mondi diversi all’interno di uno Stato di fatto, come quello fascista repubblicano, uno da assolvere l’altro da condannare.
Junio Valerio Borghese ed i suoi ufficiali la stima degli Alleati, in modo specifico degli americani, se la sono guadagnata sul campo conducendo uno spregiudicato doppio, triplice gioco condotto con gli stessi Alleati, con i partigiani della brigata “Osoppo-Friuli” e delle brigate socialiste “Matteotti” al comando di Corrado Bonfantini, con i tedeschi che li lasciano fare perché già meditano il tradimento nei confronti di Benito Mussolini e dei fascisti.
Arrestato dai fascisti nel mese di gennaio del 1944, ma rimesso in libertà da Benito Mussolini, che non lo stima, perché la divisione di fanteria Decima è ormai una realtà combattente che non si può cancellare dagli organici militari della Rsi, Junio Valerio Borghese si prepara ad affrontare nel dopoguerra, ormai prossimo, l’unico nemico che egli ritiene tale: il comunismo.
Al comando del battaglione “Vega”, il più ermetico fra i reparti della Decima perché prepara i commandos ed i sabotatori destinati ad operare nelle retrovie alleate, il principe Junio Valerio Borghese ha posto il tenente di vascello Mario Rossi che lavora per gli Alleati, tanto è vero che il 25 aprile 1945 costui torna a casa propria a Genova senza mai essere ricercato da alcuna forza di polizia, italiana o alleata che sia.
Ed è proprio il tenente di vascello Mario Rossi che, nel corso di una conversazione, nel mese di febbraio del1945 spiega al marò Elio Cucchiara che poi la riferirà agli Alleati nel corso del suo interrogatorio, quale sarà la condotta della Decima e quali i propositi del suo comandante al termine delle ostilità.
Rossi spiega al suo subalterno che, alla fine della guerra, i reduci disoccupati, “se non fossero stati presi per mano, sarebbero stati fortemente attirati dal movimento comunista. Per evitare una tale eventualità era necessario creare un’organizzazione che potesse unire e guidare questo personale ex militare…La X flottiglia Mas doveva così creare una centralizzata ed organizzata organizzazione in tutta Italia con lo scopo primario di combattere il comunismo in particolare, e il fascismo, di sostenere un partito politico di centro e della destra. L’organizzazione non doveva costituire di per sé un partito… Il movimento si doveva organizzare durante l’occupazione degli alleati, non doveva iniziare la sua attività fino alla partenza degli alleati…”.
È, purtroppo, nel costume italico che mentre i gregari muoiono i capi scappino. Borghese non fa eccezione. Dopo essersi rifugiato a casa di un partigiano socialista, il comandante della Decima, il 12 maggio 1945, viene prelevato a Milano da James Jesus Angleton e dal commissario di Ps, Umberto Federico d’Amato, che su una jeep con indosso la divisa americana lo portano a Roma dove, qualche giorno dopo, sarà rinchiuso nel carcere per ospiti di riguardo allestito a Cinecittà, a disposizione delle autorità alleate.
Dall’interno del carcere, Junio Valerio Borghese continua a dirigere i propri uomini, molti dei quali già passati alle dipendenze degli alleati per le loro competenze tecniche e per la loro affidabilità politica.
Figura preminente fra gli ufficiali della Decima, ufficialmente latitante perché evaso da un campo di concentramento, è l’ex comandante del battaglione “Nuotatori paracadutisti” (N.p.), Nino Buttazzoni, che può essere considerato l’alter ego di Borghese in libertà, difatti il 4 aprile 1946 fa pervenire alla intelligence americana “un rapporto dattiloscritto intitolato ‘Riassunto della situazione generale al 1 aprile 1946′ “, nel quale rivela di essere in permanente contatto con Junio Valerio Borghese ora detenuto nel carcere di Procida.
Il 10 aprile 1946, l’agente dell’X-2, unità dell’intelligence americana diretta da James Jesus Angleton, redige un rapporto su “Il movimento neofascista” redatto sulla base delle informazioni fornite dalla “fonte Nino Buttazzoni, ex capitano della Decima Mas”.
Si rileva che fin dall’inizio il termine “neofascismo” è utilizzato in modo improprio o, per meglio dire, totalmente errato perché Junio Valerio Borghese, Nino Buttazzoni ed i loro commilitoni non sono stati fascisti e non potrebbero essere definiti “neofascisti” sotto il profilo ideologico.
Difatti, gli uomini della “Salò tricolore” e militare, coerenti con le loro idee conservatrici e reazionarie, vedono nel solo comunismo il nemico da combattere e chiedono che sia loro concesso di poterlo fare.
“Miss Queen”, infatti, rileva che “nei loro rapporti Buttazzoni ed il suo movimento sostengono che i comunisti, e quindi la Russia, stanno assumendo il controllo dell’Italia. I neofascisti sono un forte baluardo contro il comunismo. Di conseguenza dovrebbe essere loro consentito di fornire un contributo alla sconfitta del comunismo”.
L’anticomunismo rappresenta, pertanto, l’unica leva che questi gruppi ritengono di avere per scardinare le barriere innalzate dall’antifascismo e rientrare nell’agone politico, non come portatori di idee ma come gregari disposti a combattere contro il comunismo.
Distanti anni luce dall’ideologia fascista, Borghese, Buttazzoni ed i loro commilitoni, si rivolgono alla “plutocratica America”, patria del capitalismo, perché divenga la protettrice della nuova Italia.
“È interesse degli Stati Uniti – sostengono – che l’Italia torni ad essere una nazione forte; un’Italia forte può diventare un’ottima fonte di investimenti per gli Stati Uniti; l’Italia può diventare una base mediterranea per gli Stati Uniti nella loro lotta contro l’Inghilterra e la Russia”.
L’onore d’Italia è ormai dimenticato. Qui si offre una meretrice di cui si vantano qualità e prestazioni.
Gli stessi concetti, Nino Buttazzoni ed i suoi collaboratori li hanno espressi in un documento inviato, nel mese di febbraio, a Pio XII il cui sostegno è ritenuto, a ragione, decisivo per il loro reingresso nella vita politica del Paese.
L’azione sviluppata dagli uomini della Salò militare e “tricolore”, benché discutibile sul piano etico, non si presta a critiche sul piano della coerenza, perché Junio Valerio Borghese ed i suoi commilitoni non sono mai stati ideologicamente fascisti.
Dove, viceversa, è possibile vedere il tradimento del proprio patrimonio ideale è sul versante di quella che è definita la “Salò nera”, quella cioè per la quale il binomio fascismo-Italia era indissolubile e gli interessi del primo coincidevano con quelli della seconda, quella della “guerra del sangue contro l’oro”, quella che vedeva nel capitalismo e nella borghesia i nemici da combattere e da sconfiggere.
Su questo versante, come capo e promotore di un’operazione che ricalca quella di Junio Valerio Borghese e dei suoi uomini, si pone il vicesegretario del Partito fascista repubblicano, Pino Romualdi.
Anche se non sono state offerte prove decisive in proposito, è credibile che Pino Romualdi si sia posto al servizio dell’Oss americano già nel corso del conflitto.
Certo è che gli americani fanno leva proprio su di lui per indurre alla resa, il 26 aprile 1945, a Como, cinquemila fascisti in armi che avrebbero potuto – e forse dovuto – ricongiungersi con gli esponenti del governo della Rsi e con Benito Mussolini che viaggiavano, con scorta tedesca, a pochi chilometri di distanza.
Per Pino Romualdi, nella sua veste di vicesegretario del Pfr, gli ordini emanati dal Clnai prevedono la fucilazione sul posto, ma gli americani e gli uomini del servizio segreto militare italiano gli salvano la vita non rivelando ai partigiani la sua identità e lo lasciano libero di scomparire in una latitanza che vale per le Questure ma non per loro.
Ancor più di Junio Valerio Borghese, la figura di Pino Romualdi è centrale e decisiva nell’impedire a tanti reduci della Rsi di confluire nei partiti di sinistra e di attestarsi, viceversa, sulla trincea dell’anticomunismo più intransigente.
Il tradimento ideologico e politico di Pino Romualdi è palese, scritto in un articolo non firmato ma redatto da lui, pubblicato sul primo numero del giornale clandestino dei Fasci di azione rivoluzionaria (Far) che, a dispetto del nome, sono finanziati dai servizi segreti americani.
Benito Mussolini, nella sua ultima intervista, aveva esplicitamente affermato che “la rovina dell’Italia è stata la sua borghesia”. Nel mese di luglio del 1946, l’ex vice segretario del Partito fascista repubblicano, custode ed erede dell’ortodossia fascista e mussoliniana, detta viceversa le linee di un’azione politica da parte dei reduci della Rsi che verte sull’acquisizione di meriti dinanzi alla borghesia, vera detentrice del potere in Italia.
“La lotta politica in Italia – scrive Romualdi – non si potrà più mantenere sul piano parlamentare, ma trascenderà in disordini di piazza, in violenze e in una tensione generale. Le forze di destra che hanno per caratteristica distintiva una vigliaccheria congenita, unita a una sacrosanta paura di perdere i loro privilegi, saranno alla ricerca disperata di una forza qualunque, capace di fronteggiare validamente l’estrema sinistra.
Quello sarà il nostro momento.
Si tratta insomma di creare nel Paese una psicosi anticomunista tale da costringere tutti i partiti ad appoggiare il Fascismo come il più dinamico dei movimenti anticomunisti, così come già fecero i comunisti creando una psicosi antifascista tale da costringere tutti gli antifascisti, anche se di destra, ad appoggiare il comunismo come il più dinamico dei movimenti antifascisti. Come nell’aprile dello scorso anno, la massa d’urto dell’antifascismo era costituita dalle squadre socialcomuniste che – pur destando preoccupazione nella maggioranza anticomunista degli italiani – erano tuttavia appoggiate in odio al Fascismo, così quando il nostro momento sarà giunto, il Fascismo dovrà fungere da massa d’urto dell’anticomunismo e la maggioranza degli italiani – anche se non fascista – ci appoggerà per odio al comunismo”.
Nessuno, fino ad oggi, ha riconosciuto in questa prosa contorta e mendace la strategia che ha portato il cosiddetto “neofascismo” italiano a porsi come il braccio violento dell’anticomunismo politico e di Stato nella speranza che la gratitudine delle forze che lo componevano avrebbe, un giorno, consentito ai suoi esponenti di entrare nelle stanze del potere con compiti dirigenziali di primo piano.
Poche righe nella quale è racchiusa la tragedia di un mondo politico e del Paese in questo secondo dopoguerra, sufficiente per trasformare una forza anti-borghese per storia ed ideologia, nella “guardia bianca” della borghesia e del capitalismo.
Una strategia che la mancanza di un ricambio generazionale alla guida del movimento “neofascista” ha permesso di ribadire al suo ideatore ed ai suoi complici politici per tutto il dopoguerra.
Pino Romualdi resterà sempre al vertice del Movimento sociale italiano, il quale sarà guidato da tre uomini: Giorgio Almirante, primo ed ultimo segretario nazionale, Augusto de Marsanich ed Arturo Michelini.
Tranne una breve parentesi che vedrà Pino Rauti rivestire la carica di segretario nazionale del Msi-Dn, toccherà al delfino di Giorgio Almirante, Gianfranco Fini concludere una parabola politica trasformando il “neofascismo” in antifascismo.
Il “neofascismo”, per quanti continueranno a ritenerlo tale, nella visione di Pino Romualdi e dei suoi colleghi di avventura rappresenta il ripudio del fascismo legionario e combattente del biennio 1943-45, e si ricollega all’esperienza del Ventennio fascista che si concluderà il 25 luglio 1943, debitamente rinnegata e condannata dal fascismo repubblicano.
I Romualdi, gli Almirante, i Michelini sono gli eredi e i continuatori ideali dei Grandi, dei Bottai, dei Federzoni che hanno interpretato il fascismo come una fazione al servizio della Monarchia e della borghesia di cui era stato necessario liberarsi quando si era posto contro le democrazie plutocratiche.
Non a caso, i dirigenti del Msi, già nei primissimi anni Cinquanta si alleeranno con i monarchici, fingendo di dimenticare il 25 luglio 1943 e l’8 settembre 1943.
Mentre, i “nazionalrivoluzionari” di Avanguardia nazionale, nel 1976, si faranno rappresentare dinanzi al Tribunale di Roma da Alfredo de Marsico, ex ministro di Grazia e giustizia durante il Ventennio, condannato a morte in contumacia dal Tribunale di Verona nel gennaio del 1944 perché considerato traditore del fascismo e del suo capo avendo votato, il 25 luglio 1943, nel corso della seduta del Gran Consiglio del fascismo, a favore dell’ordine del giorno presentato da Dino Grandi.
La malafede di Pino Romualdi è fuori discussione. La Seconda guerra mondiale è stata anche una guerra ideologica e il vicesegretario del Partito fascista repubblicano non poteva non saperlo nel luglio del 1946.
Non poteva, quindi, riproporre in buona fede, Pino Romualdi, ai reduci della Rsi la strategia mussoliniana del 1919-22, quando le squadre fasciste affrontarono nelle strade e nelle piazze italiane i “sovversivi” socialcomunisti fra il plauso e con il sostegno della borghesia e della monarchia.
Gli ”anni di piombo” del “neofascismo” italiano maturano in questo 1946, quando i suoi capi decidono che non ci sarà una rivincita ma solo un possibile ritorno ad una guida del Paese, condivisa con altre forze anticomuniste, reso possibile porsi al servizio, come armata mercenaria, della potenza egemone, gli Stati Uniti, e dei suoi alleati italiani.
Per portare avanti una strategia serve uno strumento che sia ad essa idoneo, un movimento politico guidato da uomini che siano capaci, per cinismo e spregiudicatezza, di condurre il necessario doppio-gioco finalizzato a traghettare i giovani giacobini, proletari ed anticlericali della Rsi sulla sponda della conservazione, politica ed economica della destra clericale e meramente anticomunista.
Mentre i rapporti di Junio Valerio Borghese, Nino Buttazzoni, Pino Romualdi e molti altri con i servizi segreti americani e italiani e con i politici democristiani sono coperti dal più assoluto riserbo, il lavoro preparatorio alla costituzione di un movimento politico è svolto, pubblicamente, da riviste e periodici che rivendicano apertamente le loro simpatie per il regime fascista.
Ricordiamo “Il Meridiano d’Italia”, rivista edita a Milano da Franco de Agazio, messo in galera a Firenze dai fascisti, che inizia le pubblicazioni il 3 febbraio 1946, anche se gli Alleati avevano dato l’autorizzazione alla stampa addirittura nel mese di agosto del 1945; segue “Rivolta ideale” che compare nelle edicole l’11 aprile 1946 e, via via, “Rosso e nero” che si dice di “sinistra”, il 27 luglio 1946, al quale segue il 10 agosto 1946, “Rataplan” diretto da Augusto de Marsanich e Nino Tripodi che, nel suo primo numero, condanna le leggi razziali emanate dal fascismo nel novembre del 1938.
Parallelo a questo fiorire di periodici “neofascisti” prosegue il lavoro sotterraneo per costituire un movimento politico di cui fa cenno il rapporto del servizio segreto americano del 10 aprile 1946 che riporta le notizie fornite da Nino Buttazzoni secondo il quale “all’inizio di marzo, il centro neofascista di Roma ha approvato una risoluzione per la creazione di un ampio partito: tra i suoi obiettivi, la guida delle forze anticomuniste e la ricostruzione dell’Italia”.
Un progetto eccessivamente ambizioso mentre del tutto fantasioso è quello riportato in un appunto della polizia l’8 maggio 1946, secondo il quale negli ambienti che fanno capo a Pino Romualdi si prospetta la possibilità che venga autorizzata l’attività legale “di un movimento che persegua l’affermazione della dottrina, dei principi e dell’etica del fascismo”.
Al di là della propaganda romualdiana, si ha comunque la conferma che si cerca uno strumento che consenta di radunare intorno ad un nome e ad un simbolo la massa dei reduci della Rsi da utilizzare nella battaglia anticomunista che passa, in questo momento storico, anche per la ricomposizione della frattura all’interno delle Forze armate e fra gli ex combattenti.
Il 26 settembre 1946, a Roma, è costituito il “Fronte dell’Italiano” che si presenta come “associazione” non come partito politico, e che costituisce l’embrione di quello che due mesi più tardi sarà il Movimento sociale italiano.
Moltissimo si è detto e si è scritto su questa formazione politica che inizialmente non nasce come partito tradizionale destinato a partecipare alle competizioni elettorali, bensì come movimento d’opinione destinato ad attrarre i reduci della RSI ma anche quelli che tornano dai campi di prigionia britannici, americani e francesi, pochi dei quali ben disposti nei confronti degli Alleati di cui hanno sperimentato la durezza e la crudeltà sui loro corpi.
Nel Movimento sociale italiano si è voluto vedere il risorgere di un partito neofascista, e nel suo simbolo – la fiamma tricolore – il segno della volontà di rivincita dei fascisti.
Nulla di più fuorviante.
Come abbiamo già visto Italia e Francia affrontano problemi comuni e i loro governi cercano soluzioni comuni, così che la creazione in Italia di un movimento politico capace di attrarre gli ex combattenti fino a farli ritrovare sotto una identica bandiera, quella italiana, senza aggettivi e senza distinzioni, non nasce nelle menti di Pino Romualdi, Junio Valerio Borghese o ad altri esponenti del reducismo repubblicano, ma è mutuato dalla storia politica della Francia anteguerra.
Nel 1928, a Parigi, Maurice Hanot fonda le “Croci di fuoco” che raggruppano gli ex combattenti decorati durante la guerra del 1914-18 ai quali si affiancano successivamente, dal 1929, i Briscards che sono reduci che hanno combattuto almeno per sei mesi al fronte.
Le Croci di fuoco non hanno un programma politico definito e si propongono di raccogliere i migliori fra gli ex combattenti con i quali formare una specie di ordine cavalleresco dedito all’educazione dei più giovani ed al culto del Patria.
L’organizzazione delle Croci di fuoco si sviluppa, con successo, nel giro di pochi anni e nel 1933 viene creato il “Raggruppamento nazionale” e, con esso, i “ Volontari nazionali” ai quali si possono iscrivere tutti senza condizioni.
Nell’ottobre del 1935, dal complesso di organizzazioni che ormai compongono le Croci di fuoco nasce il Movimento sociale francese che ha come simbolo una fiamma tricolore con i colori della bandiera francese e che verrà disciolto, il 18 giugno 1936, dal governo di Fronte popolare diretto dal socialista Leon Blum.
Le finalità del Movimento sociale italiano, all’atto della sua fondazione, il 26 dicembre 1946, non sono diverse da quelle delle Croci di fuoco originarie e del Movimento sociale francese di cui mutua nome e simbolo ma anche le denominazioni di due delle sue organizzazioni.
Difatti, l’organizzazione giovanile del Msi si chiamerà “Raggruppamento giovanile studenti e lavoratori”, mentre il suo servizio d’ordine prenderà il nome di “ Volontari nazionali”.
Insomma, il Movimento sociale italiano di italiano non ha nemmeno l’origine, che è francese, e non ha finalità politiche se non quelle, tali solo in senso lato, di riunire sotto il suo simbolo gli ex combattenti per sottrarli a quella sinistra socialcomunista alla quale la miseria, la disoccupazione, le sofferenze patite, potrebbero indirizzarli.
Non è ancora possibile conoscere i nomi di coloro che nella storia prebellica della Francia hanno trovato l’esempio da proporre nel dopoguerra italiano per costituire un movimento di reduci ed ex combattenti uniti dai ricordi del passato e dal sentimento nazionale, non certo dall’ideologia fascista.
Sappiamo, però, che nel mese di ottobre del 1946, a Roma, nell’ufficio di Arturo Michelini, si riunisce un gruppo eterogeneo di persone che valuta la possibilità di costituire un movimento politico.
All’incontro prendono parte: Arturo Michelini; Italo Formichella; Bruno Puccioni, legato a Pino Romualdi; Biagio Pace, Ezio Maria Gray; Nino Buttazzoni; Valerio Pignatelli; Giovanni Tonelli; il generale Muratori; Giorgio Pini; Francesco Galanti; Giorgio Bacchi; Gianluigi Gatti e il capo dell’ufficio stampa della Confindustria, Jacques Guiglia.
Fra i presenti, Arturo Michelini non ha mai aderito alla RSI; Biagio Pace ha svolto un ruolo di informatore a Roma della struttura clandestina dei reali carabinieri: Ezio Maria Gray è stato indicato come informatore dei servizi segreti segreti britannici; il generale Muratori, Bruno Puccioni, Valerio Pignatelli, Nino Buttazzoni è lo stesso Michelini sono in contatto con la struttura di intelligence americana diretta da James Jesus Angleton.
Il 3 dicembre 1946, sempre presso lo studio di Arturo Michelini è redatto il documento costitutivo del Movimento sociale italiano, sottoscritto da Pino Romualdi, Arturo Michelini, Giorgio Pini, Biagio Pace, Nino Buttazzoni, Giorgio Bacchi, Valerio Pignatelli, Ezio Maria Gray, Italo Carbone, Emilio Profeta Trigone, Giulio Cesco Baghino, Giovanni Tonelli, Ernesto De Marzio, Costantino Patrizi, Giacinto Trevisonno.
Il 26 dicembre 1946, la costituzione del Movimento sociale italiano è formalizzata con l’aggiunta di altri fondatori, oltre a quelli già citati: Bruno Puccioni, Roberto Mieville, Francesco Nicola Galante, Gianluigi Gatti, Nicola Foschini.
Gli unici elementi di spicco della Rsi sono Pino Romualdi, ufficialmente latitante, e Giorgio Pini, ex sottosegretario agli Interni; gli altri non hanno un passato degno di rilievo.
Il Movimento sociale italiano nasce avendo alle sue spalle la Democrazia cristiana con Guido Gonella, Achille Marazza (esponente di primo piano del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia e ricercato dalla Jugoslavia come ‘criminale di guerra’) e Giuseppe Caronia; i servizi segreti americani con James Jesus Angleton; il Vaticano con padre Felix Morlion e la “Pro-Deo”; la Confindustria, rappresentata da Jacques Guiglia.
Non c’è il fascismo.
Quanti si erano illusi di aver creato un movimento politico che avesse una propria politica se ne andranno nel giro di pochi anni, come Valerio Pignatelli, nel 1948, Giorgio Pini alcuni anni dopo, e lo stesso Nino Buttazzoni che si ritirerà dalla vita politica.
Del resto, in un Paese militarmente sconfitto, nel quale sono ancora presenti le truppe di occupazione alleate, la pretesa che si potesse ricostituire, sotto altra denominazione ed altro simbolo, un partito politico che rappresentasse il fascismo nelle idee e nella storia è appartenuta alla propaganda non alla verità storica.
Il Movimento sociale italiano nasce come prodotto di un’operazione condotta dall’anticomunismo nazionale ed internazionale, da forze politiche, militari e finanziarie che avvertono la necessità di raggruppare ed utilizzare per il proprio tornaconto migliaia di reduci della Rsi in previsione dello scontro frontale con i comunisti.
Il 13 dicembre 1946 Giorgio Pini annotava nel suo diario: “I grassi borghesi non sperano più di salvarsi facendo il doppio gioco e finanziando i sovversivi. Presi alla gola vorrebbero alimentare un nuovo squadrismo della vecchia impronta. Promettono soldi ma chiedono sangue!“.
il Movimento sociale italiano nasce anche per questa ragione: la difesa ad oltranza della destra “dalla congenita vigliaccheria”, di quella borghesia che Mussolini aveva definito la “rovina dell’Italia”.
Abbiamo visto la strategia delineata da Pino Romualdi nel luglio del 1946 che si fonda esclusivamente sulla certezza che porsi ad avanguardia contro il comunismo in difesa degli interessi della casta borghese risulterà, infine, determinante per ottenere il reingresso nel governo del Paese.
Abbiamo definito lo strumento di questa strategia, il Movimento sociale italiano, che si ispira ad un partito politico della destra francese composto principalmente da ex combattenti della Prima guerra mondiale senza alcun riferimento implicito od esplicito al fascismo repubblicano.
Vediamo ora, in estrema sintesi, chi sono stati gli uomini che hanno guidato il Movimento sociale italiano nel dopoguerra e, con esso, le organizzazioni della destra extra-parlamentare.
Arturo Michelini, lo abbiamo detto, non aderì alla Repubblica sociale italiana di cui si è, strumentalmente, eletto erede e difensore per racimolare i voti dei reduci e dei loro familiari.
Augusto de Marsanich, viceversa, nella Repubblica di Salò c’è stato con le stesse funzioni di dirigente industriale che aveva ricoperto durante il Ventennio, incarnando la figura rappresentativa di quella destra finanziaria ed economica che tanto aveva fatto contro il fascismo repubblicano lavorando per i tedeschi, da un lato, e finanziando i partigiani, dall’altro.
Giorgio Almirante, l’uomo simbolo del Movimento sociale italiano e del cosiddetto “neofascismo” post-bellico, merita di essere rivalutato dall’antifascismo non perché, come si pretende oggi, sia stato il fondatore della “destra moderna”, ma perché è il prototipo del “traditore” che riesce, con tante complicità inconfessabili, a presentarsi per una vita intera come l’espressione di una lealtà politica ed umana, ideologica e storica che non gli è mai appartenuta.
Giornalista, razzista, antisemita, combattente che non ha mai combattuto, Giorgio Almirante dopo l’8 settembre 1943 s’impiega presso il ministero della Cultura popolare guidato da Fernando Mezzasoma.
Nel dicembre del 1944, Gilberto Bernabei, capo dell’ufficio stampa del ministero fugge a Roma temendo, evidentemente, di essere arrestato dai tedeschi o dai fascisti per il suo doppio-gioco.
Bernabei è una di quelle figure che, nell’oscurità, lontane dai riflettori della stampa e della politica, hanno ricoperto un ruolo, spesso decisivo, in tante vicende drammatiche della storia italiana del dopoguerra.
Gilberto Bernabei è l’uomo di fiducia di Giulio Andreotti, quello che cura per lui i rapporti con gli ambienti militari, il suo consigliere più fidato ed ascoltato.
Giorgio Almirante è il suo successore nell’incarico di capo dell’ufficio stampa del ministero della Cultura popolare della Rsi.
Il 25 aprile 1945 Giorgio Almirante abbandona il suo ministro che sarà fucilato a Dongo tre giorni più tardi, il 28 aprile 1945, e si immerge nella clandestinità, favorito dal possesso di documenti falsi che gli aveva fornito un ebreo da lui protetto ed ospitato nei locali del ministero della Cultura popolare.
Un gesto di alta umanità, sembrerebbe, compiuto da un antisemita che si era ravveduto ma il fatto che costui abbia fornito a Giorgio Almirante documenti falsi per vivere in clandestinità prova che era in contatto con qualche struttura di intelligence alleata o italiana che fosse, perché non è credibile che un povero perseguitato potesse fare questo favore al suo protettore non trovandosi i documenti falsi agli angoli delle strade.
Non è una novità che radio clandestine in uso ad operatori delle missioni militari alleate al Nord o delle strutture di intelligence della Resistenza trasmettessero proprio dall’interno dei ministeri della Repubblica sociale, ritenuti luoghi sicuri e protetti dalle indagini condotte dai tedeschi.
È il caso del “ protetto” di Giorgio Almirante? Non lo sappiamo. Ma rimane incontrovertibile il fatto che il perseguitato è in grado di fornire ad Almirante la documentazione falsa che gli consentirà il 25 aprile di darsi alla latitanza.
Però, Giorgio Almirante non è un uomo braccato dai partigiani e dalle forze di polizia, anzi a suo carico non risulta che sia mai stato emesso un mandato di cattura, istruito un processo per “collaborazionismo”, emessa una condanna per la sua attività come capo dell’ufficio stampa del ministero della Cultura popolare.
Non ha ricoperto un incarico politico di primo piano, ma pur sempre svolto un ruolo ministeriale, ha firmato persino un bando nel quale si ammonivano i renitenti alla leva che sarebbero stati passati per le armi se non si fossero presentati, eppure nessuno lo cerca.
Per “collaborazionismo”, sono state condannate le dattilografe, le cuoche delle mense militari, le maestre elementari, che hanno conosciuto arresto, campo di concentramento o prigione e, infine, processi e condanne.
Il capo dell’ufficio stampa del ministero della Cultura popolare della Rsi, Giorgio Almirante invece non conosce nulla di tutto questo.
Nel luglio del 1946, Almirante scrive al Tribunale di Roma per chiedere gli venga applicato il decreto di amnistia promulgato 22 giugno 1946, in modo che “la pratica relativa alla mia attività fascista venga archiviata”.
Non si conosce la risposta del Tribunale, ma l’amnistia può essere applicata a chi ha subito un processo ed una condanna o, almeno, è imputato dinanzi a qualche Tribunale: non è il caso di Giorgio Almirante.
Anche nel suo libro autobiografico, edito negli anni Settanta, Giorgio Almirante non fa riferimento alcuno ad eventuali traversie giudiziarie successive al 25 aprile 1945, per la semplice ragione che non ce ne sono state.
Come il tenente di vascello Mario Rossi, comandante del battaglione “Vega” della divisione Decima, agente dei servizi di sicurezza alleata, anche Giorgio Almirante non viene cercato da nessuno perché non è processabile, non è imputabile per “collaborazionismo con il tedesco invasore”.
I casi di “doppio gioco” all’interno della Repubblica sociale italiana sono stati così numerosi da obbligare il governo presieduto da Ferruccio Parri ad emanare il 4 agosto 1945 un decreto-legge che garantisce la loro impunibilità.
Abbiamo chiesto più volte, dal sito Internet di “Marilena Grill”, agli estimatori di Giorgio Almirante di fornire le prove del processo che, per logica, costui avrebbe dovuto subire dopo la fine delle ostilità.
Dal mondo di destra ha risposto il silenzio, perché la documentazione processuale non esiste, perché l’uomo-simbolo del neofascismo italiano, lo stesso che ancora nel 1982, durante un congresso del suo partito gridava a Marco Pannella, “il fascismo è qui”, aveva tradito il fascismo ed i fascisti già durante la guerra.
Dopo una breve parentesi, sarà proprio Giorgio Almirante, riemerso dalla clandestinità, ad essere eletto segretario nazionale del Movimento sociale italiano perché un uomo ricattabile è più affidabile per i burattinai che lo controllano.
Insomma, il neo-fascismo italiano è stato guidato nel corso di quasi mezzo secolo da uomini che con il fascismo legionario e combattente non hanno mai avuto nulla a che fare, come Arturo Michelini e Augusto de Marsanich, o che lo hanno tradito, come Giorgio Almirante.
Junio Valerio Borghese, durante il biennio 1943-45 ha condotto una sua guerra personale e, dopo, è divenuto un agente dei servizi segreti americani.
Altri personaggi di rilievo hanno compiuto lo stesso cammino: Tullio Abelli, già ufficiale della Decima, destinato a divenire vicesegretario nazionale del Msi, nel 1946 aveva in tasca un documento che lo qualificava come informatore della 315 Fiel Security Section Intelligence Corps, a Torino; Mario Tedeschi era in contatto con la Questura di Roma già nel 1946; il fratello di Ernesto de Marzio, Giulio, lo ritroveremo fra i dirigenti della struttura Nato, “Pace e libertà”, nei primi anni Cinquanta; il fratello del segretario nazionale del Msi Augusto de Marsanich, Filippo farà parte della struttura Stay-behind, Franco Maria Servello nel 1945 scriveva su “Il Corriere di Salerno”, giornale promosso dagli americani, articoli contro i fascisti, la Repubblica sociale e Benito Mussolini.
Se neofascismo in Italia c’è stato, non si può dire che sia stato guidato da fascisti, ma da profittatori del fascismo che hanno ingannati i vivi e speculato sui morti per scopi che erano contrari all’ideologia fascista.
Coloro che ancora oggi sostengono che in Italia c’è stato il “terrorismo nero”, nelle sue versioni di “golpista” e “stragista” o di “spontaneista”, dovrebbero approfondire la storia del cosiddetto “neofascismo” prendendo in considerazione la strategia, le organizzazioni, gli uomini e le idee.
Si renderebbero conto, almeno coloro che sono intellettualmente onesti, che il “neo-fascismo” nel dopoguerra, a partire dai primi anni Cinquanta si è ispirato alle idee di Julius Evola che fascista non è mai stato.
Evola è stato un intellettuale che si è ispirato alla “rivoluzione conservatrice”, che ha espresso ammirazione per la Rsi solo perché ha saputo infondere uno “spirito legionario” nei suoi combattenti, considerando le idee ed i propositi sociali del fascismo come espressione di una rivoluzione plebea che minava alla base quell’ordine gerarchico ed aristocratico di cui egli era assertore.
Non è colpa di Julius Evola se certi suoi allievi hanno scambiato Angelo Izzo, il massacratore del Circeo, nel simbolo dell’uomo che si eleva al di sopra della morale comune e lo hanno esaltato nei loro scritti onorandosi di considerarlo un “camerata”.
Gli estimatori di un volgare violentatore ed uccisore di donne e di bambine, fra i quali dobbiamo ricordare Mario Tuti, Pierluigi Concutelli, Maurizio Murelli, Fabrizio Zani, sono il prodotto meschino e plebeo di idee che non sono fasciste, soprattutto non ne riflettono l’aspetto etico.
La storia del presunto “neofascismo” non può iniziare negli anni Sessanta o Settanta, ma dal momento stesso in cui muore il fascismo ma al potere antifascista servono i reduci del fascismo da usare contro il nuovo nemico, il comunismo.
Ed è la storia di inganni, menzogne, diversioni strategiche, disinformazione che va scritta, per la prima volta, in modo sereno ed oggettivo.
Si scoprirà, ad esempio, che la sigla utilizzata dai presunti “spontaneisti” dell’ultimo “neofascismo”, i Nuclei di azione rivoluzionaria (Nar) è mutuata dalla cellula dei Fasci di azione rivoluzionaria fondati, con i soldi e per gli interessi dei servizi segreti americani, da Pino Romualdi nel 1946.
È solo l’ultima conferma, in ordine di tempo, di un filo che attraversa tutta la storia del dopoguerra, e non è un “filo nero”, perché segna una zona grigia che ancora deve essere esplorata, illuminata, conosciuta anche se a questa ricerca si oppongono oggi i partiti politici, gli apparati dello Stato e, in prima fila, i “ neofascisti” divenuti antifascisti.
Già perché la strategia delineata da Pino Romualdi nel luglio del 1946 è stata fallimentare in ogni suo aspetto, specie in quello conclusivo: al governo gli eredi di Romualdi ed Almirante sono stati chiamati ma hanno pagato il piatto di lenticchie offerto loro dalla borghesia con il ripudio pubblico della loro storia e delle loro idee, proclamandosi fieri antifascisti.
Conclusione scontata della storia di piccoli uomini che non avevano ideali per i quali combattere e morire, ma solo desideravano di essere chiamati al lato di quanti sono i reali detentori del potere.
Storia di opportunisti e di arrampicatori sociali, una storia italiana che va scritta e fatta conoscere alle giovani generazioni che potranno chiudere un capitolo che non onora il Paese né il suo popolo.
Vincenzo Vinciguerra
La verità l’aveva intuita uno scrittore che non era uno storico, anzi era una singolare figura di artista che aveva aderito al Partito Comunista Italiano pur conservando il ricordo del fratello, Guido, partigiano della brigata “Osoppo”, ucciso a Porzus il 7 febbraio 1945, dai partigiani comunisti della brigata “Garibaldi”: Pier Paolo Pasolini.
Il 10 giugno 1974, sulle pagine de “Il Corriere della sera”, in un articolo intitolato “Gli italiani non sono più quelli”, Pier Paolo Pasolini scriveva:
“Il fascismo delle stragi è dunque un fascismo nominale, senza un’ideologia propria e, inoltre, artificiale: esso è cioè voluto da quel Potere, che dopo aver liquidato, sempre pragmaticamente, il fascismo tradizionale e la Chiesa, ha poi deciso di mantenere in vita delle forze da opporre – secondo una strategia mafiosa e da Commissariato di pubblica sicurezza – all’eversione comunista”.
Se Pier Paolo Pasolini attribuiva lucidamente al potere la responsabilità del ”fascismo delle stragi”, la storia dimostra che, fin dalle sue origini, quello che è stato definito il “neo-fascismo”, in realtà, è stato creato dallo stesso potere che lo ha utilizzato per i propri fini in veste di alleato, oppositore, nemico secondo le convenienze del momento.
È storia ancora non scritta quella delle origini del Movimento sociale italiano, ritenuto il simbolo del presunto “neo-fascismo” post-bellico.
È storia che nessuno vuole scrivere perché essa, quando conosciuta, fa crollare certezze e luoghi comuni, leggende e miti creati ad arte nel corso dell’intero dopoguerra per rendere credibile che, negli anni Settanta, il “neo-fascismo” ha partorito quel nemico dello Stato e della democrazia che è stato definito “terrorismo nero”.
Per comprendere come quest’ultimo sia stato, in realtà, terrorismo di Stato e di regime non si deve iniziare a scrivere la sua tragica storia dalla data del convegno dell’Istituto “A. Pollio” sulla “guerra rivoluzionaria” del 3-5 maggio 1965, o dall’affissione dei “manifesti cinesi” ad opera dei militanti di Avanguardia nazionale per conto della divisione Affari riservati del ministero degli Interni il 5-6 gennaio 1966, né dalla data della strage di Piazza Fontana, a Milano, il 12 dicembre 1969.
Bisogna, viceversa, percorrere a ritroso la via che ha seguito fin dal suo sorgere quello che, ancora oggi, viene definito impropriamente “neofascismo”.
Per farlo, però, dobbiamo fare un breve cenno a quella che è stata l’esperienza della Repubblica sociale italiana di cui il Movimento sociale italiano si è, ufficialmente quanto strumentalmente, proclamato erede e continuatore ideale.
La Repubblica sociale italiana non è stata un blocco ideologico monolitico, al contrario ha raccolto sotto la sua bandiera, depurata dello stemma sabaudo, fascisti delusi dal regime, a-fascisti, antifascisti di estrazione liberale, come Concetto Pettinato, e comunista, come Nicola Bombacci.
Oggi l’onore non è più di moda, ma a quei tempi sia quello individuale che collettivo, nazionale, era avvertito dalla grande maggioranza degli italiani che vissero l’8 settembre 1943 come un momento di vergogna.
Lo testimonia un antifascista, Piero Calamandrei, che alla data del 10 settembre 1943, nel suo diario annota:
“Rimango sorpreso di sentire come è potente anche nella gente umile la vergogna dell’armistizio”.
Non è, pertanto, contrario al vero affermare che tanti, fra coloro che aderirono alla Rsi, non erano fascisti e che, nel dopoguerra, conservarono la loro libertà di scegliere in quali partiti politici militare senza nulla dovere rinnegare.
Su quanti, viceversa, erano e si sentivano fascisti, la Repubblica sociale ebbe un’influenza decisiva nell’indirizzarli verso una battaglia ad oltranza contro il capitalismo e la borghesia.
Protesi a liberarsi dall’eredità del Ventennio, della sua retorica, dei suoi compromessi, i fascisti repubblicani riscoprono quelle origini socialiste che erano state dimenticate ma mai ripudiate, così che si collocano decisamente a sinistra individuando nella destra il nemico da combattere e da sconfiggere, nel presente e nel futuro.
È una realtà storica inconfutabile che l’ultimo fascismo, il fascismo combattente legionario, si colloca a sinistra e non a destra o al centro.
Il 17 settembre 1943, in un discorso radiofonico alla Nazione, il segretario del Partito fascista repubblicano, Alessandro Pavolini, afferma che questo “sarà soprattutto un partito di lavoratori, partito proletario, animatore di un nuovo ciclo sociale, senza più remore plutocratiche”.
È all’Italia “proletaria e fascista” che Benito Mussolini si rivolge per proseguire la guerra al fianco dell’alleato germanico divenuto, per ragioni evidenti, il reale detentore del potere.
Così, il 5 novembre 1943, ancora Alessandro Pavolini dispone che siano costituite squadre di polizia che indossino come uniforme “la camicia nera, la tuta blu scura dell’operaio”.
A sua volta, il 15 novembre 1943, il segretario dell’Unione provinciale dei lavoratori dell’industria di Milano, Secondo Amadio, afferma:
“Occorre una buona volta a parlare chiaramente di fallimento del sistema capitalistico e non di generica lotta alla plutocrazia… La demagogia ostentata da numerosi industriali italiani conferma che il sistema capitalistico è maturo per essere soppiantato da un sistema più sano…”.
I fascisti non accettano di essere collocati dagli avversari a destra laddove, tradizionalmente, sono ubicate le forze della reazione e della borghesia.
Il trentun ottobre 1944, un rapporto informativo inviato a Benito Mussolini, riferito a un articolo pubblicato da “Il Terzo Fronte”, segnala la presenza in esso di un errore che, scrive l’estensore, “potrebbe definirsi classico”: quello di scambiare “il fascismo con un movimento di destra”.
E se l’errore viene segnalato direttamente al fondatore e capo del fascismo, coloro che nel dopoguerra hanno ritenuto coerente la scelta di collocarsi alla destra dello schieramento politico da parte dei dirigenti del Movimento sociale italiano, dovrebbero per onestà intellettuale rivedere le loro posizioni.
La destra è, per il fascismo repubblicano, il nemico.
Il 22 aprile 1945, a Milano, su “Repubblica fascista”, Enzo Pezzato scriveva:
“Il Duce ha chiamato la Repubblica italiana sociale non per gioco; i nostri programmi sono decisamente rivoluzionari; le nostre idee appartengono a quelle che in regime democratico si chiamerebbero ‘di sinistra’… Il nostro ideale è lo Stato del lavoro. Su ciò non può esservi dubbio; noi siamo i proletari in lotta, per la vita e per la morte. Siamo i rivoluzionari alla ricerca di un ordine nuovo… Lo spauracchio vero, il pericolo autentico, la minaccia contro cui lottiamo senza sosta viene da destra”.
Non erano parole vane.
La legge sulla socializzazione delle imprese non si prestava a favorire gli industriali, la co-gestione delle imprese, la parità fra capitale e lavoro erano e sono proposte che minano, quando attuate, la stabilità e l’esistenza del sistema capitalistico.
Con queste idee e questi convincimenti, l’incognita per i partiti antifascisti, dopo la fine della guerra, era quella di vedere dove si sarebbero collocati centinaia di migliaia di fascisti che, inevitabilmente, sarebbero stati riassorbiti nel tessuto sociale della Nazione, avrebbero riacquistato i loro diritti civili e politici, avrebbero pertanto assunto un ruolo significativo nella vita del Paese.
Le idee e le premesse indicavano che i fascisti si sarebbero posti a sinistra.
Le avvisaglie non mancavano.
Il 17 giugno 1944, a Firenze, sull’ultimo numero di “Italia e civiltà”, nella rubrica “Cantiere”, in un articolo a firma di “Impresa”, si scrive:
“E sappiano finalmente Roosevelt e Churchill, e tutti i loro compari, che i fascisti più consapevoli, i quali hanno sempre riconosciuto nel comunismo la sola forza viva contraria alla propria, non tanto nella Russia quanto nella plutocratica Inghilterra e nella plutocratica America hanno individuato il vero nemico. Sempre essi hanno sentito di discordare, sì, dai comunisti su molti punti, ma anche di concordare su ciò che non vogliono. Vale a dire, noi e i comunisti concordiamo nel non volere più, né gli uni né gli altri, la vecchia società liberale, borghese e capitalistica. E sappiano anche, i Roosevelt, i Churchill e i loro compari, che quando la vittoria non toccasse al Tripartito, i più dei fascisti veri che scampassero al flagello passerebbero al comunismo, con esso farebbero blocco. Sarebbe allora varcato il fosso che oggi separa le due rivoluzioni. Avverrebbe tra esse uno scambio e un’influenza reciproca, fino alla fatale armonica fusione”.
Nel dopoguerra, infatti, saranno decine di migliaia i fascisti che confluiranno nei Partiti comunista e socialista, mentre i sindacalisti fascisti costituiranno i quadri della Cgil.
A sinistra, infine, guarda lo stesso Benito Mussolini.
Il 22 aprile 1945, il Duce consegna personalmente all’esponente socialista Carlo Silvestri una lista di fascisti che “egli considera idealmente e sostanzialmente socialisti e che raccomanda” perché siano difesi dinanzi al Comitati di liberazione nazionale, e per i quali lo stesso Silvestri avrebbe potuto rendersi garante nel caso che avessero richiesto l’iscrizione al Partito socialista di unità proletaria (Psiup), diretto da Pietro Nenni.
Certo, i massacri della primavera del 1945, lo stillicidio di omicidi di reduci repubblicani rientrati dalla prigionia, scaveranno un solco profondo fra tanti fascisti ed i comunisti ma, poiché i partigiani delle formazioni anticomuniste non si comporteranno in modo diverso e migliore, la grande maggioranza dei fascisti continua a guardare a sinistra con grande disappunto e viva preoccupazione degli esponenti anticomunisti.
La leggenda, creata a posteriori, di Pino Romualdi, ex vicesegretario nazionale del Pfr, che ottiene un’attenuazione della persecuzione contro i fascisti vantandosi di controllare una forza di migliaia di uomini in armi pronti a tutto, non regge all’esame della storia.
Tutte le forze politiche, in realtà, si pongono il problema del recupero politico dei fascisti.
In un Paese in cui sono ancora presenti le armate alleate, non è la paura dei fascisti in armi ma la ricerca del loro consenso, che in una democrazia parlamentare si traduce in voti, quello che tutti i partiti politici aspirano ad ottenere da quanti sono ancora di idee e sentimenti fascisti.
Per questa ragione, è il socialista Pietro Nenni che si incarica di liquidare l’Alto commissariato per l’epurazione.
Non è trascorso un anno dalla fine della guerra che, l’8 aprile 1946, Pietro Nenni può dichiarare all’agenzia Ansa:
“L’epurazione ha avuto termine il 31 marzo nelle province centrali e meridionali mentre, per quanto riguarda le province settentrionali, il termine di scadenza è stato prorogato, su richiesta dei delegati dell’alto commissariato… al 30 aprile… Non si prevede di concedere ulteriori proroghe”.
I fascisti sono di sinistra e, come Pietro Nenni sa, sono decisamente repubblicani e la data delle elezioni referendarie è ormai prossima.
A mettere la firma sul più famoso decreto di amnistia della storia d’Italia è il comunista Palmiro Togliatti, il 22 giugno 1946, nella sua veste di ministro di Grazia e giustizia.
Il provvedimento rimetterà in libertà migliaia di fascisti, e Palmiro Togliatti dovrà affrontare le critiche durissime della base e degli ex partigiani, ma il fine giustifica il mezzo.
Se la sinistra si attiva per recuperare i giovani reduci della Repubblica sociale, nutriti di ideali e sentimenti anti-borghesi e anticapitalisti, le forze anticomuniste predispongono le adeguate contromisure.
La guerra fredda, nel 1946, è già iniziata.
Il 22 febbraio 1946, da Mosca, l’incaricato d’affari americano George Kennan, invia al segretario di Stato, James Byrnes, un rapporto redatto in forma telegrafica di ottomila parole, nel quale denuncia la minaccia rappresentata dall’Unione sovietica e dal comunismo per gli interessi e la sicurezza degli Stati Uniti.
Il 5 marzo 1946, tocca al segretario alla Difesa,, James Forrestal redigere insieme al suo segretario particolare, Max Leva, un memoriale che, dopo averlo sottoposto all’esame del consigliere presidenziale Clarck Clifford, invia al presidente Harrry Truman.
In esso, Forrestal denuncia “l’esistenza di una seria, immediata e straordinariamente grave minaccia alla sopravvivenza del nostro Paese”; afferma che “il pericolo attuale davanti al quale si trova il Paese è grande almeno quanto quello che dovemmo fronteggiare durante la guerra con la Germania e il Giappone”; ricorda che “dei campi strategici della presente battaglia abbiamo già perduto la Polonia, la Jugoslavia, la Romania, la Bulgaria e un gran numero di altri Paesi; dopo la Grecia potrebbero seguire l’Italia, la Gran Bretagna, il Sud America e il nostro stesso Paese”; conclude rilevando che “questo Paese non può permettersi il lusso ingannevole di una guerra difensiva. Come avvenne per la guerra del 1941-1945, la nostra vittoria e la nostra sopravvivenza dipendono esclusivamente da come e da dove attaccheremo”.
Lo stesso giorno, a Fulthon, mutuando una definizione del ministro della propaganda del Terzo Reich, Joseph Goebbels, Winston Churchill denuncia che da Stettino a Trieste è calata una “cortina di ferro” che divide in due l’Europa.
Le democrazie anglo-sassoni riprendono, quindi, le armi, stavolta contro l’ex alleato sovietico, che usa il comunismo come arma contro la loro leadership in Occidente.
Il primo campo di battaglia sul quale Stati Uniti ed Unione sovietica si affrontano è l’Europa, in particolare due Nazioni, Italia e Francia, che hanno un problema comune che le rende particolarmente vulnerabili all’attacco comunista.
Un problema che affonda le sue radici nel loro recentissimo passato, rappresentato dalla frattura verticale nella società e nelle Forze armate derivata dall’adesione di milioni di cittadini alla battaglia della Germania nazionalsocialista.
La Francia, difatti, ha avuto la Repubblica di Vichy, guidata dal maresciallo Philippe Pétain, e l’Italia ha vissuto l’esperienza della Repubblica di Salò diretta da Benito Mussolini.
In entrambe le Nazioni, il problema politico, sociale e militare che rappresentano non si può risolvere solo nel campo penale, con epurazioni, condanne alla reclusione e fucilazioni, e di questo sono consapevoli i governi dei due Paesi ed i loro alleati che cercheranno di risolverlo con identiche soluzioni che facilitino la ricostruzione, non solo materiale, del tessuto unitario che la contrapposizione determinatasi durante la guerra ha lacerato.
Inoltre, la frattura ha riguardato in modo massiccio le Forze armate ed i corpi di polizia senza il cui apporto uno Stato non può esistere.
È necessario, pertanto, ristabilire come primo obiettivo l’unità delle Forze armate.
Per prima cosa è giocoforza scindere le responsabilità di quanti hanno fatto parte delle Forze armate regolari della Repubblica sociale agli ordini del maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, da quanti hanno, viceversa, militato nelle formazioni combattenti del Partito fascista repubblicano.
Ai primi viene, di conseguenza, riconosciuto lo status di prigionieri di guerra protetti dalla Convenzione di Ginevra, i secondi sono considerati dei fuorilegge sui quali si può abbattere la scure dei tribunali del popolo, di quelli straordinari e, infine, ordinari.
Inizia, in questo modo, con il decisivo apporto della magistratura che nelle sue sentenze si premura di distinguere fra Forze armate regolari e Brigate nere, ritenendo gli ufficiali delle prime non imputabili di “collaborazionismo” con i tedeschi, a configurarsi l’immagine della “Salò tricolore”, distinta se non proprio contrapposta a quella della “Salò nera”.
La prima formata dai militari che per amor di Patria e senso dell’onore hanno formalmente aderito alla Rsi, la seconda dai fascisti che vi hanno militato per convinzione ideologica. Nel tempo, la “Salò tricolore” sarà ampliata fino a comprendere tutti coloro che, civili, dichiareranno di avere aderito loro malgrado alla Rsi per frenare l’ira germanica, limitare i danni all’apparato economico e produttivo dell’Italia, aiutare le formazioni partigiane o per malinteso senso dell’onore ritenendo preminente il rispetto dell’alleanza con la Germania che non il giuramento fatto a Vittorio Emanuele III.
Ultimo in ordine di tempo ad arruolarsi, con quasi un trentennio di ritardo nelle file della “Salò tricolore” sarà il segretario nazionale del Movimento sociale italiano-Destra nazionale Giorgio Almirante che in un libro autobiografico, edito nei primi anni Settanta, rivelerà di aver aderito alla Rsi dopo aver ascoltato l’appello in tal senso lanciato dal maresciallo Rodolfo Graziani, nel suo discorso al teatro Adriano di Roma il 1° ottobre 1943, escludendo in tal modo di aver compiuto una scelta ideologica.
La “Salò tricolore” è la versione italiana della tesi francese dello scudo e della spada, ovvero della Repubblica di Vichy che sotto il comando del maresciallo Philippe Pétain protegge la Francia dalla brutalità ed invadenza germaniche operando come uno scudo mentre la “France libre” agli ordini del generale Charles de Gaulle si configura come la spada che trafigge gli invasori.
Il fine unico, pertanto, degli appartenenti alla “Salò tricolore” in Italia, e allo “scudo” in Francia è la difesa della patria in sintonia con le forze della Resistenza.
La frattura, determinatasi l’8 settembre 1943, all’interno delle Forze armate può quindi essere ricomposta riconoscendo sia a coloro che hanno combattuto sotto la bandiera della Rsi che a quanti hanno militato sotto quella del Regno del Sud il fine ultimo della difesa della Patria oppressa dall’invasore germanico.
L’uomo simbolo della “Salò tricolore”, non ideologicamente fascista, è il principe Junio Valerio Borghese, Medaglia d’oro al V. M., comandante fino all’8 settembre 1943 della X^ Flottiglia mas, poi della divisione di fanteria di marina Decima.
Nel gennaio del 1946, il contrammiraglio B. Inglis, capo del servizio segreto navale della Marina americana, nel bollettino riservato agli ufficiali della U.S. Navy security of the O.n.i. Review, riferendosi agli uomini della Decima, scriveva:
“Quello che è certo è che essi non furono favorevoli agli alleati; ma sarebbe scorretto affermare che essi furono delle formazioni più favorevoli ai tedeschi e più filofasciste delle forze armate italiane. La maggior parte di essi sentì che l’armistizio era stato un vergognoso tradimento al suo alleato da parte del re e di Badoglio e decisero di ‘redimere l’onore d’Italia’ ”.
È il riconoscimento ufficiale, sebbene espressa in forma riservata, che l’adesione alla Repubblica sociale italiana non rende inevitabilmente nemici degli Alleati tutti coloro che l’hanno compiuta e che esistono, pertanto, due mondi diversi all’interno di uno Stato di fatto, come quello fascista repubblicano, uno da assolvere l’altro da condannare.
Junio Valerio Borghese ed i suoi ufficiali la stima degli Alleati, in modo specifico degli americani, se la sono guadagnata sul campo conducendo uno spregiudicato doppio, triplice gioco condotto con gli stessi Alleati, con i partigiani della brigata “Osoppo-Friuli” e delle brigate socialiste “Matteotti” al comando di Corrado Bonfantini, con i tedeschi che li lasciano fare perché già meditano il tradimento nei confronti di Benito Mussolini e dei fascisti.
Arrestato dai fascisti nel mese di gennaio del 1944, ma rimesso in libertà da Benito Mussolini, che non lo stima, perché la divisione di fanteria Decima è ormai una realtà combattente che non si può cancellare dagli organici militari della Rsi, Junio Valerio Borghese si prepara ad affrontare nel dopoguerra, ormai prossimo, l’unico nemico che egli ritiene tale: il comunismo.
Al comando del battaglione “Vega”, il più ermetico fra i reparti della Decima perché prepara i commandos ed i sabotatori destinati ad operare nelle retrovie alleate, il principe Junio Valerio Borghese ha posto il tenente di vascello Mario Rossi che lavora per gli Alleati, tanto è vero che il 25 aprile 1945 costui torna a casa propria a Genova senza mai essere ricercato da alcuna forza di polizia, italiana o alleata che sia.
Ed è proprio il tenente di vascello Mario Rossi che, nel corso di una conversazione, nel mese di febbraio del1945 spiega al marò Elio Cucchiara che poi la riferirà agli Alleati nel corso del suo interrogatorio, quale sarà la condotta della Decima e quali i propositi del suo comandante al termine delle ostilità.
Rossi spiega al suo subalterno che, alla fine della guerra, i reduci disoccupati, “se non fossero stati presi per mano, sarebbero stati fortemente attirati dal movimento comunista. Per evitare una tale eventualità era necessario creare un’organizzazione che potesse unire e guidare questo personale ex militare…La X flottiglia Mas doveva così creare una centralizzata ed organizzata organizzazione in tutta Italia con lo scopo primario di combattere il comunismo in particolare, e il fascismo, di sostenere un partito politico di centro e della destra. L’organizzazione non doveva costituire di per sé un partito… Il movimento si doveva organizzare durante l’occupazione degli alleati, non doveva iniziare la sua attività fino alla partenza degli alleati…”.
È, purtroppo, nel costume italico che mentre i gregari muoiono i capi scappino. Borghese non fa eccezione. Dopo essersi rifugiato a casa di un partigiano socialista, il comandante della Decima, il 12 maggio 1945, viene prelevato a Milano da James Jesus Angleton e dal commissario di Ps, Umberto Federico d’Amato, che su una jeep con indosso la divisa americana lo portano a Roma dove, qualche giorno dopo, sarà rinchiuso nel carcere per ospiti di riguardo allestito a Cinecittà, a disposizione delle autorità alleate.
Dall’interno del carcere, Junio Valerio Borghese continua a dirigere i propri uomini, molti dei quali già passati alle dipendenze degli alleati per le loro competenze tecniche e per la loro affidabilità politica.
Figura preminente fra gli ufficiali della Decima, ufficialmente latitante perché evaso da un campo di concentramento, è l’ex comandante del battaglione “Nuotatori paracadutisti” (N.p.), Nino Buttazzoni, che può essere considerato l’alter ego di Borghese in libertà, difatti il 4 aprile 1946 fa pervenire alla intelligence americana “un rapporto dattiloscritto intitolato ‘Riassunto della situazione generale al 1 aprile 1946′ “, nel quale rivela di essere in permanente contatto con Junio Valerio Borghese ora detenuto nel carcere di Procida.
Il 10 aprile 1946, l’agente dell’X-2, unità dell’intelligence americana diretta da James Jesus Angleton, redige un rapporto su “Il movimento neofascista” redatto sulla base delle informazioni fornite dalla “fonte Nino Buttazzoni, ex capitano della Decima Mas”.
Si rileva che fin dall’inizio il termine “neofascismo” è utilizzato in modo improprio o, per meglio dire, totalmente errato perché Junio Valerio Borghese, Nino Buttazzoni ed i loro commilitoni non sono stati fascisti e non potrebbero essere definiti “neofascisti” sotto il profilo ideologico.
Difatti, gli uomini della “Salò tricolore” e militare, coerenti con le loro idee conservatrici e reazionarie, vedono nel solo comunismo il nemico da combattere e chiedono che sia loro concesso di poterlo fare.
“Miss Queen”, infatti, rileva che “nei loro rapporti Buttazzoni ed il suo movimento sostengono che i comunisti, e quindi la Russia, stanno assumendo il controllo dell’Italia. I neofascisti sono un forte baluardo contro il comunismo. Di conseguenza dovrebbe essere loro consentito di fornire un contributo alla sconfitta del comunismo”.
L’anticomunismo rappresenta, pertanto, l’unica leva che questi gruppi ritengono di avere per scardinare le barriere innalzate dall’antifascismo e rientrare nell’agone politico, non come portatori di idee ma come gregari disposti a combattere contro il comunismo.
Distanti anni luce dall’ideologia fascista, Borghese, Buttazzoni ed i loro commilitoni, si rivolgono alla “plutocratica America”, patria del capitalismo, perché divenga la protettrice della nuova Italia.
“È interesse degli Stati Uniti – sostengono – che l’Italia torni ad essere una nazione forte; un’Italia forte può diventare un’ottima fonte di investimenti per gli Stati Uniti; l’Italia può diventare una base mediterranea per gli Stati Uniti nella loro lotta contro l’Inghilterra e la Russia”.
L’onore d’Italia è ormai dimenticato. Qui si offre una meretrice di cui si vantano qualità e prestazioni.
Gli stessi concetti, Nino Buttazzoni ed i suoi collaboratori li hanno espressi in un documento inviato, nel mese di febbraio, a Pio XII il cui sostegno è ritenuto, a ragione, decisivo per il loro reingresso nella vita politica del Paese.
L’azione sviluppata dagli uomini della Salò militare e “tricolore”, benché discutibile sul piano etico, non si presta a critiche sul piano della coerenza, perché Junio Valerio Borghese ed i suoi commilitoni non sono mai stati ideologicamente fascisti.
Dove, viceversa, è possibile vedere il tradimento del proprio patrimonio ideale è sul versante di quella che è definita la “Salò nera”, quella cioè per la quale il binomio fascismo-Italia era indissolubile e gli interessi del primo coincidevano con quelli della seconda, quella della “guerra del sangue contro l’oro”, quella che vedeva nel capitalismo e nella borghesia i nemici da combattere e da sconfiggere.
Su questo versante, come capo e promotore di un’operazione che ricalca quella di Junio Valerio Borghese e dei suoi uomini, si pone il vicesegretario del Partito fascista repubblicano, Pino Romualdi.
Anche se non sono state offerte prove decisive in proposito, è credibile che Pino Romualdi si sia posto al servizio dell’Oss americano già nel corso del conflitto.
Certo è che gli americani fanno leva proprio su di lui per indurre alla resa, il 26 aprile 1945, a Como, cinquemila fascisti in armi che avrebbero potuto – e forse dovuto – ricongiungersi con gli esponenti del governo della Rsi e con Benito Mussolini che viaggiavano, con scorta tedesca, a pochi chilometri di distanza.
Per Pino Romualdi, nella sua veste di vicesegretario del Pfr, gli ordini emanati dal Clnai prevedono la fucilazione sul posto, ma gli americani e gli uomini del servizio segreto militare italiano gli salvano la vita non rivelando ai partigiani la sua identità e lo lasciano libero di scomparire in una latitanza che vale per le Questure ma non per loro.
Ancor più di Junio Valerio Borghese, la figura di Pino Romualdi è centrale e decisiva nell’impedire a tanti reduci della Rsi di confluire nei partiti di sinistra e di attestarsi, viceversa, sulla trincea dell’anticomunismo più intransigente.
Il tradimento ideologico e politico di Pino Romualdi è palese, scritto in un articolo non firmato ma redatto da lui, pubblicato sul primo numero del giornale clandestino dei Fasci di azione rivoluzionaria (Far) che, a dispetto del nome, sono finanziati dai servizi segreti americani.
Benito Mussolini, nella sua ultima intervista, aveva esplicitamente affermato che “la rovina dell’Italia è stata la sua borghesia”. Nel mese di luglio del 1946, l’ex vice segretario del Partito fascista repubblicano, custode ed erede dell’ortodossia fascista e mussoliniana, detta viceversa le linee di un’azione politica da parte dei reduci della Rsi che verte sull’acquisizione di meriti dinanzi alla borghesia, vera detentrice del potere in Italia.
“La lotta politica in Italia – scrive Romualdi – non si potrà più mantenere sul piano parlamentare, ma trascenderà in disordini di piazza, in violenze e in una tensione generale. Le forze di destra che hanno per caratteristica distintiva una vigliaccheria congenita, unita a una sacrosanta paura di perdere i loro privilegi, saranno alla ricerca disperata di una forza qualunque, capace di fronteggiare validamente l’estrema sinistra.
Quello sarà il nostro momento.
Si tratta insomma di creare nel Paese una psicosi anticomunista tale da costringere tutti i partiti ad appoggiare il Fascismo come il più dinamico dei movimenti anticomunisti, così come già fecero i comunisti creando una psicosi antifascista tale da costringere tutti gli antifascisti, anche se di destra, ad appoggiare il comunismo come il più dinamico dei movimenti antifascisti. Come nell’aprile dello scorso anno, la massa d’urto dell’antifascismo era costituita dalle squadre socialcomuniste che – pur destando preoccupazione nella maggioranza anticomunista degli italiani – erano tuttavia appoggiate in odio al Fascismo, così quando il nostro momento sarà giunto, il Fascismo dovrà fungere da massa d’urto dell’anticomunismo e la maggioranza degli italiani – anche se non fascista – ci appoggerà per odio al comunismo”.
Nessuno, fino ad oggi, ha riconosciuto in questa prosa contorta e mendace la strategia che ha portato il cosiddetto “neofascismo” italiano a porsi come il braccio violento dell’anticomunismo politico e di Stato nella speranza che la gratitudine delle forze che lo componevano avrebbe, un giorno, consentito ai suoi esponenti di entrare nelle stanze del potere con compiti dirigenziali di primo piano.
Poche righe nella quale è racchiusa la tragedia di un mondo politico e del Paese in questo secondo dopoguerra, sufficiente per trasformare una forza anti-borghese per storia ed ideologia, nella “guardia bianca” della borghesia e del capitalismo.
Una strategia che la mancanza di un ricambio generazionale alla guida del movimento “neofascista” ha permesso di ribadire al suo ideatore ed ai suoi complici politici per tutto il dopoguerra.
Pino Romualdi resterà sempre al vertice del Movimento sociale italiano, il quale sarà guidato da tre uomini: Giorgio Almirante, primo ed ultimo segretario nazionale, Augusto de Marsanich ed Arturo Michelini.
Tranne una breve parentesi che vedrà Pino Rauti rivestire la carica di segretario nazionale del Msi-Dn, toccherà al delfino di Giorgio Almirante, Gianfranco Fini concludere una parabola politica trasformando il “neofascismo” in antifascismo.
Il “neofascismo”, per quanti continueranno a ritenerlo tale, nella visione di Pino Romualdi e dei suoi colleghi di avventura rappresenta il ripudio del fascismo legionario e combattente del biennio 1943-45, e si ricollega all’esperienza del Ventennio fascista che si concluderà il 25 luglio 1943, debitamente rinnegata e condannata dal fascismo repubblicano.
I Romualdi, gli Almirante, i Michelini sono gli eredi e i continuatori ideali dei Grandi, dei Bottai, dei Federzoni che hanno interpretato il fascismo come una fazione al servizio della Monarchia e della borghesia di cui era stato necessario liberarsi quando si era posto contro le democrazie plutocratiche.
Non a caso, i dirigenti del Msi, già nei primissimi anni Cinquanta si alleeranno con i monarchici, fingendo di dimenticare il 25 luglio 1943 e l’8 settembre 1943.
Mentre, i “nazionalrivoluzionari” di Avanguardia nazionale, nel 1976, si faranno rappresentare dinanzi al Tribunale di Roma da Alfredo de Marsico, ex ministro di Grazia e giustizia durante il Ventennio, condannato a morte in contumacia dal Tribunale di Verona nel gennaio del 1944 perché considerato traditore del fascismo e del suo capo avendo votato, il 25 luglio 1943, nel corso della seduta del Gran Consiglio del fascismo, a favore dell’ordine del giorno presentato da Dino Grandi.
La malafede di Pino Romualdi è fuori discussione. La Seconda guerra mondiale è stata anche una guerra ideologica e il vicesegretario del Partito fascista repubblicano non poteva non saperlo nel luglio del 1946.
Non poteva, quindi, riproporre in buona fede, Pino Romualdi, ai reduci della Rsi la strategia mussoliniana del 1919-22, quando le squadre fasciste affrontarono nelle strade e nelle piazze italiane i “sovversivi” socialcomunisti fra il plauso e con il sostegno della borghesia e della monarchia.
Gli ”anni di piombo” del “neofascismo” italiano maturano in questo 1946, quando i suoi capi decidono che non ci sarà una rivincita ma solo un possibile ritorno ad una guida del Paese, condivisa con altre forze anticomuniste, reso possibile porsi al servizio, come armata mercenaria, della potenza egemone, gli Stati Uniti, e dei suoi alleati italiani.
Per portare avanti una strategia serve uno strumento che sia ad essa idoneo, un movimento politico guidato da uomini che siano capaci, per cinismo e spregiudicatezza, di condurre il necessario doppio-gioco finalizzato a traghettare i giovani giacobini, proletari ed anticlericali della Rsi sulla sponda della conservazione, politica ed economica della destra clericale e meramente anticomunista.
Mentre i rapporti di Junio Valerio Borghese, Nino Buttazzoni, Pino Romualdi e molti altri con i servizi segreti americani e italiani e con i politici democristiani sono coperti dal più assoluto riserbo, il lavoro preparatorio alla costituzione di un movimento politico è svolto, pubblicamente, da riviste e periodici che rivendicano apertamente le loro simpatie per il regime fascista.
Ricordiamo “Il Meridiano d’Italia”, rivista edita a Milano da Franco de Agazio, messo in galera a Firenze dai fascisti, che inizia le pubblicazioni il 3 febbraio 1946, anche se gli Alleati avevano dato l’autorizzazione alla stampa addirittura nel mese di agosto del 1945; segue “Rivolta ideale” che compare nelle edicole l’11 aprile 1946 e, via via, “Rosso e nero” che si dice di “sinistra”, il 27 luglio 1946, al quale segue il 10 agosto 1946, “Rataplan” diretto da Augusto de Marsanich e Nino Tripodi che, nel suo primo numero, condanna le leggi razziali emanate dal fascismo nel novembre del 1938.
Parallelo a questo fiorire di periodici “neofascisti” prosegue il lavoro sotterraneo per costituire un movimento politico di cui fa cenno il rapporto del servizio segreto americano del 10 aprile 1946 che riporta le notizie fornite da Nino Buttazzoni secondo il quale “all’inizio di marzo, il centro neofascista di Roma ha approvato una risoluzione per la creazione di un ampio partito: tra i suoi obiettivi, la guida delle forze anticomuniste e la ricostruzione dell’Italia”.
Un progetto eccessivamente ambizioso mentre del tutto fantasioso è quello riportato in un appunto della polizia l’8 maggio 1946, secondo il quale negli ambienti che fanno capo a Pino Romualdi si prospetta la possibilità che venga autorizzata l’attività legale “di un movimento che persegua l’affermazione della dottrina, dei principi e dell’etica del fascismo”.
Al di là della propaganda romualdiana, si ha comunque la conferma che si cerca uno strumento che consenta di radunare intorno ad un nome e ad un simbolo la massa dei reduci della Rsi da utilizzare nella battaglia anticomunista che passa, in questo momento storico, anche per la ricomposizione della frattura all’interno delle Forze armate e fra gli ex combattenti.
Il 26 settembre 1946, a Roma, è costituito il “Fronte dell’Italiano” che si presenta come “associazione” non come partito politico, e che costituisce l’embrione di quello che due mesi più tardi sarà il Movimento sociale italiano.
Moltissimo si è detto e si è scritto su questa formazione politica che inizialmente non nasce come partito tradizionale destinato a partecipare alle competizioni elettorali, bensì come movimento d’opinione destinato ad attrarre i reduci della RSI ma anche quelli che tornano dai campi di prigionia britannici, americani e francesi, pochi dei quali ben disposti nei confronti degli Alleati di cui hanno sperimentato la durezza e la crudeltà sui loro corpi.
Nel Movimento sociale italiano si è voluto vedere il risorgere di un partito neofascista, e nel suo simbolo – la fiamma tricolore – il segno della volontà di rivincita dei fascisti.
Nulla di più fuorviante.
Come abbiamo già visto Italia e Francia affrontano problemi comuni e i loro governi cercano soluzioni comuni, così che la creazione in Italia di un movimento politico capace di attrarre gli ex combattenti fino a farli ritrovare sotto una identica bandiera, quella italiana, senza aggettivi e senza distinzioni, non nasce nelle menti di Pino Romualdi, Junio Valerio Borghese o ad altri esponenti del reducismo repubblicano, ma è mutuato dalla storia politica della Francia anteguerra.
Nel 1928, a Parigi, Maurice Hanot fonda le “Croci di fuoco” che raggruppano gli ex combattenti decorati durante la guerra del 1914-18 ai quali si affiancano successivamente, dal 1929, i Briscards che sono reduci che hanno combattuto almeno per sei mesi al fronte.
Le Croci di fuoco non hanno un programma politico definito e si propongono di raccogliere i migliori fra gli ex combattenti con i quali formare una specie di ordine cavalleresco dedito all’educazione dei più giovani ed al culto del Patria.
L’organizzazione delle Croci di fuoco si sviluppa, con successo, nel giro di pochi anni e nel 1933 viene creato il “Raggruppamento nazionale” e, con esso, i “ Volontari nazionali” ai quali si possono iscrivere tutti senza condizioni.
Nell’ottobre del 1935, dal complesso di organizzazioni che ormai compongono le Croci di fuoco nasce il Movimento sociale francese che ha come simbolo una fiamma tricolore con i colori della bandiera francese e che verrà disciolto, il 18 giugno 1936, dal governo di Fronte popolare diretto dal socialista Leon Blum.
Le finalità del Movimento sociale italiano, all’atto della sua fondazione, il 26 dicembre 1946, non sono diverse da quelle delle Croci di fuoco originarie e del Movimento sociale francese di cui mutua nome e simbolo ma anche le denominazioni di due delle sue organizzazioni.
Difatti, l’organizzazione giovanile del Msi si chiamerà “Raggruppamento giovanile studenti e lavoratori”, mentre il suo servizio d’ordine prenderà il nome di “ Volontari nazionali”.
Insomma, il Movimento sociale italiano di italiano non ha nemmeno l’origine, che è francese, e non ha finalità politiche se non quelle, tali solo in senso lato, di riunire sotto il suo simbolo gli ex combattenti per sottrarli a quella sinistra socialcomunista alla quale la miseria, la disoccupazione, le sofferenze patite, potrebbero indirizzarli.
Non è ancora possibile conoscere i nomi di coloro che nella storia prebellica della Francia hanno trovato l’esempio da proporre nel dopoguerra italiano per costituire un movimento di reduci ed ex combattenti uniti dai ricordi del passato e dal sentimento nazionale, non certo dall’ideologia fascista.
Sappiamo, però, che nel mese di ottobre del 1946, a Roma, nell’ufficio di Arturo Michelini, si riunisce un gruppo eterogeneo di persone che valuta la possibilità di costituire un movimento politico.
All’incontro prendono parte: Arturo Michelini; Italo Formichella; Bruno Puccioni, legato a Pino Romualdi; Biagio Pace, Ezio Maria Gray; Nino Buttazzoni; Valerio Pignatelli; Giovanni Tonelli; il generale Muratori; Giorgio Pini; Francesco Galanti; Giorgio Bacchi; Gianluigi Gatti e il capo dell’ufficio stampa della Confindustria, Jacques Guiglia.
Fra i presenti, Arturo Michelini non ha mai aderito alla RSI; Biagio Pace ha svolto un ruolo di informatore a Roma della struttura clandestina dei reali carabinieri: Ezio Maria Gray è stato indicato come informatore dei servizi segreti segreti britannici; il generale Muratori, Bruno Puccioni, Valerio Pignatelli, Nino Buttazzoni è lo stesso Michelini sono in contatto con la struttura di intelligence americana diretta da James Jesus Angleton.
Il 3 dicembre 1946, sempre presso lo studio di Arturo Michelini è redatto il documento costitutivo del Movimento sociale italiano, sottoscritto da Pino Romualdi, Arturo Michelini, Giorgio Pini, Biagio Pace, Nino Buttazzoni, Giorgio Bacchi, Valerio Pignatelli, Ezio Maria Gray, Italo Carbone, Emilio Profeta Trigone, Giulio Cesco Baghino, Giovanni Tonelli, Ernesto De Marzio, Costantino Patrizi, Giacinto Trevisonno.
Il 26 dicembre 1946, la costituzione del Movimento sociale italiano è formalizzata con l’aggiunta di altri fondatori, oltre a quelli già citati: Bruno Puccioni, Roberto Mieville, Francesco Nicola Galante, Gianluigi Gatti, Nicola Foschini.
Gli unici elementi di spicco della Rsi sono Pino Romualdi, ufficialmente latitante, e Giorgio Pini, ex sottosegretario agli Interni; gli altri non hanno un passato degno di rilievo.
Il Movimento sociale italiano nasce avendo alle sue spalle la Democrazia cristiana con Guido Gonella, Achille Marazza (esponente di primo piano del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia e ricercato dalla Jugoslavia come ‘criminale di guerra’) e Giuseppe Caronia; i servizi segreti americani con James Jesus Angleton; il Vaticano con padre Felix Morlion e la “Pro-Deo”; la Confindustria, rappresentata da Jacques Guiglia.
Non c’è il fascismo.
Quanti si erano illusi di aver creato un movimento politico che avesse una propria politica se ne andranno nel giro di pochi anni, come Valerio Pignatelli, nel 1948, Giorgio Pini alcuni anni dopo, e lo stesso Nino Buttazzoni che si ritirerà dalla vita politica.
Del resto, in un Paese militarmente sconfitto, nel quale sono ancora presenti le truppe di occupazione alleate, la pretesa che si potesse ricostituire, sotto altra denominazione ed altro simbolo, un partito politico che rappresentasse il fascismo nelle idee e nella storia è appartenuta alla propaganda non alla verità storica.
Il Movimento sociale italiano nasce come prodotto di un’operazione condotta dall’anticomunismo nazionale ed internazionale, da forze politiche, militari e finanziarie che avvertono la necessità di raggruppare ed utilizzare per il proprio tornaconto migliaia di reduci della Rsi in previsione dello scontro frontale con i comunisti.
Il 13 dicembre 1946 Giorgio Pini annotava nel suo diario: “I grassi borghesi non sperano più di salvarsi facendo il doppio gioco e finanziando i sovversivi. Presi alla gola vorrebbero alimentare un nuovo squadrismo della vecchia impronta. Promettono soldi ma chiedono sangue!“.
il Movimento sociale italiano nasce anche per questa ragione: la difesa ad oltranza della destra “dalla congenita vigliaccheria”, di quella borghesia che Mussolini aveva definito la “rovina dell’Italia”.
Abbiamo visto la strategia delineata da Pino Romualdi nel luglio del 1946 che si fonda esclusivamente sulla certezza che porsi ad avanguardia contro il comunismo in difesa degli interessi della casta borghese risulterà, infine, determinante per ottenere il reingresso nel governo del Paese.
Abbiamo definito lo strumento di questa strategia, il Movimento sociale italiano, che si ispira ad un partito politico della destra francese composto principalmente da ex combattenti della Prima guerra mondiale senza alcun riferimento implicito od esplicito al fascismo repubblicano.
Vediamo ora, in estrema sintesi, chi sono stati gli uomini che hanno guidato il Movimento sociale italiano nel dopoguerra e, con esso, le organizzazioni della destra extra-parlamentare.
Arturo Michelini, lo abbiamo detto, non aderì alla Repubblica sociale italiana di cui si è, strumentalmente, eletto erede e difensore per racimolare i voti dei reduci e dei loro familiari.
Augusto de Marsanich, viceversa, nella Repubblica di Salò c’è stato con le stesse funzioni di dirigente industriale che aveva ricoperto durante il Ventennio, incarnando la figura rappresentativa di quella destra finanziaria ed economica che tanto aveva fatto contro il fascismo repubblicano lavorando per i tedeschi, da un lato, e finanziando i partigiani, dall’altro.
Giorgio Almirante, l’uomo simbolo del Movimento sociale italiano e del cosiddetto “neofascismo” post-bellico, merita di essere rivalutato dall’antifascismo non perché, come si pretende oggi, sia stato il fondatore della “destra moderna”, ma perché è il prototipo del “traditore” che riesce, con tante complicità inconfessabili, a presentarsi per una vita intera come l’espressione di una lealtà politica ed umana, ideologica e storica che non gli è mai appartenuta.
Giornalista, razzista, antisemita, combattente che non ha mai combattuto, Giorgio Almirante dopo l’8 settembre 1943 s’impiega presso il ministero della Cultura popolare guidato da Fernando Mezzasoma.
Nel dicembre del 1944, Gilberto Bernabei, capo dell’ufficio stampa del ministero fugge a Roma temendo, evidentemente, di essere arrestato dai tedeschi o dai fascisti per il suo doppio-gioco.
Bernabei è una di quelle figure che, nell’oscurità, lontane dai riflettori della stampa e della politica, hanno ricoperto un ruolo, spesso decisivo, in tante vicende drammatiche della storia italiana del dopoguerra.
Gilberto Bernabei è l’uomo di fiducia di Giulio Andreotti, quello che cura per lui i rapporti con gli ambienti militari, il suo consigliere più fidato ed ascoltato.
Giorgio Almirante è il suo successore nell’incarico di capo dell’ufficio stampa del ministero della Cultura popolare della Rsi.
Il 25 aprile 1945 Giorgio Almirante abbandona il suo ministro che sarà fucilato a Dongo tre giorni più tardi, il 28 aprile 1945, e si immerge nella clandestinità, favorito dal possesso di documenti falsi che gli aveva fornito un ebreo da lui protetto ed ospitato nei locali del ministero della Cultura popolare.
Un gesto di alta umanità, sembrerebbe, compiuto da un antisemita che si era ravveduto ma il fatto che costui abbia fornito a Giorgio Almirante documenti falsi per vivere in clandestinità prova che era in contatto con qualche struttura di intelligence alleata o italiana che fosse, perché non è credibile che un povero perseguitato potesse fare questo favore al suo protettore non trovandosi i documenti falsi agli angoli delle strade.
Non è una novità che radio clandestine in uso ad operatori delle missioni militari alleate al Nord o delle strutture di intelligence della Resistenza trasmettessero proprio dall’interno dei ministeri della Repubblica sociale, ritenuti luoghi sicuri e protetti dalle indagini condotte dai tedeschi.
È il caso del “ protetto” di Giorgio Almirante? Non lo sappiamo. Ma rimane incontrovertibile il fatto che il perseguitato è in grado di fornire ad Almirante la documentazione falsa che gli consentirà il 25 aprile di darsi alla latitanza.
Però, Giorgio Almirante non è un uomo braccato dai partigiani e dalle forze di polizia, anzi a suo carico non risulta che sia mai stato emesso un mandato di cattura, istruito un processo per “collaborazionismo”, emessa una condanna per la sua attività come capo dell’ufficio stampa del ministero della Cultura popolare.
Non ha ricoperto un incarico politico di primo piano, ma pur sempre svolto un ruolo ministeriale, ha firmato persino un bando nel quale si ammonivano i renitenti alla leva che sarebbero stati passati per le armi se non si fossero presentati, eppure nessuno lo cerca.
Per “collaborazionismo”, sono state condannate le dattilografe, le cuoche delle mense militari, le maestre elementari, che hanno conosciuto arresto, campo di concentramento o prigione e, infine, processi e condanne.
Il capo dell’ufficio stampa del ministero della Cultura popolare della Rsi, Giorgio Almirante invece non conosce nulla di tutto questo.
Nel luglio del 1946, Almirante scrive al Tribunale di Roma per chiedere gli venga applicato il decreto di amnistia promulgato 22 giugno 1946, in modo che “la pratica relativa alla mia attività fascista venga archiviata”.
Non si conosce la risposta del Tribunale, ma l’amnistia può essere applicata a chi ha subito un processo ed una condanna o, almeno, è imputato dinanzi a qualche Tribunale: non è il caso di Giorgio Almirante.
Anche nel suo libro autobiografico, edito negli anni Settanta, Giorgio Almirante non fa riferimento alcuno ad eventuali traversie giudiziarie successive al 25 aprile 1945, per la semplice ragione che non ce ne sono state.
Come il tenente di vascello Mario Rossi, comandante del battaglione “Vega” della divisione Decima, agente dei servizi di sicurezza alleata, anche Giorgio Almirante non viene cercato da nessuno perché non è processabile, non è imputabile per “collaborazionismo con il tedesco invasore”.
I casi di “doppio gioco” all’interno della Repubblica sociale italiana sono stati così numerosi da obbligare il governo presieduto da Ferruccio Parri ad emanare il 4 agosto 1945 un decreto-legge che garantisce la loro impunibilità.
Abbiamo chiesto più volte, dal sito Internet di “Marilena Grill”, agli estimatori di Giorgio Almirante di fornire le prove del processo che, per logica, costui avrebbe dovuto subire dopo la fine delle ostilità.
Dal mondo di destra ha risposto il silenzio, perché la documentazione processuale non esiste, perché l’uomo-simbolo del neofascismo italiano, lo stesso che ancora nel 1982, durante un congresso del suo partito gridava a Marco Pannella, “il fascismo è qui”, aveva tradito il fascismo ed i fascisti già durante la guerra.
Dopo una breve parentesi, sarà proprio Giorgio Almirante, riemerso dalla clandestinità, ad essere eletto segretario nazionale del Movimento sociale italiano perché un uomo ricattabile è più affidabile per i burattinai che lo controllano.
Insomma, il neo-fascismo italiano è stato guidato nel corso di quasi mezzo secolo da uomini che con il fascismo legionario e combattente non hanno mai avuto nulla a che fare, come Arturo Michelini e Augusto de Marsanich, o che lo hanno tradito, come Giorgio Almirante.
Junio Valerio Borghese, durante il biennio 1943-45 ha condotto una sua guerra personale e, dopo, è divenuto un agente dei servizi segreti americani.
Altri personaggi di rilievo hanno compiuto lo stesso cammino: Tullio Abelli, già ufficiale della Decima, destinato a divenire vicesegretario nazionale del Msi, nel 1946 aveva in tasca un documento che lo qualificava come informatore della 315 Fiel Security Section Intelligence Corps, a Torino; Mario Tedeschi era in contatto con la Questura di Roma già nel 1946; il fratello di Ernesto de Marzio, Giulio, lo ritroveremo fra i dirigenti della struttura Nato, “Pace e libertà”, nei primi anni Cinquanta; il fratello del segretario nazionale del Msi Augusto de Marsanich, Filippo farà parte della struttura Stay-behind, Franco Maria Servello nel 1945 scriveva su “Il Corriere di Salerno”, giornale promosso dagli americani, articoli contro i fascisti, la Repubblica sociale e Benito Mussolini.
Se neofascismo in Italia c’è stato, non si può dire che sia stato guidato da fascisti, ma da profittatori del fascismo che hanno ingannati i vivi e speculato sui morti per scopi che erano contrari all’ideologia fascista.
Coloro che ancora oggi sostengono che in Italia c’è stato il “terrorismo nero”, nelle sue versioni di “golpista” e “stragista” o di “spontaneista”, dovrebbero approfondire la storia del cosiddetto “neofascismo” prendendo in considerazione la strategia, le organizzazioni, gli uomini e le idee.
Si renderebbero conto, almeno coloro che sono intellettualmente onesti, che il “neo-fascismo” nel dopoguerra, a partire dai primi anni Cinquanta si è ispirato alle idee di Julius Evola che fascista non è mai stato.
Evola è stato un intellettuale che si è ispirato alla “rivoluzione conservatrice”, che ha espresso ammirazione per la Rsi solo perché ha saputo infondere uno “spirito legionario” nei suoi combattenti, considerando le idee ed i propositi sociali del fascismo come espressione di una rivoluzione plebea che minava alla base quell’ordine gerarchico ed aristocratico di cui egli era assertore.
Non è colpa di Julius Evola se certi suoi allievi hanno scambiato Angelo Izzo, il massacratore del Circeo, nel simbolo dell’uomo che si eleva al di sopra della morale comune e lo hanno esaltato nei loro scritti onorandosi di considerarlo un “camerata”.
Gli estimatori di un volgare violentatore ed uccisore di donne e di bambine, fra i quali dobbiamo ricordare Mario Tuti, Pierluigi Concutelli, Maurizio Murelli, Fabrizio Zani, sono il prodotto meschino e plebeo di idee che non sono fasciste, soprattutto non ne riflettono l’aspetto etico.
La storia del presunto “neofascismo” non può iniziare negli anni Sessanta o Settanta, ma dal momento stesso in cui muore il fascismo ma al potere antifascista servono i reduci del fascismo da usare contro il nuovo nemico, il comunismo.
Ed è la storia di inganni, menzogne, diversioni strategiche, disinformazione che va scritta, per la prima volta, in modo sereno ed oggettivo.
Si scoprirà, ad esempio, che la sigla utilizzata dai presunti “spontaneisti” dell’ultimo “neofascismo”, i Nuclei di azione rivoluzionaria (Nar) è mutuata dalla cellula dei Fasci di azione rivoluzionaria fondati, con i soldi e per gli interessi dei servizi segreti americani, da Pino Romualdi nel 1946.
È solo l’ultima conferma, in ordine di tempo, di un filo che attraversa tutta la storia del dopoguerra, e non è un “filo nero”, perché segna una zona grigia che ancora deve essere esplorata, illuminata, conosciuta anche se a questa ricerca si oppongono oggi i partiti politici, gli apparati dello Stato e, in prima fila, i “ neofascisti” divenuti antifascisti.
Già perché la strategia delineata da Pino Romualdi nel luglio del 1946 è stata fallimentare in ogni suo aspetto, specie in quello conclusivo: al governo gli eredi di Romualdi ed Almirante sono stati chiamati ma hanno pagato il piatto di lenticchie offerto loro dalla borghesia con il ripudio pubblico della loro storia e delle loro idee, proclamandosi fieri antifascisti.
Conclusione scontata della storia di piccoli uomini che non avevano ideali per i quali combattere e morire, ma solo desideravano di essere chiamati al lato di quanti sono i reali detentori del potere.
Storia di opportunisti e di arrampicatori sociali, una storia italiana che va scritta e fatta conoscere alle giovani generazioni che potranno chiudere un capitolo che non onora il Paese né il suo popolo.
Vincenzo Vinciguerra
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