martedì 25 marzo 2014

L'associazione culturale In Verticale ricorda la strage del porto di Bari del 2 dicembre 1943.

siamfatticosi



Periodico politico e culturale degli Uomini Liberi


Foglio informativo di Liberazione Nazionale



 
Un massacro, con più di duemila morti, ed una città ferita dai gas assassini sprigionati dalle navi alleate, ormeggiate nel porto. Queste le conseguenze del bombardamento di Bari, il 2 dicembre 1943. Ma ad uccidere, più delle bombe piovute dal cielo, fu l’esplosione della nave statunitense “John Harvey”, carica di oltre duemila tonnellate di iprite, gas letale vietato dalle convenzioni internazionali. Si trattò del più grave episodio di guerra chimica del secondo conflitto mondiale. Nel ricordare questo tragico evento, che segnò profondamente la città e il suo popolo, l'associazione culturale "In Verticale" denuncia l'omertà e la disinformazione che hanno fatto dimenticare ai baresi, e agli italiani tutti, le sofferenze patite per la condotta scellerata e criminale delle forze armate alleate, che nessuno può perdonare. Quella nave non poteva essere lì, quel gas era illegale. Nel ricordare le responsabilità anglo-americane nell'eccidio, si fa presente che uno Stato che voglia privare un altro di armamenti chimici, come sta accadendo in questi mesi con l'appoggio americano alla politica di disarmo siriano, non deve possederne a sua volta. Chi si è macchiato di crimini così orribili e ingiustificati, dovrebbe riflettere sulla propria storia militare, che comprende pagine buie, come Hiroshima, Bari, Nagasaki, Dresda. L'associazione "In Verticale" commemora i caduti di quel triste giorno e fa del loro sacrificio un monito per chi non ha dimenticato e per le generazioni future, augurandosi che i crimini di guerra, da chiunque compiuti, siano finalmente puniti. L'organizzazione denuncia lo stato di totale incuria nel quale giace il nostro mare, con i fondali ancora pieni dei residuati bellici della seconda guerra mondiale. Nessuno deve scordarsi la strage del 2 dicembre 1943 e  che sul nostro litorale giacciono ancora le bombe di 70 anni fa, regalo di chi, oggi come ieri, viola da sempre senza ritegno i diritti dei popoli e la sovranità degli Stati.
 

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Foglio informativo di Liberazione Nazionale
Periodico politico e culturale degli Uomini Liberi fondato nel 2003 da Antonio Rossini.


Quel volo degli “Angeli del Bene” su My Lai .

di Filippo Giannini

A loro piace essere chiamati gli Angeli del Bene, incensati dalla Divina Provvidenza ed inviati su questo triste pianeta per lottare contro le Forze del Male in quei tempi impersonati dal Nazionalsocialismo e dal fascismo. Loro, dopo l’abbattimento delle due bieche tirannie hanno continuato (e continuano) a lottare contro ogni nemico che, di volta in volta, è impersonato nel maligno. Loro hanno punito tutti i tiranni che si sono resi colpevoli di stragi e malvagità.
In questa lotta contro le Forze del Male, gli Angeli del Bene hanno operato su tutto il globo ove hanno lasciato la loro traccia a Stelle e Strisce.
Un volo di questi Angeli è poco conosciuto e proviamo a proporlo: riguarda un episodio (uno fra i mille e mille) che avvenne durante la guerra del Vietnam.
My Lai è un piccolo villaggio vicino alla costa del Vietnam Centrale. Gli abitanti vivono di pesca e di agricoltura.
Quanto stiamo per ricordare proviene da fonti statunitensi e, quindi, al di sopra di ogni sospetto
La Compagnia Charly del 1° battaglione di fanteria americano si era formato e addestrata in Georgia e alle reclute <era stato insegnato lo spirito della baionetta che era quello di uccidere>. Niente di strano: erano soldati e loro dovere era quello di uccidere il nemico.
Al termine dell’addestramento gli uomini della Compagnia Charly giunsero nel Vietnam dalle Hawaii, nel dicembre 1967. La Compagnia era considerata la migliore del battaglione, i loro componenti provenivano da ogni parte degli Stati Uniti e appartenevano a famiglie della media borghesia americana.
La Compagnia Charly per alcune settimane fu sottoposta a ripetuti scontri con i vietcong della zona di My Lai. Durante uno di questi combattimenti quattro soldati americani rimasero uccisi e 38 feriti.
Immediatamente fu predisposta una rappresaglia. I servizi segreti statunitensi ritenevano che a My Lai risiedesse il Quartier Generale dei vietcong. Era una informazione errata.
Il 15 marzo 1968 fu messo a punto l’attacco contro il villaggio e l’ordine venne dal colonnello Herald Anderson, comandante della brigata, e trasmesso al capitano Ernest Mandela, comandante della compagnia Charly.
Nessuno del comando ammise mai la propria responsabilità per ciò che accadde.
Il sergente Kennet Hodges, reduce di quell’operazione, ha testimoniato: <In pratica era stato dato l’ordine di uccidere tutti nel villaggio. Qualcuno chiese se dovevamo uccidere anche le donne e i bambini; l’ordine era di uccidere tutti, donne, vecchi e bambini>.
L’attacco su My Lai avvenne, come in molti altri casi, con gli elicotteri. Erano appena passate le sette del mattino ed era sabato. Secondo i Servizi Segreti, a quell’ora tutti i civili erano al mercato e al villaggio sarebbero rimasti solo i vietcong. I primi elicotteri arrivarono su My Lai alle 7,35; in venti minuti tutti i 120 uomini e i cinque ufficiali della compagnia avevano preso terra e nessuno sparò alcun colpo contro di loro, né ci fu alcun cenno di resistenza.
Racconta una donna, Phan Thi Tuan, scampata al massacro: <Mi stavo avviando al lavoro nei campi, quando sono arrivati gli elicotteri. Hanno cominciato a sparare. La gente non sapeva dove nascondersi. Ci dicevano di sederci e noi ci sedevamo; ci dicevano di alzarci in piedi e noi ci alzavamo. Poi ci hanno spinto in una trincea e hanno sparato. Io e i miei figli eravamo lì dentro con tutti quei morti>.
Un reduce, Varnando Simpson, racconta: <Lei stava correndo, voltandomi le spalle, lungo una fila di alberi, Portava qualcosa in braccio, non so se era un’arma o qualcosa d’altro, ma sapevo che era una donna. Non avevo intenzione di sparare a una donna, ma era stato dato l’ordine di sparare e feci fuoco. Poi vidi il bambino, feci fuoco tre o quattro volte. Le pallottole attraversarono lei e il bambino. Mi voltai e vidi la faccia del bambino spaccata a metà; gli mancava proprio la metà. Quel giorno fui responsabile della morte di venti, venticinque persone. Io ho sparato, tagliato gole, scotennato, ho tagliato mani e lingue. Sì, ho fatto tutto questo. Io!>.
Fred William, anche lui reduce da quella missione testimonia: <La cosa più sconvolgente che vidi fu un ragazzo. È stata una scena che mi perseguita e mi tormente da allora. A questo che gli avevano sparato alle braccia e le braccia gli pendevano lungo il corpo. Aveva una espressione stupita sul viso per quello che gli stavo per fare… Era come se mi chiedesse: cosa ho fatto di male? Ho sparato, l’ho ucciso… preferisco pensare che il mio fu un atto di pietà, perché qualcun altro lo avrebbe ucciso, alla fine>.
Un’altra donna, So Thi Qui: <Cadevamo come anatre con la testa in giù; gridavano: pietà, pietà, lasciateci andare, siamo innocenti, pietà. Fucilarono tutti lo stesso. Poi il silenzio. Bambini piccoli si trascinavano a quatto gambe lungo il bordo della fossa. Ero ferita, ma riuscii a trascinarmi sino a casa. Là, per terra stava distesa una donna nuda: era stata violentata. C’era anche una ragazza con la vagina squartata. Ancora non riusciamo a capire perché si siano comportati così>.
E il raccnto di una giovane donna, Phan Thi Trin: <Ho guardato fuora dalla finestra e ho visto mia sorella Mun; quell’anno avrebbe compiuto 14 anni. Un americano le stava sopra e lei non aveva niente addosso. Mia sorella tentava di resistere, poi l’americano si è tirato su, si è rivestito e l’ha uccisa. Usciii dal mio nascondiglio. La mia casa era stata distrutta dalle fiamme; nel cortile i miei cari giacevano bruciati vivi. Mia madre stringeva ancora fra le braccia il mio fratellino: mio fratellino che aveva sette mesi e il suo corpo era quasi completamente carbonizzato. Mi sono accasciata accanto al corpo di mia madre, a piangere>.
Le comunicazioni radio rivelarono che il comando era a conoscenza del massacro. Il capitano Thompson quel giorno era a bordo del suo elicottero e in quelle ore volava basso sul luogo dell’eccidio. Quando vide che i soldati avanzavano verso un gruppo di donne e di bambini indifesi, ordinò al suo equipaggio di puntare le armi contro i suoi compagni a terra. Qualora questi avessero sparato contro i civili <avrei sparato su di essi. In quel momento erano loro i miei nemici. Per fortuna non fu necessario dare l’ordine di far fuoco>.
La testimonianza del sergente Kenneth Hodges è sintomatica: <Noi abbiamo eseguito un ordine, e penso che questo sia moralmente accettabile. L’ordine era di distruggere il villaggio e uccidere gli abitanti. Noi abbiamo eseguito gli ordini e credo di non aver violato alcuna norma morale>.
Malgrado la totale assenza di qualsiasi resistenza, il tenente William Calley continuò a ordinare ai suoi uomini di proseguire il massacro. La maggior parte obbedì, pochi si rifiutarono e fra questi Hanry Stanley che si oppose di eseguire gli ordini, malgrado le minacce del tenente Calley.
Alle 11,30 la compagnia Charly fece una pausa per il pranzo, avevano ucciso più di 400 persone. I giornali americani, giorni dopo, parlarono di una importante vittoria e di molti nemici uccisi.
Quanto è accaduto a My Lai è stato tenuto celato per molto tempo. Quando la notizia del massacro si sparse per tutto il mondo, generò una ondata di sdegno e di orrore. A seguito di ciò gli uomini della compagnia Charly furono posti sotto inchiesta e si dichiararono <non colpevoli>.
Il comandante, capitano Ernest Mandela, contestò le accuse con queste parole: <Posso affermare che non ho visto alcun massacro a My Lai quel giorno>.
Il tenente William Calley, accusato di 109 assassinii si difese sostenendo di aver eseguito degli ordini.
Ebbene dei 46 uomini della compagnia Charly, colpevoli di assassinii, stupri, mutilazioni, uno solo fu condannato: il tenente William Calley. Ma l’opinione pubblica americana subì una metamorfosi: da una situazione di vergogna e di condanna si trasformò in un atteggiamento di giustificazione e di perdono. William Calley, incarcerato per tre giorni, fu rilasciato per ordine del presidente Nixon e posto agli arresti domiciliari. Tre anni dopo la prima sentenza che lo condannava all’ergastolo, fu rilasciato sulla parola.
A seguito di quanto sin qui scritto, il passaggio ad un accostamento alle rappresaglie messe in atto dalle Forze del Male nel secondo conflitto mondiale, risulta automatico. Ma è un accostamento improponibile, e ci spieghiamo. Le Convenzioni Internazionali di guerra vigenti sino al termine del 1945 prevedevano, in ben circostanziati casi, il Diritto di rappresaglia, in questi termini: <La rappresaglia, condotta obbiettivamente illecita, diventa, per le particolari circostanze in cui viene attuata, condotta lecita (…). (La rappresaglia) è una reazione all’atto illecito, la cui liceità deriva dall’esistenza di un precedente atto illecito>.
Ne consegue che, pur nella loro ferocia, stupidità e inutilità, le rappresaglie messe in atto dalle Forze del Male nella seconda guerra mondiale erano, perlomeno, atti leciti.
Invece, nel dopoguerra, il Diritto Internazionale, l’atto, allora lecito, venne modificato : <L’articolo 33 della Convenzione di Ginevra del 1949, in deroga a quanto prima era consentito dall’art. 50 dei Regolamenti dell’Aja del 1899 e del 1907, proibisce in modo tassativo le misure di rappresaglia collettiva, di cui si ebbe abuso delittuoso nell’ultimo conflitto>.
Di conseguenza tutte le azioni, tutte le rappresaglie messe in atto dal 1949 in avanti, non essendo ammesse – anzi esplicitamente condannate dal Diritto – debbono essere considerate semplicemente degli assassinii di massa e gli autori, veri criminali di guerra, perseguibili in ogni momento.
Ci siamo spiegati?


 

Omaggio ai caduti della Repubblica Sociale Italiana

 
Ufficio Stampa

Comitato Pro 70° Anniversario dello Sbarco di Nettunia.



Il 23 Marzo 2014, XCV Anniversario della fondazione dei Fasci Italiani di Combattimento, oltre duecento persone hanno affollato il Campo della Memoria di Nettuno (Roma), per la cerimonia di riconsacrazione del cimitero di guerra della RSI, atto dovuto dopo che una banda di immigrati aveva rubato le lapidi in ricordo dei caduti.

Il sacrario del Ministero della Difesa è stato nel corso degli anni più volte profanato, prima da “neopartigiani”, oggi da stranieri. L’Associazione “Campo della Memoria” ha provveduto al ripristino di tutte le lapidi rubate e ha chiamato a raccolta chi crede ancora nei sacri ed immortali valori della Patria, della Nazione, del Popolo, perché con un atto di presenza si possa mandare un monito agli antifascisti che da sempre si sono schierati contro ogni ricordo dei caduti italiani della Seconda Guerra Mondiale, quali sono i ragazzi della RSI che si opposero tra il 1943 e il 1945 all’invasore angloamericano, immolando le proprie vite in nome di un’Idea, della libertà e dell’onore d’Italia.

Presenti i labari e le bandiere di guerra dell’Unione Nazionale Combattenti della RSI, dell’Associazione Xa Flottiglia MAS – RSI, dei Volontari di Guerra (tra cui spiccavano i labari delle Federazioni dell’Istria, del Carnaro e della Dalmazia e di Roma), del Battaglione “S. Marco”, della Legione M d’Assalto “Tagliamento” e dell’Associazioni Paracadutisti d’Italia (Roma, Voghera – Oltrepo Pavese, Latina e Anzio-Nettuno). Non hanno mancato di mandare una propria delegazione l’Ordine dell’Aquila Romana e l’Associazione Nazionale Arditi d’Italia. Presenti anche gli ultimi reduci della Decima MAS, della Legione “Tagliamento” e della “Folgore”, tra cui ricordiamo il Paracadutista Sante Pelliccia di Nettuno, combattente di El Alamein. Messaggi di partecipazione sono stati portati dalla Principessa Borghese e da Anna Maria Mussolini. Moltissimi i giovani che con la loro presenza hanno voluto raccogliere il testimone che i combattenti della Repubblica Sociale Italiana hanno offerto loro in un simbolico passaggio delle consegne nel nome della Patria immortale.

Saluti romani per ricordare i martiri fascisti



Cori e saluti romani. Croci celtiche e teste rasate. Così, ieri, un centinaio di ex combattenti della Rsi e militanti di destra si sono adunati di fronte al Sacrario dei «martiri della rivoluzione fascista» al cimitero Monumentale per ricordare la nascita dei fasci di combattimento in piazza San Sepolcro il 23 marzo 1919.

Il gruppo ha «reso omaggio e il dovuto onore a chi ha lottato per fare l'Italia grande, come non era stata prima e come non è poi stata più». Il relatore, che indossava un basco nero, si è definito «orgogliosamente fascista» e ha bollato i partigiani come «canaglie rosse». I presenti hanno quindi salutato i «martiri del fascismo» con un saluto romano.
Oltre all'Associazione nazionale arditi d'Italia e all'Unione combattenti della Rsi erano presenti i giovani skinhead del movimento Lealtà azione, che hanno fondato l'associazione «Memento», che un mese fa espose la bandiera della Repubblica Sociale Italiana al campo 10 del cimitero di Musocco. La cerimonia di ieri è durata corca un ora, per poi concludersi sulla tomba del poeta Filippo Tommaso Marinetti, il padre del Futurismo. Il presidente del consiglio di Zona 8, Simone Zambelli ha presentato una denuncia ai carabinieri per quella che ritiene «una chiara violazione della legge Mancino sull'apologia di fascismo». Roberta Capotosti, consigliere provinciale di Fratelli d'Italia, che come gli altri presenti ha ricordato i caduti della Rsi con il saluto romano, replica: «Questi tentativi di limitare la nostra libertà di espressione per fortuna lasciano il tempo che trovano».

Fonte art.  http://www.ilgiornale.it    

lunedì 24 marzo 2014

La disinformazione comunista ancora nasconde la verità su Togliatti

 
 
Comunismo micidiale pestilenza che serpeggia per le intime viscere della società e la riduce all'estremo pericolo di rovina.

Art Di Massimo CAPRARA.



Il terzo canale televisivo della Rai ha mandato ieri sera in onda, in prima serata, una puntata della trasmissione Enigma, dedicata a Togliatti. Essa costituisce un'iniziativa apprezzabile perché il leader comunista è in genere assai citato, ma poco studiato e approfondito. Si è trattato, innanzitutto, della famigerata lettera scritta di pugno da Togliatti nel 1943 e resa nota in Italia nel 1992, sulla dolorosa questione dei soldati italiani dell'Armir fatti prigionieri in Unione Sovietica. A suo tempo, la lettera provocò un giustificato clamore e fu oggetto di una revisione critica del testo. In effetti, la sostanza reale della lettera di Togliatti risultò, e risulta, in pratica confermata. Irrilevanti sono le varianti apportate nella seconda lettura e nella traduzione integrale. Il contesto fu indiscutibilmente quello di una inaudita violenza contro uomini inermi e non c'è dettaglio lessicale o formale che possa attenuarne la gravità. Togliatti-Ercoli si proclamava senza mezzi termini e con vari argomenti, insensibile alla strage dei prigionieri italiani, anzi sostenitore di una sorta di pedagogia punitiva nei confronti dell'Italia entrata in guerra.

Io stesso ho conosciuto Vincenzo Bianco, interlocutore della lettera a Togliatti, allora funzionario del Komintern, poi addetto alla commissione di Organizzazione delle Botteghe Oscure e all'Unità. Parlai molte volte con lui e non mi risultò mai che egli attenuasse la durezza del Kgb sovietico e della nomenklatura comunista italiana, in particolare di Togliatti, nei confronti dei soldati italiani. Del resto, va ricordata un'ulteriore sostanziosa realtà. Non si trattò infatti di fatti ambientali. La voluta persecuzione morale e ideologica si esercitò a carico dei prigionieri italiani con un altro mezzo, cioè con le Scuole di comunismo installate nei campi di concentramento. Nell'immediato dopoguerra, uno degli «insegnanti» di questi corsi di addottrinamento coatto, Edo, ossia Edoardo D'Onofrio, divenuto segretario della Federazione comunista di Roma, fu condannato con testimonianze inoppugnabili da un Tribunale italiano. I corsi finivano spesso con il trasferimento di prigionieri ribelli o indocili in campi di concentramento di maggiore asprezza e con spietate fucilazioni.

Vale la pena di aggiungere un commento sulla trasmissione. Essa ha ospitato in studio due autorevoli dirigenti per età e mandato dell'ex Pci e dell'attuale Ds. I due personaggi si sono dimostrati commentatori coscienziosi e testimoni informati, ma di parte. Se si esclude qualche controllata riflessione critica espressa dal solo Paolo Mieli, la figura di Togliatti è uscita dagli schermi della trasmissione come quella di un ordinario uomo politico, dalle forti motivazioni ideologiche e dalle sofferte, compassionevoli vicende personali. Questa non è l'autentica realtà, poiché ne è soltanto un'evasiva porzione. Togliatti-Ercoli, fu un testimone e partecipe del Terrore, sia nella Spagna del 1936 che nell'Unione Sovietica dello stalinismo. In una scheda di un antifascista italiano, di cui il Kgb proponeva negli anni Trenta la deportazione in un gulag di efferata crudezza, Ercoli appone esplicitamente la sua firma convinta e il suo benestare. Da parte dei due rappresentanti comunisti è mancato qualsiasi sincero moto di condanna sorgente dall'animo. E' stata omessa qualsiasi esecrazione, qualsiasi necessaria espressione di riprovazione pur sintetica, qualsiasi semplice osservazione dura, ma immancabile sull'uomo Togliatti. E' stata adottata un'accademica distanza che dovrebbe essere sostituita da una riprovazione più netta e appassionata. Non rivendico partecipazioni emotive. Manca nel ritratto televisivo del Togliatti politico il suo raggelante deserto di umanità.

Bei compagni alle coop!

Art. di Rodolfo RIDOLFI.

Non c'era bisogno della pubblicazione delle intercettazioni D'Alema-Consorte, La Torre-Ricucci, Fassino-Consorte per confermare che il sistema coop rappresenta il più grande conflitto d'interessi italiano ed europeo ed una macroscopica anomalia che il commissario europeo, responsabile della politica di concorrenza, Neelie Kroes dovrebbe risolvere concludendo rapidamente un procedimento che vede sul banco degli "imputati" proprio le coop per i benefici di cui godono da decenni. Certo le conversazioni telefoniche non lasciano dubbio circa il rapporto fra gli attuali governanti e le imprese cooperative rosse. Sono talmente chiare da essere lette anche da Neelie Kroes come la prova, se ne avesse bisogno, che le coop rosse, di mutualità, socialità ed etica cooperativa hanno ben poco e ben poco a che fare hanno anche con l'art.45 della Costituzione. Ha quindi molte ragioni la Federdistribuzione che nell'esposto alla UE del 4 aprile 2006 sosteneva che le coop non praticano i prezzi più bassi sul mercato, come testimoniano le indagini di mercato per la rilevazione dei prezzi di vendita al pubblico; attuano politiche di fidelizzazione del tutto analoghe a quelle adottate dalle altre catene commerciali; generano ogni anno importanti profitti, che non sono generalmente ridistribuiti ai loro soci sotto forma di ristorni (come fanno le vere cooperative), ma che vengono reinvestiti anche in altre attività (quali agenzie di viaggio, investimenti immobiliari, catene commerciali fuori dall'Italia, attività finanziarie/assicurative Unipol) del tutto estranee all'oggetto e alla funzione sociale tradizionale di una cooperativa di consumo. Nonostante abbiano perso le loro originarie caratteristiche sociali ed operino in un mercato pienamente concorrenziale ed aperto agli operatori comunitari, le coop beneficiano di significativi vantaggi fiscali (IRES) in rapporto alle altre società non-cooperative presenti sul mercato italiano della grande distribuzione organizzata.
Da molto tempo, sosteniamo e lo abbiamo dimostrato nel libro "Le coop rosse" che le agevolazioni fiscali concesse dall'Italia alle coop violano il Trattato europeo (art.87) che vieta (e sanziona) gli aiuti di Stato alle imprese nazionali. Insomma, le Coop sono privilegiate rispetto alle società per azioni che pagano più tasse e non possono contare su sistemi di approvvigionamento di risorse finanziarie così convenienti. Se il parere richiesto dai giudici italiani della Cassazione tributaria, il 17 febbraio 2006, dovesse essere riconoscere il sostegno indebito (in violazione delle norme sulla concorrenza), le coop perderebbero i vantaggi fiscali fin ad oggi avuti, e dovrebbero rimborsare allo Stato almeno una parte delle tasse mai versate. Secondo stime molto prudenti i vantaggi fiscali di cui le coop godono valgono annualmente più di due miliardi di euro di minori imposte, 750 milioni secondo le stime elaborate nel 1995 dalla Confcooperative. Se l'Unione europea dovesse avallare la richiesta dei giudici tributari italiani, il mondo delle cooperative pagherebbe finalmente le tasse come una qualsiasi Spa, e dovrebbero rimborsare allo Stato oltre un miliardo di euro di imposte l'anno, almeno per gli ultimi 10 anni. Comparando due imprese (una Spa e una Coop) di pari dimensione e fatturato ci si accorge che solo di Ires una coop risparmia, rispetto ad una società per azioni, più del 64%.
Se si tiene conto di "Abbiamo una Banca? ... Consorte facci sognare", "Abbiamo il 51,8% di Bnl e nell'operazione ho coinvolto 4 banche cooperative che fanno capo a Stefanini", "compagno Ricucci"; se si tiene conto del sequestro di 55 mln in titoli e quote societarie è stato effettuato dalla Guardia di Finanza all'immobiliarista Vittorio Casale (quello del Bingo). Il sequestro è stato disposto dal gip nell'ambito dell'inchiesta che a gennaio portò al sequestro di una plusvalenza di 9,5 mln agli ex vertici di Unipol; se si tiene conto del tesoretto italo-lussemburghese di oltre trenta milioni di euro che ha visto protagonista la Coopservice di Reggio Emilia attraverso il suo presidente; se si pensa alla Vicenda Visco-Speciale; non possiamo che ripetere: bei compagni alle coop!

Quegli operai innocenti vittime della Resistenza

Di Stefano ZURLO
 
"Il comunismo non è un sistema politico... ma una malattia di massa, simile all'epidemia di una peste".
 
 
 La storia dell'umanità abbonda purtroppo di momenti oscuri. L'ideologia comunista ha, dal canto suo, partorito il crimine più atroce che sia mai stato commesso contro l'umanità. Questo perché era criminale l'ideologia stessa. Karl Marx, raccogliendo un'eredità di utopie egualitarie precedenti la sua, ha in sostanza costruito una sorta di «religione senza Dio»

È un capitolo atroce e imbarazzante della Resistenza: sei operai della Piaggio uccisi a sangue freddo dai partigiani comunisti di Francesco Moranino nell'ottobre '44. Un episodio inspiegabile, dimenticato in fretta e ora ricostruito da Roberto Gremmo nel suo libro «La Piaggio a Pontedera» (Storia ribelle, disponibile scrivendo alla casella postale 292 13900 Biella).

La storia comincia quando i tedeschi nella primavera '44 decidono di trasferire la Piaggio in una zona più sicura, spostando macchinari e uomini dalla Toscana al Biellese. La Piaggio è in quel momento il cuore dell'industria aeronautica italiana e dai suoi stabilimenti escono i velivoli che limitano nei cieli lo strapotere degli Alleati. In teoria gli operai hanno vinto, con quel trasloco, un terno al lotto. Stipendi più alti, lontananza dal fronte, certezza di non essere deportati in Germania. Ma chi ha deciso l'operazione non ha fatto i conti con la presenza in zona di agguerrite bande partigiane. Fra il 19 e il 20 ottobre sei operai vengono prelevati e uccisi. I sei non sono fascisti, non hanno colpe o responsabilità particolari: nulla di nulla. E allora perché eliminarli con tanta ferocia? Una rappresaglia? Il tentativo di mettere le mani sulla Piaggio? Una vendetta privata inserita nella cornice della guerra?

Nell'aprile 1945 Biella viene liberata, uno dei parenti delle vittime riesce a incontrare Moranino e il comandante Gemisto (questo il suo nome di battaglia) offre una spiegazione: il massacro è stato provocato da alcune schegge impazzite del movimento partigiano e, in particolare, dai garibaldini Cric e Milan. I corpi vengono recuperati, Moranino si occupa addirittura di riabilitarli: «Tenuto conto che gli elementi accusatori erano i garibaldini Cric e Milan, entrambi deferiti in seguito al Tribunale militare per rapina e spionaggio ai danni delle formazioni e che il nominato Cric trovasi attualmente nelle carceri di Biella a disposizione delle autorità competenti, delibera di riabilitare la memoria dei giudicati in quanto il giudizio emanato in sede non opportuna, seppure in periodo eccezionale di rastrellamento, avrebbe potuto in sede di tribunale di brigata legalmente costituito non comportare la pena capitale».

Una spiegazione che non spiega nulla ed è smentita da un documento redatto nell'ambiente partigiano e saltato fuori dagli archivi. Si tratta di un elenco «di spie fucilate», in cui compaiono i nomi di quei disgraziati passati per le armi, inseriti nella lista alla data, errata, del 12 maggio 1944. Gremmo avanza un'ipotesi: «In gran parte fasullo, l'elenco tentava di prefigurare una sorta di alibi, da tenere pronto nel caso, non improbabile, di dover giustificare quella carneficina».

Insomma, fra l'elenco, le parole di Moranino, quelle di Annibale Giachetti - che ha attribuito la strage a un altro comandante partigiano - si crea confusione, forse voluta per evitare la scoperta della verità. E dei loschi, inconfessabili traffici messi in piedi dagli uomini di Moranino con i nemici nazisti. Un fatto è certo; in quel periodo i colonnelli di Moranino portano a termine altre esecuzioni mirate: «In quel territorio - scrive Gremmo - Gemisto e i suoi avevano stretto un inconfessabile accordo occulto con i nazisti accordandosi per ricevere una sostanziale contropartita, favorendo il commercio di tessuti delle fabbriche biellesi, spediti direttamente in Germania per le esigenze belliche del Reich con la benevola protezione dei partigiani». E allora ecco affacciarsi il possibile movente: «O i sei operai avevano visto troppo oppure Moranino ed i suoi volevano impedire che prima o poi potessero scoprire qualcosa e parlarne in giro».
Risultato: Cric e Milan, per quel delitto non pagarono mai. Dopo la guerra, vengono arrestati ma per altre vicende. A Pontedera, invece, il caso dei sei torna in superficie nel '90 quando il capogruppo di An Sergio Giuntoli propone di intitolare una via ai caduti di Biella. Qualcuno avrebbe preferito l'espressione «Martiri di Biella», ma il consiglio comunale stabilisce di puntare sulla formula più neutra «Caduti di Biella». È tutto quel che ci è rimasto di quella tragedia.

Fregati dalla scuola - Resistenza.

Rino CAMMILLERI.



E' ormai acquisito alla storiografia più seria che la Resistenza non fu affatto un'epica lotta di popolo ma riguardò solo una minoranza, e fu un fenomeno localizzato in alcune zone del Nord. La mitologia resistenziale ha invece occultato il ruolo svolto dall'esercito regolare italiano che combatté a fianco degli Alleati. I comunisti in breve riuscirono a egemonizzare i comitati di liberazione e, nei cosiddetti «triangoli della morte», ne approfittarono per sbarazzarsi di avversari politici. Oltre a ex fascisti, anche preti, e perfino partigiani non comunisti finirono uccisi in questi regolamenti di conti ideologici, tesi a sgombrare preventivamente il terreno da futuri oppositori. Al confine con la Jugoslavia i partigiani titini procedevano alla «pulizia etnica» degli Italiani nelle famigerate foibe. L'attentato di via Rasella, a Roma, veniva perpetrato per scatenare, con la rappresaglia tedesca, l'odio della popolazione civile. E anche per eliminare quella componente comunista «di sinistra» che non aveva intenzione di obbedire alle direttive politiche di Stalin. Infatti gli attentatori, malgrado le ripetute intimazioni tedesche, non si consegnarono (tra l'altro la bomba aveva ucciso solo Italiani, cioè Altoatesini arruolati a forza dai Tedeschi, nonché alcuni civili, tra cui un bambino) e la rappresaglia riguardò un gruppo di Ebrei e molti partigiani della formazione «Bandiera rossa» detenuti nelle carceri romane. Nel Nord la brigata partigiana «Osoppo» (di cui faceva parte il fratello del regista Pasolini) fu trucidata dai partigiani comunisti.

Tutto sommato la Resistenza non accelerò affatto la dipartita dei Tedeschi; anzi trasformò in un calvario di rappresaglie (ai danni dei civili inermi) quella che poteva essere una ordinata ritirata. Lo scopo era quello di permettere ai comunisti, che non avevano fino a quel momento alcun ruolo rilevante nella vita politica e sociale italiana, di guadagnarsi un posto di primo piano nel futuro assetto del paese.

Anzi l'idea era quella di prendere il potere tramite la «rivoluzione», come era stato in Russia (qui, infatti, i bolscevichi approfittarono dello sbandamento cagionato dalle prime disastrose sconfitte russe nella Grande Guerra per sbarazzarsi prima dello zar e poi dei menscevichi). I socialisti, di cui faceva parte il futuro presidente Pertini, prima dell'avvento di Craxi erano praticamente loro succubi. Finita la guerra i comunisti scateneranno la guerra civile in Grecia. L'Italia se la cavò perché ormai Stalin a Yalta vi aveva rinunciato.

Associazione Memento.



 
Volontari di Memento ospiti della commemorazione organizzata dalle Associazioni degli ex-combattenti per l'anniversario della fondazione dei fasci di combattimento. Compatti e sobri, i volontari hanno marciato portando in cuore i valori del...l'italianità offerti in sacrificio sull'altare della patria dai Caduti del monumentale. In silenzio si impara, marciando si cresce. Un ringraziamento di cuore agli organizzatori della commemorazione che hanno offerto ai nostri ragazzi di potere salutare i Pionieri vissuti e morti perché la Patria vivesse.
 
 


domenica 23 marzo 2014

Comunismo: la terribile carneficina

 
 
Oltre 200.000.000 di vittime. Questo il tragico bilancio del Comunismo realizzato.
L'ateismo marxista ha combattuto Dio e ucciso l'uomo.


Eugenio CORTI.


"Dai loro frutti li potrete riconoscere" (Mt 7,20). La verità di questa massima evangelica, sempre attuale, ci porta a formulare un giudizio di severa condanna del Comunismo. La considerazione dei frutti, o, perlomeno, dato lo spazio limitato di un articolo, del più tragico di questi: l'altissimo numero di vittime che il comunismo ha provocato ovunque si è instaurato, obbliga ogni spirito libero a condannare nei termini più rigorosi una ideologia che, anzichè difendere le classi umili, ha finito con il far pagare, a prezzo della loro vita, proprio a milioni di poveri e di innocenti la follia di un progetto diabolico che pretendeva di costruire una società senza Dio.

Basti ricordare, per fare un primo esempio, la lotta guidata da Stalin ai contadini piccoli proprietari che comportò nel 1929 e 1930 la deportazione-sterminio di 10 milioni di kulaki, più di 5 milioni di subkulaki, cui seguirono 6 milioni di morti di fame nella conseguente carestia "artificiale" del 1931-32 (con molti casi di cannibalismo). In questa lotta vennero dunque sacrificate complessivamente 21 milioni di persone. Quante furono in totale le vittime in Unione Sovietica? Stando a quanto afferma il professore di statistica Kurganov, tra il 1917 e il 1959, cioè nei primi 42 anni di dominio comunista, le perdite umane dovute alle deportazioni nei campi di sterminio, alle condanne ai lavori forzati, alle fucilazioni di massa o alle carestie provocate dall'arresto e dalla deportazione di milioni di contadini furono più di 60 milioni.

A confermare questo numero spaventosamente elevato di vittime, superiore di oltre dieci volte al numero degli Ebrei perito a causa dell'olocausto, va ricordato che il 28 ottobre 1994, in un discorso al Parlamento russo (Duma), Solgenitsin ha affermato che i morti dovuti al comunismo furono 60 milioni: nessuno, sia in Parlamento che fuori, ha sollevato obiezioni.

Per quanto concerne il numero delle vittima provocate dal Comunismo cinese, disponiamo di informazioni meno dettagliate, e di gran lunga meno documentate che per la Russia. Tuttavia, un calcolo molto vicino alla realtà è possibile. Anzitutto, per il decennio che va dal 1949 (anno della vittoria dei comunisti e della proclamazione della repubblica popolare) al 1958 riportiamo ciò che scrive l'ex ambasciatore d'Italia a Mosca Luca Pietromarchi: "In Cina... il comunismo ha causato la perdita, dal 1949 al 1958, di cinquanta milioni di vite umane... Inoltre 30 milioni di contadini furono inviati in campo di concentramento".

Dopo di queste, negli anni del "Grande balzo in avanti" (1958-1960) e subito successivi, si ebbero le perdite più terrificanti, dovute alla carestia artificiale prodotta dall'espropriazione dei contadini. Secondo il famoso sinologo Lazlo Ladany (che fu per decenni redattore a Hong Kong del notiziario China News Analisys, da cui attingevano materia prima praticamente tutti i giornali occidentali) i morti di fame tra il '59 e il '62 sarebbero stati 50 milioni.

Durante questi stessi anni e in quelli successivi fino al 1966 (anno d'inizio della "Grande rivoluzione culturale"), si ebbe inoltre lo stillicidio sistematico delle vittime dei "campi di rieducazione attraverso il lavoro". Secondo R.L. Walker ed altri sinologhi, il numero dei deportati oscillava allora tra i 18 e i 20 milioni; il che - volendo supporre, con ottimismo, una mortalità nei lager cinesi analoga a quella sovietica, cioè del 7-8% annua - comporterebbe un milione e mezzo circa di morti all'anno, dunque una dozzina di milioni per il periodo 1958-1965.

L'unico studio sistematico a nostra conoscenza, relativo all'intera prima fase che va dal 1949 al 1965, è quello effettuato da Richard L. Walker per conto del Senato americano: studio che da - ripartendole per categorie - da un minimo di 34.300.000 a un massimo di 63.784.000 vittime, a seconda delle fonti. Vi mancano, però, quasi del tutto, i dati relativi alle vittime del "Grande balzo in avanti".

Nel periodo successivo, cioè negli anni dal 1966 (inizio rivoluzione culturale), al '76 (morte di Mao), si ebbero appunto le vittime prodotte dalla rivoluzione culturale, che ammontano certamente a diverse decine di milioni. Un quadro fondato scientificamente del numero complessivo delle vittime fatte dal comunismo in Cina potrebbe essere suggerito dallo studio statistico di Paul Paillat e Alfred Sauvy, pubblicato nel 1974 sull'autorevole rivista parigina Population (n. 3, pag. 535).

Da esso emerge che la popolazione cinese era in quell'anno inferiore di circa 150 milioni di persone a quella che avrebbe dovuto essere statisticamente, cioè in base al suo tasso di crescita pur calcolato in modo prudenziale.

In Cambogia, nel triennio 1975-1978, la percentuale di vittime innocenti da parte del Comunismo raggiunse una proporzione mai conosciuta prima nella storia dell'intera umanità. I capi comunisti Khmer il giorno stesso della presa del potere hanno deportato oltre metà della popolazione del loro sventurato Paese. Aggiungendosi la gente già da essi deportata in precedenza nelle zone in loro possesso, si arriva a circa l'80% della popolazione: in tal modo praticamente tutta la Cambogia venne trasformata in un enorme lager.

Contemporaneamente alla deportazione, i capi Khmer diedero inizio all'eliminazione fisica di tutte le persone in qualche modo "contaminate" dal capitalismo (cioè, in Cambogia, dal colonialismo), procedendo all'annientamento degli ex detentori del potere, ex detentori dell'avere ed ex detentori del sapere. Complessivamente le vittime furono, in circa tre anni, vicine ai 3 milioni, su 7 milioni di abitanti che annoverava il Paese al momento della vittoria comunista (nell'aprile 1975): furono dunque superiori a un terzo dell'intera popolazione. L'obiettivo al riguardo dei capi-ideologi Khmer era contenuto in una terrificante circolare da loro distribuita alle autorità provinciali già nel febbraio del '76, che venne portata in Thailandia da un capo Khmer profugo: "Per costruire la Cambogia nuova un milione di uomini è sufficiente".

Nel frattempo tutti i compiti di qualche importanza nella società venivano, per quanto possibile, affidati a bambini e ragazzi "non contaminati dal capitalismo" a motivo della loro età. Negli altri paesi in cui i comunisti hanno preso il potere si ebbero (secondo il recente calcolo minimale di S. Courtois, "Il libro nero del comunismo"): in Corea del Nord 2 milioni di vittime, in Vietnam 1 milione, nell'Europa dell'Est 1 milione, in Africa 1.700.000, in Afganistan 1.500.000. Ma finchè non emergeranno notizie che possano fondatamente modificare la terribile contabilità dei massacri, si deve rimanere fermi sul totale di 215-220 milioni di vittime circa. Oggi in Italia un così sterminato massacro, di gran lunga il maggiore nella storia dell'umanità, è come se non ci fosse mai stato: ben pochi si sono curati di appurare la verità al riguardo.
Le ragioni.
 Oggi tanti loro eredi pensano appunto, confusamente, che quegli orribili massacri, se non giustificati, siano stati però nobilitati dalle buone intenzioni iniziali. Va detto che queste stragi non avevano affatto lo scopo di conservare il potere ai comunisti (non sarebbero state necessarie): quelle stragi facevano parte - in parallelo con l'incremento della produzione materiale - del meccanismo che secondo Marx e Lenin avrebbe dovuta produrre una "società di uomini nuovi". Tale meccanismo presupponeva tra l'altro la "violenza come levatrice della società nuova". Si voleva, in pratica, far cambiare a ogni uomo la sua coscienza e la sua natura. Senza tenere nel minimo conto i reali risultati, che consistevano soltanto in montagne e montagne di cadaveri, i comunisti hanno insistito su questa strada perchè il fermarsi avrebbe comportato la rinuncia all'utopica società nuova - libera dai mali di tutte le società precedenti - per costruire la quale essi avevano ormai fatto un così sterminato numero di morti.

La storia negata: il silenzio in Italia sui crimini comunisti

I comunisti esisteranno finché non sarà fatta piena luce sui loro crimini occultati.

Di Paolo CAROTENUTO.

Ha riscosso una grande partecipazione di pubblico il convegno che si è tenuto a Napoli sui crimini negati del comunismo in Italia organizzato dalla Fondazione Campi Flegrei. Grazie anche a relatori di livello assoluto, presenti giornalisti del calibro di Dario Fertilio e Giancarlo Lehner, oltre agli apprezzati De Simone e Nardiello del quotidiano Il Roma, sono stati presentati volumi di grande valore volti a rimuovere quel silenzio non casuale che è calato su pagine ancora oggi inesplorate della nostra storia. In sostanza non si tratta di riscrivere la storia attraverso un'azione revisionista, ma si tratta di scoprire eventi che fino ad oggi sono stati volutamente occultati, manipolati e falsificati. Ma chi è che ha intrapreso questa scientifica e metodologica azione di rimozione del passato? E' stata la domanda alla quale si è cercato di dare una risposta. Innanzitutto con Dario Fertilio, giornalista del Corriere della Sera ed autore de La morte rossa (edito dalla Marsilio), per il quale si sono dette pseudo-verità per occultare la realtà e l'essenza dei fatti. Se alla parola lager corrisponde la definizione di campo militare per addestramento militare, se alla parola foiba corrisponde il significato di cavità carsica più o meno profonda prodotta dalle acque correnti, a quella di gulag si è attribuita la corrispondente traduzione di "campo di rieducazione".
Due sono gli obiettivi perseguiti in questo modo. Dimenticare, relegare "tra parentesi" esperienze che magari un domani possono consentire di riprendere un discorso lasciato in sospeso; negare, perché di fronte alla negazione dei crimini del comunismo, è più semplice elevare simboli e bandiere di Lenin o di Che Guevara, ovvero simboli di morte e umiliazione dei diritti fondamentali dell'uomo e della sua dignità.

Il comunismo ha agito in maniera molto simile in tutti i Paesi nei quali ha raggiunto il potere, dall'Unione Sovietica alla Jugoslavia, dai paesi dell'Europa dell'Est all'Albania, da quelli dell'Asia sovietica a quelli dell'America latina, ed ha riprodotto quasi sempre gli stessi scempi che nell'arco di pochi anni si sono compiuti per mano dei regimi nazionalsocialisti. Ma la differenza che ha contraddistinto il comunismo dal nazionalsocialismo è nella menzogna di fondo di cui il comunismo si è dipinto, che pur mantenendo la sua identica forza distruttiva, si travestiva da redentore. Per questo i genocidi comunisti devono essere ricordati e non dimenticati o nascosti come si è fatto fino ad oggi. Alle date del 27 gennaio ed ora del 10 febbraio, che lasciano sovente spazio alla retorica che accompagna la memoria, è doveroso elevare al medesimo rango quella del 7 novembre, anniversario della rivoluzione bolscevica e che è stata proposta come Giornata della memoria delle vittime comuniste (Memento Gulag) grazie all'impegno caparbio dei Comitati per le Libertà (www.libertates.org), di cui lo stesso Fertilio è presidente e fondatore.

A chi ritiene l'anticomunismo come un disco rotto, ha replicato Armando De Simone, autore con Vincenzo Nardiello dell'apprezzato volume di ricerca Appunti per un libro nero del comunismo italiano (ed. Controcorrente), che ha ricordato quale sia lo scandalo che si è perpetrato fino ad oggi. Il vero tradimento degli intellettuali è testimoniato proprio da un convegno come quello di Napoli, dove a parlare di un simile argomento sono stati quattro "giornalisti" e non storici o studiosi. Nessun professore ci ha raccontato di 200 milioni di persone morte, nessuno ha documentato questa che è una storia negata. Ed è lecito indagare sulle ragioni per le quali chi sapeva ha preferito tacere.

Fino ad oggi non è ancora stato compiuto alcun processo al Partito comunista italiano e questo tema non lo si pone nemmeno oggi, un periodo nel quale retoricamente si fa richiamo spesso al dovere della memoria. Ma a quale memoria ci si fa appello e perché questa deve essere pilotata, circoscritta? Per questo non abbiamo bisogno di mentitori professionisti, ma di comunisti veri, quelli come Massimo D'Alema che in Unione Sovietica c'è stato 47 volte; abbiamo bisogno dei Fassino, che è stato segretario della più grande federazione comunista italiana, quella di Torino, e che oggi si definisce riformista semplicemente perché al congresso dei Ds ha ricordato la figura di Bettino Craxi come una delle più grandi del socialismo europeo. E vogliamo sapere dove sono finiti i piani di insurrezione contenuti in 5 valigie in pelle verde, laddove addirittura Soave ha ammesso che questi piani furono organizzati fino alla fine degli anni '80. Stiamo parlando di attentati alla costituzione, reati imprescrittibili, sui quali nessun magistrato ha voluto indagare. Come è stato possibile tutto questo?

Stavolta è Vincenzo Nardiello che prova l'impresa di dare una spiegazione, evidenziando come la storia sia stata messa a servizio di un progetto politico, visto che qui non si parla di fatti interpretati male, non conosciuti o posti correttamente, ma di pagine che sono state espulse completamente dal dibattito storico. Pagine che nessuno storico si è preso la briga di raccontare, come quella che vide Palmiro Togliatti invitare ad accogliere i titini come liberatori e di realizzare uno scambio tra Gorizia e Trieste. Perché tutto questo? Una prima risposta è rinvenibile nel fatto che una parte degli storici erano di fatto dirigenti o esponenti comunisti. Ma questi da soli non erano sufficienti per portare a compimento questa impressionante opera mistificatoria. E qui ci viene in soccorso Ernesto Galli della Loggia che recentemente ha ammesso quanto gli storici e gli intellettuali moderati si siano piegati al volere dei comunisti che non gli chiedevano di essere comunisti, ma semplicemente di non essere anticomunisti.
Immaginate che cosa sarebbe accaduto, ad esempio, se un agente della CIA avesse seguito Aldo Moro, il segretario del più grosso partito italiano, fino al giorno prima del suo sequestro. E' successo, invece, che sia stato pedinato da un agente del Kgb come dimostrano i documenti ufficiali provenienti dagli archivi dell'Unione Sovietica. Non patacche, ma prove scritte, atti ufficiali, drammaticamente sconcertanti sui quali continua ad aleggiare un silenzio che si fa sempre più assordante.
Dunque oggi ha senso rileggere la storia nel tentativo di depurarla da questi inaccettabili condizionamenti che hanno fatto sì che alcune verità non venissero alla luce? Ed ha senso dichiararsi ancora anticomunisti, oggi che il Muro di Berlino è crollato ed il regime sovietico si è dissolto?
Ebbene sì, un simile comportamento è prima di tutto un dovere, perché, come ci ricorda Giancarlo Lehner, autore de La Tragedia dei comunisti italiani, le vittime del Pci in Unione Sovietica (edito per la collana le Scie della Mondadori), essere contro il comunismo non è una contingenza politica, ma è un principio ed un dovere morale. E ricorda anche che il comunismo non lo si combatte con l'anticomunismo urlato ma semplicemente raccontando i fatti e ricercando la verità. Del resto basta riportare alcune chicche presenti nel libro del giornalista e storico, direttore de Il Giusto Processo, per rendersi conto di quanto sia stato enorme il lavoro di dissimulazione prodotto fino ad oggi: in una lettera inviata al suo comando firmata da Giorgio Bocca, all'epoca attivista partigiano, è possibile leggere il suo sconcerto per taluni eccessi di partigiani comunisti, come quelli di un comandante partigiano di nome Rocca "specializzato ad uccidere personalmente i prigionieri fascisti squartandoli a colpi di pala". Un Bocca allibito si domandava fino a che punto fosse lecito arrivare. Questo valoroso partigiano, ovviamente, non ha avuto alcun problema per i suoi atti, se non una medaglia d'oro.

Ma se un tempo erano pagati per disinformare, oggi a sinistra si segnalano professori per la loro imbarazzante ignoranza. E' di pochi giorni fa un articolo pubblicato sul quotidiano La Repubblica di Tabucchi, autore tanto in voga e pompato dall'intellighenzia di sinistra, che tranquillamente si è preso il lusso di dichiarare che Gramsci fosse morto in carcere.
E' evidente che dinanzi a simili mistificazioni si comprende anche perché sia abilmente taciuto da questi "professionisti della menzogna" la vera essenza del patto Molotov-Ribbentrop che nel 1939 ha sancito la nascita dell'asse nazi-comunista e che diede il via libera a Hitler per l'eliminazione degli ebrei. Fu in quel frangente che Stalin, in segno di concordia, si permise di offrire in "regalo" ad Hitler tutti gli ebrei internati nei gulag. Questo è un dato storico, provato, inconfutabile: la persecuzione degli ebrei partì con il benestare di Stalin, dei comunisti. Innegabile a tal punto che nei libri di storia non v'è menzione alcuna. All'epoca, inoltre, Hitler non doveva di certo apparire come un mostro dai "benpensanti rossi", visto che esiste un saggio vergognoso di Palmiro Togliatti per il quale il patto fu la conseguenza dell'aggressione ai danni della Germania compiuta da Francia e Gran Bretagna.

Possiamo continuare ricordando la storia di don Pietro Leoni che tornò in Italia dopo essersi fatto 10 anni di gulag accusato di un reato che nell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche era assolutamente vietato: avere rapporti col Vaticano. Certo che per un prete sarebbe stato davvero ostico non averne, ma la tragedia per quest'uomo si materializzò con il suo ritorno nel suo paese natale, Bologna. Qui cominciò a raccontare la sua esperienza, la verità sull'URSS e su come si viveva. Roba da far impazzire il Pci, tanto che i "compagni" italiani arrivarono a dire che il vero prete fosse morto, che quello che parlava era solo un impostore o un sosia. E cosa fece Sacra Romana Chiesa? Pensò bene di spedirlo in Canada perché "era disfunzionale alla strategia del dialogo" intrapresa dal papa buono.

Ma vi è un documento storico che vale più di mille altre storie raccontate, che inchioda definitivamente Palmiro Togliatti alle sue responsabilità. Sono trascorsi 50 anni di dibattiti, riflessioni e scontri tra gli storici nello stabilire se Togliatti avesse o meno fatto qualcosa in favore degli italiani comunisti arrestati, perseguitati e trucidati in URSS. In realtà si è trattato di un falso problema, perché il vero dilemma è stabilire quanti siano stati gli italiani consegnati direttamente da Togliatti ai sovietici.
In un documento datato 25 dicembre 1936, catalogato come «segretissimo», al terzo paragrafo c'è una lista di tredici comunisti italiani, fra cui Vincenzo Baccalà, bollati come «elementi negativi». Accanto ai nomi di Rossetti (pseudonimo di Baccalà) e di Modugno, c'è una nota: «troskista, deportare», E in fondo al testo, la scritta: «Soglasen» («Sono d'accordo»), firmato «Ercoli», ovvero il nome in codice di Togliatti. Da notare un particolare agghiacciante: «Soglasen» era la formula di ratifica dell'incaricato dell'Nkvd che prendeva visione dei mandati di cattura e degli ordini di perquisizione. Togliatti, dunque, anche nel lessico, il codice ristretto dei carnefici, appare tutt'uno con la polizia segreta sovietica. Del resto, come poteva non essere d'accordo, visto che le prime denunce contro quei poveri compagni di base erano partite proprio dai dirigenti «vigilantes» del PCd'I?

Ma esistono ancora i comunisti in Italia? Forse sono cambiate le sigle, ma nei fatti anche il più anticomunista (sua dichiarazione) dei comunisti della storia italiana, Walter Veltroni, spesso ne ha subito la cultura e le metodologie. Basta riprendere l'Unità diretta dall'attuale sindaco di Roma dell'11 novembre 1993, a pagina 10, dove appare un trafiletto in cui si comunica la morte del compagno Penco, e si legge "vecchio militante comunista, perseguitato politico per le sue idee di libertà e di socialismo". Peccato che Veltroni abbia scordato di aggiungere un particolare: Penco fu sì un perseguitato politico, ma lo fu da suoi compagni facendosi pure 14 anni nei gulag sovietici. Certo, un particolare irrisorio per chi è cresciuto nella cultura della menzogna.

Ebbene si, i comunisti esistono ancora e condizionano tuttora la ricerca della verità storica se è vero che tra i consulenti della Commissione parlamentare sul dossier Mitrokhin vi sia anche Giulietto Chiesa, corrispondente dell'Unità dall'80 all'88 che non veniva pagato dal suo giornale, ma dal Comitato della mezzaluna e croce rossa sovietica. Pagato in sostanza da Breznev. Ebbene, Chiesa che veniva pagato tre volte più del direttore della Pravda, con casa, automobile, spese per i viaggi, vacanze garantite, tutte a carico del valoroso stato sovietico, era il giornalista italiano che doveva informare delle cose sovietiche.
Dinanzi ad un così illuminante scenario, riteniamo di poter chiudere rimarcando il messaggio che Giancarlo Lehner ha lanciato: il lavoro serio dello storico non è quello di usare aggettivi o invettive, ma cercare dati, documenti e fatti. Questo è il principio da seguire per chi vuole rendere giustizia alla verità ed alla storia del nostro paese e che 60 anni di storia repubblicana non sono stati sufficienti a garantire.

Il megafono del fascismo Manlio Morgagni.


Manlio Morgagni
L'agenzia Stefani divenne portavoce di Mussolini e della sua azione politica.
tratto da: Avvenire 16.3.2002.
 
Morgagni, fedelissimo del duce, ne fece uno dei mezzi più efficaci di propaganda del regime
L'agenzia Stefani comunica l'avvenuta votazione di Benito Mussolini nel 1924 appendendo due stendardi ai balconi della propria sede.

Il Duce era stato la grande "passione" della sua vita; era sempre stato con lui in tutte le sue scelte: l'interventismo, la fondazione dei Fasci, l'ascesa al potere. Quando, il 25 luglio 1943, apprenderà che il Gran Consiglio aveva sfiduciato Mussolini, Manlio Morgagni, presidente dell'agenzia giornalistica Stefani (l'Ansa di oggi), si uccise la sera stessa. Sulla scrivania una lettera: «Mio duce, l'esasperante dolore di italiano e di fascista mi ha vinto. Non è atto di viltà quello che compio... Da più di trent'anni tu, duce, hai avuto tutta la mia fedeltà. La mia vita era tua... Ti domando perdono se sparisco...».
Ma un'altra passione, autentica anch'essa come la prima, segnò tutta la vicenda umana e politica di questo personaggio del ventennio, che aveva sempre accesso diretto a Mussolini e al quale rimise ininterrottamente relazioni tratte dai suoi numerosi viaggi all'estero, con una preferenza particolare per Parigi. Questa seconda passione è la crescita e lo sviluppo della "sua" Stefani, che aveva acquisito negli anni 20 per metterla senza alcuna indecisione al servizio del partito fascista e del Duce. Perché l'agenzia doveva essere sempre più per il regime «uno strumento di potenza politica e di espansione spirituale».
Mussolini, come è noto, fu un grande giornalista (forse più grande che come politico secondo diversi studiosi), attento come pochi a captare e a indirizzare gli umori della gente, e la Stefani - le cui vicende sono raccontate ora dallo storico Romano Canosa - del "camerata" Morgagni divenne la voce, ma anche l'arma privilegiata e preferita del Duce («la mia prima lettura sono le cartelle della Stefani», dirà in un incontro) in una competizione senza esclusione di colpi e quasi globale quale era quella della propaganda.
Le pagine di Canosa ripercorrono l'espansione della Stefani, che assunse sempre più una dimensione internazionale con uffici e sedi aperte in tutto il mondo, grazie all'infaticabile impegno di Morgagni viaggiatore in un'Europa dove la contrapposizione tra le "deboli" democrazie occidentali e i forti regimi totalitari lasciava intravvedere già, nel corso degli anni '30, il tragico epilogo che avrebbe insanguinato il Vecchio continente e che la guerra etiopica, quella civile in Spagna avevano anticipato.
Morgagni operò a tutto campo per estendere "il potere informativo" e quindi l'influenza della Stefani, che doveva competere con le agguerrite concorrenti europee (anch'esse facenti capo ai rispettivi governi) e americane.
È lui, superando anche le pressioni dei gerarchi, a decidere le assunzioni (per le corrispondenze da Asmara aveva pensato a Indro Montanelli), è lui a battersi con i ministri per ottenere i mezzi necessari a potenziare l'agenzia. Sempre ricordando ai suoi giornalisti, anche negli anni della guerra quando il Minculpop imperava con disposizioni ai giornali (rilette oggi in gran parte fanno ridere o piangere) che i servizi dovevano avere «uno stile misurato, serio, aderente alla realtà, evitando ogni amplificazione letteraria o retorica».
Ma il suo punto di riferimento restava il Duce. Al termine di ogni viaggio - come Canosa documenta ampiamente - oltre alle esigenze dell'agenzia, parlava nelle sue relazioni delle situazioni politiche, delle attese e degli umori della gente; riportava i giudizi sul regime. Della Germania hitleriana, ma rilevando, nell'agosto 1940, che per l'Italia «in ogni settore la collaborazione sarebbe stata dura»; della Francia dalla quale inviava la notizia che «l'Italia appariva implicata seriamente» nell'uccisione dei fratelli Rosselli (nel febbraio del 1940 scriveva invece: «L'impressione e il sentimento che dominano sono quelli della stanchezza»); della Spagna, dell'Inghilterra, nella quale avvertiva «l'amara disapprovazione che la campagna razzistica italiana aveva suscitato», della Croazia, della Grecia.
Relazioni che forse Mussolini non avrebbe nemmeno letto. Ma che riflettevano la grande fiducia di Morgagni per il suo duce, che non viene meno il 25 luglio.
 

Un complotto anti-Benito?

 tratto da: Avvenire, 14.1.2000


C'era un complotto per uccidere Benito Mussolini dopo il 25 luglio 1943? Un diario inedito del giornalista Roberto Suster, all`epoca direttore della «Stefani» (l'agenzia di stampa fascista), rivela nuovi particolari su quel concitato Gran Consiglio. Due giorni dopo la destituzione di Benito Mussolini, avvenuta nella drammatica seduta notturna del 25 luglio, era pronto un piano per uccidere il Duce a colpi di pistola nel suo ufficio a Palazzo Venezia. L'idea dell'esecuzione era maturata nel comando supremo delle forze armate, ma fu impedita dall'intervento diretto del re Vittorio Emanuele III sui congiurati. Il documento, conservato all'Archivio Centrale dello Stato, è stato trovato dal giornalista Sergio Lepri, che ne parla su «Nuova Antologia». Suster scrive sulla base delle confidenze di alcuni gerarchi e riferisce che il colpo di Stato militare era stato "fissato il 5 luglio" e "doveva sfociare nell'assassinio di Mussolini il 27 luglio". Incaricato dell'esecuzione - da compiersi "a revolverate" a Palazzo Venezia - sarebbe stato il generale Giuseppe Castellano.

Via Rasella. Un mistero che dura da sessant'anni.

Un nuovo studio individua nell'attentato una precisa «strategia della tensione» comunista 
 

Art di.
Pierangelo MAURIZIO
tratto da: Il Giornale, 10.8.2007.

così la Cassazione ha condannato il Giornale per un articolo di undici anni fa che criticava l'attentato di via Rasella compiuto dai Gap, il braccio armato del Partito comunista italiano, il 23 marzo '44, e ha confermato che si tratta di un'«azione di guerra». Siccome mi sono occupato a lungo di quella vicenda - in quel budello di strada che è via Rasella nel centro storico di Roma ci ho passato i mesi, mentalmente gli anni - provo a offrire la mia testimonianza.

Nel '96 - allora lavoravo al «Tempo» - cominciai l'inchiesta. Trovai le foto del corpo di Piero Zuccheretti, un bambino di 13 anni, fatto a pezzi dall'esplosione della bomba dei Gap. Soprattutto rintracciai il fratello gemello di Piero. Mi raccontò la tragedia abbattutasi sulla famiglia e la rabbia per essere stati costretti al silenzio. Riuscii anche ad avere il certificato di morte di Piero Zuccheretti: risultava morto il 23 marzo '44 «per scoppio di bomba». Se non vado errato, solo a quel punto Rosario Bentivegna, cioè colui che accese la miccia nel carrettino da spazzino imbottito di tritolo, e la «letteratura resistenziale» hanno ammesso che a via Rasella "purtroppo morì un bambino, Piero Zuccheretti". Eppure la famiglia aveva pubblicato fin dal giorno dopo l'attentato sul «Messaggero» il necrologio di Piero. Primo mistero: perché c'è voluto mezzo secolo per ammettere la morte di un bambino (e dargli un nome)?

Secondo mistero. A via Rasella ho ricostruito l'identità di un altro morto. Si chiamava Antonio Chiaretti. E qui le cose si complicano. Già, perché Chiaretti era un partigiano di «Bandiera rossa». Ma la sua memoria, di partigiano caduto in via Rasella, è stata cancellata. Perché? Come mai? Con lui si trovavano alcuni compagni di «Bandiera rossa» che finirono alle Ardeatine. Che ci facevano a via Rasella? Nei loro ricordi gli ultimi sopravvissuti di «Bandiera rossa» che ho incontrato conservavano l'idea che fossero stati attirati in una trappola. E adombravano il sospetto che si volesse far ricadere la responsabilità dell'attentato su quella formazione. Sul giallo di questa presenza a via Rasella né da Bentivegna né dalla vulgata resistenziale è venuto un aiuto a capire di più.

Terzo mistero. Quante furono le vittime, esclusi i 32 soldati del battaglione Bozen, poi diventati 33 e poi oltre 40? La perizia del professor Ascarelli (lo stesso che eseguì le autopsie sui 335 morti delle Fosse Ardeatine) su quei poveri resti è sparita. Se ne trovano tracce nella sentenza del processo Kappler del '48. Parla, senza fare i nomi, di due cadaveri, un adulto e «una bambina». Forse si confuse con Piero Zuccheretti? Strano. Oppure le vittime civili furono più di due. Come la Cassazione possa affermare che "ora nessuno più mette in discussione che quelle vittime furono soltanto due" è, storicamente, incomprensibile. La Cassazione fa una descrizione precisa dei componenti del Battaglione Bozen, come "di uomini pienamente atti alle armi, di età compresa tra i 26 e i 43 anni". Vero. Ma traccia il ritratto, in un'epoca in cui la migliore gioventù di 18-20 anni veniva maciullata al fronte, dei perfetti riservisti. È vero, avevano un moschetto e tre bombe a mano alla cintola. La Cassazione però dimentica un piccolo particolare. Nel '96 rintracciai un superstite del «Bozen». Mi raccontò che il Comando tedesco, in ragione dello status di Roma come «Città aperta», con teutonica ottusità, li faceva marciare con i moschetti scarichi. Erano montanari altoatesini, che avevano optato per la cittadinanza tedesca ed erano stati forzatamente arruolati. A Roma stavano seguendo un corso di addestramento, al termine sarebbero stati impiegati come piantoni. Certamente non erano destinati a reparti d'assalto o di SS.

Via Rasella non è sempre stata un'«azione di guerra», come ha ora ribadito la Corte di Cassazione. A cose ancora calde, nel '48 la sentenza del Tribunale militare di Roma contro il colonnello delle SS Herbert Kappler, condannato all'ergastolo per le Fosse Ardeatine (non per la rappresaglia ma per i condannati in più che aggiunse arbitrariamente), definì l'attentato dei Gap un «atto illegittimo» contrario a tutte le convenzioni internazionali. Tanto che i familiari di tre poveri ebrei finiti a far numero alle Fosse Ardeatine cercarono di portare in giudizio non solo gli esecutori dell'attentato ma anche i mandanti tra cui, a torto, Sandro Pertini. Per motivi incomprensibili, si trovò il modo di incardinare il processo non al Tribunale militare, non in sede penale, ma in sede civile. Nel '51 poche settimane prima che ci fosse il verdetto, il governo De Gasperi conferì onorificenze al valor militare agli esecutori materiali di via Rasella (la medaglia d'argento a Rosario Bentivegna è stata consegnata solo nell'83 dall'allora Presidente-partigiano Sandro Pertini). Qualche settimana dopo il Tribunale civile sentenziò, pressoché sulla base di questo assunto: gli attentatori sono stati appena premiati pubblicamente come eroi, dunque nessun atto illegittimo può essere addebitato loro. Da qui nasce il mito intoccabile di via Rasella «azione di guerra». Da allora chiunque abbia osato contestarlo è stato passibile di querela, con condanna più che probabile. Ne fece le spese anche il grande Indro Montanelli, per aver violato in un libro la sacralità del mito; la Rizzoli - a quanto mi è stato detto - fu costretta a mandare al macero 30mila copie.

A lungo si è parlato, e ora ci è tornata sopra la Cassazione, dei manifesti che il Comando tedesco avrebbe affisso invitando gli attentatori a consegnarsi per evitare la rappresaglia, e di cui nessuno è mai riuscito a fornire una prova. Tempo perso. Non è questo il problema. Qualche anno dopo in un'intervista a un settimanale Rosario Bentivegna e la moglie Carla Capponi dissero che "se anche avessimo voluto consegnarci, il partito ce lo avrebbe impedito". E questo è il punto. L'ineffabile professor Nicola Tranfaglia, storico, richiesto di un commento alla nuova sentenza della Cassazione, ha dichiarato che "alle Fosse Ardeatine vennero uccisi antifascisti, ebrei, oppositori". Nella più che Prevedibile rappresaglia nazista furono sterminati in prevalenza appartenenti a «Giustizia e libertà», a «Bandiera rossa», ai partigiani monarchici, tutte e tre formazioni contrapposte al Pci o sue rivali. Tutti, a cominciare dall'eroico colonnello Montezemolo (zio di Luca), che come capo del «Fronte militare clandestino» aveva vietato gli attentati a Roma proprio per evitare rappresaglie, nei mesi e nelle settimane precedenti erano stati arrestati, il più delle volte sulla base di delazioni provenienti dall'interno della Resistenza.

Nei mesi precedenti «l'Unità» clandestina, diretta da Mario Alicata, fece una guerra spietata a quelli di «Bandiera rossa», formazione in cui c'erano trozchisti, un anarchico, qualche repubblicano e soprattutto numerosi ufficiali «democratici» come Aladino Govoni (trucidato alle Ardeatine), il figlio del poeta Corrado. Il foglio del Pci arrivò a definirli "emissari di Goebbels" uguagliandoli ai nazisti. Poche settimane prima di via Rasella avvertì che se qualcosa di grave fosse accaduto a Roma "sappiamo di chi è la responsabilità".
Lo sterminio alle Fosse Ardeatine di «Bandiera rossa» e delle altre formazioni fu un danno collaterale dell'azione di via Rasella? Un caso?

Antonello Trombadori, uno dei leader del Pci, che aveva capeggiato i gappisti romani nella prima fase e si trovava nel carcere di Regina Coeli, si salvò grazie al medico del carcere, il dottor Monaco, che lo dichiarò «intrasportabile» perché malato. Ma alle Fosse Ardeatine finirono storpi e anche un ragazzo di 14 anni. Si potrebbe poi parlare - tra le tante ombre di questa vicenda - del segretario romano del Pci che all'epoca era un informatore dell'Ovra la polizia politica di Mussolini. Il commando di via Rasella in parte fu arrestato poche settimane dopo l'attentato (tranne Rosario Bentivegna e Carla Capponi) e salvato grazie alle complicità della Questura. Si potrebbe discutere degli intrecci e del potere che, a partire dalla «geometrica potenza» dispiegata il 23 marzo del '44, i vertici del Partito riuscirono a imporre su una parte dei servizi segreti ex fascisti.

Giorgio Amendola, comandante militare dei Gap a Roma che fece da supervisore dell'attentato, si è portato dietro per tutta la vita il cruccio di via Rasella. Rosario Bentivegna continua a tacciare come "imbecilli e faziosi" quelli che mettono in dubbio la vulgata. Ma io lo abbraccerei, Bentivegna. Pur di mantenere intoccabile il mito si è assunto le responsabilità per tutti, compresi storici e pseudo-storici come i giornalisti, trascinando per decenni il peso di quel carretto carico di centinaia di morti. Lo abbraccerei, e gli chiederei solo: che cosa pensi veramente, che cosa hai capito di questa storia? Ma so che è inutile.

Il 23 marzo del 1919, in Piazza San Sepolcro, Benito Mussolini fondò i Fasci di combattimento.

 

 



Il 23 marzo del 1919, in Piazza San Sepolcro, Benito Mussolini fondò i Fasci di combattimento, che rappresentavano l'evoluzione dei precedenti Fasci di azione rivoluzionaria. Fra i circa cento presenti nella sala dell'Alleanza industriale e commerciale, spiccavano i nomi di alcuni noti personaggi: Michele Bianchi, Ferruccio Vecchi, Filippo Tommaso Marinetti e altri. Il programma di questo nuovo movimento rappresentava un misto di nazionalismo, antisocialismo e anticapitalismo; un movimento quindi buono un pò per tutti. Nelle sue file militavano infatti ex combattenti, studenti, contadini, rappresentanti della piccola borghesia e industriali. I punti del programma, vennero raggrupati da Mussolini in quattro grandi problemi: la politica, il problema sociale, quello militare e il problema finanziario. Sotto il problema politico, era indicato un punto dedicato ai giovani e che riguardava l'abbassamento a 18 anni per gli elettori e a 25 anni per poter essere eletti deputati. Veniva quindi una proposta di abolizione del Senato, i cui membri venivano nominati direttamente dal re e una politica estera più dinamica, che contrastasse quella vigente, che secondo Mussolini tendeva a stabilizzare l'egemonia delle vecchie potenze plutocratiche. Il problema sociale era poi particolarmente sentito, e ad esso vennero dedicati ben 10 punti del programma: per quanto riguardava la classe operaia, venivano accolte le giuste rivendicazione per una diminuzione delle ore lavorative, che avrebbero dovuto essere portate a otto; per una partecipazione dei lavoratori al funzionamento tecnico delle industrie; per un'affidamento ai sindacati della gestione delle industrie stesse e dei servizi pubblici, ed infine un riordino dei trasporti e la modifica dell'età pensionabile, che sarebbe stata vincolata all'usura dovuta al tipo di lavoro svolto. Anche i contadini ed i reduci erano citati in questa parte del programma: veniva infatti previsto l'obbligo ai proprietari di coltivare le terre, precisando che i terreni incolti sarebbero stati espropriati e ceduti alle cooperative contadine, favorendo soprattutto i reduci di guerra; veniva inoltre previsto un intervento contributivo dello Stato per la costruzione di case coloniche. Per quanto riguardava la scuola, era previsto che lo Stato avrebbe dovuto inserire nel proprio bilancio, i fondi necessari a coprire le spese per garantire l'istruzione scolastica obbligatoria. Riguardo alla burocrazia, la riforma prevedeva il decentramente del personale e una sana epurazione che avrebbe garantito l'ingresso di elementi più idonei e produttivi. La questione militare comprendeva un unico punto nel quale, facendo riferimento alla politica estera futura, si sosteneva la necessità di periodi di breve durata ma frequenti, di addestramento militare, in modo tale da poter fare dell'Italia una Nazione pronta a sostenere eventuali conflitti nel modo più idoneo possibile. La parte del programma riguardante la finanza, risultava senza dubbio la più provocatoria; nei suoi punti si citavano fra l'altro: una forte imposta straordinaria sul capitale, che avrebbe dovuto avere un carattere progressivo, una vera e propria espropriazione parziale di tutte le ricchezze; il sequestro dei beni appartenenti alle congregazioni religiose e la chiusura delle mense vescovili, viste come una grande fonte di passività per la Nazione e un privilegio a favore di pochi; una revisione di tutti i contratti sulle forniture di guerra, ed il sequestro dei 3/4 dei profitti di guerra. I punti del programma non furono dei principi assoluti, anzi, essi venivano, a seconda delle necessità del momento, o in base alla platea alla quale Mussolini si rivolgeva, ribaditi o elusi, in modo tale da aggregare al movimento sempre più larghi strati della popolazione.

Il 23 marzo del 1944 via Rasella.


Il 23 marzo del 1944 i partigiani di Roma fecero saltare in aria il carrettino di uno scopino sulla via Rasella, proprio mentre passava il battaglione Bozen degli occupanti tedeschi. Sul selciato rimasero 32 soldati, un altro morì poco dopo.
Ancora oggi, a distanza di 70 anni, ci sono persone che contestano ai partigiani attentatori di Via Rasella di non essersi consegnati, lasciando così morire 335 innocenti.
 
 
 L’attacco partigiano di Via Rasella fu un attentato terroristico.
 
TRENTADUE MILITI RISERVISTI ALTOATESINI AGGREGATI ALLA PRIMA COMPAGNIA DEL POLIZEI REGIMENT "BOZEN" VENGONO TRUCIDATI DALL'ESPLOSIONE DI UNA BOMBA PARTIGIANA.L'ATTENTATO COMP...ORTO' ANCHE LA MORTE DI DUE VITIME CIVILI E DI ALTRI 110 MILITI FERITI, TRA I QUALI UNO MORI' SUCCESSIVAMENTE AL RICOVERO ED ALTRI ANCORA IN SEGUITO. IL TOTALE DELLE VITTIME MILITARI FU DI 42 UOMINI.
LA LISTA DEI NOMI DEI TRENTATRE' CADUTI MOSTRA LE LORO DATE DI NASCITA. IL PIU' ANZIANO DEI MILITI ERA NATO NEL 1901, ALCUNI DEI PIU' GIOVANI NEL 1915.
SI TRATTO' DI UN CERCATO E PREMEDITATO ATTENTATO DI MATRICE POLITICA, NEL QUALE PERSE LA VITA ANCHE UN BAMBINO DI 13 ANNI, ORRIBILMENTE SQUARTATO E CHE DI SICURO NON FACEVA PARTE DEL MALE ASSOLUTISSIMO, UN MALE ASSOLUTISSIMO FACILE BERSAGLIO, PERCHE' DI LI' PASSAVA, COME TUTTI I GIORNI ALLA STESSA ORA.
SI TRATTO' DI UN VILE ATTENTATO,A SFONDO TERRORISTICO: PERCHE' LE BOMBE A TRADIMENTO LE USANO I TERRORISTI, NON I MILITARI,CHE COMBATTONO A VISO APERTO IL NEMICO.
SI TRATTO' INOLTRE DI ATTO IRRESPONSABILE VERSO I MORTI DELLE FOSSE ARDEATINE. SE I RESPONSABILI MATERIALI SI FOSSERO PALESATI E CONSEGNATI,IL CODICE MILITARE E D'ONORE TEUTONICO ( E MILITARE, IN GENERALE) AVREBBE RISPARMIATO I 335 CIVILI.
DA QUALUNQUE PARTE SI GUARDI QUESTA PAGINA DI STORIA, ESSA GRONDA DI DISONORE E VIGLIACCHERIA, DI IRRESPONSABILITA' E CODARDIA, DI VIOLENZA INAUDITA E DI ORRORE.
LA TRAMA POLITICA RAVVISABILE " OLTRE" L'ATTENTATO, E' BEN DESCRITTA DA UN ARTICOLO DI MASSIMO CAPRARA, A SEGUIRE.
LE FOTO ALLEGATE AL POST. IL TREDICENNE PIETRO ZUCCHERETTI, TRANCIATO IN PEZZI DALL'ESPLOSIONE E IL CARRETTO DA SPAZZINO, VIGLIACCO STRUMENTO DI MORTE.
ONORE E RICORDO AI SOLDATI BRUTALMENTE UCCISI.
DI QUESTO FATTO I LIBRI DI STORIA NON PARLANO MAI.
 
 
 
Fonte art.   Centro Documentazione Rsi